MA QUELLA NON ? UNA FAMIGLIA

Riportiamo dal Trentino di oggi, la lettera di Antonio a Beccara

Non è la fede che mi porta a formulare un giudizio negativo sui cosiddetti Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), ma una naturale ripugnanza a considerare ‘famiglia” anche quella che non rientra nel quadro costituzionale. Non è un’istanza religiosa quella che mi impedisce di considerare famiglia una convivenza fra omosessuali. Piuttosto è una riflessione di carattere culturale che mi spinge a tutelare e difendere anzitutto la famiglia tradizionale. La controprova di ciò è che, se la mia fosse una scelta religiosa, rifiuterei anche le Unioni civili, ciò che non mi passa nemmeno per l’antica mera del cervello (anche se soffrirei moltissimo se i miei figli non si sposassero in chiesa). Non ho dubbi che alcune garanzie e diritti debbano essere riconosciute anche alle unioni di fatto, soprattutto a quelle omosessuali. Capisco meno le ragioni di chi, pur potendolo fare, rifiuta il matrimonio ma in pari tempo pretende le garanzie che possono giocare a suo favore. Mi riconosco, come già per il caso Welby, nella linea, se si può chiamare così, del Cardinal Martini, che desidera una Chiesa conoscitrice della realtà umana, vicina alle situazioni familiari del nostro tempo, che a tutti dia una mano ed offra, accanto al messaggio di Cristo morto e risorto, parole umane di rispetto e comprensione. Una Chiesa che ami tutte le persone dell‘amore che il Padre comune ha per tutti i suoi figli, compresi, sia ben chiaro, i fratelli e sorelle omosessuali. Ma, per assicurare tutele e garanzie ai conviventi (perpetue comprese), non era forse sufficiente apportare le necessarie modifiche al Codice civile? A mio parere, la risposta non può che essere affermativa. L’errore consiste nell’aver voluto (malgrado, forse, la buona fede di chi ha materialmente predisposto il testo della legge) creare una sottospecie di famiglia accanto a quella tradizionale. Si è finito così per indicare alle giovani generazioni un model lo familiare di serie B, poco stabile e poco impegnativo, in alternativa a quella famiglia che abbiamo conosciuto finora (è il cosiddetto effetto educativo o di trascinamento che la normativa esercita nel tessuto sociale). Non penso che un ‘eventuale approvazione dei Dico possa provocare una crisi della fami glia.’ quella, purtroppo, c’è già e non da ieri, e molte ne sono le cause. Ma da questo Governo (anch‘io a suo tempo ho votato per Prodi) mi sarei aspettato una politica, questa sì, urgente e prioritaria, a sostegno della famiglia. I salari bassi, gli affitti degli appartamenti alle stelle, i costi delle abitazioni che i giovani non si possono nemmeno sognare, servizi alla famiglia carenti o troppo onerosi — gli asili nido a Trento costano più di 400 euro al mese, questi sì erano problemi urgenti, non i cosiddetti Dico.

Antonio a Beccara

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Guardo lontano e vedo vicino

“Guardo lontano, vedo vicino”. E’ questa la frase che campeggia su di un lenzuolo bianco sulla facciata del liceo Galilei di Trento. Si tratta di uno slogan, o forse di qualcosa di più importante che invita alla riflessione. Le parole hanno la forza di dar luogo a fecondi percorsi di pensiero e a inaspettate intuizioni. Ecco quello che mi è capitato di pensare. La frase, mi pare innanzitutto l’emblema sintetico dei giorni della cogestione, giorni in cui gli studenti allargano lo sguardo oltre lo spazio delle materie curricolari. Non so con quale spirito sia stata formulata; certo, essa sventola il suo messaggio e accoglie chiunque in questi giorni superi i cancelli del Galilei.
Probabilmente essa dovrebbe esprimere qualcosa di “progressista”, di antitradizionale, una rottura con il quotidiano svolgersi delle lezioni.
Ma le cose non stanno così, quella poche parole mi sembra rivelino, un connotato totalmente diverso. In quel “guardare lontano”, non vuole esprimersi una fuga dal presente, piuttosto si cela una saggezza: l’idea che il disagio di questo nostro mondo, la sua confusione, risieda nella cura ossessionata del presente, dell’utile, del risultato immediato, del piacevole.
Perché guardare lontano non è soltanto lo scrutare l’orizzonte infinito con la sua promessa di libertà, di cui nulla sappiamo. Il futuro ci sfugge e qualora riveli qualcosa, lo fa, spesso, travestito degli scomodi panni dell’ottimismo utopico o del pessimismo più tetro.
Scrutare la lontananza credo sia soprattutto guardare alla lezione della storia, recuperando le radici buone, le forme stabili di un passato in cui l’uomo ha sperimentato e scoperto “alcune leggi” che ha chiamato vere, perché capaci di umanizzare i nostri rapporti sempre così complessi, in bilico tra l’amore e il tradimento. Si tratta di “verità” esistenziali che spesso si sono affermate attraverso faticosi e dolorosi percorsi. Questo, i giovani sembrano almeno inconsciamente percepirlo. Le statistiche, i sondaggi, rivelano in loro un sentire assai più “tradizionale” rispetto al disincanto di molti adulti.
I giovani hanno voglia di stabilità, di chiarezza, di valori non assoluti, ma ben fondati, ragionevoli.
Essi credono nell’amore, lo vogliono per sempre e sognano il matrimonio.
Hanno voglia di comunità, di tradizione, in una parola: di senso.
Per converso, il mondo degli adulti e della politica, sembrano invece del tutto avvinti nelle spire dell’oggi, storditi da una miopia concentrata sul presente. Tutto questo ha vari nomi: moda, individualismo, pragmatismo, opportunismo elettoralistico, rispetto di equilibri tra alleanze impossibili. Il potere infatti, spesso, unisce i diversi, nella comune ricerca dell’utile.
La politica è il luogo, oggi, dove il guardare lontano sembra smarrirsi in una rincorsa nei confronti dell’ economia, del consumo, di un individualismo che insegue subitanei successi.
La vicenda dei Dico esprime, tra le altre cose, tutto questo; mi sembra il frutto di un compromesso incapace di guardare alla realtà e perciò di progettare il futuro.
Con la scusa di rispondere ad un’emergenza inesistente, si propone, di fatto, un soggetto alternativo alla famiglia.
Si potevano percorrere strade diverse, gli eventuali diritti lesi potevano essere garantiti attraverso soluzioni che non portassero un attacco così subdolo ad una “verità” così evidente e semplice: lo straordinario ruolo sociale, affettivo, solidale della famiglia.
Ma la logica di chi guarda troppo vicino e perciò non vede, ha coinvolto anche alcuni settori del mondo cattolico, settori che peraltro, già da un po’ di tempo hanno rinunciato alla ricerca di ciò che è stabile, di ciò che è “vero”, perché buono e desiderabile.
Essi guardano la punta delle loro scarpe e perciò non vanno da nessuna parte.
Le parole con cui ho iniziato questo brano potrebbero pertanto suonare come un monito: non posso comprendere il presente ed orientarlo sapientemente verso il domani se non mi pongo nel solco della tradizione; una tradizione che scaturisce dal “cuore delle cose”, dalla razionalità che la vita ben osservata, senza pregiudizi, rivela.
Oggi, la vicenda dei Dico mostra la povertà di un mondo adulto del tutto incapace di sperare, di proporre modelli forti alle nuove generazioni, scommettendo sul loro entusiasmo, sulla loro passione, sul loro desiderio di vero, di buono, di giusto.
Perciò si sceglie il basso profilo di promuovere unioni che nascono intrinsecamente deboli.
Uno dei grandi insegnanti di Simone Weil, Emile Charter, un professore di filosofia geniale e assolutamente anticonformista, beffardo e insofferente verso ogni autorità ebbe un giorno a dire: “L’amore non è naturale e nemmeno il desiderio lo è…è l’istituzione che salva il sentimento.”
Egli guardava lontano, guardava alla fragilità dell’essere e così salvava l’oggi in vista del domani.

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Cattolci adulti

Cattolici adulti o protestanti repressi?
Il bel pezzo è dell’amico Andrea Zambelli.
Da qualche anno a questa parte all’orizzonte del mondo cattolico italiano sta emergendo con caratteri sempre più definiti, e con una presenza mediatica e di potere più ampia della sua effettiva consistenza, una nuova categoria di credente: il cattolico adulto.
Cifra del cattolico adulto consiste nel propugnare la più totale separazione della religione dal mondo civile dimostrando di aver imparato più di altri la lezione kantiana secondo la quale il credente dovrebbe mostrarsi tale solo nel privato della propria camera. Il cattolico adulto insomma ha la smania di mettersi in mostra cercando di essere più realista del Re (e quindi più laicista dei laicisti veri, più intollerante verso i simboli religiosi di quanto lo possa essere un musulmano di stretta osservanza, più maligno nei confronti della Chiesa come Istituzione di quanto lo possa essere un autentico anticlericale, e infine, nascondendosi dietro all’idiota e individualistico principio secondo il quale io non divorzierò mai, io non abortirò mai, però non posso impedirlo agli altri di farlo, più aperto nei confronti del mondo di quanto lo possa essere un libertino incallito)
Detto in altri termini il cattolico adulto è colui che separa il proprio esser cristiano dal proprio essere cattolico, quasiché all’occasione si possa salvaguardare l’uno sacrificando l’altro. Confesso che per il mio esser credente un’affermazione simile non evoca alcun significato: in me la dimensione dell’esser cristiano e quella dell’esser cattolico coincidono: io mi riconosco incondizionatamente figlio della Chiesa Cattolica e Apostolica in quanto, pur essendo il primo tra i peccatori, credo nella resurrezione di quel Cristo che l’ha fondata e la guida (mi pare che questa sia ancora la posizione del Magistero). Non potrei infatti credere in Cristo senza credere nella Chiesa di conseguenza non poterei mai distinguere il mio esser cristiano dal mio esser cattolico. E’ chiaro che chi riesce a distinguere in se stesso la propria cristianità dalla propria cattolicità è perché ha già deciso di disfarsi della seconda.
Ecco il vero nodo! Per certa parte del mondo cattolico progressista affermare la propria figliolanza e obbedienza nei confronti della Chiesa costituisce un atto “conservatore e oltranzista” di conseguenza, per poter dire di credere in Cristo senza correre il rischio di essere considerati degli integralisti oppure di essere minorati nella dignità di uomini, occorre guadagnarsi sulla pubblica piazza la medaglia di oppositore a priori della Chiesa (e gli oppositori di questo tipo sono solitamente i più feroci); occorre, in sintesi, non credere nella Chiesa, o crederci fino a un certo punto che è lo stesso.
Il quadro che ne vien fuori porta a considerare questi oppositori interni come persone particolarmente coraggiose nell’esercizio della propria libertà e del proprio spirito critico; coloro invece che si trovano d’accordo con il Magistero e lo dichiarano pubblicamente sono considerati dei “cattolici bambini” e superstiziosi. Questa immagine non corrisponde affatto alla realtà. Ma se le cose dovessero stare così allora chi mi ha preceduto nella maggiore età sentirà senz’altro il dovere di chiarire una buona volta al “bambino” che scrive quale insegnamento del Magistero dovrebbe ricusare per poter finalmente entrare nell’età “adulta”; di più, vorrei sapere a quale verità cristiana dover rinunciare per poter non essere più considerato un integralista, ma un cattolico al passo coi tempi.
Nel mondo cattolico, questa è la questione centrale, c’è un fiume carsico che occorre fare emergere alla vista: è quello di un protestantesimo criptato, volutamente sottaciuto, ma non meno insidioso. Tutte le varie espressioni della “riforma” (luteranesimo, calvinismo, zwinglismo, anglicanesimo) si trovano, infatti, unite nell’insistente richiamo all’aggettivo sola (sola fides, sola gratia, sola Scriptura, solus Christus) allo scopo di marcare il proprio antagonismo nei confronti del cattolicesimo che afferma invece i binomi di fede e opere, grazia e collaborazione dell’uomo, Scrittura e tradizione, ma soprattutto Cristo e Chiesa. Tanto che nel vasto panorama delle confessioni protestanti non esiste una “chiesa”, ma vige il principio del sacerdozio universale.
In ambito religioso la cifra suprema del protestantesimo (anticipatore in questo senso dell’illuminismo) consiste nell’eliminare la Chiesa come comunità e come Autorità a favore di un rapporto individuale del singolo credente col sacro; in tale contesto il credente è legittimato a non ascoltare nessuno, a non rendere conto a nessuno (almeno a questo mondo). Tale affermazione di assoluta autonomia religiosa non può non avere conseguenze di natura più strettamente politica: la principale, avendo eliminato la religione come comunità e come autorità, sta proprio nel chiuderla nella sfera della singola intimità favorendo la sacralizzazione del potere civile. E infatti un potere che non debba più fare i conti con la voce vigilante di una Maestra di Verità qual è la Chiesa quali difficoltà può più incontrare sulla strada della propria assolutizzazione? Chi può minacciarne la sete di onnipotenza che lo conduce a legiferare, in ultimo, sulla vita e sulla morte delle persone nel vago nome della maggioranza?
E’ in questo orizzonte che a mio avviso va inserito il fenomeno dei cosiddetti “cattolici adulti” (che a mio avviso sono più che altro dei “protestanti mascherati” e forse pure repressi) i quali probabilmente vorrebbero costringere il mondo cattolico in quanto tale all’interno del perimetro della “sola” senza però avere il coraggio di dire apertamente che in questo disegno la Chiesa non troverebbe spazio.
Il punto da chiarire bene è proprio questo: ciò che mi distingue da questi amici non è il fatto di escludere che anche gli uomini di Chiesa in quanto uomini possano sbagliare, non è il fatto di poter avere dei fondati dubbi su alcune scelte contingenti operate dalla gerarchia ecclesiastica; quanto il fatto di contestare la Chiesa in quanto tale, come Istituzione, come Maestra di Verità. A questo punto troverei più semplice e trasparente che i nostri amici che ci hanno superato nell’età adulta della fede facessero un passo ulteriore e dicessero di essere solo cristiani e non più cattolici.
Anche il mondo cattolico trentino non sfugge a questa cornice (anzi, ne rappresenta uno dei luoghi di eccellenza) e al fondo dei rapporti con l’altra metà del cielo dei credenti (che umilmente cerca di prestare ascolto alla voce del Magistero, pur riconoscendo la propria miseria) riposa un prepotente pregiudizio. Quest’ultimo consiste nel credere che il variegato mondo cattolico trentino si esaurisca nella sua sola declinazione progressista e che dunque ogni altra sensibilità non sia che una sua variabile impazzita; oppure un semplice “sommovimento” animato dall’incapacità critica di alcuni fanatici clericali. Questo è un segno di paura, di debolezza culturale ed è, inoltre, un ottimo modo per escludere in partenza le vie del dialogo (e questo francamente mi pare poco progressista).
A mio avviso invece anche il cattolicesimo progressista, che seguo con interesse e rispetto, avrebbe molto da guadagnare e poco da perdere a dialogare su posizioni di pari dignità con sensibilità diverse. Non so se i tempi siano già maturi, tuttavia trovo sia doveroso da parte di tutti impegnarsi in un dialogo, magari anche spigoloso e acceso, ma onesto che lasci finalmente da parte i reciproci pregiudizi e si confronti sulle questioni vere e fondamentali: a cominciare dal chiedersi che cos’è la Chiesa? Cosa essa insegna? Quale validità il cattolico deve dare alle indicazioni del Magistero? Può sembrare assurdo dover tornare a discutere di questioni che abbiamo dato sempre per scontate fin dall’età del catechismo, e per certi versi lo è davvero, ma questa è la realtà con la quale ci troviamo a fare i conti ed averne consapevolezza rappresenta il primo autentico passo per uscire da uno stallo destinato altrimenti a fossilizzarsi.
Andrea Zambelli

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Martino aveva previsto tutto.

Anche ieri sono morti in Iraq altri 9 soldati americani. Siamo ormai ben oltre i 3000 morti americani, e alcune decine di migliaia di feriti. Ma nulla cambia. E’ interessante allora sentire quanto diceva il cardinal Martino, a nome del Vaticano, nel febbraio 2003. Sembra un profeta, ma non lo è. Bastava la ragione….e la conoscenza storica…
Intervista con l’arcivescovo Renato Raffaele Martino
“Una vera azione preventiva? Evitare la guerra”
Parla il nuovo presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. “La guerra preventiva è guerra di aggressione, non è giustificabile e non risolve nulla. Non bisogna abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena”
di Gianni Cardinale
Dopo sedici anni passati al Palazzo di Vetro di New York, l’arcivescovo Renato Raffaele Martino è stato chiamato a guidare il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dicastero che ha il compito primario di mirare a far sì che nel mondo siano promosse appunto la giustizia e la pace “secondo il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa”. Succede, in questo incarico, a personalità prestigiose come il cardinale francese Roger Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita Fran?ois Xavier Nguy?n Van Thu?n.
Martino ha 70 anni. Originario di Salerno, è entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 e ha lavorato nelle nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e il 1975 ha guidato il dipartimento per le organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. Nel 1980 viene promosso arcivescovo e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei. Nel 1986 diventa osservatore permanente alla sede Onu di New York. ? il terzo ecclesiastico a ricoprire questo incarico, dopo monsignor Alberto Giovannetti e l’arcivescovo, oggi cardinale, Giovanni Cheli.
Nominato il 1� ottobre e insediatosi i primi di dicembre dello scorso anno, l’arcivescovo Martino si è gettato subito a capofitto nel suo nuovo incarico. Ha presentato il messaggio papale per la Giornata mondiale della pace che si celebra ogni capodanno, ha concelebrato la messa solenne del 1� gennaio nella Basilica vaticana e il giorno dopo è stato ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo II. Ha già compiuto degli interventi sulla situazione esplosiva del Venezuela e sul conflitto civile che sta vivendo la Costa d’Avorio. E soprattutto non ha fatto mancare la sua voce su quello che sta succedendo in Medio Oriente. Da qui parte l’intervista che il presule campano ha concesso a 30Giorni.
Eccellenza, come sta seguendo la Santa Sede l’evolversi della crisi irachena, con i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi su Baghdad?
RENATO RAFFAELE MARTINO: C’è grande apprensione. La guerra è distruzione, spargimento di sangue, miseria, espressione di odio. E non risolve niente. Ogni guerra è così. Anche quella annunciata contro l’Iraq.
Eppure un sondaggio condotto a dicembre dall’Università Lemoyne di Syracuse ? Stato di New York ? ha rivelato che i cattolici statunitensi sono in maggioranza favorevoli al conflitto.
MARTINO: Evidentemente si tratta di persone che non hanno mai visto la guerra. Ma se ci sarà l’attacco contro l’Iraq, le conseguenze toccheranno purtroppo anche il popolo americano. E se ne accorgeranno solo dopo, quando vedranno tornare a casa le bare dei propri cari. Perché non cercare di fare veramente di tutto per prevenire questa guerra? Una vera azione preventiva è cercare di non fare la guerra. Del resto la grande manifestazione svoltasi il 18 gennaio a Washington contro la guerra dimostra che anche negli Usa l’opinione pubblica si sta mobilitando e fa sentire la sua voce. Ho saputo che proprio in questi giorni [primi di febbraio, ndr], nell’aeroporto militare di Sigonella sono stati scaricati 100mila sacchi per cadaveri e 6000 bare… Il New York Times poi ha pubblicato un’inserzione di due pagine con l’appello per la pace di intellettuali e artisti che è stato sottoscritto da 45mila persone.
A proposito di manifestazioni pacifiste. Negli ultimi tempi, anche da autorevoli commentatori, viene ripetutamente affermato che il Papa “è per la pace, ma non è un pacifista”…
MARTINO: Di per sé si tratta di una affermazione ovvia. Ma questo non vuol dire che il Papa non sia in sintonia con i tanti cattolici e uomini di buona volontà che manifestano pubblicamente per la pace. Anzi… ricevendo sette nuovi ambasciatori lo scorso 13 dicembre il Papa ha detto: “Volere la pace non è un segno di debolezza, bensì di forza”.
C’è chi ha ipotizzato un suo viaggio, come inviato speciale del Papa, a Washington e Baghdad per scongiurare la guerra. Cosa c’è di vero?
MARTINO: Per ora non è previsto niente di tutto questo. Certo, se la situazione precipitasse, non è da escludere…
Per febbraio, l’ambasciata statunitense presso la Santa Sede ha organizzato un simposio per dimostrare che la cosiddetta “guerra preventiva” è giustificata dal punto di vista della dottrina cattolica. Crede sia possibile questa compatibilità?
MARTINO: No. Le espressioni usate dal Papa nei vari discorsi pronunciati tra dicembre e gennaio sono state chiarissime. Soprattutto in quello al corpo diplomatico del 13 gennaio. A questi discorsi si sono aggiunti interventi di autorevoli esponenti ed organi della Santa Sede che hanno pronunciato in modo univoco un secco no ad ogni ipotesi della cosiddetta “guerra preventiva”. Penso alle dichiarazioni dei cardinali Angelo Sodano e Camillo Ruini, a quelle dell’arcivescovo Jean-Louis Tauran, alla Radio Vaticana, all’Osservatore Romano, alla stessa Civiltà Cattolica che ha dedicato ben due editoriali [quelli del 2 novembre 2002 e del 18 gennaio 2003, ndr] a confutare in linea di principio la fondatezza morale e giuridica della cosiddetta “guerra preventiva”. Ed è bene ricordare che tutti questi interventi non sono stati fatti a titolo personale, né poteva essere altrimenti. La “guerra preventiva” è una guerra di aggressione, non giustificabile dal punto di vista morale e del diritto internazionale. Per intervenire bisogna avere le prove e la guerra deve essere sempre l’ultima ratio, “nel rispetto di ben rigorose condizioni”, come ha esplicitamente ricordato il Papa ai diplomatici il 13 gennaio. Continuava Giovanni Paolo II: “Né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari”.
Eppure si afferma che queste prove esistono.
MARTINO: Non c’è la dimostrazione chiara e lampante che l’Iraq sia tra i responsabili del terrorismo internazionale. Né che sia dotato di armi di distruzione di massa tali da costituire un pericolo imminente per l’umanità. Se ci sono prove serie in questo senso sarebbe bene che venissero prodotte. Come fece ai tempi di John Kennedy l’ambasciatore Usa presso l’Onu, Adlai Stevenson, quando rese pubblici ventisei fotogrammi che documentavano la presenza di missili sovietici a Cuba. Altrimenti affermazioni di questo genere hanno lo stesso valore di quelle contrarie. Gli ispettori dell’Onu in base alla risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza sono là proprio per accertare l’eventuale presenza di armi di distruzione di massa, per distruggerle o renderle inoffensive.
Anche in occasione della guerra del Golfo del ’91, la Santa Sede espresse la sua contrarietà. Quali sono le differenze tra allora e oggi?
MARTINO: All’epoca c’era stata l’invasione di uno Stato sovrano, il Kuwait, e almeno dal punto di vista del diritto internazionale poteva essere considerata giustificata. Oggi no. Credo che non si debba abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena, come indicato chiaramente nella risoluzione 1441. Quando infatti a decidere non è solo uno Stato ma più governi, è più facile che le soluzioni adottate siano accurate ed eque.
Comunque dopo gli attacchi dell’11 settembre è necessaria una risposta da parte della comunità internazionale…
MARTINO: Certamente. Ma, come ha scritto La Civiltà Cattolica nel suo ultimo editoriale, gli strumenti più adatti a combattere il terrorismo sono la diplomazia e l’intelligence. E non la guerra. E poi bisogna sempre ricordare che per eliminare il fenomeno terribile del terrorismo non basta rendere inoffensivi i singoli terroristi. Bisogna anche che i Paesi ricchi si mettano una mano sulla coscienza e riconoscano quanta responsabilità hanno nei confronti di quelle società, i cui giovani vivono un presente terribile e non hanno una speranza ragionevole per un futuro più dignitoso, anzi sono senza futuro, tanto che per loro vivere o morire è la stessa cosa. Il vivaio del terrorismo si trova in quelle realtà in cui domina la povertà, dove le promesse non sono state mantenute. Penso soprattutto alla situazione permanentemente esplosiva che vive la Terra Santa. La delusione per le promesse non mantenute è grande e non sempre si risolve in rassegnazione… Del resto, quando i Paesi ricchi si atteggiano a donors, anche con le migliori intenzioni, a malapena con quel che donano pagano gli interessi sui debiti accumulati con centinaia di anni di sfruttamento di quelli rimasti poveri.
Alcuni analisti affermano che il terrorismo odierno sia il frutto del fanatismo religioso…
MARTINO: Assolutamente no. Allora dovremmo definire terroristi anche quanti uccidono i medici che procurano gli aborti volontari ? e negli Stati Uniti ci sono stati casi di questo genere ? col paradosso di poter accusare di filoterrorismo anche i semplici pro-life che non hanno commesso alcun delitto… Il fanatismo, il fondamentalismo si trovano dappertutto. Ma non hanno niente a che spartire con la vera religione, col Vangelo, con il Corano, con la Torah. Si tratta di aberrazioni, strumentalizzabili, che si possono trovare in ogni religione.
Quindi non condivide la teoria dello scontro tra civiltà del professor Samuel Huntington…
MARTINO: Il conflitto tra civiltà è possibile, ma come fatto culturale, non religioso. Bisogna distinguere bene le cose. Comunque per evitare questo scontro l’Onu promuove il dialogo tra le civiltà e lo ha fatto con una risoluzione proposta dall’Iran.
Prima di chiederle della sua esperienza al Palazzo di Vetro, un’ultima domanda riguardante il suo nuovo incarico. Lo scorso anno sembrava imminente la pubblicazione, da parte del dicastero che ora presiede, di un compendio della dottrina sociale della Chiesa. A che punto siamo?
MARTINO: Penso che ci sarà un ritardo, dovuto alla mia nomina. Ovviamente non posso firmare nulla che non abbia letto, studiato, corretto. Ci vorrà ancora un po’.
Pensa potrà essere pubblicato nel 2003?
MARTINO: Dipende dal tempo che potrò dedicarvi.
Eccellenza, come può descrivere, in sintesi, il ruolo della Santa Sede nell’Onu?
MARTINO: Bastano poche parole: difesa della vita, difesa della famiglia, difesa della libertà religiosa, azione incessante per la pace nel mondo.
Qual è il ricordo meno piacevole dei 16 anni passati a New York?
MARTINO: Il ricordo più sofferto fu quello legato alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove si ebbe uno scontro molto duro con diverse delegazioni, tra cui quella Usa, la quale spingeva affinché l’aborto fosse riconosciuto come un diritto universale. Uno degli esperti statunitensi, poi, l’ex senatore Tim Wirth, ebbe anche atteggiamenti arroganti e irrispettosi. E la mia non è una valutazione esclusivamente soggettiva. Basta leggersi, a riguardo, le memorie dell’allora ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Raymond Flynn, pubblicate di recente.
Il ricordo più lieto?
MARTINO: ? sempre legato alla Conferenza del Cairo perché alla fine, con l’appoggio di oltre quaranta delegazioni, riuscimmo a far passare nel documento finale il famoso articolo 8.25 in cui si stabilisce che l’aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Un principio che ha resistito in questi nove anni, nonostante i circoli abortisti abbiano cercato di annullarlo nelle conferenze successive.
Comunque l’attività della Santa Sede non si è “limitata” ai temi riguardanti l’aborto e la contraccezione…
MARTINO: La difesa della vita non riguarda solo la giusta e sacrosanta lotta contro l’aborto. Un altro dei punti qualificanti della presenza della Santa Sede all’Onu è quello di promuovere il disarmo, di appoggiare i tentativi di ridurre il debito estero dei Paesi più poveri e ovviamente la promozione della pace.
Periodicamente hanno un certo risalto sulla stampa le richieste da parte di alcune Ong di espellere la Santa Sede dall’Onu. Si tratta solo di gesti goliardici?
MARTINO: Talleyrand diceva: “Calunnia, calunnia, qualcosa resta”. I gruppi Ong non incidono sulla posizione degli Stati membri. Anzi. Il Congresso Usa, ma anche il Senato cileno e quello filippino, hanno approvato risoluzioni in favore della presenza e del ruolo della Santa Sede nell’Onu e sulla scena internazionale. Questi gruppi comunque hanno una loro pericolosità perché possono influenzare l’opinione pubblica godendo di cospicui finanziamenti da parte di grandi fondazioni. Bisogna stare quindi molto attenti…
La Santa Sede sta pensando di elevare il suo status a membro effettivo dell’Onu?
MARTINO: Vi ha accennato lo stesso cardinale segretario di Stato Angelo Sodano. La questione è allo studio. Attualmente la Santa Sede è l’unica realtà statuale ad avere lo status di osservatore, fino a pochi mesi fa c’era anche la Svizzera. Se vi sarà adesione piena, questa sarà ovviamente nel solco del magistero dei pontificati del secolo scorso. Pensi che lo stesso Benedetto XV era favorevole all’ingresso della Santa Sede nella Società delle Nazioni, ma all’epoca fu l’Italia ad opporsi a questa eventualità. La questione romana non era stata ancora risolta…
Lei ha conosciuto tre segretari generali dell’Onu. Può tracciarne un breve ricordo?
MARTINO: Il primo è stato Pérez de Cuéllar. Rammento che dopo aver avuto due mandati poteva ottenerne un terzo, e gli chiesi se avesse pensato a questa opportunità. Mi rispose: “? meglio chiudere in bellezza…”. In effetti con lui l’Onu riuscì a riportare la pace in alcuni Paesi centroamericani, come il Guatemala, il Salvador e il Nicaragua.
Poi è stata la volta di Boutros-Ghali.
MARTINO: Ghali è sempre stato molto vicino alle posizioni della Santa Sede. Forse avrebbe meritato un secondo mandato. Ma, come è noto, non godeva più della fiducia degli Stati Uniti…
Infine Kofi Annan.
MARTINO: Persona squisitissima, che nonostante le difficoltà ha saputo finora affrontare positivamente i momenti di crisi in Iraq coagulando il multilateralismo e l’interdipendenza. La sua opera in questo senso è apprezzata da tutti. E poi è un vero credente e in particolare confida nell’efficacia della preghiera. A questo proposito vorrei raccontare un episodio illuminante.
Prego.
MARTINO: Erano i primi mesi del 1998, e anche allora spiravano venti di guerra verso l’Iraq. Gli ispettori sarebbero andati via, non cacciati, su iniziativa del loro capo, il signor Richard Butler. Ricordo che un sabato mattina ricevetti una telefonata del cardinale Sodano, il quale mi manifestava la preoccupazione del Papa per la situazione e mi chiedeva di contattare Annan per incoraggiarlo, a suo nome, a recarsi a Baghdad. Tutti ritenevano infatti che un viaggio del genere avrebbe fatto rientrare la crisi. Il giorno dopo, domenica, era in programma la messa del compianto cardinale O’Connor, l’allora arcivescovo di New York, per la celebrazione della Giornata della pace, alla quale avrebbe partecipato anche Annan. Approfittai dell’occasione per comunicargli oralmente il messaggio del Pontefice. Mi rispose che al momento non c’erano le condizioni per andare a Baghdad, mancando il consenso nel Consiglio di sicurezza, ma aggiunse che, siccome era il Papa a chiederlo, avrebbe fatto un ulteriore tentativo. Il mercoledì seguente, a sorpresa, Annan mi telefonò, e mi disse: “Domani parto, però chieda al Santo Padre di pregare per questa mia missione”. Annan si recò a Baghdad, parlò con Saddam ? senza arroganza ? e la crisi rientrò. Ma il fatto più commovente fu che all’uscita di quel colloquio decisivo, Annan disse pubblicamente: “Non bisogna sottovalutare il valore della preghiera”. E la stessa frase la ripetè giorni dopo al Palazzo di Vetro.
Cosa le ha detto Annan prima di lasciarla partire per Roma?
MARTINO: Mi ha salutato con questa parole: “Quanto mi dispiace che parta, perché quando vedo lei mi rassicuro, in quanto so che è una persona che prega per me”.
E lei cosa ha risposto?
MARTINO: L’ho rassicurato: “Non si preoccupi, continuerò a pregare per lei. E anche il mio successore, Celestino Migliore, lo farà”. (“30 Giorni”, febbraio 2003)

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I “falsi” del professor Quaglioni.

Simonino, quanti “falsi”
Padre Frumenzio Ghetta confuta le tesi riprese anche da Quaglioni e Bossi Fedrigotti sul frate predicatore
Il ruolo e la figura di fra Bernardino da Feltre: per gli storici fomentò l?odio verso gli Ebrei. Ma si tratta di letture smentite dai documenti
“I documenti e gli atti processuali sulla vicenda del Simonino non menzionano mai fra Bernardino, così come non parlano mai di frati francescani”
Di PIERANGELO GIOVANETTI
Un falso storico. L?accusa al francescano Fra Bernardino Tomitano da Feltre di aver istigato all?odio antigiudaico con le sue predicazioni nel duomo di Trento durante la Quaresima del 1475, preparando così il terreno alla caccia agli ebrei dopo la morte del Simonino, è falsa e non ha alcun fondamento storico e documentario. A sostenerlo è padre Frumenzio Ghetta, storico e archivista, Sigillo d?Oro della Città di Trento nel 2000, alla cui paziente ricerca d?archivio si deve, fra l?altro, il ritrovamento dell?Aquila di San Venceslao, simbolo della Provincia di Trento.
Per cinque secoli, da quando Mariano da Firenze verso il 1510 narrò nel Fasciculus Chronicarum le gesta di fra Bernardino coinvolgendolo nei fatti di Trento del 1475, tutti gli storici successivi, da Menestrina (“Gli ebrei a Trento”, 1903) al Wadding (“Annales minorum”) al più recente Quaglioni (“Processi contro gli ebrei di Trento”, 1990) hanno ripreso l?accusa, sostenendo che il frate di Feltre, predicatore in quella Quaresima che precedette il ritrovamento del corpo del piccolo Simone e la falsa incriminazione per omicidio rituale, ebbe un ruolo fondamentale nell?aizzare la comunità trentina all?odio antigiudaico. Nel recente testo curato dal professor Diego Quaglioni, già preside di Giurisprudenza, Anna Esposito riporta anche un resoconto del 1493 delle prediche bresciane di fra Bernardino. In esse il podestà di Trento de Salis (indicato però col nome de Santis), che si occupò della vicenda del Simonino avviando la caccia agli ebrei, viene ricordato sottolineando l?aiuto offertogli dal frate durante le prime fasi del processo.
Anna Esposito riporta il passo, tratto dalla vita di Bernardino scritta dal Guslino, che attinse al diario di viaggio del segretario del Tomitano, Francesco Canali da Feltre: “Messer Giovanni de Santis, che fu podestà in Trento, quando fu occiso da Hebrei il Beato Simon da Trento, per il qual caso havea havuto molt?aiuto dal Padre Bernardino, ch?ivi predicava”. L?accusa è stata ripresa anche di recente sul Corriere della Sera, in un articolo di Isabella Bossi Fedrigotti che fa riferimento alla storiografia precedente.
“Non esiste alcun documento che provi un coinvolgimento di fra Bernardino nel caso del Simonino e nella caccia agli ebrei del 1475”, afferma padre Ghetta, che alla vicenda storica ha dedicato anni di studi approfonditi. “Le prediche di fra Bernardino sono pubblicate e da esse non si evince alcun riferimento antiebraico. Fra Bernardino, inoltre lasciò Trento il lunedì della Settimana santa, dopo aver predicato in duomo alla comunità trentina, mentre la vicenda del Simonino si è svolta tutta nell?ambito della comunità tedesca di S.Pietro. Inoltre fra Bernardino non conosceva di persona nemmeno il vescovo von Hinderbach e non era presente a Trento durante le prime fasi dell?inchiesta”.
Padre Ghetta con le sue ricerche, che portarono già allo scritto “Fra Bernardino Tomitano da Feltre e gli Ebrei di Trento nel 1475” pubblicato nel 1986 dalla rivista “Civis”, ha accertato che “tutti i documenti trentini sulla vicenda del piccolo Simone non dicono nulla di Bernardino da Feltre: non vi compare neppure il nome”.
Le accuse di antigiudaismo che per secoli hanno circondato la figura di fra Bernardino erano basate anche sul fatto che a lui si attribuiva l?erezione dei Monti di Pietà, compreso quello di Trento, che avevano costituito una concreta alternativa agli usurai, attività che nel Medioevo cristiano era affidata agli ebrei. “Fra Bernardino non fondò il Monte di Pietà di Trento”, spiega padre Ghetta, “perché l?istituzione di questo risale al 1523 e non al 1475, come per secoli si è creduto fino agli studi di Giovanni Ciccolini. Fra Bernardino ottenne dal papa l?autorizzazione a istituire i Monte di pietà, con un tasso di interesse del 5%, che ne consentiva così la sopravvivenza economica. Ma il primo Monte di Pietà fondato da fra Bernardino fu quello di Mantova che risale al 1484, e la motivazione era quella di sostituire agli usurai un banco di solidarietà, secondo uno spirito mutualistico”.
Per padre Ghetta, la narrazione di fra Mariano da Firenze, su cui si basa poi tutta la storiografia successiva, “non ha fondamento”. “L?opera Fasciculus Chronicarum, in cinque libri narra la storia dell?Ordine francescano dalle origini fino al 1500”, spiega padre Ghetta. “Tali testi, ora irreperibili, furono alla base degli scritti del Wadding, che perpetuò così l?errore senza un approfondimento documentario. A fra Mariano, infatti, dopo aver letto la storia del Simonino scritta dal Tiberino, non parve vero di poter attribuire al suo confratello Bernardino una parte da protagonista in quella vicenda. Insomma, era un panegirico, non una ricerca storica la sua, basata su documenti. Teniamo presente, infatti, che per secoli il Simonino fu oggetto di culto. I documenti e gli atti processuali sulla vicenda del Simonino, infatti, non menzionano mai fra Bernanrdino, così come non parlano mai di frati francescani”.
Quanto ai documenti “bresciani” che riporterebbero di un ruolo diretto di fra Bernardino a fianco del Podestà di Trento nel caso del Simonino, padre Ghetta è lapidario. “Sono stato a Brescia a vedere i documenti. I documenti a cui fa riferimento Anna Esposito e il professor Quaglioni risalgono al 1650, cioè due secoli dopo i fatti narrati. Quindi si può dubitare fortemente dell?autenticità di quanto scritto. Anche perché nel frattempo si era diffusa la convinzione dell?omicidio rituale, e quindi diventava un punto di merito il fatto di aver contribuito a scoprire i “colpevoli””.
Sulla base delle ricerche svolte, quindi, padre Ghetta contesta anche l?ultimo lavoro svolto per conto dell?Itc, cioè la compilazione del Cd “Simonino 1475, Trento e gli Ebrei” a cura del professor Diego Quaglioni. Nel Cd, infatti si parla ancora di padre Bernardino come di “feroce oppositore degli ebrei”. “Quando le prediche pubblicate dicono esattamente il contrario, e invitano a non trattare male gli ebrei”, commenta sconsolato padre Ghetta. “E quando non esista un solo documento dell?epoca che provi la presenza a Trento di fra Bernardino dopo il ritrovamento del corpo del piccolo Simone, e un qualunque ruolo avuto dal frate nell?inchiesta e nel processo”.

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I Pastori non si lasciano guidare dal gregge, ma lo difendono dai lupi

Di fronte alla massiccia campagna Prodico (Prodi+Dico) scatenata in questi giorni dai grandi mass media italiani (e locali) contro la Chiesa che con il Cardinale Ruini ha preannunciato una nota destinata ad impegnare i politici cattolici a difendere la famiglia naturale bocciando il disegno di legge approvato dal governo per riconoscere le cosiddette "coppie di fatto", suggerisco a tutti di leggere ogni giorno Il Foglio e Avvenire. E proprio dal "Foglio" del 17 febbraio propongo di seguito questo arguto e gustoso articolo di Camillo Langone.

"I vescovi facciano i pastori e non i politici”, dicono, e per una volta hanno ragione. Parlando a vanvera può capitare di centrare casualmente il bersaglio. Sul quotidiano della Margherita, Europa, Alberto Monticone, Angelo Bertani e Aldo Maria Valli cercano di insegnare il mestiere ai vescovi e indicano, senza volerlo, la strada da seguire. Che i vescovi facciano i pastori, giustissimo, e pazienza se i tre volevano dire tutt’altro.

Nessuno di loro sembra provenire dalle regioni in cui la pastorizia ha radici più salde: Abruzzo, Lucania, Sardegna… Nessuno mostra di sapere che ancora oggi, nonostante il divieto assoluto di caccia, i pastori appena vedono un lupo sparano. Sull’appennino lucano, inerpicandosi da Tursi verso il Pollino, non è difficile vedere pelli di lupi appese alle porte degli stazzi. Ai pastori non gliene frega niente del Wwf, dei Verdi e della legge 968, vedono un lupo e gli sparano, lo scuoiano e lasciano la carcassa ai cani e ai corvi. Solo a quel punto gli chiedono se aveva fame e quali erano le sue intenzioni. Uomini rudi per i quali la salvezza delle pecore viene prima, molto prima, del rispetto delle buone maniere.

Perciò i cattodemocratici che vogliono una gerarchia molliccia devono dire esattamente il contrario: “I vescovi facciano i politici e non i pastori”. Secondo Monticone, un mangiaostie a tradimento che scrive papa minuscolo e Costituzione maiuscola, la Chiesa non deve compiere “atti di rilevanza politica”. Deve essere quindi irrilevante. E proseguire la “costruttiva tradizione dell’episcopato italiano degli ultimi anni”, quelli durante i quali molti pastori si distrassero e i lupi scesero a valle: divorzio, aborto, nuove chiese progettate da architetti anticristiani, declino della domenica…

Bertani dice che Ruini sta cercando di resuscitare il passato e non il Vangelo, può darsi, intanto lui sta cercando di strappare dal Nuovo Testamento la Lettera ai Romani.

Valli intervista alcuni parroci allo sbando secondo i quali il vero problema è la mancanza di lavoro. Il Vaticano invece di prendersela coi matrimonietti dovrebbe costruire fabbriche al sud, sembra di capire. Un prete dice che i suoi parrocchiani non credono più nell’indissolubilità del matrimonio e nell’obbligo di andare a messa però ha trovato una ricetta: l’ascolto. Insomma il gregge si sta sparpagliando in ogni direzione e lui si è messo a registrare i belati.

Su Repubblica c’è l’arcivescovo di Pisa, monsignor Plotti, che teme la nota vincolante sui matrimonietti e invoca collegialità. Come se i pastori del Pollino, quando il branco di lupi esce dal bosco, chiedessero la convocazione della conferenza allevatori lucani per decidere se imbracciare le doppiette. Ma quando mai.

I vescovi devono appunto tornare a fare i pastori, senza lasciarsi guidare dal gregge e meno che meno dai mangiaostie a tradimento che non sono veri cristiani ma veri roussoiani (non riconoscono il peccato originale, pensano che i lupi siano buoni o forse vittime di una società ingiusta che li ha resi carnivori)."

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I salesiani, la scuola e l’industria italiana.

I Salesiani e l’industria italiana
Dalla Fiat alla Mondadori, dalla Breda alla Magneti Marelli l’industria del Nord ha sempre cercato la collaborazione dei discepoli di don Bosco per istruire generazioni di operai specializzati
di Giovanni Ricciardi
Quando il presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi fu chiamato a scegliere i nomi dei primi cinque senatori a vita, commentando alcune candidature che non lo convincevano, osservò che l’attributo della “socialità”, previsto dall’articolo 59 della Costituzione per l’assegnazione di quella onorificenza, si sarebbe meglio adattato a uomini come Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco.
Il giudizio di Einaudi non era isolato, anche se su don Bosco la cultura laica fu spesso divisa e non mancò di tranciare giudizi negativi, a dispetto della forte incidenza sociale della sua opera. Non senza un moto di fastidio, negli anni Cinquanta, Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, osservava: “Che cosa mi ha impressionato di più visitando la casa madre dei salesiani di don Bosco? Certo, i laboratori per le arti e i mestieri, dove si formano i meccanici, i sarti, i tipografi, i falegnami. ? noto che gli allievi di queste scuole si distinguono nelle industrie laiche. Ma ancora di più: l’insistenza del salesiano che mi accompagna su una parola: moderno. Una delle poche parole che egli pronuncia, giacché per il resto è laconico. Moderno. Don Bosco, mi dice, è sempre più avanti di tutti, più moderno di tutti. “Moderne” le riviste di moda straniere di cui è dotato il laboratorio dei sarti. Moderna la tipografia, moderno il teatro; la sala degli spettacoli, “la più moderna di Torino””.
Nonostante la sua avversione al modello salesiano, figlio di un cattolicesimo che gli appariva integralista e “papalino”, Piovene non poteva tuttavia negargli efficienza e competitività. Le scuole di don Bosco funzionavano, negli anni Cinquanta, meglio delle altre, formando operai capaci, competenti: “buoni cittadini, onesti cristiani, abili lavoratori”. Di questo modello “vincente” il mondo imprenditoriale italiano si era accorto molto presto, fin dagli ultimi anni della vita del santo di Valdocco. Anzi, secondo lo storico Piero Bairati, “il rapporto fra cultura salesiana e cultura dell’industrializzazione presenta dei connotati così precisi e, almeno per certi aspetti, originali, da costituire un capitolo di rilevante interesse nella storia della società industriale italiana”. Vediamo perché.
Don Bosco giunse per gradi a creare i suoi primi laboratori artigiani tra il 1853 e il 1869. Le condizioni di disagio e di precarietà morale e materiale dei ragazzi che accoglieva all’Oratorio la domenica lo convinsero che fosse necessario insegnare loro un mestiere, in un ambiente protetto dallo sfruttamento sociale e dai pericoli cui il selvaggio mercato del lavoro della Torino di allora esponeva giovani e giovanissimi immigrati dalle campagne in cerca di fortuna.
Inizialmente, optò per quei mestieri che potessero soddisfare un “mercato” interno all’Oratorio stesso, in una prospettiva quasi “autarchica”: calzolai e sarti per vestire i suoi studenti, falegnami per costruire banchi di scuola, armadi e cattedre; infine, fabbri, quando concepì il progetto della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice.
Ma fu con la tipografia e la legatoria che il suo impegno iniziò a incuriosire – e, in parte, a preoccupare – il mondo imprenditoriale torinese. Don Bosco aveva riscosso un discreto successo con la pubblicazione delle Letture Cattoliche, la collana da lui diretta e pubblicata nei primi anni dalla De Agostini. La decisione di editarla in proprio e di pubblicare altri libri, soprattutto per la scuola, lo spinsero a profondere mezzi ed energie per fare della tipografia la punta di diamante delle sue attività.
Nei suoi laboratori si puntava dunque soprattutto a insegnare un mestiere, ma non si trascurava di scegliere settori di produzione anche sulla base di concrete esigenze del mercato locale. In questo modo, don Bosco poneva le basi di un rapporto dinamico e flessibile tra l’apprendistato da lui istituito e un mondo del lavoro che cominciava rapidamente a evolversi.
Negli anni dei primi laboratori di Valdocco l’industrializzazione italiana era ancora a uno stadio iniziale, ma l’esperienza acquisita negli anni permise ai Salesiani di non lasciarsi eccessivamente sorprendere dalla rapida accelerazione dello sviluppo delle fabbriche nell’ultima decade del XIX secolo. Essi furono così in grado di trasformare e perfezionare un modello formativo già collaudato e di mantenersi al passo coi tempi, con un vantaggio, rispetto alle istituzioni formative dello Stato, pressoché incolmabile. “Seguendo la loro linea culturale e pedagogica” scrive ancora Bairati “i salesiani finirono per svolgere numerose funzioni di supplenza proprio in ampi settori sociali e istituzionali, dall’istruzione popolare all’assistenza sociale, nei quali lo Stato liberale non aveva molte risorse da spendere, e talora, forse, non aveva nemmeno l’intenzione di farlo”.
Fra l’altro, l’apprendistato nei laboratori salesiani aveva imposto fin dall’inizio una disciplina del tempo e del rispetto degli orari che era conquista affatto nuova per una forza lavoro abituata ai ritmi ancestrali della civiltà contadina. A Valdocco e nelle altre scuole di “arti e mestieri” salesiane i giovani allievi imparavano a conoscere ritmi di lavoro precisi e regolarmente scanditi. L’adattamento alla realtà urbana e la conseguente interiorizzazione di una diversa strutturazione del tempo costituirono una delle carte “vincenti” che aprì presto agli allievi salesiani le porte delle nascenti fabbriche e consentì loro di inserirsi a titolo privilegiato nel mercato del lavoro: “L’essere stati educati da don Bosco” scrive don Giovanni Battista Lemoyne, uno dei primi biografi di don Bosco, “era per loro la miglior raccomandazione per essere accettati nelle fabbriche e negli altri ufizi. I padroni venivano essi stessi a chiedere a don Bosco i giovani operai”.
Un primo esempio dell’attenzione del mondo imprenditoriale per la formazione salesiana è dato dalla fitta trama di rapporti che presto si intesse tra don Bosco e la direzione torinese delle ferrovie, che costituiva nella seconda metà dell’Ottocento una delle più importanti imprese della città, e che manifestò la sua predilezione per l’assunzione di operai preparati a Valdocco.
Attraverso questi meccanismi, il modello salesiano si presentava anche come un punto di riferimento per chi desiderava una forma di elevazione sociale o, per dirla ancora con Bairati, “agiva come un moltiplicatore delle aspirazioni sociali” per gli strati più bassi della popolazione, e contribuiva a diffondere una “domanda di istruzione” ben al di fuori di quella media e alta borghesia che ne era stata fino ad allora la fruitrice pressoché esclusiva.
Diverso era allora l’orientamento dello Stato liberale. Senza intuire la domanda di professionalità diffusa che la nascente società industriale avrebbe posto, la legge Casati sull’istruzione del 1859 non prendeva neppure in considerazione l’istituzione di scuole professionali. Prevedeva invece un triennio di scuola tecnica e un successivo triennio di istituto tecnico destinati, in teoria, a formare i quadri medi della “piccola borghesia degli affari, degli impieghi e dei commerci”. In teoria, perché nella realtà questo genere di scuola, non sapendo risolversi a una scelta netta tra una “cultura generale” di stampo umanistico, e un più deciso orientamento al mondo del lavoro, non riuscì a proporre un efficace modello formativo: “Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento” scrive lo storico Silvio Soldani “c’era una forte polemica sulla incapacità di queste scuole a “dare un mestiere”; si diceva che “dopo averle frequentate, al massimo si poteva fare “il fattorino telegrafico o lo straordinario in un’agenzia delle imposte””.
Don Bosco e i suoi successori avranno perciò dalla loro una formula assai più flessibile e dinamica. Osserva in proposito un altro storico, Pietro Stella: “Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra padrone di bottega e apprendisti, e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalla legge organica sull’istruzione, don Bosco preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti”.
In più, don Bosco, che pure era un fiero contestatore dello stato liberale unitario, nel rapporto con la società del suo tempo non rifiutò di interagire con le concrete dinamiche politico-economiche: “Giovanni Bosco” scrive ancora Bairati “capì che in uno Stato che proclamava il valore della proprietà e dell’iniziativa privata, era necessario costituire un’organizzazione che rispettasse in pieno questo principio. Questo significava che la Società salesiana doveva reggersi soprattutto sui proventi delle scuole, dei laboratori e della produzione tipografica ed editoriale”.
Grande fu, ad esempio, l’impressione prodotta dallo stand salesiano all’Esposizione Generale di Torino del 1884, organizzata dalla Società Promotrice dell’Industria Nazionale. Vi era esposto l’intero ciclo di produzione del libro nella tipografia di Valdocco. Visto il successo dell’iniziativa, eventi del genere, capaci di produrre una positiva impressione sull’opinione pubblica, furono raccomandati da don Bosco anche per gli anni a venire.
Lo sviluppo dell’industria nel nord del Paese spinse i salesiani, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a rispondere in modo più articolato alle esigenze del mercato del lavoro. Se già fin dai primi anni Ottanta a Valdocco si discuteva sul miglioramento dei laboratori delle scuole di “arti e mestieri”, nel Capitolo generale salesiano del 1886 furono poste le basi per la trasformazione degli originari laboratori in vere e proprie scuole professionali: in esse, si cercò via via di affiancare all’apprendistato un approfondimento della cultura generale, per creare figure professionali più duttili e pienamente formate. E così avvenne che, in molti casi, furono gli industriali stessi a promuovere la nascita di scuole salesiane a vantaggio della qualità del personale da impiegare.
Emblematico, a questo proposito, il caso della Lanerossi di Schio. L’imprenditore Alessandro Rossi deve aver incontrato don Bosco negli anni Ottanta dell’Ottocento, durante i suoi numerosi viaggi d’affari a Torino. Sembra che fin d’allora Rossi avesse chiesto a don Bosco di fondare un’opera salesiana nella sua città, anche se la richiesta formale dovette essere avanzata successivamente dal cugino Francesco Panciera a don Rua. ? probabile che, oltre alla stima per l’educazione salesiana, giocasse un certo ruolo la preoccupazione per il diffondersi di idee socialiste all’interno di una realtà industriale in forte espansione a Schio e nella zona. Ma è altrettanto chiaro che, nella prospettiva di un rapido sviluppo industriale, l’eventuale formazione professionale impartita dai Salesiani era comunque percepita come una garanzia di serietà e professionalità d’alto livello.
La considerazione di Giovanni Agnelli nei riguardi di don Bosco e dei salesiani risale anch’essa a una frequentazione degli anni giovanili del fondatore della Fiat. “Non siamo in grado di stabilire” secondo Bairati “a quale grado di dimestichezza potessero essere giunti i rapporti giovanili tra don Giovanni Bosco e Giovanni Agnelli”. Quel che è certo è che la Fiat ebbe modo di sostenere direttamente, in più occasioni, la famiglia salesiana. E non è un caso che nel 1938, accanto al nuovo stabilimento di Mirafiori allora in costruzione, l’industria torinese abbia provveduto a proprie spese alla costruzione di un istituto salesiano intitolato alla memoria di Edoardo Agnelli, prematuramente scomparso nel 1935. Scrive a proposito don Eugenio Ceria, il redattore degli Annali Salesiani: “Dovendosene trasportare la sede [della Fiat, ndr] in altra località presso il viale di Stupinigi, il valoroso industriale volle che ivi, non lungi dalle gigantesche costruzioni in corso, fosse edificato un grande oratorio festivo con pubblica chiesa per la cristiana educazione dei figli delle maestranze e un modernissimo istituto internazionale di elettromeccanica”.
Altre realtà industriali seguirono poi l’esempio di Agnelli e Rossi. Negli anni Cinquanta, fu il polo produttivo di Sesto San Giovanni a richiedere esplicitamente la presenza dei figli di don Bosco. Nell’aprile del 1958 trovava compimento un progetto fortemente perseguito da Enrico Falck e sostenuto dal cardinal Schuster: un grande complesso di istituti tecnici e scuole professionali, edificato su un terreno donato dalla Chiesa ambrosiana e finanziato per metà dallo Stato e per il restante 50 per cento da un consorzio di imprese sestesi, guidato dalle acciaierie Falck, dalla Breda e dalla Magneti Marelli. Lo scopo, sintetizzava nel discorso inaugurale don Angelo Begni, era quello di “preparare maestranze specializzate, che rappresentano l’istanza più urgente e sentita del mondo del lavoro”. Questo polo formativo rappresentò anche un’occasione di elevazione sociale e professionale per migliaia di operai sestesi che frequentarono in quegli anni di boom economico le scuole serali aperte per loro dai Salesiani, per poter acquisire un diploma.
Quattro anni più tardi, sull’esempio di Sesto San Giovanni, veniva avviato nella allora periferia di Verona un grande progetto per realizzare un centro di formazione professionale affidato ai Salesiani. Nel progetto intervennero il Comune con la donazione di un’area di 45mila mq, la Provincia con un notevole fondo economico e i Salesiani che recuperarono macchinari dal loro centro professionale di via Provolo. Nel 1967 al settore meccanico ed elettromeccanico si aggiunse quello grafico, grazie a una specifica convenzione fra Salesiani e l’Enipg, il noto Ente nazionale istruzione professionale grafica costituito pariteticamente dalle Associazioni nazionali sindacali dei datori di lavoro grafici, aderenti alla Confindustria e dalle Federazioni dei lavoratori grafici aderenti alla Cgil, Cisl e Uil. A livello provinciale l’Enipg era presieduto dalla Mondadori. Quello di Verona fu uno degli esperimenti-pilota di collaborazione scuola-industria-sindacato. L’Istituto San Zeno diverrà a fine anni Settanta uno dei centri di formazione professionale più moderni d’Europa. I macchinari e le attrezzature tecnologiche erano fornite direttamente, sia pure in misura parziale, dalla Mondadori e da altre industrie grafiche locali; il rapporto con loro prevedeva un continuo aggiornamento dei programmi, e lo stesso concorso per accedere alla scuola calcolava il numero degli aspiranti in base alle esigenze e alle possibilità di assorbimento dell’industria locale. Nel 1971, durante la visita del ministro del Lavoro Donat-Cattin al centro veronese, il direttore, don Silvino Pericolosi, sottolineava che gli allievi del centro erano tra i più richiesti dagli imprenditori della città: “Al termine dell’anno scolastico 1969-70, prima che gli iscritti all’ultimo anno avessero conseguito il diploma, c’erano già state 82 offerte di lavoro da parte delle ditte veronesi. Poiché i diplomati furono 70, trovarono tutti un posto senza difficoltà”.
Gli esempi, più o meno significativi, potrebbero essere molti di più, dal nord al sud Italia, da Milano a Gela, passando per Roma: “Da questo punto di vista” conclude Bairati nel suo studio del 1987 su Salesiani e società industriale “ci pare da rovesciare, almeno per quanto riguarda Giovanni Bosco, il giudizio di Sergio Quinzio secondo cui i santi del secolo scorso non hanno inciso che minimamente sul grande corso della storia successiva. Al contrario, il modello culturale salesiano, pur presentando alcuni connotati che lo contrappongono recisamente ai tempi in cui è nato e si è sviluppato, ritrova poi ad altri livelli un proprio stretto rapporto con la storia della società”.
Ma da dove nasceva la “modernità” di don Bosco, la sua capacità di rispondere alle esigenze dei tempi, che così strana appariva a Guido Piovene? Non certo dall’ideale di un mero efficientismo sociale o filantropico. Per il sacerdote di Valdocco, insegnare un mestiere era anzitutto un’opera di carità: dare all’uomo la capacità e la possibilità di lavorare era per lui un modo di aiutarlo a “guadagnare la vita eterna”, come spesso diceva, permettendogli di vivere onestamente e di farsi una famiglia, ed evitando che potesse prendere strade sbagliate. Ed è forse proprio a partire da qui che si può intuire il cuore dell’esperienza educativa salesiana e il motivo del suo “successo” così longevo. Non è questione di pura capacità imprenditoriale, e neppure di sola intelligenza pedagogica. Varrà allora la pena di citare, al termine di questo scritto, le parole con cui, inaugurando il Centro di Sesto San Giovanni cui abbiamo accennato, l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, il 29 marzo 1958, si rivolgeva ai ragazzi che ne avrebbero frequentato le scuole: “Che cosa pensate di tutti coloro che dedicano la propria vita a voi, senza forse riceverne ricompensa alcuna, senza forse che il loro nome non sia nemmeno conosciuto? Questo interrogativo mi richiama l’incontro con un uomo che ora vive la sua vita triste in conseguenza di essersi dato al mal fare. Avendolo io interrogato perché si fosse messo sopra una via di perdizione, ne ebbi questa risposta: “Quando ero giovane nessuno mi ha voluto bene”. Ebbene, voi non potete dire: “Nessuno mi ha amato”… Avete questi figli di don Bosco che con fedeltà continuano lo sforzo educativo del Santo della gioventù e si curano di voi e stanno al vostro fianco. Tra di voi Cristo non è morto, e nella vostra città, qui, fiorisce la carità di Cristo”.
(da: 30 Giorni)

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ll welfare che nasce dalla società e dal territorio

Politiche sociali: la proposta di Forza Italia fa del Trentino un laboratorio. Promuovere valide esperienze di programmazione e di gestione dei servizi sociali dal basso, restituendo centralità reale al protagonismo della società civile, nella convinzione che la realtà sociale trentina, grazie alle peculiari prerogative dell’autonomia speciale, possa costituire, in quest’ambito, un laboratorio d’assoluta rilevanza: è questo l’obiettivo del disegno di legge di riforma del welfare che, quale primo firmatario, ho presentato insieme ai colleghi del gruppo consiliare di Forza Italia. Il disegno di legge di Forza Italia – che prima del deposito in Consiglio provinciale è stato sottoposto all’esame di molte associazioni ed operatori del settore – si fonda sul riconoscimento che al centro d’ogni intervento vi è, innanzi tutto, la persona con i suoi bisogni. Per dare risposte sostenibili economicamente e, soprattutto, adeguate ed efficaci occorre studiare ed introdurre forme di rapporto e di collaborazione con le libere organizzazioni dei cittadini e delle famiglie, con le associazioni di volontariato, le imprese non profit, le cooperative e le fondazioni, consentendo a queste realtà non più solo di integrare o completare marginalmente l’iniziativa della Provincia o dei Comuni, ma d’essere protagonisti e responsabili di progetti e attività rilevanti al servizio della comunità trentina. Dare maggior peso, ruolo ed importanza a questi soggetti nell’ambito delle politiche sociali, come si propone la riforma sostenuta da Forza Italia, non significa affatto, per la pubblica amministrazione, privatizzare tout court o appaltare i servizi, ma instaurare relazioni di partnership e, quindi, contratti strutturati per garantire risposte adeguate al profilo della domanda. In tal modo, il partneriato sociale diventa espressione della miglior sintesi delle caratteristiche di garanzia del pubblico e d’efficienza del privato. Il principio basilare cui il disegno di legge, in ossequio anche a quanto previsto dalla normativa europea e dall’articolo 118 della Costituzione, fa riferimento è quello di sussidiarietà, che afferma il primato della persona rispetto alla società e della società rispetto allo Stato, affinché ogni decisione attinente l’interesse generale sia presa al livello più vicino al cittadino. Ciò si traduce, concretamente, nella valorizzazione del ruolo e della funzione degli ambiti locali nell’elaborazione e nell’attuazione dei piani sociali territoriali. Ecco allora l’istituzione, nell’ambito d’ogni Comunità di Valle, dei tavoli territoriali. Questi organismi – la cui composizione può variare a seconda della Comunità ed in cui sono rappresentati gli enti locali, i soggetti operanti nel terzo settore ed i servizi pubblici d’assistenza e beneficenza operanti sul territorio di riferimento – hanno il compito di redigere ed attuare i piani territoriali triennali, che concorreranno poi al piano provinciale per le politiche sociali. Mentre il ruolo di controllo e d’indirizzo politico viene, com’è naturale, mantenuto in capo alla Provincia, la proposta assegna ad un Comitato di codecisione, nominato dalla Giunta provinciale, il compito di valutare – attraverso il Nucleo di valutazione, organo di natura squisitamente tecnica, – i piani territoriali triennali e di predisporre, sulla base degli indirizzi che da essi provengono, le proposte di programmazione delle politiche socio-assistenziali e di distribuzione delle risorse finanziarie da formulare alla stessa Giunta provinciale. Il riordino del sistema delle politiche sociali del Trentino è una sicura priorità che, mi auguro, costituirà nei prossimi mesi uno dei temi centrali del dibattito politico e del confronto in consiglio provinciale. Un confronto che dovrà essere il più ampio possibile e libero da pregiudiziali politiche, perché non si può metter mano ad un settore così importante per l’intera società trentina senza tener conto di tutte le posizioni in campo e di tutti i contributi.

PER SCARICARE IL DDL SUL WELFARE CLICCA QUI

TABELLA DI CONFRONTO DDL VIOLA-DALMASO

INTERVISTA A WALTER VIOLA SUL DISEGNO DI LEGGE

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I Longobardi e il sacrificio rituale.

Nel 568 l’Italia subisce l’ennesima invasione: poche migliaia di Longobardi, “la più feroce delle genti germaniche”, invadono il paese, già prostrato dalla durissima guerra greco-gotica. Seguono saccheggi, devastazioni, pestilenze. A guidarli è il terribile Alboino, il re che ha sconfitto i Gepidi e che si è fatto una coppa col cranio del suo nemico, Cunimond. Il loro dio è Odino, figura assai utile per un popolo di migratori, coinvolti in uno stato di guerra permanente. Qual è la cultura longobarda? Assomiglia a quella degli altri popoli germanici: hanno un diritto molto barbarico, risolvono i conflitti tramite i giudizi di dio o sacri duelli, praticano l’antropofagia rituale e l’immolazione dei teschi agli dei…Sono per lo più politeisti, o ariani, di recente conversione. Sappiamo, ad esempio, che il duca di Benevento, intorno al 660, adora un idolo raffigurante una vipera, e partecipa ad una cerimonia intorno ad un albero, che si conclude con un pasto sacro, solitamente di animale. Questo albero sacro è testimoniato anche presso altri popoli germanici: i Sassoni adorano l’Irminsul, un tronco che funge da sostegno simbolico dell’universo, universalis columna quasi sustinens omnia. Accanto ad esso appendono uomini e animali immolati ad Odino, oppure “bruciavano uomini come stregoni o li mangiavano”. Il popolo longobardo si converte al cattolicesimo nel 603, grazie alla regina Teodolinda, figlia del duca cattolico di Baviera, e moglie del re Autari. Nel 643 il re Rothari emana il celebre “Edictum langobardorum”, davanti ai suoi guerrieri che percuotono gli scudi in segno di approvazione. Possiamo notare, in esso, la prima presenza dell’influenza cattolica e romana. Nell’editto, infatti, si legge, in latino, la seguente affermazione: “per menti cristiane non è possibile che una donna possa mangiare un uomo vivo….(hominem vivum comedere)”. Per la prima volta viene così condannata una usanza presente presso longobardi, sassoni, franchi, alamanni e visigoti prima della conversione: quella di uccidere delle donne accusate di divorare gli uomini. Iniziano così pian piano a scomparire, o forse sarebbe meglio dire a diminuire, due terribili consuetudini: le pratiche cannibalistiche a scopo magico, e l’uccisione di donne accusate, non sempre a torto, di simili azioni. Inoltre Rothari, rimanendo fedele, in questo, alle tradizioni del suo popolo, vieta alle donne longobarde di “donare o vendere alcuna cosa”, in opposizione alla legge cristiana (Codice di Teodosio), che invece aveva liberato le donne romano-cattoliche da ogni tutela, permettendo loro di donare o vendere senza l’autorizzazione di alcuno. La svolta cristiana è segnata soprattutto dal re longobardo Liutprando, rex christianus e catholicus, che introduce disposizioni punitive nei confronti della stregoneria, delle arte divinatrici, stabilisce la legittimità della liberazione dei servi affrancati circa sacrum altarem, impone leggi a tutela della donna, dei minori, dei servi. Il matrimonio longobardo, infatti, consisteva in una compravendita della donna, considerata semplicemente una cosa, mentre Liutprando introduce il principio della sacralità del matrimonio e il rito dell’anello nuziale con il quale l’uomo “impegna la donna e la fa sua”. Così, gradualmente, un popolo barbaro diviene cattolico, e civile. Così, soprattutto, cessa di praticare i sacrifici umani e l’antropofagia. Sacrifici che oggi possono scandalizzare l’uomo post-cristiano, che non si avvede di essere, in verità, anch’egli promotore di una forma secolarizzata di schiavitù e di omicidio rituale: l’aborto e la clonazione. E che invece non indignano lo storico, che sa come tutti i popoli dell’antichità, prima di Cristo, avevano tali consuetudini, che fossero cretesi, greci, romani, aztechi o germanici….Se lo storico sa che le cose stavano così, l’uomo di fede conosce il perché. Che mi sembra questo. Gli antichi sacrificavano agli dei perché intuivano l’esistenza di una colpa primitiva, e credevano coi sacrifici di scontare i loro peccati, di propiziare la divinità, vista come un Padrone esigente, terribilmente giusto, sempre da placare. Solo il cristianesimo avrebbe insegnato all’umanità che la colpa primitiva si chiama peccato originale; che l’incommensurabilità tra Creatore e creatura implica l’incapacità di una sacrifico, persino umano, di gratificare Dio; che Dio, infine, non è padrone, ma Padre, giusto, ma anche misericordioso, che non chiede, per sé, sacrifici, ma che offre se stesso in sacrificio. Così da Cristo in poi l’unico sacrificio “perfetto e a Dio gradito” è quello della Santa Messa.

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San Valentino, pensaci tu

Gentile san Valentino, quest’anno vedi di non esagerare. Non è proprio il caso. Potresti passare dei guai seri. Perché? Prendiamo una situazione tipica di queste ore. Lui porge a lei una rosa, un fiore di campo, un diamante, un cioccolatino. Le canta una canzone, le recita una poesia. Insomma lui porge a lei un segno adeguato alla situazione, alla sensibilità, alla generosità e al portafoglio. Per dirle: “Ti amo. Di più: ti amerò tutta la vita”. E tu, dall’alto, leggi nei loro cuori, li scopri sinceri, ti commuovi, sorridi e sussurri: “Vi benedico”. Ecco, intanto “bene-dico”, e sottolineiamo dico, proprio tu non lo devi dire e neanche pensare per non beccarti un iroso rimprovero di “indebita ingerenza del paradiso nelle vicende interne delle coppie terrene”. Nessun accenno al verbo dire, in tutte le sue coniugazioni. C’è il rischio che scoppi un caso diplomatico, e per ritorsione potrebbero essere chiamati in causa i Patti del ’29. Si sa che l’amore brucia, ma qui stiamo scherzando col fuoco.
Non esagerare. I due si promettono amore “per sempre”, ma non sanno quello che dicono. Per forza, sono innamorati. Poi l’amore svapora, si pentono, ma intanto anche grazie a te si sono sposati e tutto si fa complicato, separazione, divorzio, avvocati, figli traumatizzati, anni di attesa prima di tornare liberi… Innanzitutto, devi convincerli a dire: “Ti amerò per un po’, un lasso ragionevole di tempo e poi si vedrà, d’altra parte non possiamo porre limiti alla nostra libertà, compresa la libertà di innamorarci di qualcun altro. Oggi desidero te, ma i desideri vanno e vengono”. Ti piace? Certo che non ti piace. I santi sono irragionevoli. Uomini privi di ripensamenti. Tu, poi. Un martire. Uno che sulla sua libertà messa in gioco “per sempre” ci ha rimesso la testa (sulla via Flaminia, III secolo). Il martire è il testimone fedele che va fino in fondo. ? ovvio che ti piacciano i lui e lei che si promettono amore per sempre, e che guardi con aria perplessa chi dica: oggi ti amo, domani potrei desiderare un’altra, o un altro. L’amore con la scadenza come i formaggini, pensa te.
Troppi amori effettivamente scadono? ? vero. Ma un conto è investire tutte le energie affinché durino, e allora le piccole (e grandi) crisi risolvibili si possono risolvere e la coppia ne esce più solida di prima. Tutt’altro conto è il consumismo dei sentimenti, con la persona alla stregua di un oggetto: se non mi soddisfi, ti cambio. Nella più lineare logica consumista. Ma questa è la modernità: legami fragili, deboli, che si sciolgono con un sms da fidanzati e con una raccomandata da conviventi. Perciò tieniti leggero pure tu, quest’anno, e non esagerare. Oppure…
Oppure no, guarda, adesso che gli arcigni censori anticlericali hanno smesso di leggerci, perché giunti a metà articolo si sono rilassati e hanno cambiato aria, adesso che siamo soli tra di noi, quest’anno vacci giù duro, distribuisci benedizioni a man bassa, di quelle toste, contribuendo a creare le premesse per futuri legami forti, solidi, che non c’è burrasca che tenga. San Valentino, non è vero che non sappiamo più a che santo votarci. Ci sei tu. Però datti da fare.
(da “Avvenire”, 14 febbraio 2007).

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