IMPOSSIBILE VIVERE PER SÉ STESSI

A. von Menzel, “Il laminatoio di ferro”, 1875,
Berlino, Staatliche Museen, Fonte Wikipedìa

Trasformazioni produttive, economiche e sociali

Con la prima industrializzazione, che interessò prevalentemente il settore tessile-metallurgico del secondo 700, e con la seconda rivoluzione industriale, con l’introduzione dell’elettricità e dei prodotti

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“MAMMA CHI HA FATTO QUESTA COSA?”

Gruppo del Catinaccio – Fonte Wikipedìa

“In questo intervento Luigi Giussani descrive la dinamica del senso religioso: si parte sempre dalla realtà, dall’impatto con qualsiasi realtà che ci colpisce per porsi domande sulla natura della realtà stessa. Il senso religioso, per don Giussani, è la ragione in quanto capace di diventare cosciente della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. L’estratto è tratto da: Nell’incontro con quell’uomo la percezione del Mistero, un inserto di

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E la scienza scopre il valore dell’astinenza

“La Santa Sede […] in nessun modo promuove l’uso di tecniche contraccettive come misure di pianificazione familiare o per programmi di prevenzione dell’Aids”. Queste parole, pronunciate da Philip J. Bené il 22 novembre scorso di fronte alla terza commissione dell’Assemblea generale dell’Onu, sono l’ennesima conferma che in tema di lotta all’Aids la Chiesa cattolica continua a promuovere quell”umanizzazione della sessualità a cui Benedetto XVI ha più volte fatto riferimento. Bené fa parte dello staff vaticano presso le Nazioni unite – come è noto la Santa Sede all’Onu ricopre il ruolo di osservatore permanente – istituzione presso laquale indubbiamente prevale l’approccio che vede nell’uso del preservativo la strada maestra nella lotta all’Aids.

Le affermazioni di Bené sono ancor più dense di significato se si considera che sono arrivate a ridosso del viaggio in Benin del Santo Padre, in occasione del quale è stata resa pubblica l’esortazione apostolica Africae Munus che affronta negli stessi termini le questioni legate all’Aids. L’approccio proposto dalla Chiesa cattolica, che richiama al primato dell’educazione sulla tecnica, trova ormai pieno diritto di cittadinanza all’interno della comunità scientifica, in seno alla quale ai dubbi sui programmi finanziati dall’occidente si associano i successi registrati da campagne che puntano a veicolare messaggi sull’efficacia di comportamenti sessuali quali astinenza e fedeltà. Quest’anno, prima una pubblicazione su Plos Medicine che mostrava un calo del contagio in Zimbabwe legato ad un cambiamento delle abitudini sessuali, poi un articolo suLancet che associava all’uso di un contraccettivo ormonale femminile una maggiore probabilità di contrarre il virus dell’Hiv, hanno suonato come campanelli d’allarme per i programmi di prevenzione dell’Aids e controllo demografico elaborati a livello internazionale. Risale poi al 25 novembre scorso l’annuncio da parte del-l’Istituto nazionale di sanità statunitense dello stop deciso per un trial clinico che prevedeva l’uso di un gel vaginale per evitare il contagio da Hiv. Il gel, denominato Voice, non ha dato i risultati sperati: è stataregistrata infatti la stessa incidenza del virus tra le donne che lo usavano e quelle a cui veniva somministrato un placebo. Negli Stati Uniti, il dibattito suimodi migliori per fermare l’epidemia di Aids è sempre di stretta attualità: è del luglio scorso una lettera con cui 40 membri della Camera chiedevano che la metà dei fondi destinati all’educazione sessuale fosse dedicata a progetti basati sul concetto di ‘risk avoidance’ e dunque sull’educazione all’astinenza. A settembre, una legge che prevede la riallocazione di fondi per promuovere l’astinenza ha iniziato l’iter al Congresso degli Usa. Durante la presidenza Obama, infatti, sono stati tagliati gran parte dei fondi che con Bush erano stati stanziati per promuovere la sensibilizzazione su comportamenti sessuali responsabili. Le perplessità di chispinge sull’uso del condom sono dettate dall’effettiva capacità, soprattutto per gli adolescenti, di recepire i messaggi riguardanti il rinvio dell’inizio della propria attività sessuale. Nel febbraio 2010, uno studio condotto da ricercatori dell’Università della Pennsylvania e pubblicato su Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, evidenziava come da interventi educativi basati solo sull’astinenza si ottenesse che gli adolescenti ritardassero il debutto sessuale. Lo studio mostrava come, nei primi due anni dopo l’educazione ricevuta, la percentuale di giovani al primo rapporto scendesse di 15 punti rispetto alla media di coloro ai quali non veniva comunicato il valore dell’astinenza. Che messaggi di questo tipo abbiano la possibilità di essere recepiti e non siano solo teorie fallaci alla prova dei fatti lo conferma Alberto Piatti, segretario generale di Avsi: “La nostra fondazione da molti anni è impegnata in Africa per la cura e la prevenzione dell’Aids e sicuramente il linguaggio che parla al cuore dell’uomo, in quanto universale, rende possibile rivolgersi al popolo africano “. Avsi ha condotto un progetto decennale di prevenzione materno-fetale che ha coinvolto circa duecentomila mamme e fatto nascere 4713 bambini non contagiati dal virus, sul quale è stata realizzata una mostra che proprio oggi verrà presentata in Campidoglio a Roma.

Da Avvenire, 1 dicembre 2011

“La vita è un’avventura, rischiala” (M. Teresa di Calcutta)

Ogni tanto arrivano buone notizie anche da fonti da cui non ci aspetteremmo granché e questo fatto genera sempre una fiammella di speranza: significa che non tutto è perduto!

Nello specifico, in questi ultimi giorni due settimanali – che, peraltro, devo confessare, ho sempre guardato con spocchioso disprezzo – hanno catturato la mia attenzione: Vanity Fair e Diva e Donna. In entrambe queste riviste,infatti, viene fatto riferimento al tema dell’aborto in maniera “politicamente scorretta”, almeno per l’odierna società.

Su Vanity Fair numero 47, datato 30 novembre 2011, è dedicato un ampio spazio ad un’intervista fatta alla cantante italiana Giorgia: fin qui, nulla di strano.
Tuttavia dalla domanda: “La maternità l’ha cercata o è stata lei a cercarla?” scaturisce uno spunto degno di nota. Giorgia, infatti, risponde così: “Tutte e due le cose. Per anni diventare madre è stata una specie di ossessione: e lì è davvero l’uomo che fa la differenza. Ho avuto due aborti spontanei, rischiavo di ricadere dentro a un meccanismo malato di autocompiacimento della sofferenza. Ma Emanuel (suo compagno e padre di suo figlio Samuel, nato il 18 febbraio 2010, ndr) anche in quell’occasione non si è lasciato abbattere. E proprio perché è l’anima che fa il corpo, quando abbiamo smesso di pensarci sono rimasta incinta”.

Ebbene, in queste poche frasi, pronunciate in un hotel di Milano, sono racchiusi tre concetti che generalmente non trovano spazio nella nostra società.
La prima sottolineatura riguarda il ruolo determinante, troppo spesso negato e vilipeso, che l’uomo svolge nella maternità. Per una donna avere accanto un marito che è disposto a condividere con lei le ansie e la difficoltà che sono insite nell’avventura di generare un figlio e che la aiuterà a crescere il frutto del loro amore non è un fatto per nulla accessorio o ininfluente. Essere in due conta moltissimo, e questo sia per l’equilibrio dei genitori, come si diceva, che per quello del bambino.
Il secondo aspetto importante, per altro solo accennato da Giorgia, riguarda il dolore che si nasconde dietro l’aborto. Troppo spesso e per troppi anni, si è tentato da più parti di far passare il concetto che abortire sia un fatto della vita come un altro, quasi come togliere un dente: può spaventare o fare male sul momento, ma poi lo si dimentica. Beh, non è affatto così, e sempre più studi acclarano come vi sia una vera e propria “sindrome post-aborto”, che si sviluppa secondo diversi gradi di intensità e di durata temporale a seconda delle situazioni psicologiche, sociali e culturali da cui proviene la donna che è andata incontro – volontariamente o meno – alla perdita del proprio bambino.
Il terzo ed ultimo punto celato dietro le parole della cantante italiana riguarda il problema della fertilità. Oggigiorno sono sempre di più le coppie che non riescono ad avere figli: come mai? Sicuramente vi sono delle componenti ambientali, fisiche e sociologiche che determinano una maggiore incidenza del tasso di infertilità, ma nascondersi dietro queste giustificazioni non sempre appare sufficiente. ? difatti documentato come, nell’atto del concepimento,la psiche umana svolga un ruolo di fondamentale importanza. Moltissime coppie non riescono ad avere figli perché sono sommerse dall’ansia di averne uno, o perché vivono una situazione di particolare stress; tuttavia appena smettono di provare ad averne un bambino, ecco che questo arriva. Questo fatto dovrebbe spingere molte coppie a riflettere seriamente sulle reali cause della propria infertilità prima di sottoporsi a strane terapie o di fare ricorso alla fecondazione artificiale…

Il secondo articolo degno di menzione è apparso su Diva e Donna numero 47, del 29 novembre 2011.
Il settimanale in questione riporta una notizia-scoop: “Dopo pochissime settimane di gravidanza, Belen ha perso il suo bambino”. Esatto, c’è scritto proprio “bambino”. La neolingua, la cultura della morte, quella che ha tentato in tutti i modi di far passare la favola (pessima) de “l’embrione è solo un grumo di cellule”, questa volta ha dimostrato con le proprie stesse affermazioni che la verità è tutt’altra.
Un embrione di quattro settimane – che è all’incirca il momento in cui la donna si accorge del ritardo – ha già un cuore che batte… altro che grumo di cellule! E a testimoniarlo sono le ecografie, non le supposizioni di alcuni fanatici pro-life (magari pure maschi).
La vita inizia al momento del concepimento: poco importa se il bambino comincerà a respirare da solo soltanto nove mesi dopo, al momento della nascita; oppure se comincerà a parlare soltanto due anni dopo; o se inizierà ad essere parzialmente autonomo soltanto sei anni dopo e via dicendo. Un individuo di due ore ha la stessa dignità di vivere di un bambino di dieci anni, di un adulto di trenta e di un anziano di ottanta.

Come diceva Madre Teresa di Calcutta: “La vita è la vita, difendila”.

Le “gambe” giuste per arrivare primi nella gara del lavoro

Francesco Sansone

Ogni professione esige, nella sua specificità, un certo livello di conoscenze, abilità, capacità e, soprattutto, di passione. Il valore rivestito dalla passione spicca, nel campo lavorativo, specie in quelle professioni, sempre più frequenti, per qualche verso caratterizzate da elementi comuni con il fare impresa, in cui al lavoratore viene richiesta una particolare dote di flessibilità, sia pure temperata dalle regole professionali, oltre che dal rispetto dei ruoli aziendali. Aristotele, nel secondo libro dell’Etica Nicomachea, definisce la passione una delle tre componenti fondamentali della personalità insieme alle capacità e disposizioni. In particolare, associa alla passione il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere e dolore.
Egli parla dei contenuti delle passioni intese come dotazioni naturali dell’uomo, alle quali non è sensato attribuire valutazioni morali. Aristotele chiama virtù e vizio rispettivamente la felice riuscita o la mancata riuscita dell’alleanza tra passione e ragione. La passione è, quindi, un fattore costitutivo della persona, ma attende di ricevere dalla ragione ordine e forma.
La passione, pur nella sua ambivalenza, si connota essenzialmente come tensione verso un obiettivo che per sua stessa natura non può durare all’infinito: è un movimento che indica un inizio, uno slancio, cui può seguire – o non seguire – un certo tipo di percorso a esso strettamente correlato. Chi prova passione porta, anzitutto, la sua completa attenzione ai propri obiettivi e vi si applica al massimo dei gradi possibili: gli appassionati hanno scoperto il lavoro che li eccita e trovano il modo di rendere la loro vita emozionante, meaningful, and special. significativa e speciale, progettano e mettono a fuoco iniziative concrete adatte al tipo di contesto specifico. Il rischio è inoltre una componente importante della passione, nella disponibilità di mettersi in gioco e aprirsi al nuovo e all’incertezza. Le persone appassionate sono sempre disponibili all’apprendimento, a reinventarsi ed esplorare cose nuove. ? molto importante ai fini della passione la convinzione che abbiamo circa la nostra capacità di creare e costruire con efficacia.
La passione è una caratteristica propria e irrinunciabile della leadership, in quanto per il suo intrinseco ed essenziale dinamismo e per la decisa coloritura emotiva irrobustisce la capacità di intrapresa. Infatti, tendere a un obiettivo, sia pure in modo non prettamente razionale, implica mettere a punto una qualsivoglia strategia.
Normalmente la passione connota lo stato iniziale di un’impresa e per la sua specifica natura rappresenta l’esigenza di integrarsi con la decisione e l’autodeterminazione per passare dal sogno al progetto, dallo stato nascente alla costituzione di un’entità. Non solo dell’impresa in quanto tale, ma di ogni nuovo inizio: nella fase di programmazione di nuove iniziative nell’ambito delle imprese di servizi o di nuovi prodotti nel contesto delle imprese industriali.
Se, come sostiene Aristotele, ciascuno di noi si identifica con le azioni compiute in modo sistematico, normalizzato e che assumono la parvenza di una seconda natura, di un’abitudine, allora, l’eccellenza e la professionalità non possono essere semplicemente un’azione, un qualcosa che capita, incidentalmente, una volta ogni tanto, ma un atteggiamento qualitativo costante, una competence attitude. Lo sanno bene gli atleti, che, per raggiungere i massimi livelli, devono sottoporsi a costanti sacrifici, a continui allenamenti per perfezionarsi in ogni movimento, in ogni gesto, lavorando su ogni dettaglio. Di fatto l’eccellenza si misura proprio nelle piccole cose, nelle sfumature, nei minimi particolari curati con passione.
In effetti, l’eccellenza è un sapiente insieme di passione e competenze, di errori e soluzioni, di sconfitte e vittorie, di progressi e intuizioni che si catalizzano generandola. Non è, dunque, casuale od occasionale, ma nemmeno stabile. L’eccellenza è analoga alla felicità: ci si avvicina con fatica e pazienza e, una volta raggiunta, non la si può conservare, ma va costantemente coltivata, migliorata. Così, l’eccellenza non è mai completamente in atto, ma sempre in fieri. Si tratta di un dover-essere, di un flusso, di un impercettibile mutamento verso un livello sempre più elevato.
In quanto appartiene al mondo emozionale, la passione non può certo essere suscitata a comando, né tantomeno copiata o imitata: la passione appartiene a ciascuno nel modo proprio della personalità, del carattere, della cultura e della sensibilità.

Il Sussidiario.net, 21 novembre 2011

Il femminismo è una perdita per tutti

Con questo articolo farò arrabbiare molte donne, e forse anche qualche uomo.

Perché? Semplicemente perché sono fermamente convinta che il femminismo – per come è stato concepito fino ad ora – non sia a favore della donna, bensì contro di essa.
Il femminismo sessantottino, infatti, più che porre l’accento sul valore intrinseco delle donne e sulle loro specificità, ha sempre mirato ad annullare le peculiarità delle donne, per appiattire la loro natura su quella degli uomini.

Faccio un esempio. Una delle battaglie delle femministe di vecchia data fu quella volta a permettere alle donne di compiere lavori maschili senza essere considerate in maniera negativa dalla società. Ebbene, non riesco a capire una cosa: perché mai il bel sesso dovrebbe sentirsi realizzato nel guidare un camion o nel poter andare in fabbrica? Solo perché lo fanno gli uomini? Mah…

Per loro natura, gli uomini sono pragmatici, sono capaci di dedicarsi totalmente ad una cosa, sono portati ad essere un punto di riferimento e, anche per costituzione fisica, sono più forti delle donne. Queste ultime, dal canto loro, hanno un’indole che le porta ad accogliere, a donarsi agli altri, a prestare attenzione al prossimo…

Tentare di far svolgere all’uno il compito dell’altro e viceversa, in nome di un ideologico egualitarismo, oltre ad essere un fatto che alla lunga non sta in piedi, è anche una convinzione che comporta molteplici perdite ai singoli individui e alla società stessa.

Insomma, il vero femminismo non è quello che porta le donne ad annullarsi e ad equipararsi al modello maschile, bensì quello che ha il coraggio di affermare che la natura femminile è differente da quella maschile e che anch’essa è determinante nella società.

Dietro ogni uomo c’è una donna (la madre, la moglie, la nonna, la sorella…), esattamente come dietro ad ogni donna vi è un uomo (il padre, il marito, il fratello…).
E se non vi fosse questa differenziazione dei ruoli chissà dove andremmo a finire.

L’università e la Nuova Evangelizzazione

Lo scorso nove novembre, il neo eletto Arcivescovo di Milano Angelo Scola, in occasione dell’inaugurazione dell’anno Accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pronunciato un discorso contente alcune interessanti considerazioni.

La riflessione di Scola prende il via da una frase che Benedetto XVI ha rivolto ai professori universitari nel corso dell’ultima edizione della Giornata Mondiale della Gioventù: “L’università è stata ed è tuttora chiamata ad essere sempre la casa dove si cerca la verità propria della persona umana”.

Una volta definito in maniera così chiara e limpida l’oggetto della sua prolusione, l’Arcivescovo si è soffermato ad indagare le tre caratteristiche tipiche dell’università intesa in senso cristiano, ossia: il suo carattere pubblico, la sua stabilità e la sua universalità.
Sono, questi, gli aggettivi che la dichiarazione Gravissimum Educationis emanata dal Concilio Vaticano II riporta come attributi fondanti delle università cattoliche, ma che è possibile estendere anche alle realtà educative laiche, e vediamo subito perché.

Quando si parla di carattere “pubblico” dell’università si intende, spiega Scola, designare la disposizione dell’animo umano volta a cogliere la realtà nei suoi molteplici aspetti; infatti, “la conoscenza in senso pieno può avvenire unicamente se il soggetto si pone nei confronti della realtà con una sincera apertura e simpatia e non con un atteggiamento equivocamente neutrale. Ciò implica che non vi sia vera conoscenza se non vi è un vero coinvolgimento con la realtà che si vuole conoscere”.
Come conseguenza dell’apertura al reale emerge la disposizione del cristiano a confrontarsi con gli altri. Ma questo – è bene specificarlo – va fatto senza mai dimenticare dove stia la Verità e senza sottovalutare il compito di missione che e’ proprio di ogni battezzato.

Il secondo aggettivo, “stabilità”, mette in rilievo la dimensione propria del rapporto tra docenti e studenti, che dovrebbe puntare a costituire una comunità di vita, fondata sulla libertà, sulla carità e sul rispetto reciproco. È nel confronto, e non nel puro nozionismo, infatti, che la piena umanità dei singoli ha pieno sviluppo.

L’“universalità”, infine, “esprime anzitutto, in concreto, una tendenza all’integrità nello studio, nell’insegnamento e nella ricerca scientifica”.

In conclusione, il cardinale Scola ha posto l’accento sulla funzione evangelizzatrice dell’università, che dovrebbe portare docenti e studenti a riflettere sulle “esperienze fondamentali dell’uomo”.
Questa prerogativa appare oggigiorno particolarmente urgente in quanto, come ha recentemente affermato papa Benedetto XVI nel Motu proprio Ubicumque et semper, nella società attuale “[…] si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale”.

A questa situazione noi tutti siamo chiamati a porre rimedio, ognuno nel proprio ambiente e con le proprie capacità.

(Per leggere il testo integrale della prolusione dell’Arcivescovo Angelo Scola: http://www.chiesadimilano.it/polopoly_fs/1.49749.1320869286%21/menu/standard/file/Prolusione%20Inaugurazione%20Universit%C3%A0%20Cattolica%209%20XI%202011%20%283%29.pdf)

Lo chiameremo Facebook. E il bebè diventa oggetto

“Hai Facebook? “. “Certo che ce l’ho. Mio figlio è Facebook”. Il verbo “essere” non è un refuso di stampa ma è la vera e propria notizia. Nel giro di pochi mesi due coppie hanno chiamato il proprio figlio Facebook (qualche tempo fa nacque un bimbo di nome Yahoo).

La prima coppia è egiziana: si tratta di un omaggio al social network più famoso al mondo il quale ha reso possibile la coordinazione on line tra i vari gruppi di rivoltosi che hanno rovesciato il governo di Mubarak.

La seconda è brasiliana. In quello spazio virtuale si sono conosciuti e lì è sbocciato il loro amore fatto di milioni di bytes. In realtà il figlio di quest’ultima coppia si chiama esattamente Facebookson, cioè figlio di Facebook. Questo perché la preoccupazione degli ufficiali dell’anagrafe non era tanto rivolta al cattivo gusto dei genitori, ma alla possibilità che il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, potesse fare loro causa per questioni di copyright sul marchio. Il risultato è che questo bebè sembra essere più figlio di Zuckerberg che di mamma e papà.

Qualche considerazione. Innanzitutto ci mettiamo dalla parte di queste povere creature che dovranno per tutta la vita spiegare agli altri perché si portano appresso un simile castigo di nome. Soprattutto quando Facebook forse non esisterà più, dato che queste invenzioni informatiche durano meno di un governo della vecchia repubblica (chi si ricorda ad esempio di My Space, social network che guadagnò cifre da capogiro e che usavano tutti?). In secondo luogo non è proprio il massimo della vita chiamarsi “Annuario scolastico”, perché questo è la traduzione letterale del termine “facebook”. Infatti Zuckerberg prese spunto da questi annuari, nei quali ci sono tutte le foto degli studenti di un liceo o di un’università, per inventare la sua piattaforma. Infine è indubbio che i due piccoli diventeranno loro malgrado testimonial della creazione di Zuckerberg, spot viventi di questo prodotto.

E qui sta il punto. Si è deciso di assegnare un nome ad un essere umano che identifica un prodotto. E’ un altro segnale della cosificazione della persona (per la proprietà transitiva va da sé che ora agli animali diamo nomi cristiani). In particolare – e le pratiche di fecondazione artificiale e clonazione comprovano ciò – il figlio è percepito come “bene mobile”, oggetto magari di lusso che arrederà l’esistenza. Nuovo il figlio, nuovo il nome dunque a designare un “articolo” che prima non c’era. E se nascesse a queste coppie un secondo figlio, logica vorrebbe che si assegnasse loro il nome di Facebook.2, la versione avanzata. La generazione è ormai sottoposta ad update.

Ma questa vicenda dai tratti tragicomici è paradigmatica anche perché ci dà la misura di quanto stia accelerando il processo di scristianizzazione. Siamo passati in poco tempo dai santi ai numi tutelari virtuali. Fino a ieri si poneva al neonato un nome di un santo. Farlo era come vincolare quel cittadino del Paradiso a fare bene il proprio dovere di santo e cioè a proteggere il piccolo, nella speranza poi che potesse infondergli un po’ delle sue virtù. Appena venuti su questa terra già si pensava alla patria celeste, già si sottoscriveva con l’assegnazione del nome del santo un’ipoteca per il Cielo. Il santo-beato-martire di cui portiamo il nome, nella prospettiva cristiana, è un membro di un club esclusivo assai influente per gli affari terreni e il cui aiuto dunque deve essere sempre invocato. I piccoli Facebook a chi potranno mai rivolgersi? A Zuckerberg? E poi quando festeggiare l’onomastico? Il giorno di fondazione di Facebook?

Inoltre la prassi consolidata, almeno fino all’altro ieri, di scegliere un nome comune privilegiava più la tradizione che l’eccentricità. Il nome non veniva scelto perché di moda o perché “suona bene” o perché originale, bensì perché era il concentrato di una cultura sapienziale vecchia di secoli se non di migliaia di anni. Innanzitutto a motivo del significato del nome stesso: “Emanuele” Dio con noi, “Alessandro” protettore degli uomini, “Riccardo” audace, “Mirella” degna di ammirazione. Ora, ad essere sinceri chiamarsi “faccia-libro” è davvero assai svilente. In secondo luogo l’ultimo arrivato in casa portava in genere un nome che era appartenuto ad un suo ascendente, al fine di perpetuare in lui lo spirito di una famiglia. Un segno della continuità delle tradizioni familiari. Il nome così diventava intriso di affetto, pronunciarlo era evocare la stessa persona del nonno o dello zio che non c’era più.

La notizia dei genitori che infliggono questa condanna anagrafica ai figli si sposa bene con un’altra notizia simile proveniente dall’Inghilterra: lì si può cambiare nome al costo di 33 sterline (consigliamo ai piccoli Facebook di trasferirsi in Inghilterra appena possibile). Nel giro di un anno c’è stato un boom di richieste, con un’impennata del 30%. I motivi sono dei più vari: cercare di sfuggire ai creditori e al fisco, anglizzare il proprio nome se straniero, fondere in unico cognome quello della moglie e del marito. Ma ovviamente ci sono anche ragioni ben più bizzarre. Tra queste svettano gli omaggi allo star system. E così si contano 30 Michael Jackson, 5 Amy Winehouse, 15 Wayne Rooney e 5 David Beckham. Una sorta di sbattezzo a favore di nuovi santi popolari non canonizzati. Già era accaduto al tempo dei futuristi tra i cui adepti si trovavano figli chiamati Ascensore o, con meno ardimento, Luce. Anche i comunisti in spregio alla tradizione cattolica chiamavano i propri pargoli ad esempio Primo, Secondo, Terzo ed Ultimo: meglio i numeri che i beati.

Ma perché cambiare nome? Da una parte questa moda è espressione delle derive di un certo capitalismo libertario: come si cambia auto così il nome, se è superato, se c’è ne uno più in voga, se è più trendy. Ma facendo così il nome diventa un gadget, un accessorio e perde la sua specificità, cioè l’individuazione della persona, la caratterizzazione semantica di un’unicità.

D’altro canto tale prassi è forse sintomatica del fatto che non vogliamo più accettare di essere chi siamo. E’ segno che l’identità è percepita come un vincolo, un fardello di cui liberarsi. Se posso decidere di cambiare con la chirurgia plastica la mia faccia (la parte più identificativa di noi), il mio sesso, se posso scegliere di avere un figlio con gli occhi celesti e i capelli color dell’oro, perché non decidere di mutare ciò che nominalmente mi identifica? Sbarazzarsi del vecchio, non scelto da me, per far posto al nuovo. E’ solo il soggetto l’unico artefice della sua vita: l’imposizione da parte dei genitori del nome viene percepita come ostacolo alla propria libertà. Nasce l’autonomastica, l’autodeterminazione onomastica.

Da La Bussola Quotidiana , 24 ottobre 2011

Halloween, una farsa che si sostituisce ad una festa cristiana

di Adolfo Morganti

E così come ogni anno ci risiamo. Ma in effetti ogni anno è peggio. Il triste – perché totalmente ripetitivo – rituale consumistico di Halloween sta re-iniziando a riempire non solo la nostra sopportazione, ma i manifesti del McDonald, le attività delle scuole, e persino molte sale parrocchiali. Mentre svuota le nostre tasche. Attorno a quest’ultimo fatto (quante parrocchie “lasciano (quantomeno) organizzare” al proprio interno feste di Halloween?) c’è solo da rimarcare e stigmatizzare l’ignoranza religiosa che, soprattutto dentro la nostra chiesa particolare, grida scandalo sempre di più. In attesa che si intervenga.

Per quanto concerne l’orgia di consumismo infantile ed adolescenziale cui Halloween si riduce, nulla da dire: come ogni moda che giunge dagli USA, possiede evidentemente una capacità di condizionamento sociale che oltrepassa le capacità d’analisi razionale di troppi di noi; se è razionale andare in giro (parlo delle ed alle signorine) ad ombelico nudo nella stagione fredda, può essere accettabile anche travestirsi da zucche o fantasmi.

Ma nella scuola, momento centrale della formazione delle giovani generazioni, obbligo pubblico cui sono tenuti i nostri ragazzi fino ai 18 anni, non si può scherzare con l’ignoranza né prostituirsi a mode create per diffondere superstizione e far soldi. E’ semplicemente allucinante la prona e sorridente passività con cui questa moda culturale viene non solo accettata, ma attivamente promossa in troppe scuole pubbliche, dagli asili in su; come se fosse una moda neutra (e nessuna lo è) e come se non incidesse sui valori trasmessi.

Ora, solo chi non conosce il grande potere della Festa può pensare una fesseria simile. Halloween porta con sé un messaggio doppiamente negativo: acquiescenza totale al consumismo più sfrenato e marchiano (per favore, non si ciarli poi di “stili di vita” e di “maturità” dei ragazzi), e allenamento sistematico al peggiore dei relativismi, quello che volutamente confonde la Luce e l’Ombra, Dio e l’occulto, una cosa e il suo contrario. Viene da rimpiangere il sano materialismo di 40 anni fa. Qui siamo al culto della parodia, all’inversione del sacro. E si tratta spesso di una scelta prettamente ideologica, da radicalismo di massa, finalizzata a terminare la distruzione della vita liturgica cristiana, sostituendo ad essa la migliore delle liturgie della modernità, quella della magia e del denaro.

Halloween sta finendo di cancellare una festa familiare e religiosa così importante come la Festa dei Defunti. E guardate un po’: nessuno leva la voce per protestare contro di essa in nome del rispetto delle altre religioni… Provate a vedere in quelle scuole che hanno cancellato in nome di un pluralismo imbecille e in malafede la presenza dei segni e delle feste cristiane se Halloween non viene semplicemente imposto dall’alto, leninisticamente, e per giunta difeso come “innocuo momento ludico ed educativo”.

Ma sappiamo bene che il gioco è cosa serissima, così come l’educazione. Non ci si prenda ancora in giro. Buttiamo a mare le zucche. Diamo fuoco agli stracci stregoneschi e alle maschere di plasticaccia cinese. E dopo averlo fatto, andiamo a raccontarlo ai nostri morti tornando a trovarli ove riposano in attesa della Resurrezione della carne. Ci daranno ragione: loro sì che se ne intendono.

da Cultura Cattolica

21 ottobre 2009

Strani moralisti

Marianna Rizzini, sul Foglio di sabato 7 ottobre, ha raccontato le indagini sul professor Aldo Schiavone, già direttore del Sum, l’Istituto italiano di Scienze umane di Roma. Tre paginate per spiegare “quanto ci è cara la cultura”, a partire da un caso volutamente poco celebre, ma assai significativo.

Quanto ci è cara? Dovrebbe essere noto a chiunque abbia messo piede in un’università, o in un assessorato alla cultura. A chiunque abbia sperimentato un poco come nel nostro paese vi siano una serie di soggetti e di associazioni, spesso legati a doppio filo con la politica, che organizzano eventi “culturali”, presentazioni di libri, incontri spesso di dubbio valore, ma immancabilmente con i soldi dei cittadini. E con tutto il corollario di rimborsi viaggio, rimborsi albergo, gonfiati, che ci gira intorno.

Ma torniamo al professor Schiavone. Sarebbe davvero bello che le accuse, numerose e circostanziate, cadessero nel nulla. Che le limousine pagate con i soldi pubblici, dal professore marxista, “per lavoro”, per il bene delle scienze umane, si rivelassero, in verità, umili autovetture proletarie, adatte solo per inevitabili spostamenti. Chissà. Magari persino gli alberghi di lusso, i pranzi sontuosi, i viaggi prolungati, i fiori e tutto ciò di cui lo Schiavone, a sentire l’accusa, si è abbondantemente servito, risulteranno invece normali spese di lavoro. Non sono più, in fondo, i tempi di Diogene, che girovagava vestito solo con una botte, e che schifava i potenti, e neppure quelli di Socrate o degli asceti medievali. Oggi la cultura ci è cara assai e ci costa in proporzione.

Nel caso però si scoprisse che l’accusa dei magistrati è vera, allora si aprirebbe forse, finalmente, una finestra su una delle caste di cui si parla assai poco: quella dei professori universitari. Lungi da me generalizzare, ovviamente; e neppure voglio accodarmi ai cacciatori professionisti di caste, anche perché mi sembra che si tratti, sovente, di una guerra tra bande: in cui alla fine si scopre che chi conduce l’attacco, appartiene, due su tre, ad una lobby concorrente. Però è innegabile che uno dei pozzi neri, senza fondo, in cui il nostro paese viene risucchiato, è l’università pubblica: luogo, spesso, di concorsi pilotati, di sistemazione spudorata di parenti e clientes e di spese sovente inutili e sovrabbondanti. N

on si strappino gli abiti, le vestali della cultura. Abolire una buona parte delle cattedre universitarie, sforbiciare alquante delle spese inventate dai professori per pubblicare libri altrimenti impubblicabili o per invitarsi a vicenda da una università all’altra, potrebbero essere operazioni molto utili al paese intero Detto questo, il moralismo di oggi, è più che mai una moneta falsa. Se l’accusa a Schiavone fosse vera, lo dimostrerebbe una volta di più.

Il professore, infatti, è un predicatore di “Repubblica”: i suoi bersagli preferiti sono la Controriforma, che secondo un ritornello tanto sciocco quanto ripetuto avrebbe rovinato l’Italia, rendendola un paese cattolico e quindi arretrato, e l’attuale “disastrosa deriva di comportamenti” e di etica. Ora se è vero che per scrivere su Repubblica non si può non rimpiangere il buon tempo antico, ante Berlusca, quando le persone non parlavano al conducente, i treni arrivavano in orario e tutti veneravano la Costituzione, è anche vero che vivere coerentemente di imperativi categorici fondati sul nulla, sebbene urlati con foga, non è poi molto semplice. Cosa è la legge, infatti, in un tempo in cui tutto è sottoposto a maggioranza e nulla è mai dichiarato santo e venerabile per sempre? Cosa è morale, nell’epoca del relativismo etico, in cui tutto è lecito, tranne qualcosa la cui iniquità è stabilita, di volta in volta, non si sa in fondo perché, in base ad una instabile convenzione mediatico-politica? Quali sono i comportamenti condannabili, per un giornale, quello di Schiavone, che condanna l’immoralità, vera, di un avversario politico, ma lotta ogni giorno perché ogni concetto di vero e di giusto oggettivi scompaia dalla nostra mente.

La storia di Schiavone, se vera, sarebbe esemplare: da una parte le prediche, dure, savonaroliane, dall’altra la vita di tutti i giorni, molto meno intransigente, specie quando si tratta non di altri, ma di se stessi. C’è un’ultima considerazione da fare: la vacuità di molti uomini di cultura odierni. I Mancuso che vogliono “rifondare”, loro, al computer, nientemeno che la fede di Agostino e Tommaso; gli Augias che, consultando internet, tentano di ribaltare i fatti storici più acclarati; gli Schiavone o gli Eco che, non potendo mettere la loro intelligenza al servizio di Dio, e della Verità, cui non credono, costruiscono prediche buone per l’effimero palcoscenico del mondo e per gli applausi immediati del Palasharp.

C’è un sapere che è premio a se stesso, perché ricerca, appagante, di Verità; e ce n’è un altro, erudizione e vanagloria, più che sapienza, che ama mettersi sul palco perché non può aspirare a nulla di più; che ha bisogno di penne di pavone, di foto sui giornali, di pranzi cosmopoliti e di continui “viaggi di lavoro”, se possibile in limousine, perché più in alto è ormai impossibile andare. Il Foglio, 13 ottobre 2011