Ma che ci combina Sarkozy. Confermandosi leader di una destra non meramente conservativa ma capace di spunti creativi, ha tolto la pubblicità dalla televisione pubblica francese. All’inizio soltanto dalle 20 alle 6 del mattino; entro tre anni a tutte le ore. France 2, 3, 4 e 5 come la Bbc inglese, dunque. E come la Rai d’antan, quella in cui la pubblicità era limitata al Carosello, ossia era costretta ad obbedire alla tv facendo da ospite: un piccolo spettacolo di due minuti e mezzo in cui l’annuncio era confinato nei pochi secondi finali. Erano i tempi in cui la tv dettava le regole e la pubblicità obbediva. Esattamente il contrario di quanto accade oggi. Ed è per questo che, buona o cattiva, profetica o sciagurata che ci possa apparire, la decisione di Sarkò è rivoluzionaria.
Una rivoluzione oggettiva. Pensiamo soltanto all’Auditel. Da sistema di rivelazione degli ascolti televisivi al fine di stabilire le tariffe pubblicitarie, da anni è di fatto il bollettino di guerra che ogni mattina decreta vincitori e vinti, determinando vita e morte dei programmi, e fortuna e sventura di registi, giornalisti, conduttori e showgirl. Auditel come giudice di una gara tra concorrenti che ogni sera propongono la stessa minestra; fiction contro fiction, show contro show. Senza pubblicità, la rincorsa a catturare più spettatori possibili avrebbe ancora senso? E pensiamo alla qualità, tanto sbandierata quanto trascurata. Senza la “pagella” dell’Auditel (promosso, bocciato, rimandato), chi fa tv pubblica potrebbe davvero pensare agli interessi del pubblico, non a quelli degli inserzionisti. Perché la tv commerciale (Rai compresa) è fatta non di programmi che per andare in onda hanno bisogno degli spot, ma di spot che per andare in onda hanno bisogno dei programmi. Non a caso ieri un alto dirigente televisivo poteva affermare che “la pubblicità fa ormai parte della televisione, a volte è fatta meglio della tv stessa, oggi è anche vista in termini culturali, è un tutt’uno. La tv che ne è priva è una tv monca”. Insomma, la televisione sarebbe anche bella, se non ci fossero tutti quei programmi che interrompono gli spot… La pubblicità, e i suoi inserzionisti, perderanno un poco del loro potere. ? poi molto probabile che la tv pubblica francese dovrà dimagrire, perché difficilmente la nuova tassa del 3 per cento sul fatturato pubblicitario delle tv private potrà colmare, da sola, la voragine dei 250 milioni annui degli spot scomparsi. Di sicuro, se Sanremo fosse in Francia – questione di pochi chilometri – la tv pubblica transalpina non potrebbe costruire un baraccone infinito, con ospiti ricoperti d’oro, come da noi. Sanremò dovrebbe dimagrire energicamente, come auspichiamo da un quarto di secolo; oppure migrare su France 1 o M6.
Ma è una rivoluzione buona o cattiva? Impossibile dirlo oggi. Aspetteremo, attenti e curiosi di fronte a questo esperimento audace. Senza farci distrarre né dal giubilo dei paladini del servizio pubblico puro e duro, né dai piagnistei dei telemandarini, che se anche l’Italia seguisse l’esempio francese dovrebbero adattarsi a guadagnare cifre meno abnormi. Aspetteremo, curiosi ad esempio di scoprire se una parte dei mancati investimenti pubblicitari nella tv pubblica finiranno ai giornali. Oggi, Rai e Mediaset si pappano il 55 per cento della torta degli investimenti, contro il 33 delle tv americane e il 24 di quelle tedesche. Curiosità interessata? Sì, nell’interesse della stampa ed anche, forse, della stessa democrazia.
Autore: Umberto Folena
Chiesa, Stato, soldi. La buona laicità
Tutto ciò che i cittadini italiani affidano alla Chiesa ritorna, direttamente o indirettamente, agli uomini e alle donne in Italia e nel mondo. Torna all’umanità verso la quale la Chiesa è protesa da sempre. I cristiani potranno essere più o meno fedeli e coerenti, e più o meno capaci di chiedere scusa per gli eventuali episodi di infedeltà e incoerenza; ma tutto, assolutamente tutto ritorna. Anche le sobrie remunerazioni ai parroci tornano, perché un parroco è a disposizione di tutti coloro che si rivolgono a lui, cattolici o non cattolici, ferrati o a digiuno di catechismo. Questo è volto ordinario, quotidiano, normale della Chiesa. ? la Chiesa che sta in mezzo agli uomini facendone propri gioie e dolori, allegrie e fatiche, speranze e timori. Facendosi carico delle loro difficoltà.
Ci piacerebbe che anche e soprattutto questa Chiesa venisse raccontata agli italiani, affinché gli italiani possano essere davvero liberi di giudicarla. Per questo oggi mettiamo sotto i riflettori il comunicato con cui la Chiesa italiana rende pubblici tutti i suoi interventi caritativi, in Italia e nel terzo mondo, finora realizzati, e quelli in programma nel 2009, grazie a quella parte di otto per mille del gettito complessivo dell’Irpef affidatale dai cittadini italiani. Sembrano aridi numeri; ma dietro di essi ci sono i volti di innumerevoli persone che grazie ad essi stanno meglio: possono sfamarsi, curarsi, istruirsi, lavorare, salvare la vita. In una parola, possono essere pienamente uomini.
Dietro quei numeri c’è anche il volto di una Chiesa che sa dire sì. Sì a una libertà e dignità non solo proclamate ma soprattutto promosse e praticate; sì al grido, spesso silenzioso, di poveri dimenticati perché poco appetibili per l’industria mediatica e di donne sulle quali è usata violenza; sì al diritto dei bambini e dei giovani a potersi costruire un futuro.
Il volto della Chiesa è composito. Purtroppo questo suo particolare aspetto è spesso oscurato, come se non fosse di alcun interesse. Ad esempio, nella primavera del 2005 veniva pubblicato un grosso volume di ben 386 pagine – “Dalla parola alle opere”, disponibile anche on-line – contenente l’elenco completo e documentato dei 6.275 progetti finanziati nel terzo mondo dal 1990 al 2004, per un totale di 710 milioni di euro. Purtroppo la notizia uscì soltanto sulla stampa di ispirazione cattolica; da parte degli altri un silenzio assordante. Non crediamo nei complotti né apprezziamo chi indulge nei piagnistei. Però siamo convinti che gli italiani abbiano il diritto di conoscere anche questo volto della Chiesa, che la cosa gli interessi e che tenerli all’oscuro sia sbagliato.
Naturalmente, se l’anno prossimo la Chiesa italiana potrà realizzare 59 nuovi progetti in Africa, Asia, America Latina, Nuova Guinea e Albania, per quasi 6 milioni di euro, il merito è anche dei cittadini che le hanno dato fiducia e dello Stato italiano. Nessuno stupore. Il sistema di sostegno economico, che rende possibili questi interventi, è uno dei risultati degli Accordi del 1984. In quell’occasione lo Stato e la Chiesa tradussero il più moderno concetto di laicità, affermando: siamo diversi, non dobbiamo confonderci, ma ci stimiamo reciprocamente e abbiamo un grande scopo in comune, il bene degli italiani (e dell’umanità intera), e per realizzarlo collaboriamo. Stato e Chiesa si dimostrarono e scambiarono reciproca concreta fiducia. Lo Stato affida alla Chiesa, tramite le libere scelte dei cittadini, le risorse per operare; e la Chiesa restituisce quanto riceve “trasformato” in innumerevoli servizi, quanti se ne rendono necessari; è attenta, con una sensibilità affinata in duemila anni, alle necessità spirituali e materiali di ogni uomo. Sui singoli interventi si può discutere; ma il fatto che tutto ritorni è indiscutibile.
Questo e nient’altro che questo, a saperle leggere, dicono le cifre.
(Da “Avvenire”, 21 dicembre 2008).
Orsi, balenottere e cristiani. Quando nel circo mediatico l’animale vale più dell’uomo
Giornate di pena per l’opinione pubblica globale. Le immagini di Colin, cucciola di balenottera ferita e disorientata che al largo di Sydney scambia un modesto yacht per la sua mamma, venendo invano soccorsa, hanno scosso la coscienza globale. “Abbiamo dovuto sopprimerla – testuale tradotto dall’australiano – per farla morire con dignità”, e quel “morire con dignità”, attribuito di solito ad altri esseri viventi, ci ha procurato un lungo brivido. E che pena per l’orso bruno di Molveno, nel Trentino, narcotizzato perché finito tra le case a curiosare tra i cassonetti, e precipitato nel lago, morto annegato. Mentre scriviamo, invece, incerta è la sorte di altri nove plantigradi polari, alla deriva su un frammento di pack artico al largo dell’Alaska. Non escludiamo una mobilitazione planetaria ed una spedizione di soccorso, se le divinità dell’audience globale lo imporranno.
Giornate di sostanziale indifferenza, invece, per le decine di cristiani massacrati perché cristiani nel distretto di Kandhamal, Orissa, India. Scuole, orfanotrofi e ospedali distrutti, poveracci in fuga nella giungla, una giornata di preghiera lo scorso 5 settembre (festa della beata madre Teresa di Calcutta) rimasta nell’ombra, a parte i media cattolici la cui forza d’impatto, nel circo mediatico, è quella che è. In Iraq non va meglio: i cristiani sono dimezzati, dall’inizio della guerra. L’arcivescovo di Mosul è l’ultima vittima illustre: un richiamino in prima pagina e via.
Premesso che anche la sorte di orsi e balenottere ci sta a cuore, e abbiamo imparato che a lamentarti e piagnucolare e fare la vittima (anche se vittima sei) risulti noioso e ti tiri la zappa sui piedi, quindi la parola d’ordine è dignità, tutto ciò premesso ci domandiamo: perché? Onestamente, non lo sappiamo con certezza. Però qualche sospetto l’abbiamo. E il sospetto maggiore è che in fondo non abbia torto papa Ratzinger a denunciare il relativismo imperante. Lasciamo stare l’alta filosofia; qui parliamo del relativismo pratico e quotidiano, secondo il quale tutto fa brodo e nella gerarchia dei fatti al primo posto vengono quelli che fanno vibrare le emozioni e sono più convenienti perché vendibili, facendo alzare l’audience. Volete mettere Colin con qualche anonimo fuori casta di un remoto villaggio indiano? Volete mettere gli orsacchiotti, bruni o bianchi, con i cristiani, descritti perlopiù come sordidi intriganti da scrittori modaioli, registi militanti e giornalisti ideologizzati?
Altro sospetto: se a rischio sono balenottere e orsi, il cuore sussulta. Se a rischio è la libertà religiosa, chissenefrega. Eppure è la ragione a suggerirci che la libertà religiosa è la madre di ogni libertà. Ed è Alexis De Tocqueville ad affermare che “il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì”. Stiamo scivolando giulivi nel torrido e ferale abbraccio di una società dispotica, concentrata su cose ed emozioni da consumare. Ma sono soltanto sospetti. Che ci piacerebbe confidare ai nove orsi bianchi alla deriva, prima che qualcuno decida, per evitare loro inutili sofferenze, di “sopprimerli con dignità” (e in mondovisione).
(Da “Toscana Oggi”, 14 settembre 2008).
Un museo per le email. Resistere alla comunicazione liquida.
Nonno, che cos’erano le email? Quando sentiremo rivolgerci questa domanda, potremo portare i nipotini al Powerhouse Museum di Sydney. Realmente, con lo shuttle stratosferico dell’Alitalia (partenza da Orio al Serio: la ripresa di Malpensa, informano gli esperti, sarà lenta) o il teletrasporto; oppure virtualmente navigando con totalnet, l’evoluzione veloce e pulita di questo ferrovecchio virulento e ingombro di spazzatura che è internet.
Fantascienza? Sì e no. Il teletrasporto è improbabile a tempi brevi, anche se le ricerche del Cern di Ginevra sui mini buchi neri, se non condurranno all’autodistruzione del pianeta e dell’intero universo (qualche apocalittico ne è convinto), potrebbero aprire prospettive interessanti in tal senso; certo è meno improbabile dello shuttle Alitalia. Ma il museo della scienza di Sydney esiste e il progetto di un archivio, dove raccogliere 20 mila messaggi di posta elettronica di ogni genere per preservarli dall’oblio, è reale.
La notizia è istruttiva ma anche inquietante. Le email hanno soppiantato la posta cartacea, con buona pace degli amici del francobollo. Ma mentre i messaggi d’inchiostro su carta restano e continuano a descriverci le epoche, con relativi usanze e sentimenti, le email svaniscono, puff, senza lasciare nulla di sé. Son fatte per andare veloci e dritte allo scopo, non per durare nel tempo. Zigmunt Bauman sogghignerebbe: le email sono liquide come le lettere erano solide. Ma alla fine trionfano le seconde, perché a Sydney, nel momento del massimo fulgore della comunicazione liquida – friabile, mutevole, impalpabile – già si pensa al loro declino e fatale scomparsa. Ed anche noi, di fronte a una email particolarmente importante, siamo portati a pensare: stampiamola, non si sa mai.
L’inquietudine nasce dall’appello rivolto dal museo agli australiani: mandateci le vostre email, di qualunque genere, senza troppo badare alla forma. Poiché da quando abbiamo cominciato a scrivere questo articolo stanno allegramente scodinzolando sulla casella aziendale almeno una decina di email di inviti a casino virtuali, di mirabolanti coadiutori per irriferibili attività sessuali e offerte finanziarie (dateci i vostri zecchini d’oro e ve li moltiplicheremo), è facile che la casella del museo sarà invasa da quella roba lì: soldi e sesso. Che idea si faranno di noi i nostri nipoti? E poi: quante email che parlino delle nostre aspirazioni più nobili e profonde, grondanti dichiarazioni d’amore o passione politica? “Le ultime email di Jacopo Ortis”… No, non funziona.
Piuttosto, gli australiani farebbero bene a pensare a un archivio degli sms, ancora più volatili e presto obsoleti. Email ed sms, il trionfo della comunicazione liquida, archiviati al museo. Sarà quasi come catturare un sospiro o inscatolare uno sguardo, quelle sì forme di comunicazione intramontabili. O uno sbuffo di fumo. La fantasia di Bonelli senior, in oltre mezzo secolo di Tex, ha fatto scrivere ai navajos interi romanzi in nuvolette di fumo. Non l’ha mai confessato, ma sembra che Noam Chomsky avesse appena letto Tex quando nel 1957 scrisse “Syntactic Structures”, fondando la grammatica generativo-trasformazionale… Anche quella ormai, pare, roba da museo.
(Da “Avvenire” del 2 aprile 2008).
Ciacola, ciacola… Il Paese dei cellulari. Italia prima nei telefonini, ultima nella banda larga.
Siamo il Paese dei cellulari, lo confermano le nude statistiche. E trillano tutti assieme, lo conferma l’esperienza quotidiana di chi frequenta autobus, bar, treni, supermercati, strade, piazze, spiagge, baite, eremi, picchi e isolotti… La statistica, che farebbe impazzire il mitico Trilussa, sentenzia che ogni cento italiani ci sono 152 schede telefoniche. Ciò significa che se chi legge questo articolo possiede un solo telefonino, e magari ne farebbe pure a meno se potesse, chi in questo momento siede accanto a lui sul treno regionale e sta strepitando voluttuose amenità nel suo ipertecnologico cellulare, costui ne ha due. Media: uno e mezzo a testa. Il sospetto è che per ogni nonnina che ne è priva, ci sia un giovanotto che ne ha tre. Oppure: due nonnine e due bebè per tre giovanotti con quattro cellulari ciascuno. I lettori ferrati in statistica abbiano pietà di noi.
Le cifre – la fonte è il rapporto annuale della Commissione europea sullo stato delle comunicazioni elettroniche nell’Unione, che viene pubblicato oggi – dicono pure che se l’Italia è maglia rosa nei telefonini, è maglia nera nella banda larga. Il cellulare ci entusiasma, il collegamento a internet no. Non è tutta colpa di noi consumatori. Se la banda larga raggiunge l’89 per cento del territorio, le aree rurali ne sono servite appena per il 50 per cento. E l’Italia è fatta in gran parte di vallate amene ed innumerevoli borghi, dove costa caro tirare i fili e internet va lenta come una lumachina.
Forse siamo noi, gli italiani, ad essere inclini al cicaleccio nel giocattolino piuttosto che esigenti usufruttori di quella fenomenale finestra aperta su innumerevoli mondi che è un pc collegato alla rete. Forse è anche il mercato a ritenere sia più conveniente spremerci con la scatolina magica, piuttosto che con lo scatolone. Basta osservare la politica dell’advertising. I pubblicitari dedicano spiccioli di creatività per promuovere il pc nelle famiglie o tra i giovani; in genere, il pc compare in ufficio ed è uno strumento di lavoro. Il cellulare invece è strumento di svago e quindi associato quasi esclusivamente al tempo libero e al mondo giovanile, degli adolescenti e dei trentenni dinamici. Gli spot non hanno pietà. Il più stucchevole è quello della “tribù” che spara raffiche di sms stando a cavalcioni di un elefante, che un qualsiasi docente di neuropatologie di massa ci indicherebbe per ciò che realmente è, la rappresentazione onirica di un Suv.
Insomma, con il cellulare è più facile far soldi. Nel 2006 il mercato complessivo delle telecomunicazioni in Italia ha toccato i 41,3 miliardi di euro, con la telefonia mobile che ha superato quella fissa (21,7 a 19,5). I costi si abbassano, il fatturato aumenta ed è un gran giulebbe, peccato per la banda larga. Non investirci energie è una scelta, anzi una non scelta miope, come ammonisce Viviane Reding, commissario Ue alle telecomunicazioni: “Se non c’è banda larga per tutti in un Paese, nel tempo si producono effetti negativi sull’intera economia, visto che la banda larga può e deve essere un volano per la crescita e per l’occupazione”. Ma i bambinoni si baloccano con i loro cellulari-giocattolo; pensano a consumare, non a produrre. Centocinquadue schede ogni cento italiani; e Luciano Moggi non c’entra, le sue erano tutte schede svizzere.
(Da “Avvenire”, 20 marzo 2008).
I figli si ribellano: lasciateci giocare! Lo sciopero del calcio dei ragazzi di Ponte a Elsa
Fosse per noi, gli affibbieremmo un Daspo. Nota per i non tifosi, beati loro: Daspo sta per “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive” ed è una legge la cui prima formulazione risale dal 1989 e in seguito è stata più volte modificata, nel senso di inasprita. Lo affibbieremmo a quei genitori – non tutti ma neanche pochi, a quanto sembra – che a Ponte a Elsa, in Toscana, vanno alle partite dei figli comportandosi da bulli curvaioli. Quei genitori davanti ai quali i figli, ragazzi di 8, 9 e 10 anni, hanno sventolato in faccia cartelli dal tenore inequivocabile: “Non rovinate il divertimento dei vostri figli”, “Genitori non litigate, fateci giocare”.
Un bel Daspo di quelli duri, con obbligo di firma quando i figli sono in campo. Siamo sicuri che alla stazione dei Carabinieri sarebbero d’accordo, specialmente se qualche milite ha il figlio che gioca e non ne può più, al pari dei genitori civili, molti dei quali – le testimonianze in proposito sono fin troppe – finiscono per scoraggiare i figli dal frequentare ancora quel pessimo ambiente. Meglio la pallacanestro o la pallavolo? No, nessuno sport di squadra si salva. E comunque un pingue drappello di genitori deve aver superato il segno, se l’Unione sportiva Ponte a Elsa ha deciso di non far scendere in campo le sue tre squadre domenica. Sciopero, con il benestare della locale Federazione e, pare, l’indifferenza delle altre società, a dimostrazione che per una società seria e responsabile, ce n’è un’altra – ci teniamo stretti – i cui allenatori sono parenti stretti di quei genitori, con cui se la intendono.
Il Daspo è una misura repressiva? No, preventiva. Serve a evitare guai peggiori. Serve a far riflettere, nella speranza che i rei ne siano ancora capaci e facciano autocritica, anziché incattivirsi ancora di più. Il Daspo della Val d’Elsa non servirebbe allo spettacolo, alle tv o al carrozzone del calcio, ma ai ragazzi. Molto, moltissimo prima del fragile diritto dei genitori di assistere ad allenamenti e partite, rigurgitando insulti e “consigli”, fino a venire alle mani, c’è il sacrosanto diritto dei ragazzi di poter fare in pace quello che chiedono: giocare. Il problema è tutto lì. I ragazzi hanno il diritto di giocare e certi adulti, anziché garantire loro quel diritto, lo impediscono. Perché? Perché sono maleducati come tutti coloro che vivono ripiegati su stessi, con gli altri a loro uso e consumo. I figli “servono” a gratificare i genitori; il contorno – allenatori, avversari e arbitri – dev’essere compiacente; e se ciò non accade, scoppia la rabbia.
A ben vedere, la piccola storia di Ponte a Elsa è emblematica di un clima generale. Il Daspo ai genitori? Vi chiedete se facciamo sul serio? Ce lo domandiamo pure noi. Certo il Daspo sarebbe più equo della decisione traumatica dello sciopero, che comunque impedisce ai ragazzi di giocare. Giocare, non imparare a diventare divi per far soldi. Non assecondare le paranoie dei grandi. Fateli giocare. Se imparano a giocare bene a 10 anni, c’è qualche possibilità che un giorno diventino adulti sul serio, lavoratori onesti, genitori generosi. Persone per bene.
(Da Avvenire, 15 dicembre 2007)
Il consumismo seppellisce le nozze. La prima Fiera mondiale del divorzio
“Il giorno più bello della tua vita? Quello del tuo divorzio”. Purché, premette Anton Barz, “la cosa avvenga in modo amichevole”. Aggiungiamo: professionale. A tal fine Barz, che organizza a Vienna la prima fiera mondiale del divorzio, mette a disposizione i migliori esperti sul mercato, dagli investigatori privati che spiegano perché è utile e ragionevole spiare la propria moglie o il proprio marito, agli avvocati con i loro consigli su come divorziare senza inutili conflitti; dagli psicologi che suggeriscono come rendere la cosa meno dolorosa possibile per i parenti e gli eventuali figli, al medico legale esperto in test di paternità. Infine, alla fiera ci saranno anche gli agenti patrimoniali, perché se finisce il matrimonio non finisce certo l’amore, anzi la fiera si chiama “Nuovo inizio”.
Che il divorzio fosse un formidabile business e contribuisse all’impennarsi del Pil già lo sapevamo. Ed anzi abbiamo sempre avuto il sospetto che i primi a gufare contro Pcs, Dico, Cus e simili fossero loro, quanti si arricchiscono nel dissolvere legami indissolubili. Per attirare i clienti, ci sta pure che venga fatto balenare il miraggio del “giorno più bello della tua vita”, più del matrimonio; più di quando è nato tuo figlio; più dello scudetto vinto dalla tua squadra in barba a Juve-Milan-Inter. Tutto è mercato e profitto. E i potenziali clienti sono un esercito. Nell’Unione europea avviene una separazione ogni 33 secondi e in Italica c’è un divorzio ogni 4 minuti. Quanto al signor Barz – “felicemente sposato” fa sapere: la fiera dunque non lo riguarda direttamente – non è certo il primo a provare ad arricchirsi. In Germania, da un anno l’ex agente assicurativo Bernd Dressler s’incarica, dietro lauta parcella, a informare sposi e amanti che il partner non li vuole più. “Terminator dell’amore” lo definirono i giornali. Un vero killer: nei primi due mesi di frenetica e benemerita attività, aveva recapitato ben 120 avvisi di abbandono. Mercato: Dressler ha capito quanto scomodo e imbarazzante sia dire addio al proprio partner, e quanto possa essere conveniente affidarsi a personale specializzato. Poiché è meno stressante farsi lasciare che lasciare, ma trovarsi l’amante e farsi scoprire è stressante il doppio, sempre un anno fa a Londra l’artista Bj?rn Franke ha presentato l'”Imaginary Affair Kit”, una valigetta contenente segni di morsi, tracce di rossetto, capelli, profumo… insomma tutto l’occorrente per simulare un rapporto clandestino. Quanto ai figli, è uscito anche in Italia il libro “Save the Children” scritto, almeno così vogliono farci credere, dalla piccola Libby Rees, anni 10, contenente consigli ai coetanei per sopravvivere al divorzio dei genitori. Il libro aiuta i figli, forse; di sicuro ha procurato tante soddisfazioni a chi si è goduto i diritti d’autore.
Nessuno stupore per la fiera che c’è, dunque. Semmai stupore per la fiera che non c’è. Quella che non si affretta a seppellire i matrimoni, ma cerca di tenerli in piedi. Perché si investono senza parsimonia energie per sciogliere un legame, e non si fa quasi nulla per salvarlo, superando le crisi grandi o piccole e renderlo magari più saldo? Il sospetto è che la consumerist society ci abbia colonizzato perfino nei più profondi anfratti dell’anima. Bisogna consumare, non conservare. Gettare e cambiare, non riparare. Movimentare desideri, capricci e denaro. Le lacerazioni, i rimpianti, i dolori disseminati qua e là? Danni collaterali, signori. Non si può fare una frittata senza rompere le uova. Ecco, questa immagine del rompitore d’uova è la conclusione adeguata per un articolo su Barz e la sua fiera.
(Da “Avvenire”, 28 ottobre 2007).
I media si parlano addosso? Più libertà, più verità: parola del Papa
“La verità si scopre quando gli uomini sono liberi di cercarla”. Queste parole di un grande presidente americano, Franklin D. Roosevelt, furono dette 71 anni fa. Eppure funzionano benissimo anche oggi, per commentare il tema della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del prossimo 4 maggio: “I mass media tra protagonismo e servizio. Cercare la verità per condividerla”. Roosevelt condusse in guerra la sua nazione anche per garantire a tutti, non solo agli americani, il diritto e la libertà di cercare la verità. Come noi stiamo usando questo diritto e questa libertà dovrebbe essere oggetto di un dibattito di alto profilo e sicuro profitto (di tipo morale; l’invadenza del denaro è un problema, non la soluzione). Sperando di essere smentiti, temiamo invece che non se ne farà niente, perché nell’occasione il Papa non evoca nessuna esse fatale: né sesso, né soldi, né sangue. Quindi è assai probabile che sarà ignorato.
La verità va cercata, sapendo che abbiamo mappe incerte e strumenti inadeguati e che nessuno può dirsi geneticamente immune da pregiudizi e passioni. E va cercata non per il gusto narcisistico di possederla o per piegarla ai propri interessi, ma per condividerla, affinché tutti possano essere un poco più liberi. Un esempio – piccolo, di ieri – non guasterà. Su Radio 3, a Primapagina, la rassegna stampa del mattino, si evoca il Papa che parla di “diritto all’obiezione” per i farmacisti. Vengono citati, da Repubblica e Corriere, il commento di Michele Serra, l’intervista alla ministra Livia Turco e il parere di Umberto Veronesi. Un ascoltatore “offeso” telefona, lamentando che “il Papa non si esprima mai a livello europeo”. La conduttrice replica: “Sono d’accordo con lei”. Bella ricerca della verità e bel servizio agli ascoltatori. Opinioni tutte contrarie e una notizia falsa, perché il Papa si rivolgeva al congresso internazionale dei farmacisti, quindi a livello mondiale.
Per cercare la verità con qualche speranza di coglierne almeno qualche pezzo, bisogna tenere aperti gli occhi, le orecchie e il cuore. I mass media, oggi, svolgono spesso un cattivo servizio perché sono pigri, ascoltano solo se stessi e si parlano addosso. Quanto al cuore, quello se ne sta ben chiuso nel portafoglio. I cittadini, poi, non sono trattati da persone detentrici di diritti, tra cui quello di cercare liberamente la verità anche con il fondamentale contributo dei mass media, ma sono il gentile pubblico da lusingare, il luogo di ogni retorica. La frase “i miei lettori” non è intesa nel senso nobile dei “lettori dei quali sono a servizio”, ma nel senso utilitaristico e commerciale dei “lettori che vendo alle aziende per la pubblicità”; non cittadini, desiderosi di essere liberi di cercare la verità, ma carne da cannone nella battaglia quotidiana dell’audience.
Per questo la vera grande sfida, nella quale i cattolici si sentono in prima linea, è per la democrazia e la libertà. Chiediamo che tutti possano esprimersi, senza intimidazioni, senza elenchi degli argomenti proibiti. Chiediamo varietà e pari dignità di voci. Mark Twain, maestro in ironia, celiava: “La verità è la cosa più preziosa che abbiamo. Economizziamola”. Prendiamolo sul serio: la ricerca della verità costa? Nessun prezzo è troppo alto quando è in gioco la libertà.
(Da “Avvenire”, 31 ottobre 2007).
Tutti soli sul fronte dei prezzi. Dopo lo “sciopero della pastasciutta”.
Bastonato, impotente, frustrato. Ti senti così ogni volta che vai a fare la spesa. Voci di due signore sulla sessantina colte proprio ieri nel supermercato di una cittadina del nord: “Le zucchine a 2.25? Ma ieri erano a 1.80”. “La nostra pensione però non aumenta”. Confermo: cresce tutto, un poco alla volta, in punta di piedi; tutto, non solo la pastasciutta nel cui nome, e nel cui potente simbolo, si sciopera, sapendo che la Maria Antonietta di turno mormorerà con nonchalance: “Mon Dieu, non mangiano la pasta? Si facciano un risottino”.
Bastonati e con il senso di colpa. Vivi la più classica sindrome veneziana – l’acqua sale, sale, sale e tu non puoi certo alzare la tua casa, puoi a malapena procurarti un nuovo paio di stivaloni da pescatore, quelli ascellari – e non capisci. Ad esempio: se il dollaro vale sempre di meno e l’euro vale sempre di più, me avremo dei vantaggi; tutti noi, non solo gli Stati, le banche, i finanzieri. E invece niente. Il barile di petrolio sale più di quanto scenda il dollaro. E le esportazioni languono. Calerà almeno la Cocacola? Macché. Anzi sì, ma soltanto se ne acquisti sei bidoni da due litri cadauno in un colpo solo, sai che muscoli a trascinartela su per le scale. Davvero ti senti in colpa. L’inflazione, ti assicurano sbattendoti sotto il naso tabelle e grafici, è prossima allo zero. Dunque sarò io che non so organizzarmi. Io con il contratto scaduto da due anni. Io a caccia di tre-per-due. Io novello Ulisse con la cera nelle orecchie e i paraocchi da cavallo per resistere alle sirene dell’acquisto d’impulso, tutti quegli snack sugosi, quei rasoi quinquilama con ammorbidente e schiumogeno, la caramellina, la patatina, il cioccolatino accanto alla cassa: merci definite “inutili” soltanto da chi ignora il loro potere ansiolitico, tanto formidabile quanto illusorio.
Ti senti in colpa anche se sai di non avere colpa alcuna, anzi di essere un eroico resistente. Ti senti soprattutto solo. Il rito collettivo della spesa, che ti costa ogni giorno un euro in più, è in realtà un’esperienza solitaria, senza solidarietà, durante la quale ognuno rimane chiuso in se stesso e lancia occhiate furtive nel carrello altrui pensando: come può un tipo del genere permettersi prodotti del genere? Con l’inizio della scuola ai sensi di colpa subentrano la frustrazione e, in rari casi fortunati, l’esultanza. Dispiace che la storica cartoleria del centro, odorosa di inchiostri, chiuda e svenda per cedere il posto all’ennesimo store del solito stilista. Però che razzia di quaderni e quadernoni, matite e matitoni, gomme e temperini. Un amico è tornato deluso dalla Grecia: in un paesino della Tessaglia confidava di acquistare quaderni a prezzo stracciato, ma si è accorto che costavano più che all’Upim. Ci sentiamo bastonati, impotenti e in colpa, però ci ingegniamo e resistiamo. I libri? Usati. La soluzione drastica? Trasferirsi nel Trentino, dove te li danno in comodato (nel resto d’Italia è proprio impossibile?).
? brutto dirlo, ma un poco viviamo di rimpianti. C’è chi rimpiange il Cip, il Comitato interministeriale prezzi, che dirigeva e controllava. Chi rimpiange la scala mobile ma non lo dirà mai per non ricoprirsi di ridicolo. E chi rimpiange il tempo cui, noi italiani che buttiamo fortune in acqua minerale, ci abbeveravamo dall’umile rubinetto… Alt! L’acqua potabile è ottima. C’è chi la sta riscoprendo e, con una concessione alla nostalgia, la corregge con la frizzina. Giusto per spendere un paio d’euro alla settimana e ringalluzzire il Pil.
(Da “Avvenire”, 14 settembre 2007).
Della pubblicità ingannevole e di tutti gli altri inganni.
Promette quel che non può mantenere. Dice il falso? No, si limita a non dire tutta la verità, celando quel che non gli fa comodo. Ad esempio, spaccia per definitivo ciò che è temporaneo… Chi sarà mai, questo seduttore con così poca fantasia da adottare le tecniche stagionate dei seduttori d’ogni epoca, vecchie e stravecchie eppure sempre buone, visto che ieri come oggi funzionano? Il seduttore è una seduttrice e si chiama pubblicità ingannevole. Nei primi sei mesi dell’anno, l’Antitrust le ha rifilato 2,18 milioni di euro in multe, per un totale dal 2005 al giugno scorso di 7,30 milioni. In questi ultimi due anni sono stati esaminati 385 casi, riscontrando 344 violazioni.
Quasi un terzo delle violazioni vanno attribuite al principe dei seduttori, il telefonino (e le telecomunicazioni in genere). Seguono il turismo e i prodotti finanziari. Al quarto posto i prodotti dimagranti che in proporzione possono però vantare le multe più severe perché, spiega l’Antitrust, chi ha problemi di peso si trova in una “particolare debolezza psicologica”.
I consumatori tirano un sospiro di sollievo: c’è chi pensa a noi anche quando noi non pensiamo a noi stessi, perché si sa che i consumatori che chiedono per l’appunto di essere sedotti sono innumerevoli (però non diteglielo, non lo ammetteranno mai). I pubblicitari seri un po’ si rallegrano e un po’ si inquietano, perché il rischio è che nel calderone dell’esecrazione finiscano anche le campagne serie e corrette e soprattutto quelle autoironiche, le uniche sicuramente esenti dal virus dell’inganno. Ironia… In effetti la vicenda è ironica assai perché, a ben guardare, l’intero ampio settore della pubblicità asservita agli interessi del mercato è fondata su un inganno di fondo. L’Antitrust fa bene a smascherare e colpire chi non rivela dettagli decisivi di offerte speciali e contratti, o ti fa credere di andare in vacanza in paradisi terrestri che poi si rivelano mediocri purgatori. Ma la pubblicità che si propone come unico scopo far spendere denaro alla gente, ridotta alla stregua di consumatori da spremere, gioca sull’antico inganno di farci credere che il possesso di un prodotto sia decisivo per la nostra felicità; e non possedendolo saremo infelici, fuori moda, socialmente esecrati. Questo inganno di fondo, culturale, può essere perpetrato anche da una pubblicità che formalmente “non inganna”.
Brava l’Antitrust e bravo il Garante, dunque. Che ci tutelano dalla pubblicità ingannevole e comminano multe salate. Ma da tanti altri inganni temiamo di dover continuare a difenderci da soli. Come tutelarci dai politici ingannevoli che promettono e non mantengono, o perché non hanno intenzione di mantenere promesse realizzabili, o perché le loro promesse erano tanto mastodontiche quanto impossibili? Avendo memoria lunga e ricordandoci di loro alla prima occasione in cui ci chiederanno il voto. E come difenderci dalla tv ingannevole, quella che spaccia per realtà la finzione, quella delle patacche, dei reality e dei fiumi di lacrime, dei pacchi e dei quiz taroccati? Non guardandola e invitando a non guardarla. Pretendere che qualcuno li multi è forse eccessivo. E poi una multa possono anche permettersi di pagarla. Ma conoscendo il loro narcisismo, ignorarli sarà la sanzione peggiore. Pubblicitari, politici e telemandarini ingannevoli: essere guardati è il loro scopo? Clic, spegniamoli.
(Da “Avvenire” del 14 agosto 2007).