Riflessioni su “Manuale d’amore 2”

Si è scatenata nei giorni scorsi sulla stampa trentina, e siamo certi ne sentiremo parlare anche nel prossimo futuro, una campagna contro la proposta del sindaco di Mezzolomabardo, Rodolfo Borga, di impedire la proiezione del film “Manuale d’amore 2”. Nel seguito dell’articolo ospitiamo la lettera del sindaco in cui spiega le ragioni di tale presa di posizione. Un’azione a mio parere legittima, non fosse altro per il fatto che lo stabile del Teatro “San Pietro” è di proprietà parrocchiale e il regolamento che ne disciplina l’utilizzo prevede che non possano essere trasmessi film in contrasto con la morale cattolica.

Non voglio entrare nel dettaglio della questione che, ripeto, sarà ben spiegata dal sindaco Borga: mi preme, invece, fare una breve riflessione sulle reazioni dei mass media e di certo mondo cattolico. Appurato il fatto che il film andrà regolarmente in scena, non si può non constatare come, ancora una volta, intorno ad alcune tematiche, si scateni una sorta di inquisizione al contrario in nome del sessantottino “vietato vietare”, di una presunta tolleranza acritica e amorale contro chiunque tenti di esprimere la propria opinione in materia di omosessualità, matrimonio, morale, etica, in maniera contraria alla vulgata corrente. Papa Ratzinger ha ben espresso il momento storico-culturale che stiamo vivendo, definendolo “dittatura del relativismo”, in cui si assiste quotidianamente a tronfi e retorici, se non ideologici, richiami al dialogo, panacea sterile contro ogni vero tentativo di distinzione caso per caso, di dare giudizi (orrore!) anche di carattere morale ed etico su argomenti fondamentali per la vita sociale di una comunità. Il discorso è troppo complesso per non essere ripreso in futuro, anche a partire da due passaggi nodali: l’emergenza educativa che attanaglia il nostro Paese e che riguarda ormai anche le piccole comunità di provincia, e l’assordante silenzio di una parte del clero e del mondo cattolico in generale, per il quale si possono anche mettere in discussione le verità dogmatiche della Fede, naturalmente con un atteggiamento “adulto”, ma non si può prendere posizione netta su argomenti quali quelli trattati, ad esempio, nel film del regista Veronesi. Paradossalmente, nel nome della tutela della “diversità”, vengono calpestate le prese di posizione di chi esprime opinioni davvero diverse e non si è ancora lasciato sedurre dagli imbonitori di quelle che Vittorio Messori definisce le “parole mantra” quali pace, dialogo, solidarietà, giustizia, secondo la logica del conformismo buonista in auge anche nel nostro Paese, soprattutto nei mezzi di informazione di massa.

Mezzolombardo, 4 febbraio 2007.

E’ proprio vero che quando ci si innamora – in buona, ma non di rado in malafede – di un’idea (nella fattispecie l’idea è quella del Sindaco censore), nulla possono né la logica, né la semplice realtà dei fatti. L’idea, che tanto piace (o serve), diventa realtà, anche quando la medesima con la realtà stride. Ciò premesso, il sottoscritto “censore” chiede rispettosamente la facoltà di poter esporre le circostanze di fatto, così da lasciare ai lettori la possibilità di giudicare serenamente (e cioè senza condizionamenti di sorta) quanto accaduto. Il cinema-teatro di Mezzolombardo, di proprietà della Parrocchia, è gestito dal Comune sulla base di una convenzione, che trova puntuale riscontro in un regolamento, debitamente approvato nell’anno 2000 dal Consiglio comunale, che ne disciplina l’utilizzo. A tale regolamento tutti, ma proprio tutti, in primo luogo il Comune, debbono attenersi (e ci mancherebbe altro!). Esso impone al Comune di non consentire la rappresentazione di spettacoli di qualsiasi genere, il cui contenuto contrasti con la morale cattolica.

Al fine di garantire il rispetto di tale obbligo, è prevista l’istituzione di una commissione di sei membri (tre indicati dalla Parrocchia, due dalle associazioni culturali del paese e solo uno dal Comune), incaricata di esprimere un parere preventivo su tutti gli spettacoli in programma. Di fatto è tale commissione a decidere se uno spettacolo rispetta o meno l’obbligo sopra richiamato, ed a tale decisione il Comune si è sempre attenuto. Nella fattispecie in esame per un disguido, non imputabile ad alcuno, la commissione non è stata convocata e i film programmati non sono pertanto passati al vaglio della medesima. Venuto a conoscenza dell’accaduto, ho semplicemente richiesto al Coordinamento Teatrale, con il quale collaboriamo positivamente da quasi sette anni, se fosse ancora possibile convocare “a posteriori” la commissione, così da consentire il rispetto del Regolamento comunale vigente. Reso edotto del fatto che ormai i contratti erano già stati sottoscritti e che, conseguentemente, non era comunque in ogni caso più possibile alcuna eventuale diversa valutazione, abbiamo deciso di proiettare tutti i film in programma. Nessuna censura, quindi, e nessun tentativo d’impedire la proiezione di un film, ma molto semplicemente la volontà di appurare la possibilità di applicare anche in questa occasione, così è stato fatto da sette anni a questa parte, il Regolamento comunale. Questa la realtà dei fatti. Se poi mi si chiede, così come è stato fatto, quale voto avrei espresso qualora la commissione fosse stata convocata, non ho alcun problema ad affermare che il voto del Comune sarebbe stato contrario; e ciò anche alla luce del giudizio negativo (letteralmente “inaccettabile/superficiale”) espresso dall’Associazione Cattolica Esercenti Cinema.

Ciò non significa però censura, ma semplice (meglio doverosa) applicazione del Regolamento comunale; qualora poi il voto della Commissione fosse stato di segno opposto (così come accaduto qualche anno fa per “Magdalene”), il film sarebbe stato comunque proiettato a norma di Regolamento. E se, ancora, mi si chiede, così come è stato fatto, la mia opinione su “matrimonio” tra omosessuali e fecondazione assistita, non ho alcun problema a ribadire che, fermi i diritti individuali, che vanno comunque garantiti, vi sono limiti che la presunta onnipotenza dell’uomo non può varcare e che tra famiglia naturale ed unione omosessuale vi è una differenza abissale. Nel concludere una breve considerazione sulla presunta censura. Io non ho fatto altro che applicare un Regolamento vigente. Altra cosa è la censura, praticata, in modo ferreo e puntuale, da quelle lobby, potenti e ben introdotte, che su determinati temi non tollerano opinioni difformi in nome di una democrazia, che a tutti vorrebbero fosse garantita, eccetto però a chi la pensa in modo non conforme al loro. Distinti saluti.

Rodolfo Borga

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Il governo approva il ddl sulle unioni civili: come voteranno i senatori cattolici ?

Il governo ha approvato il ddl sulle unioni civili. Anzi, si chiamano «Dico», sono cioè Diritti e doveri dei conviventi. Il ddl (disegno di legge) ha passato indenne l’esame del governo, ma ora per diventare definitivamente legge, dovrà essere approvato dal Parlamento, prima alla Camera e poi al Senato. Considerato come l’Unione abbia una maggioranza risicata al Senato e rilevato il no di Mastella, (che tra l’altro era assente alla riunione del Consiglio dei Ministri), il quale ribadisce la sua netta contrarietà all’impostazione del testo, sarà interessante vedere come la maggioranza porterà avanti tale proposta di legge. Allo stesso modo sarà curioso vedere come voteranno i senatori cattolici della Margherita. Inoltre quale posizione prenderà il centro destra? Sarà compatto nel fare opposizione o lascerà libertà di scelta ai suoi deputati? Sono sicuro ne vedremo delle "belle". In ogni caso per dare una corretta informazione a quanti leggono il blog, pubblico di seguito il testo integrale del disegno di legge ed in basso un riquadro apparso su L’Adige del 30 gennaio che evidenzia in modo chiaro il numero di persone che si sono iscritte al registro dei PACS nei vari comuni dove è stato attivato.

 SONDAGGIO SU FAMIGLIE E COPPIE DI FATTO

ARTICOLO 1 (Ambito e modalità di applicazione)

1.
Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, non legate da vincoli di matrimonio, parentela in linea retta entro il secondo grado, affinità in linea retta entro il secondo grado, adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno, sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.

2.
La convivenza di cui al comma 1 è provata dalle risultanze anagrafiche in conformità agli articoli 4, 13 comma 1 lettera b), 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, secondo le modalità stabilite nel medesimo decreto per l’iscrizione, il mutamento o la cancellazione. È fatta salva la prova contraria sulla sussistenza degli elementi di cui al comma 1 e delle cause di esclusione di cui all’articolo 2. Chiunque ne abbia interesse può fornire la prova che la convivenza è iniziata successivamente o è terminata in data diversa rispetto alle risultanze anagrafiche.
3.
Relativamente alla convivenza di cui al comma 1, qualora la dichiarazione all’ufficio di anagrafe di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, non sia resa contestualmente da entrambi i conviventi, il convivente che l’ha resa ha l’onere di darne comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente; la mancata comunicazione preclude la possibilità di utilizzare le risultanze anagrafiche a fini probatori ai sensi della presente legge.
4.
L’esercizio dei diritti e delle facoltà previsti dalla presente legge presuppone l’attualità della convivenza.
5.
Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche all’anagrafe degli italiani residenti all’estero. 6. Ai fini della presente legge i soggetti di cui al comma 1 sono definiti «conviventi».   

 

ARTICOLO 2 (Esclusioni)

1. Le disposizioni della presente legge non si applicano alle persone: a) delle quali l’una sia stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra o sulla persona con la quale l’altra conviveva ai sensi dell’articolo 1, comma 1, ovvero sulla base di analoga disciplina prevista da altri ordinamenti; b) delle quali l’una sia stata rinviata a giudizio, ovvero sottoposta a misura cautelare, per i reati di cui alla lettera a); c) legate da rapporti contrattuali, anche lavorativi, che comportino necessariamente l’abitare in comune.

 ARTICOLO 3 (Sanzioni)

1.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di beneficiare delle disposizioni della presente legge, chiede l’iscrizione anagrafica in assenza di coabitazione ovvero dichiara falsamente di essere convivente ai sensi della presente legge, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 3.000 a euro 10.000.
2.
La falsa dichiarazione di cui al comma 1 produce la nullità degli atti conseguenti; i pagamenti eseguiti sono ripetibili ai sensi dell’articolo 2033 del codice civile.

 ARTICOLO 4 (Assistenza per malattia o ricovero)

1.
Le strutture ospedaliere e di assistenza pubbliche e private disciplinano le modalità di esercizio del diritto di accesso del convivente per fini di visita e di assistenza nel caso di malattia o ricovero dell’altro convivente.

 ARTICOLO 5 (Decisioni in materia di salute e per il caso di morte)

1.
Ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e volere, al fine di concorrere alle decisioni in materia di salute, nei limiti previsti dalle disposizioni vigenti; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie, nei limiti previsti dalle disposizioni vigenti.

2.
La designazione è effettuata mediante atto scritto e autografo; in caso di impossibilità a redigerlo, viene formato un processo verbale alla presenza di tre testimoni, che lo sottoscrivono.

 ARTICOLO 6 (Permesso di soggiorno)

1.
Il cittadino straniero extracomunitario o apolide, convivente con un cittadino italiano e comunitario, che non ha un autonomo diritto di soggiorno, può chiedere il rilascio di un permesso di soggiorno per convivenza.

2.
Il cittadino dell’Unione europea, convivente con un cittadino italiano, che non ha un autonomo diritto di soggiorno, ha diritto all’iscrizione anagrafica di cui all’articolo 9 del decreto legislativo di attuazione della direttiva 2004/38/CE.

 ARTICOLO 7 (Assegnazione di alloggi di edilizia pubblica)

1.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano tengono conto della convivenza di cui all’articolo 1 ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare o residenziale pubblica.

 ARTICOLO 8 (Successione nel contratto di locazione)

1.
In caso di morte di uno dei conviventi che sia conduttore nel contratto di locazione della comune abitazione, l’altro convivente può succedergli nel contratto, purché la convivenza perduri da almeno tre anni ovvero vi siano figli comuni.

2.
La disposizione di cui al comma 1 si applica anche nel caso di cessazione della convivenza nei confronti del convivente che intenda subentrare nel rapporto di locazione.

 ARTICOLO 9 (Agevolazioni e tutele in materie di lavoro)

1.
La legge e i contratti collettivi disciplinano i trasferimenti e le assegnazioni di sede dei conviventi dipendenti pubblici e privati al fine di agevolare il mantenimento della comune residenza, prevedendo tra i requisiti per l’accesso al beneficio una durata almeno triennale della convivenza.

2.
Il convivente che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell’impresa di cui sia titolare l’altro convivente può chiedere, salvo che l’attività medesima si basi su di un diverso rapporto, il riconoscimento della partecipazione agli utili dell’impresa, in proporzione dell’apporto fornito.

 ARTICOLO 10 (Trattamenti previdenziali e pensionistici)

1.
In sede di riordino della normativa previdenziale e pensionistica, la legge disciplina i trattamenti da attribuire al convivente, stabilendo un requisito di durata minima della convivenza, commisurando le prestazioni alla durata della medesima e tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali del convivente superstite.

 ARTICOLO 11 (Diritti successori)

1.
Trascorsi nove anni dall’inizio della convivenza, il convivente concorre alla successione legittima dell’altro convivente, secondo le disposizioni dei commi 2 e 3.

2.
Il convivente ha diritto a un terzo dell’eredità se alla successione concorre un solo figlio e ad un quarto se concorrono due o più figli. In caso di concorso con ascendenti legittimi o con fratelli e sorelle anche se unilaterali, ovvero con gli uni e con gli altri, al convivente è devoluta la metà dell’eredità.

3.
In mancanza di figli, di ascendenti, di fratelli o sorelle, al convivente si devolvono i due terzi dell’eredità, e, in assenza di altri parenti entro il secondo grado in linea collaterale, l’intera eredità.

4.
Al convivente, trascorsi almeno nove anni dall’inizio della convivenza, e fatti salvi i diritti dei legittimari, spettano i diritti di abitazione nella casa adibita a residenza della convivenza e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni. Tali diritti gravano sulla quota spettante al convivente.

5.
Quando i beni ereditari di un convivente vengono devoluti, per testamento o per legge, all’altro convivente, l’aliquota sul valore complessivo netto dei beni prevista dall’articolo 2, comma 48, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, è stabilita nella misura del cinque per cento sul valore complessivo netto eccedente i 100.000 euro.

 ARTICOLO 12 (Obbligo alimentare)

1.
Nell’ipotesi in cui uno dei conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, l’altro convivente è tenuto a prestare gli alimenti oltre la cessazione della convivenza, purché perdurante da almeno tre anni, con precedenza sugli altri obbligati, per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza. L’obbligo di prestare gli alimenti cessa qualora l’avente diritto contragga matrimonio o inizi una nuova convivenza ai sensi dell’articolo 1.

 ARTICOLO 13 (Disposizioni transitorie e finali)

1.
I conviventi sono titolari dei diritti e degli obblighi previsti da altre disposizioni vigenti per le situazioni di convivenza, salvi in ogni caso i presupposti e lemodalità dalle stesse previste.

2.
Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, può essere fornita la prova di una data di inizio della convivenza anteriore a quella delle certificazioni di cui all’articolo 1, comma 2. La disposizione di cui al presente comma non ha effetti relativamente ai diritti di cui all’articolo 10 della presente legge.

3.
Il termine di cui al comma 2 viene computato escludendo i periodi in cui per uno o per entrambi i conviventi sussistevano i legami di cui all’articolo 1, comma 1, e le cause di esclusione di cui all’articolo 2.

4.
In caso di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere fornita, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, da parte di ciascuno dei conviventi o, in caso di morte intervenuta di un convivente, da parte del superstite, la prova di una data di inizio della convivenza anteriore a quella dell’iscrizione di cui all’articolo 1, comma 2, comunque successiva al triennio di separazione calcolato a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale.

5.
I diritti patrimoniali, successori o previdenziali e le agevolazioni previsti dalle disposizioni vigenti a favore dell’ex coniuge cessano quando questi risulti convivente ai sensi della presente legge. 6. I diritti patrimoniali, successori o previdenziali e le agevolazioni previsti dalla presente legge cessano qualora uno dei conviventi contragga matrimonio.

 ARTICOLO 14 (Copertura finanziaria)

1.
All’onere derivante dall’articolo 11, pari ad euro 4 milioni e 600 mila per l’anno 2008 ed euro 5milioni a decorrere dall’anno 2009 si provvede mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 1, comma20, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, iscritta all’U.P.B. dello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’anno 2007. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze è autorizzato ad apportare con propri decreti le occorrenti variazioni di bilancio.

  SONDAGGIO SU FAMIGLIE E COPPIE DI FATTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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Poligamia e società italiana

Secondo un recente sondaggio apparso in televisione in questi giorni, il 35 per cento degli Italiani si direbbero favorevoli alla poligamia.
La notizia è sconcertante, ma non deve stupirci più di tanto se pensiamo che la motivazione che sta alla base dell’accettazione di questa pratica è la tolleranza di principi religiosi diversi dai nostri.
L’idea di tolleranza nei confronti della poligamia a dire il vero è stata suggerita abilmente dalla stessa domanda formulata dai sondaggisti che hanno chiesto: “Sareste favorevoli, in nome della tolleranza nei confronti di una religione diversa dalla nostra ad ammettere la poligamia”?
Di che religione si tratti è facilmente intuibile, meno ovvio è ritenere che per essere buoni musulmani occorra essere poligami, quasi si trattasse di un precetto.
Quello che più ci deve far riflettere però mi pare invece la percentuale dei sì. Moltissimi italiani con la loro risposta acconsentono infatti ad introdurre nel nostro paese una pratica che la nostra civiltà ha giudicato come inadeguata , per non dire primitiva e barbara, in quanto fortemente discriminante nei confronti della donna.
Insomma una verità che sembrava patrimonio indiscusso della nostra vita è ora posta in discussione. Una di quelle verità che tanto faticosamente l’uomo ha cercato e con altrettanta fatica affermato nel corso della propria evoluzione storica, ancora una volta è scossa, offesa, sfregiata e negata. Essa sembra aver perso la propria trasparenza.
Il fatto paradossale però consiste nell’evidente convergenza fra due visioni della vita che parrebbero elidersi a vicenda. Quella islamica e quella radical-libertaria. Perché?
Per il radicale e per chiunque neghi una solida fondazione dei valori, la verità non esiste. La vita dell’uomo, i principi, le forme di convivenza, la famiglia, le istituzioni, la sessualità, tutto per il relativista apparirà come opinabile. Pertanto, anche l’unione fra uomo e donna non sarà che una forma determinata storicamente, formalizzatasi lungo la storia nell’istituzione matrimoniale, ma comunque sempre aperta ad evoluzioni e aggiornamenti che ne alterino anche radicalmente la natura. Questo perché l’uomo non si identifica con una natura, egli è semplicemente colui che tenta e sperimenta su se stesso ogni tipo di cosa.
Il fatto che storicamente la famiglia composta da un uomo e una donna abbia rappresentato e rappresenti la condizione in cui l’amore reciproco e la cura dei figli possa meglio esplicitarsi non lo riguarda. Il radicale perciò non farà fatica ad ammettere la possibilità che un uomo possa avere più donne e vivere loro assieme, purché vi si il consenso delle interessate. Probabilmente a ciò aggiungerà una postilla, che analoga possibilità sia concessa alle donne. In tal modo si realizzerebbe la perfetta parità fra i sessi, immaginando un nuovo tipo di unione, la poligamica, cui qualcuno, quando i tempi saranno maturi, proporrà di estendere tutte le tutele del caso.
Le cose che sto dicendo sono persino teorizzate da filosofi che oggi godono di un notevole consenso da parte dell’opinione pubblica.
A vedere come stanno andando le cose mi sentirei di proporre a molti dei miei studenti il mestiere dell’avvocato, specialista in diritto matrimoniale.
Ma torniamo al nostro “amico radicale”, al credo individualista, che lo connota così bene. Egli, potrà pur dirsi innamorato della famiglia tradizionale, ma non per questo riterrà di condizionare la libertà altrui di vivere come meglio crede.
Questo perché ogni sano relativismo è insofferente nei confronti della dimensione pubblica, della forza vincolante dei principi, persino di quei principi intangibili che ogni democrazia ed ogni società dovrebbero porre a fondamento della propria esistenza. Ed uno di questi è proprio la famiglia composta da un uomo e da una donna unita dal vincolo del matrimonio.
La poligamia insomma sembra farsi strada innanzitutto come idea: essa è il frutto di una concezione inadeguata di libertà e di tolleranza.
Tolleranza fra l’altro non estesa nei confronti di tutti. E’ di questi giorni la notizia che in una casa di riposo romagnola, contro la volontà di tutti i degenti sono stati eliminati i crocifissi. Tutto ciò in nome della tolleranza verso chi non crede. La cosa è sconcertante: la sola ipotesi che un giorno un non credente o un aderente ad un culto diverso dal cattolico possa entrare in quella casa di riposo, ha generato una violenza, un sopruso nei confronti degli anziani.
Non fatico a credere che molti di coloro che tollererebbero la poligamia sarebbero pure in prima fila nel “decontaminare” i luoghi pubblici dai simboli cristiani. Forse sono malizioso, chissà.
Resta il fatto che una possibilità che il Corano ammette e che la civiltà occidentale soprattutto dopo l’avvento del cristianesimo ha sempre rifiutato, sembra per molti italiani non provocare alcun fastidio.
Ma l’individualista non ha alcuna idea di cosa sia la poligamia; forse egli la concepisce come una possibile e stimolante variante nel rapporto fra i sessi, un privilegio per pochi ricchi in grado di mantenere più mogli.
Ma probabilmente mi sbaglio. La donna occidentale infatti lavora e quindi il “plurimenage” non è poi impossibile; inoltre lei stessa potrebbe avere più uomini.
Fatto sta che nel silenzio generale, da quanto riportano i giornali, risulterebbe che in Italia esisterebbero almeno 15000 unioni poligamiche celebrate religiosamente: si tratta di coppie di musulmani, secondo cui, come è risaputo, solo l’uomo può avere più mogli e non viceversa. Si preoccuperanno di questo i tollerantissimi italiani?
Ma chi se ne importa dei figli, dei rapporti fra i sessi, dei diritti delle donne: quello che conta è la libertà di autodeterminarsi. La costituzione almeno su questo punto, può essere cambiata.
C’è di che rabbrividire. Chi nega ogni principio e valore assoluto, per un attimo stringe la mani a colui che invece concepisce il mondo come pervaso e orientato dall’assolutezza di Dio e dei suo principi. Staremo a vedere.
Per concludere, qual è dunque il punto comune fra Islam e cultura radicale? Credo esso sia il non riconoscimento del diritto naturale, cioè la possibilità data a ciascuno di cogliere il bene e il vero semplicemente accettando il dettato della ragione naturale. E’ in nome di questo principio che comunisti e cattolici, in occasione dei lavori della costituente, hanno riconosciuto il valore della famiglia, della fedeltà, del matrimonio monogamico.

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Vivaio di Messori….

Riporto l’ultimo Vivaio di Messori, interessante come sempre: “Ho sempre avuto il sospetto che i cattolici avrebbero qualcosa da imparare da Pannella Giacinto detto Marco e dai suoi radicali.
Aspettate, per favore, prima di scandalizzarvi. In effetti, sono del tutto consapevole che quell’ abruzzese ormai più vicino agli ottanta che ai settanta ( i digiuni, anche se simulati, fanno bene alla salute ) risponde a molte delle caratteristiche di un ” anticristo ” così come è delineato da scrittori credenti alla Benson . L’anticristo, cioè, in doppio petto , dal volto umano , dalle apparenze evangeliche, astuto nel nascondere gli artigli sotto un guanto di pacifismo, di buonismo, di non violenza. Un ” diavolo ” che predica l’amore , che si dice accanto ad ogni sofferente, che si batte per la libertà e per i diritti di tutti. Talvolta ha tentato di coinvolgere anche me , strumentalizzando il ” cattolico ” che sono col coinvolgermi nelle sue infinite iniziative. Naturalmente è stato mandato a quel paese, ma devo avvertire che il torrente di parole delle sue telefonate era talmente suadente , i suoi argomenti tanto apparentemente evangelici che altri , meno scafati, ci sarebbero cascati.
A differenza di quanto credono quelli che vedono il rosso dappertutto , i radicali non hanno nulla a che fare con i comunisti : questi ultimi, spesso , vengono strumentalizzati anch’essi ma il radicalismo è liberalismo, seppur di sinistra , è individualismo , rappresenta cioè il contrario dell’utopia comunitaria comunista. In questa prospettiva, ogni desiderio deve diventare un diritto, ogni capriccio ha diritto di cittadinanza , ogni legge morale va scardinata perchè oppressiva , ogni verità deve far posto alla infinità delle opinioni, tutte egualmente rispettabili anche se aberranti e asociali.
Storicamente , il radicalismo è stato espressione della piccola, talvolta grande, borghesia, quella che assai spesso si riuniva nelle logge massoniche. Ma , nell’accezione panelliana , non ha neppure più lo schema etico – di derivazione cristiana – che sorreggeva , malgrado tutto, la prospettiva dei ” liberi muratori ” all’antica. Il libertarismo radicale , l’individualismo ossessivo portano, lo si voglia o no, al nichilismo.
Sta di fatto che , scrivendo nel 1982 Scommessa sulla morte , prevedevo ( e non perché fossi profeta ma perchè c’è, nelle cose, una logica ineluttabile ) che dopo divorzio e aborto sarebbe seguita l’eutanasia . E che, ancora una volta, le cose – pur inserite in un trend che coinvolge tutto l’Occidente postcristiano – sarebbero state accelerate dall’attivismo radicale. Ci sono voluti 25 anni ma ecco che ci siamo, ecco che Pannella strumentalizza il caso di un povero invalido, come già aveva strumentalizzato le vittime dell’incidente chimico di Seveso per la legalizzazione dell’aborto o aveva taroccato, per il divorzio, le statistiche dei reati commessi in famiglia . Ma questa ” collana gloriosa con tre gemme “, come la chiamano loro , non è che la più appariscente, visto che ci sono i radicali dietro a tutte le campagne libertarie di questi decenni : alcune , va riconosciuto, anche comprensibili e magari – in qualche caso – addirittura meritorie . E’ avvenuto, ad esempio , per certe vittime del giustizialismo giacobino di una certa magistratura . Ma , in maggioranza , sono state, e sono, campagne permeate da una visione dell’uomo , della società, della storia che poco o nulla hanno a che fare – magari malgrado le apparenze – con la prospettiva cristiana . E cattolica in particolare.
Non entro qui, in altri particolari . Qui, ciò che mi importa è solo giustificare una convinzione : ci sarebbe, cioè, da imparare dalla forsennata, instancabile , totalitaria dedizione del Giacinto-Marco alla sua Weltanschauung. Come credenti , in questa fine di cristianità di massa e di dissoluzione della religiosità sociologica , dobbiamo riprendere sul serio il ruolo assegnatoci dal vangelo e di cui ci siamo spesso dimenticati : il granello di senape, il piccolo gregge, il pizzico di sale, il misurino di lievito. Dobbiamo essere consapevoli che, per vocazione siamo minoritari . Ma dobbiamo anche renderci conto che si può essere minoritari senza essere marginali.
Questa è, occorre riconoscerlo, la lezione impartitaci da un Pannella che – sorretto soltanto da un piccolo gruppetto, con pochi mezzi, un’organizzazione risibile rispetto a quella dei grandi partiti, senza media propri ma riuscendo ad attrarre quelli degli altri – ce l’ha fatta più e più volte a imporre all’intero Paese l’agenda a lui gradita. Quel teramano ci ha dato conferma di una realtà che ben conoscono gli storici : nel bene e nel male, le cose sono decise e imposte da minoranze attive, decise , spregiudicate che finiscono col trascinare dietro di loro le masse, spesso amorfe e conformiste . Non fecero così anche quei quattro gatti, ma fanaticamente motivati, dei giacobini, che inocularono nella storia dei virus che ancora agiscono e sono anzi divenuti patrimonio comune di tutto l’Occidente ? Sicuramente altrettanto minoritari anche i radicali italiani , ma di certo non marginali. Come confermano in questi mesi, per l’ennesima volta, con la campagna – tanto cinica quanto instancabile – per la cosiddetta ” buona morte “.
E’ un esempio sul quale noi credenti dovremmo riflettere , magari per impararne le tattiche e le strategie , naturalmente in quanto hanno di lecito in una dimensione di fede. Uso, comunque il condizionale . La nostra riflessione, infatti, dovrebbe centrarsi innanzitutto sulla difficoltà maggiore : i pochi possono trascinare i molti , certo; ma solo se quei pochi hanno un pensiero , una prospettiva, una visione del mondo , una passione di convincere . Proprio ciò che manca , ormai da decenni, a troppo cattolicesimo , ridottosi a una melassa che ricicla, per giunta in ritardo e con un surplus di moralismo e di sentimentalismo , il pensiero egemone politicamente corretto. Bien penser pour bien agir , diceva Pascal : è il pensiero che guida l’azione . Solo l’ortodossia può sorreggere l’ortoprassi. Ma quale è il pensiero di troppi di noi , che dovremmo riscoprire e realizzare la nostra vocazione di sale, di lievito ?
Diciamocelo chiaro : non è marginale , oltre che ormai minoritaria, buona parte della stampa che ancora viene detta e si dice ” cattolica ” e che non sa far altro che ripetere la vulgata del conformista ” corretto ” , un brodino tiepido e insipido che non può di certo suscitare energie ma indurre alla sonnolenza ? Come e quanto incidono sul vissuto le 25.000 omelie pronunciate in Italia ogni domenica ? Come riscoprire quel che un tempo si chiamava, e deve ritornare a chiamarsi apostolato , se il kérygma non c’è più , se nulla di appassionante , di chiaro, di preciso sappiamo annunciare ? Come passare dalla difesa, spesso lagnosa e vittimista, all’azione che fermenti la società, se non a riusciamo a proferire altro che moralismi ed auspici edificanti quanto impotenti , roba da messaggio di fine anno di Presidente della Repubblica ?
Da questi ” scristianizzatori ” che sono stati, e tuttora sono , i radicali dovremmo imparare molto quanto alle tecniche ; ma imparare prima di tutto che queste sono inutilizzabili se manca il messaggio chiaro e forte che queste tecniche devono sorreggere e diffondere.
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A proposito di quella mentalità ” da piccolo gregge ” che dobbiamo acquisire , volenti o nolenti . Vedo l’ultima edizione del Leading Catholic Indicators, una sorta di periodico manuale statistico della Chiesa americana. Le cifre sono implacabili . Per scegliere qualche esempio tra i moltissimi e per limitarsi all’ educazione, si scopre che i seminaristi dei Fratelli delle Scuole Cristiane erano 912 nel 1965 e l’anno scorso erano ridotti a 6, dicesi sei ; che i Gesuiti sono scesi nello stesso periodo da 3.559 a 389; che in vent’anni è stata chiusa negli Usa la metà delle scuole cattoliche, con una discesa degli studenti da oltre 700.000 a 300.0000 .
Ma , forse, è meglio così : non dimentichiamo mai che è molto meglio non sapere che sapere in modo sbagliato. In effetti , si riportano i risultati dei sondaggi quanto ai contenuti. Si scopre così che solo il 10 per cento degli insegnanti di religione ( anche se frati e suore ) segue l’insegnamento della Chiesa , che la grande maggioranza ammette la liceità di divorzio , di aborto, di omosessualità. Non sorprende, dunque che – stando questa volta a un’inchiesta del New York Times – il 70 per cento di coloro che in America si dicono Roman Catholics consideri l’eucaristia solo a Jesus simbolic reminder , un ricordo simbolico di Gesù. Ancor meno, cioè, della prospettiva del protestantesimo classico.
La crisi della Chiesa , non ci stancheremo di ripeterlo, non è una crisi di strutture ; e una crisi di fede.
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Impiccagione di Saddam Hussein . La goffaggine dei registi dell’operazione- gli americani – riesce addirittura a farci sentire compassione per quel tiranno brutale e sanguinario, abbandonato impotente a carnefici incappucciati e manifestamente lieti di mettergli al collo un capestro di dimensioni impressionanti. Sono volontari , hanno insistito per fare i boia . C’è sempre qualcosa di sconcio negli eroi di ogni piazzale Loreto , in coloro che scalciano contro chi è cascato per terra. << Giustizia è fatta >> , dice il presidente Bush in abiti sportivi, lasciando per un attimo la partita di golf cui è intento nella tenuta di campagna.
Oddìo, una strana giustizia : l’impiccato era considerato responsabile di 300.000 morti, ma sono più del doppio, e aumentano ogni giorno, i morti provocati dagli invasori yankees , legittimati da ” armi di distruzione di massa ” che in realtà non c’erano. Poichè, nel sotterraneo di Baghdad dove è stato appeso Saddam , le forche erano due, è forte la tentazione di pensare che all’altra poteva esserci una corda per chi di morti ne aveva fatto 600.000, in nome di una menzogna.
Ma strana giustizia anche per quanto osservato da un liberale equilibrato e non fazioso come Sergio Romano, già ambasciatore a Washington , oltre che a Mosca . Negli anni Novanta del secolo scorso , un gran numero di nazioni ha creato il Tribunale penale internazionale , istituito per giudicare i politici caduti in disgrazia e considerati rei di ” delitti contro l’umanità “. Lasciamo pur stare le perplessità e i sospetti che suscitano queste iniziative : per fare un solo esempio, si processa un serbo che non conta nulla, ma chi si sogna di portare in giudizio la Nomenklatura cinese , pur composta ancora da molti compici degli orrori di Mao ? Chi ha chiesto la consegna di altri complici, quelli di Stalin ma anche di Kruscev e di Breznev, dopo la caduta dell’Urss ?
Lasciamo stare, dicevo. Dobbiamo pur saperlo che solo gli stracci vanno per aria. Torniamo, piuttosto a Sergio Romano, che ricorda come proprio gli americani abbiano rifiutato di ratificare quel Tribunale internazionale non per il cattivo odore di ipocrisia che emana , ma perchè non vogliono che un giorno un qualche loro militare possa sedere sul banco degli accusati. Tutti sono giudicabili e condannabili. Tutti, ma non gli yankees : la Old Glory, la bandiera a stelle e strisce, è immacolata . E che nessuno si permetta di processare chi sta sotto a quello stendardo : sinonimo, lo si sa, di cristallina democrazia e di generosa umanità. Come si vide , del resto, anche a Norimberga , dove ( lo ricorda lo stesso Romano ) americani e russi si accordarono previamente , stabilendo che gli imputati tedeschi non avrebbero avuto il diritto di accusare le potenze vincitrici di avere commesso gli stessi crimini . Condanna inesorabile, dunque, per il bombardamento germanico di Coventry , ma divieto di ricordare gli orrori di Dresda, Amburgo, Hiroshima, Nagasaki. Orrore per i lager nazisti, ma vietato parlare di quelli sovietici o anche di quelli americani dove , dopo la resa della Germania, si lasciarono morire di fame e di stenti decine di migliaia di prigionieri tedeschi, chiusi dietro a reticolati su campi aperti, senza alcun riparo né servizio. Lo stesso Joseph Ratzinger ha raccontato, nelle sue memorie, che cosa fossero questi campi americani in cui – seppure per poco tempo , per fortuna sua e nostra – fu rinchiuso giovanissimo con la sua divisa raffazzonata ( mancava ormai la stoffa ) della Flak, la contraerea tedesca
Insomma , come dice Bush , con l’impiccagione dell’odiato Saddam , davvero << giustizia è fatta >>.
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I pastori luterani , in Danimarca, sono funzionari pubblici, secondo il concetto protestante di Chiesa di Stato. Alcuni di quei pastori sono gay , o lesbiche , e convivono nelle case canoniche con i loro compagni e compagne. Molti sono i divorziati risposati . Gli altri hanno ” regolare ” moglie e, naturalmente, figli.
Proprio questo è il problema . Il sindacato dei pastori ( hanno anche questo ) da tempo è in trattative serrate col ministro del culto, che è il loro datore di lavoro , per avere libero il week end . O, almeno, la domenica . Ma non è proprio quello il ” giorno del Signore “, quello in cui maggiore deve essere l’impegno dell’uomo di Chiesa ? D’accordo, concedono i rappresentanti di quei funzionari clericali , ma anche noi teniamo famiglia, moglie e figli si arrabbiano se non siamo liberi, nel fine settimana, di fare come ogni altra famiglia. Tutt’al più , i sindacalisti sono disposti a un compromesso , simile a quello dei farmacisti, dei tabaccai, degli edicolanti : qualche tempio aperto ” per turno ” alla domenica . Comunque, niente di drammatico : è da molto che , in quei templi luterani , di danesi non se ne vede praticamente nessuno. Del resto, che ci andrebbero a fare ? Il culto protestante, lo si sa, consiste in un sermone : ma quale predica può venire da simili pulpiti ?
Vittorio Messori

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Calcio, senza autocritica non si può ripartire

Giocare. Nell’aria c’è una gran voglia di giocare. Certo non puoi scrollarti dai tacchetti il feretro di Filippo Raciti, l’agente trucidato a Catania. E neanche quello di Ermanno Licursi, il dirigente della squadra calabrese della Sammartinese ammazzato a pedate, rimasto nella penombra perché in terza categoria le telecamere sono spente. Voglia di giocare: per scrollarsi di dosso l’incubo e tornare ad essere normali; e perché il piatto piange e la quarta industria del Paese non può tener chiusi i battenti troppo a lungo. Una voglia di giocare – dispiace doverlo constatare – ben più forte della voglia di mettere un punto fermo e andare a capo. Una voglia di giocare che potrebbe far perdere all’Italia l’occasione per una svolta epocale.
Ieri è stata la giornata di Giuliano Amato. Va apprezzato, il nostro ministro dell’interno, non solo per la sua intransigenza (“Lo spettacolo non può continuare a questo prezzo, anche se si tratta dello sport più lucrativo del mondo”), ma soprattutto per l’autocritica, non di maniera ma autentica. “Anch’io ho sbagliato – ha ammesso – nel permettere le deroghe al decreto Pisanu”. Ci piacerebbe che tutti prendessero l’esempio perché nessun rinnovamento profondo può ignorare l’ammissione delle colpe e l’assunzione delle responsabilità. Noi tifosi siamo stati reticenti; abbiamo tollerato la beceraggine degli ultrà amici indignandoci per quella altrui; e mai s’è visto un lanciatore di monetina, fumogeno, bottiglietta preso, impacchettato e consegnato alla polizia dei vicini di gradinata. Macché, omertà idiota innanzitutto. Noi giornalisti abbiamo strillato troppo, solleticando gli umori peggiori del peggior tifo. I calciatori hanno flirtato con gli ultrà facinorosi pur di tenerseli buoni, ignorando la lezione della vita, e della storia: prima o poi certe “amicizie” le paghi, e con gli interessi. I dirigenti, spesso, hanno più che flirtato. Ma soprattutto hanno eluso le regole facendola franca: iscrizioni irregolari al campionato, fideiussioni fasulle, passaporti falsi, bilanci taroccati, fondi neri… Bell’esempio davvero. Chi non rispetta le regole non è più credibile e non può pretendere di imporle agli altri. La politica ha spesso fatto il tifo, a volte latitato, sovente badato al business dei presidenti amici e al voto degli elettori tifosi.
Amato punta agli stadi. Se non sono a norma, niente pubblico. Giusto. Restano però dubbi pesanti. Perché lo stadio è solo un contenitore. Nessun contenitore è neutro e uno stadio brutto, scomodo, insicuro favorisce la violenza. Ma il contenuto? Gli spettatori? Le loro teste e i loro cuori? Se davvero si riparte domenica, con molti stadi chiusi, al pubblico dovrà essere spiegato perché l’Olimpico di Roma è sicuro mentre gli stadi del Chievo e dell’Udinese, i più tranquilli della penisola, sono vietati. E già a qualcuno, assai poco responsabilmente, stanno saltando i nervi. Ad esempio ad Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli e di quei napoletani che non hanno certo bisogno di incoraggiamento per eccitarsi: “Porte chiuse al San Paolo? Questo è fascismo”. Stiamo freschi.
L’esempio di Amato va seguito, ma fino in fondo. Occorre un gigantesco mea culpa e una colossale assunzione di responsabilità. Solo dopo si potrà ripartire, fedeli alle regole. Quelle che politica e società di calcio ribadiranno o scriveranno ex novo. E quelle che sono già scritte dentro di noi, abbiamo dimenticato ma basterebbero: onestà, lealtà, rispetto. Roba vecchia, mai così nuova.
(da “Avvenire”, 7 febbraio 2007).

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La vita è un viaggio.

La letteratura occidentale nasce dall’idea di viaggio: quello degli Argonauti, che solcano per la prima volta il mare, quello dei Greci, verso Troia, quello di Ulisse, che ritorna ad Itaca. Il viaggio, infatti, implica una direzione, cioè un senso, una grandezza umana da sviluppare, come un seme, badando che non muoia. Ulisse deve superare la tentazione dell’immortalità, offertagli da Calipso; deve sfuggire al fascino del loto, il fiore che potrebbe inebriarlo, e fargli dimenticare il fine del suo viaggio; deve sconfiggere le malie di Circe, l’allettamento dei sensi, degli istinti, che lo trasformerebbero in un maiale. Ricerca e conquista, rinuncia e sacrificio. Ma la meta dell’Ulisse greco è la sua isola, la sua famiglia, sua moglie: tutto l’orizzonte possibile di una nobilissima concezione naturalista. Nel medioevo Dante immagina anch’egli un viaggio grandioso. La Commedia infatti è il cammino non verso un’isola terrena ma nei mondi ultraterreni. Si passa dall’inferno al purgatorio, per ascendere faticosamente il monte, ma non per fermarsi sulla cima: il traguardo è soprannaturale, è il cielo, la realizzazione eterna, perfetta, della felicità ineffabile, quella che “occhio d’uomo non ha mai visto, né orecchio d’uomo ha mai udito”. Questo è il vero approdo dell’uomo dopo Cristo: la virtù naturale non basta più, la felicità intravista, imperfetta, solo terrestre, che lascia nell’uomo ancora la sete, non è sufficiente; la ragione non raggiunge tutto, e non comprende ogni cosa. Per questo, se per i greci Ulisse poteva accontentarsi di Itaca, per Dante deve ripartire: occorre andare oltre, più in là, verso una patria, una famiglia non perituri. Così il viaggio di Ulisse nasce da uno sprone positivo, “seguir virtute e canoscenza”, per rispondere alla domanda dell’uomo di Bene (“virtute”) e di Verità (“canoscenza). Il Bene e il Vero sono infatti strutturalmente desiderati dall’uomo. Ma allora perché il volo di Ulisse diviene “folle”? Perché Ulisse non ha la grazia, non può, da uomo, raggiungere ciò che gli è superiore. Non può attraversare l’immenso oceano senza il sostegno divino, non può essere salvezza e compimento a se stesso. Dante compie lo stesso viaggio, ma è la grazia divina, innestata sul suo peccato, sulla sua creaturalità, a permetterglielo: non è l’uomo che va incontro alla salvezza, ma la salvezza che scende verso l’uomo che la cerca. E’ il soprannaturale che incontra l’uomo, che, faticosamente, sale. Succede esattamente come aveva intuito Platone: l’uomo giunge, con la ragione, alla metafisica, all’esigenza e alla razionalità di Dio, ma deve esserci “un dio” che gli si rivela, che svela quanto rimane di ineffabile e di umanamente non intelleggibile. L’idea della vita come viaggio è presente anche nel mito medievale del Santo Graal: i cavalieri della Tavola Rotonda partono da una terra desolata, guasta, simbolo della loro anima, per cercare la coppa che ha contenuto il sangue di Cristo. La coppa è simbolo della sete dell’uomo, che può essere saziata solo dal rapporto con Dio. Occorre ricercarla, affrontando pericoli estremi, che rimandano al combattimento interiore: se non fosse un mito cristiano sarebbe la stessa storia di Ulisse. La condizione necessaria per poter raggiungere il Graal è la domanda, la disponibilità e la purezza del cuore. Per questo Lancillotto, che ha tradito il suo re, Artù, non ci riesce. Solo Galvano può toccare il Graal ed “ha la possibilità di conoscere misticamente ogni suo segreto, ma al termine di questa straordinaria esperienza muore e una schiera di angeli viene a prendere la sua anima” (P. Gulisano, Re Artù, Piemme): il Graal infatti indica una meta eterna, la Felicità soprannaturale, che non è di questo mondo, perché l’oggetto della ricerca, su questa terra, non sono cose della terra! E’, invece, come scriverà un altro grande poeta del viaggio, Torquato Tasso, la Gerusalemme Celeste. Cosa rimane oggi, in Occidente, di questa idea letteraria e filosofica del viaggio? Ben poco: esso sembra non condurre più da nessuna parte, sembra aver smarrito il senso. L’uomo pare sempre più accontentarsi del loto, o di Circe. Oppure si lascia ammaliare da Calipso, e dalle sue promesse di immortalità. E’ così che il Santo Graal diviene, come ha scritto entusiasticamente Gregory Stock, alfiere dell’ingegneria genetica più feroce, la possibilità di manipolare il Dna, “il Santo Graal della biologia umana”, per dare inizio “all’autoprogrammazione dell’uomo”, alla “manipolazione di noi stessi”, allo scopo di divenire “molto più che semplicemente umani” (“Riprogettare gli esseri umani”, Orme).

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Scuola e libertà in Guareschi

Riproporre oggi alcuni pensieri tratti da “Lettera al postero”, di Giovannino Guareschi, pubblicata su Candido numero 51, del 16 dicembre 1956, può apparire operazione anacronistica solo nelle apparenze. In un periodo storico, politico e culturale come quello in cui ci è dato di vivere, non possiamo che trovare straordinariamente profetiche le parole che mi permetto di presentare qui di seguito. Spunti per una riflessione costruttiva, seppur amara, dovendo constatare come l’utilizzo della scolarizzazione di massa, in atto a partire proprio dagli anni appena seguenti questa lettera, attuata da tutta l’area marxista, complice anche una certa miopia culturale e politica cattolica, ha portato il nostro Paese ad una omologazione dei pensieri attuata anche attraverso la scuola, e oggi anche attraverso l’università, mediante l’adozione di libri di testo ideologizzati, se non tendenziosi e docenti “votati alla causa”. Ironia della sorte, Guareschi morì proprio nel “formidabile” 1968, e da allora è un susseguirsi di riforme scolastiche farraginose, l’ultima ancora tutta da verificare sul campo, del Ministro Fioroni, purtroppo ancora troppo infarcita dirigismo statalista, che ripropone, tra le altre cose, la commissione d’esame mista fra docenti interni ed esterni, ma non incide sulla valutazione della qualità dell’insegnamento e nemmeno sulla serietà della preparazione effettiva finale dell’alunno. Aumenterà, invece, il carico di lavoro burocratico dei docenti impegnati nelle commissioni, con la conseguenza di, per citare Guareschi, “Non dire mai con quattro parole ciò che potresti non dire con tremila. Il paradosso serva a chiarirti il concetto: l’italiano preferisce parlare piuttosto che dire”. Veniamo dunque al racconto di Giovannino Guareschi, che rivolgendosi al suo immaginario “postero”, ad ognuno di noi quindi, genitori, insegnanti, studenti scrive: Un tempo si diceva: “Chi comanda fa legge”. Oggi, con maggior precisione, si dovrebbe dire: “Chi comanda fa Regime”. E’ l’eterna storia di chi, arrivato al posto di amministratore, tende a diventare padrone. Mentre il Partito che ha espresso il Governo tende a identificarsi col Paese, il Governo tende a identificarsi con lo Stato. Gli Enti statali, parastatali, criptostatali, nazionali e paranazionali creati dal Governo e diretti e dominati da uomini fidati del Partito funzioneranno da legame fra Stato, Governo e Paese-Partito. Il gioco è fatto. Naturalmente, postero diletto, io non ti ho parlato da tecnico: l’operazione è più complessa. E, quando il Regime è instaurato, ha bisogno di farsi le ossa. Orbene – ed è questo il punto – ogni Regime si fa le ossa rompendo le ossa degli altri. Se si tratta di un Regime sul tipo delle cosiddette repubbliche democratiche orientali, entrano in azione la polizia politica, i carri armati, la statizzazione integrale e via discorrendo. Se si tratta di un Regime a sfondo democratico occidentale, si usano armi di altro genere e l’azione si sviluppa nascostamente e senza strepito.

In ogni tipo di Regime, comunque, si pone la massima diligenza nell’annientare il nemico numero uno della dittatura: l’individuo. Si tende a spersonalizzare l’individuo, a fare di esso un semplice elemento della mandria, o massa o collettività. Si tende cioè a svuotare l’individuo del suo contenuto personale. Postero mio, figurati che la nazione sia un immenso frutteto con alberi di centomila specie diverse: alberi teneri e giovani, alberi vecchi dalla corteccia dura. Cambia il padrone del frutteto, e il nuovo padrone dice: “L’avvenire del frutteto è nelle pesche. Da oggi in avanti voglio solo pesche”. Tutto va bene per i peschi giovani e vecchi che sono nati, appunto, per produrre pesche. Ma per i peri, i meli, i ciliegi e le altre piante la faccenda si complica. I vecchi peri, i vecchi meli, i vecchi ciliegi non possono obbedire e continuano a produrre pere, mele, ciliegie. Si comportano come irriducibili sovversivi e il padrone non può tollerare un fatto del genere e, allora, o li sradica, o li pota barbaramente in modo da renderli improduttivi; o ne avvelena le radici. Il padrone elimina o neutralizza i vecchi alberi soltanto; per giovani, invece, ricorre all’innesto. Ciò è contro natura perché il pero, il melo, il ciliegio non sono nati per produrre pesche, ma il padrone non ammette indisciplina: o rinnovarsi o morire. Non so se la mia similitudine sia molto felice: comunque, apprezza lo sforzo che ho fatto per rendere l’idea. Ora, postero diletto, metti nel frutteto, al posto degli alberi, altrettanti individui: al posto del padrone metti il Regime e arriverai a comprendere probabilmente il problema della spersonalizzazione. Naturalmente, e ciò dispiace molto ai Regimi, trattandosi di uomini, non è possibile tagliare a un tizio la testa, innestandogliene sul collo un’altra. E poi, mentre, anche se l’albero è giovane, è facile stabilire se esso sia un pesco, o un melo, o un pero, o un ciliegio, è difficile stabilire che tipo di testa, di pensieri e di tendenze abbia un giovane. Occorre, allora, una diligente e acuta indagine da compiere caso per caso. E il compito delicato viene affidato alla Scuola che, essendo di Stato, deve funzionare come qualsiasi altra azienda del Regime. I giovani interessano e preoccupano sopra ogni altra cosa i Regimi. I giovani sono pericolosi: le loro reazioni – non ancora sufficientemente controllate da quel senso dell’opportunismo che frena gli impulsi degli uomini maturi – sono pericolose. (…) Ogni Regime ha paura dei giovani e ai giovani rivolge le più attente cure attraverso la Scuola, gli enti parascolastici, le organizzazioni politiche, parapolitiche e criptopolitiche assistenziali e psuedobenefiche, sportive e pseudosportive. Ma la Scuola è lo strumento più efficiente e più importante, perché ha un doppio compito: svuotare il ragazzo eliminando in lui ogni fermento nocivo o sovversivo per poi riempirlo di idee e propositi conformisti. La Scuola, sotto ogni Regime, è destinata a divenire la Grande Pianificatrice dei cervelli. La Fabbrica dei Cretini. Parole certamente dure, velate di amarezza, che risentono del clima politico del tempo, i carri armati del Patto di Varsavia erano ancora agli angoli delle strade di Budapest, ma che non possono non colpire per la loro lucidità e attualità. Proseguendo nell’analisi dell’opera, mi permetto di proporre ancora un paio di pensieri del grande scrittore “della Bassa”. Cerca fuori dalla scuola gli ammaestramenti per la vita. Ai miei tempi, era in grande auge il cosiddetto tema di fantasia: esso è oggi schifato.”Lavorando di fantasia il ragazzo non impara a osservare, si distacca dalla realtà”, dicono i tecnici. “Niente più finzioni”. La verità è un’altra: chi lavora di fantasia non osserva ma pensa. La fantasia è la palestra del pensiero e i Regimi non vogliono gente che pensa. Vogliono uccidere la tua fantasia, postero diletto: questa è la sostanza. La fantasia è reato: quando tu racconti a te stesso una storia fantastica della quale tu sei il protagonista tu esperimenti la tua personalità. Figlio mio, tu sei chiuso dentro una esigua stanza assieme alla tua bicicletta: fin quando quei quattro muri ti terranno prigioniero, tu non potrai mai provare – pedalando -l’efficienza dei tuoi garretti. La potrai provare avendo a tua disposizione, tutta per te, una pista. La fantasia ti offre lo spazio e l’aria che ti sono necessarie. La fantasia è la palestra del pensiero e della personalità: e il Regime vuole, uccidendo la tua fantasia, mortificare, comprimere, contenere la tua personalità.

Prosegue ancora Guareschi, con quell’ironia e con quel realismo inconfondibili, riflessi di un animo profondamente cristiano, autentico; i pensieri che seguono non possono non far riflettere, da un lato, i docenti che, nonostante tutto, si trovano ancora ad amare il proprio mestiere, accettando e tentando di vincere (o almeno a non perdere) ogni giorno la sfida dell’educazione; dall’altro mi auguro che qualche studente faccia proprio l’invito, la preghiera che uscì oltre cinquanta anni fa dalla penna del grande scrittore emiliano. Difenditi, postero mio. Diffida di tutto quello che a scuola t’insegnano. Anche dello stesso Teorema di Pitagora. Controlla pignolescamente se il Teorema di Pitagora che t’insegnano funziona come il Teorema di Pitagora che insegnavano cinquant’anni fa. Impara a detestare, nel tuo intimo, tutto ciò che è collettivo. Collettivismo significa umiliazione dei migliori ed esaltazione dei peggiori. Il collettivismo è per i vili che vogliono sottrarsi alla responsabilità individuale per rifugiarsi nell’ombra della irresponsabilità collettiva. Difenditi e reagisci.

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Comma 22 per i cattolici

La Chiesa cattolica è l’unico soggetto attorno al quale, in una società libera e democratica, infuri un acceso dibattito centrato su questa domanda epocale: la Chiesa ha il permesso di parlare? Di che cosa, come, quando? I consigli, talvolta le minacce, fioccano generosi. Quasi nessuno considera quelli del mondo cattolico dei contributi al dibattito, che possono riscuotere consenso o suscitare dissenso, ma comunque preziosi per rendere più ricca e viva la vita democratica e la stagione delle idee, perché un’opinione in più, specialmente se frutto di duemila anni di storia, tradizione e valori, dovrebbe essere meglio di un’opinione in meno. Quasi tutti, invece, considerano tali contributi “un’indebita ingerenza”; specialmente se contraddicono il pensiero dominante e intralciano la strada alle lobby più aggressive.
E i cattolici? Assomigliano curiosamente agli aviatori americani del celebre “Comma 22″…
Un passo indietro. Rileggiamo il brano centrale dell’ultimo intervento in proposito di Miriam Mafai (La Repubblica di martedì scorso): “La Chiesa ha certamente il diritto di esprimere su queste materie (dalle unioni civili al testamento biologico, dalla ricerca scientifica alla fecondazione assistita) le sue preoccupazioni e le sue opinioni, ma non può pretendere di intervenire come un attore politico nel processo legislativo”. Impeccabile. Ma come potrebbe la Chiesa farsi attore politico che interviene nel processo legislativo? Non è un partito, non ha deputati né ministri, non detta disegni di legge. Possiede dei mezzi di comunicazione di massa, ma del tutto minoritari. E allora, dov’è il problema? Il problema è questo: com’è possibile esprimere una libera opinione su un argomento di cui si occupano tutti, anche il Parlamento, senza che questa opinione influenzi il dibattito politico? ? davvero possibile esprimere delle idee che non intacchino in alcun modo le opinioni altrui?
Ed ecco il Comma 22 dell’Articolo 12 del Regolamento degli aviatori americani durante la seconda guerra mondiale. Viene dopo il Comma 1, che recita: “L’unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia”. Il Comma 22 avverte: “Chiunque chiede il congedo dal fronte non è pazzo”. Ovviamente il Comma 22 non esiste. ? un’invenzione letteraria di Joseph Heller (“Catch 22”, pubblicato nel 1961), da cui il regista Mike Nichols ha tratto l’omonimo film. Non è molto diverso dal paradosso di Russel, che suona così: “La frase seguente è falsa; la frase precedente è vera”. ? la contraddizione eretta a norma, una norma che evidentemente è impossibile rispettare, a meno di tacere. Miriam Mafai è come se scrivesse: “La Chiesa è libera di parlare, purché stia zitta”.
“Comma 22”, libro e film, miravano a far emergere l’insensatezza di certe consuetudini del mondo militare. Il Comma 22 dei laicisti, che si assumono l’incarico di insegnare le “buone maniere” a questi cattolici che disturbano il manovratore, funziona allo stesso modo. La Chiesa, ci dicono, non può “definire la tavola dei valori alla quale lo Stato deve attenersi”. D’accordo; infatti si limita a proporla, offrendola a un dibattito al quale desidera partecipare portando il proprio contributo originale. Il Comma 22 reciterebbe: “La Chiesa è libera di parlare di valori, ma non di definirli”. La cosa buffa è che la stessa Mafai commenta: “Stiamo vivendo una situazione che non esito a definire paradossale”. Come ha ragione.
Da “Avvenire”, 1? febbraio 2007).

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Per amare la vita ci vuole coraggio

Più è secca, più una domanda è vera. Come questa: “Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione amano davvero la vita?”. La domanda sbuca improvvisa in mezzo al Messaggio per la Giornata per la vita, il cui nocciolo quest’anno è l’amore. ? il coraggio di farcela, quella domanda; e di darle una risposta sincera.
Non è una domanda campata per aria. ? la cronaca a riproporla senza sosta. I dati recenti sulla denatalità in Italia parlano chiaro. Ci vuole coraggio, molto coraggio ad amare la vita fino a mettere al mondo un secondo (un terzo, un quarto…) figlio, quando le solerti cronache informano che mantenerne uno costa 800 euro al mese, e quando due coniugi sono confinati nel loro bilocale che gli succhia metà stipendio. E allora ci vuole un bel “coraggio”, tra virgolette, a ignorare i problemi di chi vorrebbe metter su famiglia, sposandosi, assumendosi seri impegni di fronte alla società e si trova letteralmente taglieggiato, ignorato, perfino deriso. Promosso? Sostenuto? Mai. Se proprio hai bisogno, ci sono i suoceri, i nonni. E così la stessa rete familiare, che si sta indebolendo nella sostanziale indifferenza di chi dovrebbe avere a cuore il bene della nazione, in questo caso fa comodo. Sì, ci vuole “coraggio” a far credere all’opinione pubblica che “il” problema sia quello delle unioni di fatto o delle coppie omosessuali. Che là stia la discriminazione, quando ben più discriminato è oggi chi vorrebbe sposarsi e non ci riesce, chi si sente chiamato a non fermarsi al figlio unico ma non ha alternative, e attorno a sé trova indifferenza, se non ostilità.
La cronaca ci sbatte in faccia anche la gigantesca operazione che ha rinchiuso in galera centinaia di moderni schiavisti. Le loro schiave, però, non stavano recluse in chissà quale lager. Erano tutte le notti sui nostri marciapiedi. Amare la vita significa dunque liberarle, ma anche dare ascolto, ad esempio, a un prete con la tonaca lisa che per i suoi modi naif viene guardato anch’egli con un sorriso di commiserazione dai paladini della modernità: don Oreste Benzi da anni combatte quell’ignobile rete di schiavitù. Amare la vita significa dire, con lui, che vigliacchi sono gli schiavisti ma vigliacchi sono pure i tantissimi italiani che quel vile commercio hanno contribuito ad alimentare; che con quelle schiave si divertivano senza domandarsi chi fossero, da dove venissero, che ne sarebbe stato di loro; non ragazze, ma carne umana; non persone, ma oggetti da consumare.
No. Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione non amano la vita, non abbastanza. Se davvero la amassero, investirebbero energie nel salvare i rapporti di coppia in crisi almeno quante ne investono per romperli più velocemente e asetticamente possibile. E questi non sono discorsi soltanto “da cattolici”. La domanda se la stanno ponendo in tanti. Uno a caso: Gabriele Muccino, il regista della Ricerca della felicità: “Nei nuclei famigliari c’è oggi una buona dose di vigliaccheria. Per molti – ha detto a Erica Bianchi dell’Espresso – è più facile mandare all’aria un rapporto con la scusa che la famiglia non ha ragione d’essere, piuttosto che mettersi in gioco e rimboccarsi le maniche”. Chi ama la vita, appunto, ha il coraggio di rimboccarsi le maniche.
(Da “Toscana oggi”, 4 febbraio 2007).

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Sabato sera il Miguel Manara a teatro

L’Associazione Edus Educazione e Sviluppo, intende organizzare, in collaborazione con la Compagnia Teatrale “Lo Sguardo” di Trento, la rappresentazione di uno spettacolo teatrale allo scopo di raccogliere fondi per sostenere le proprie attività a favore dei più poveri. Lo spettacolo si svolgerà a Trento pressi il Teatro Cuminetti il giorno 3 febbraio 2007 e consisterà nella messa in scena dell’opera di Milosz: “Miguel Manara”. L’incasso della serata sarà devoluto all’Associazione a sostegno dell’opera di Padre Berton in Sierra Leone ed in particolare per la realizzazione del centro di formazione professionale per la lavorazione del legno a Freetown.

Questo il progetto da realizzare in Sierra Leone

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