Facci sul Giornale

Filippo Facci oggi su Il Giornale, a favore dell’aborto: “in cuor mio penso addirittura che la vita cominci davvero solo dopo la nascita. Il resto è esercitazione, e lo dico senza patemi. Mi preoccupa altro…”.

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Non esiste una parte buona della 194!

1. In questo periodo, dopo il fallimento del referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita, molti denunciano un attacco da parte dei cattolici al diritto di aborto sancito nel 1978.

Dalla parte opposta si risponde sostanzialmente con due affermazioni: a) non vi è alcuna intenzione di modificare la legge n. 194; b) l’applicazione della legge in questi anni è avvenuta contro lo spirito e la lettera della legge stessa; la disciplina dovrebbe, quindi, essere integralmente e correttamente applicata anche nelle parti in cui prevede misure che dissuadano le donne che intendono abortire e le aiutino a prendere la decisione opposta, quella cioè di portare a termine la gravidanza.

In realtà lo stato di attuazione della legge n. 194 corrisponde integralmente alla volontà del legislatore del 1978 così come espressa nel testo legislativo.

2. Prima dell’analisi giuridica, si possono avanzare due considerazioni generali di carattere logico. a) Se una legge è stata attuata in un certo modo per quasi trenta anni (1978 – 2005) è molto difficile dimostrare che ciò non sia stata la conseguenza di quanto voluto dal legislatore; si può, cioè, presumere (almeno in prima battuta) che l’attuazione concreta di qualsiasi provvedimento legislativo sia conforme al testo approvato e alla volontà del Parlamento: affermare il contrario comporta l’onere di dimostrare che l’attuazione che si ritiene difforme rispetto al dettato legislativo derivi da fattori diversi ed estranei che, ovviamente, occorre individuare.

L’operazione appare difficoltosa: ad esempio, quanto alle modalità di intervento dei consultori pubblici, si dovrebbe dimostrare che vi è stata la volontà non di una o due persone, ma di una grande quantità di gruppi di persone sparsi su tutto il territorio nazionale di agire contra legem: quindi una sorta di complotto contro la legge 194; si dovrebbe poi spiegare il motivo per cui le istituzioni pubbliche non hanno reagito in questi anni con gli strumenti a disposizione (sanzioni penali, sanzioni amministrative, chiusura dei consultori riottosi ad applicare la legge e così via …).

b) Non può sorprendere che le misure dissuasive e preventive non abbiano sortito, nel loro complesso, l’efficacia sperata se si tiene conto che la condotta che si voleva evitare – l’interruzione volontaria della gravidanza – veniva contestualmente resa lecita dalla legge. La prevenzione di determinate condotte da parte della legge è di solito accompagnata al loro divieto e alla repressione delle eventuali violazioni. I potenziali destinatari ricevono, cioè, un messaggio chiaro: questa condotta non è ammessa ed è punita; lo Stato (o gli enti preposti) fornisce strumenti per evitare la condotta vietata. Se invece la condotta che si vuole prevenire è dichiarata lecita (anzi: è riconosciuta come un diritto) l’opera delle autorità pubbliche di prevenzione e dissuasione sarà inevitabilmente indebolita: per quale motivo astenersi dall’esercizio di un diritto?

3. Ricordiamo brevemente quale sia l’iter previsto per giungere all’aborto volontario. Nei primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza la donna che intende abortire può rivolgersi alternativamente ad un consultorio pubblico, ad una struttura socio-sanitaria o a un medico di fiducia e ivi sostiene un colloquio. Se il medico del consultorio o della struttura o di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni che rendono urgente l’intervento rilascia un certificato alla donna che le permette di abortire e che costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento; nel caso contrario, se la donna chiede di abortire gli stessi medici le rilasciano un documento che attesta la gravidanza e l’avvenuto colloquio: dopo sette giorni la donna può presentarsi in una struttura sanitaria per sottoporsi all’intervento (articoli 4 e 5 della legge). Dopo i primi 90 giorni l’aborto può essere eseguito solo in caso di grave pericolo per la vita della donna derivanti dalla gravidanza o dal parto oppure quando processi patologici determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: entrambi i casi devono essere accertati dal medico del servizio ostetrico ginecologico dell’ospedale dove deve praticarsi l’intervento. Nel caso sussista la possibilità di vita autonoma del feto, però, l’aborto può essere praticato solo in caso di pericolo di vita per la donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

4. A leggere l’articolo 4 potrebbe sembrare che, nei primi 90 giorni, solo un “serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna” renda lecito l’aborto: ma così non è. Infatti non solo le ipotesi previste sono così ampie e variegate da poter escludere che possano incidere sulla “salute” della donna (condizioni economiche, sociali, familiari, circostanze del concepimento, previsioni di anomalie o malformazioni del concepito), ma soprattutto la legge si limita a pretendere: a) che la donna “accusi” tale circostanze (cioè affermi che esse esistono); b) richieda di procedere all’aborto; c) attenda sette giorni; d) si presenti all’ospedale per abortire. Il medico, nel documento che consegnerà alla donna, non certificherà l’esistenza di tali circostanze, ma si limiterà ad attestare lo stato di gravidanza e la richiesta di abortire. Si tratta di una piena applicazione del principio di autodeterminazione della donna: nessuno può impedire ad una donna maggiorenne non interdetta di non abortire se ella lo vuole, qualunque siano i motivi della sua richiesta. Come si vede l’articolo 4 è stato scritto per essere in buona parte disapplicato.

5. Veniamo, allora, all’opera di dissuasione dall’aborto che dovrebbero svolgere i consultori familiari: l’articolo 2 prevede che essi assistano la donna in stato di gravidanza, informandola sui diritti spettanti, attuando o proponendo interventi diretti di aiuto e contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurla all’interruzione della gravidanza; per questi compiti l’articolo 3 prevedeva uno stanziamento annuale di lire 50 miliardi. L’intervento del consultorio è richiamato anche dall’articolo 5: se la donna si rivolge al consultorio perché intende abortire, nel colloquio devono essere esaminate le possibili soluzioni dei problemi proposti e il consultorio deve offrire tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. In che misura queste previsioni sono destinate ad essere efficaci? In misura minima: in primo luogo perché la donna che intende abortire non è obbligata a rivolgersi al consultorio, potendo, invece ottenere il documento che le permetterà l’intervento anche da una struttura socio-sanitaria o da un medico di sua fiducia; in secondo luogo perché il contenuto del colloquio tra donna e personale del consultorio è irrilevante ai fini del rilascio del documento che deve essere emesso al termine del colloquio. In definitiva: nell’ambito di una specifica procedura di interruzione volontaria della gravidanza l’intervento dissuasivo del consultorio è volutamente reso irrilevante e quindi tendenzialmente inefficace; restano poi i compiti generali (quelli dell’articolo 2) il cui mancato rispetto da parte del consultorio non è in nessun modo sanzionato.

6. Si potrà obbiettare che l’opera di dissuasione potrà essere compiuta dal medico cui si rivolge la donna: ma l’intervento del medico è irrilevante per gli stessi motivi; inoltre la legge è molto attenta a prevedere che la donna possa rivolgersi “ad un medico di sua fiducia”: quindi non un determinato professionista, ma a qualsiasi medico. Se, quindi, la donna si troverà di fronte ad un primo rifiuto avrà la possibilità di rivolgersi ad un numero indeterminato di altri professionisti.

7. Tornando ai consultori, un inciso: l’azione dei consultori diventa improvvisamente efficace quando si tratta di minorenni. Non solo, infatti, la legge (art. 2 ultimo comma) permette di somministrare alle ragazze minori “i mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile” (cioè i contraccettivi, tra i quali è compresa anche la cd. pillola del giorno dopo, con effetto abortivo), si intende all’insaputa dei genitori; ma il consultorio può intervenire per aiutare la minorenne ad abortire nei primi 90 giorni, anche in questo caso all’insaputa dei genitori, quando vi sono “seri motivi che impediscano o sconsiglino” la loro consultazione, trasmettendo direttamente la propria relazione al giudice tutelare.

8. Quanto al tema della collaborazione tra i consultori e le associazioni di volontariato, oggetto di una specifica polemica in questi giorni: l’art. 2 comma 2 della legge prevede che i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato. Come si vede la norma permette tale collaborazione ma non obbliga i consultori ad farne ricorso: essi possono avvalersi ma anche non avvalersi della collaborazione. Nessun consultorio, quindi, potrà essere ritenuto inadempiente alla legge se non si avvale della collaborazione del volontariato: i responsabili hanno una piena discrezionalità su questo punto, potendo addirittura valutare come non idonee le formazioni sociali di base e le associazioni di volontariato …

9. Quale efficacia hanno i principi generali stabiliti dall’articolo 1 della legge? “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”: si è già visto che il principio è attuato nel senso della massima diffusione possibile dei contraccettivi, anche ai minorenni. “(Lo Stato) riconosce il valore sociale della maternità”: la norma non ha nessuna attuazione concreta nel testo della legge. “(Lo Stato) tutela la vita umana dal suo inizio”: si tratta di previsione volutamente inefficace: in primo luogo perché generica quanto al momento in cui inizia la vita umana (così da non sottoporre alle procedure della legge l’uso dei medicinali di “contraccezione di emergenza”, che hanno l’effetto di uccidere il concepito impedendone l’annidamento nell’utero materno); in secondo luogo perché, trattandosi di norma dal contenuto programmatico presente in una legge ordinaria non ha alcuna efficacia vincolante e può quindi essere disapplicata da questa o da altre leggi. Ne consegue che la “tutela” (sic!) della vita umana nascente è quella disegnata dalle norme di diretta applicazione: e quindi – quanto meno nei primi 90 giorni di gravidanza – è rimessa esclusivamente alla volontà della madre (il principio di autodeterminazione viene, non a caso, sostenuto affermandosi che è la madre, nella sua libertà, a potere adottare la migliore tutela possibile del bambino). Vi era, fra l’altro, un ambito diverso in cui il legislatore del 1978 avrebbe potuto effettivamente tutelare la vita umana fin dal suo inizio: quello delle pratiche di diagnosi prenatale, i cui abusi sono ben noti e che conducono spesso a morte o a lesioni al feto; ma nessuna limitazione è dettata. Anzi, la legge presuppone, se non sollecita, l’utilizzo di tali pratiche alla ricerca di “anomalie o malformazioni del concepito”. “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo di controllo delle nascite”: l’aborto, quindi, non dovrebbe essere usato come un contraccettivo. Il legislatore fornisce qui una definizione dell’aborto volontario palesemente priva di efficacia: il singolo aborto sarà o meno usato come mezzo di controllo delle nascite in conseguenza delle scelte della donna che liberamente vi si sottoporrà. Il legislatore, cioè, non può essere in grado di conoscere quale sarà il comportamento delle donne che, nel futuro, utilizzeranno le procedure previste: piuttosto avrebbe dovuto creare procedure che impedissero l’utilizzo dell’aborto come contraccettivo. Le procedure create, al contrario, permettono proprio un utilizzo in questo senso: nei primi novanta giorni di gravidanza, che sono quelli in cui l’aborto può essere utilizzato come alternativa ai contraccettivi o come rimedio al loro fallimento, come si è visto la decisione di interrompere la gravidanza è lasciata alla discrezionalità della donna (che, addirittura, potrebbe avanzare la richiesta in relazione a “circostanze in cui è avvenuto il concepimento”, riferimento generico che comprende, sì, una violenza sessuale subita, ma anche malfunzionamenti o dimenticanze concernenti l’uso di contraccettivi). Si è poi visto come la legge abbia voluto liberalizzare i cd. contraccettivi di emergenza, che spesso hanno effetto abortivo. Insomma: le donne sono libere di usare l’aborto come unico contraccettivo o come contraccettivo “di rincalzo” senza che nessun ostacolo venga loro frapposto, anche se dovranno, forse, sorbirsi la ramanzina del medico che (art. 14) deve fornire loro “le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite” (“la prossima volta stia più attenta …”).

10. Da parte di alcuno ci si lamenta che, in questi decenni, l’aborto sia stato usato con finalità eugenetiche contro la lettera e lo spirito della legge n. 194. Al contrario l’utilizzo dell’aborto per sopprimere embrioni malati o malformati è esplicitamente autorizzato dalla legge. Già nei primi novanta giorni una delle cause che legittimano la richiesta di interrompere la gravidanza è la “previsione di anomalie o malformazioni del concepito”: si noti la parola “previsione”, che non significa “accertamento”; basta, quindi, che la donna tema che il figlio sia malato o malformato per giustificare il ricorso all’aborto. Ma l’ispirazione eugenetica della legge si ricava ancora più esplicitamente dall’articolo 6, che regola l’interruzione della gravidanza nel periodo successivo: in caso di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro sarà possibile l’aborto nel caso sussista un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In sostanza il medico non dovrà accertare se le malattie del feto siano o meno curabili, ma concentrarsi sulla salute psichica della donna (si ricordi che il concetto di salute è inteso come benessere psicofisico) e valutare se la consapevolezza di portare in grembo un figlio malato o anche di doverlo, poi, allevare possa incidere su di essa.

11. Limitandosi a queste considerazioni, le conclusioni paiono evidenti: il legislatore ha voluto che l’aborto nei primi tre mesi fosse assolutamente libero e che la donna intenzionata ad abortire non incontrasse nessun ostacolo riguardante i motivi della sua decisione e potesse anche evitare l’opera dissuasiva svolta da enti o soggetti pubblici o privati. Il legislatore si è, quindi, preoccupato affinché la procedura fosse rapida ed efficiente: il documento costituisce titolo per ottenere l’intervento in via d’urgenza (art. 8 ultimo comma) e l’intervento è gratuito (articolo 10); alla donna è garantito l’anonimato (art. 11 e articolo 21). In questa ottica di efficienza deve essere purtroppo vista la regolamentazione dell’obiezione di coscienza, senza dubbio doverosa da parte del legislatore, ma che presenta il “vantaggio” di togliere di mezzo gli obbiettori dalle procedure che devono, comunque, essere garantite.

12. Le parti della legge in cui si auspica che l’aborto sia limitato a determinate ipotesi o si stabiliscono aiuti e interventi a favore delle donne in difficoltà in conseguenza della gravidanza restano, quindi, meri auspici di un legislatore ipocrita che non credeva affatto ad essi e che ha reso tali parti inevitabilmente inefficaci. La tutela della vita umana nascente non può, quindi, che passare da una abrogazione o comunque da una modifica della legge n. 194 e non certo da una sua piena applicazione che, non solo vi è già stata e che non può che indirizzarsi verso un uso – se possibile – ancora più libero e diffuso dell’aborto. Non sbagliarono, quindi, i promotori del referendum abrogativo – quello massimale, non ammesso dalla Corte Costituzionale con motivazione assai discutibile; non sbagliarono i cittadini che, sia pure sconfitti, affermarono con decisione che la legge n. 194 era gravemente ingiusta. Dott. Giacomo Rocchi Magistrato del Tribunale di Firenze

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Assaggi 24: Vita del bel tempo che fu in un brano manzoniano

“C’era infatti quel brulichio, quel ronzio che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava”. Dal capitolo VII dei Promessi Sposi.

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Usa, sindrome da Napoleone?

Grattacapi da superpotenza. Il prezzo che uno Stato deve pagare alla supremazia mondiale è innanzitutto un dubbio amletico: essere o non essere i do­minatori assoluti del pianeta? Com­portarsi da imperatori o fungere da Stato guida per la costruzione di un ordine internazionale più condivi­so? Gli Usa nei panni di Amleto. Sembra questa l’immagine sugge­rita da John Ikenberry nel libro Il di­lemma dell’egemone. Gli Stati Uni­ti tra ordine liberale e tentazione im­periale ( Vita e Pensiero, pagine 358, euro 20).

Docente di politica e affa­ri internazionali alla Princeton U­niversity, tra i massimi analisti mon­diali, Ikenberry vede gli Usa a un bi­vio delicato. Nel corso della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno assicu­rato al mondo un ordine liberale. Ma dopo l’11 settembre sembrano aver imboccato l’altra strada: l’«im­perialismo ».

Professor Ikenberry, perché è così preoccupato? «All’ombra della guerra al terrori­smo si sta affermando una visione neoimperiale, nella quale gli Stati Uniti si arrogano il ruolo globale di determinare le minacce, usare la forza e amministrare la giustizia. Ma la guerra al terrorismo è stata fino­ra un fallimento: con l’intervento preventivo in Iraq si è persa l’op­portunità di costruire un sistema di collaborazione con gli altri Paesi. La tentazione di confondere guerra in Iraq e guerra al terrorismo era trop­po grande. Ma l’amministrazione Bush la sta pagando in credibilità».

Ma l’«imperialismo» degli Usa è na­to con Bush? «No. In ogni era storica, gli Stati U­niti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli. Anche l’ammini­strazione Clinton non attese l’Onu per bombardare l’Iraq nel 1998 o la Serbia nel 1999. Ma molti osserva­tori vedono l’unilateralismo Usa di oggi come qualcosa di molto più ra­dicale: non una decisione politica ad hoc e occasionale, ma un nuovo orientamento strategico». Dopo l’11 settembre, però, il terro­rismo fa paura. Si continua a te­mere che stati dispotici possano produrre armi di distruzione di massa e metterle nelle mani dei ter­roristi… «L’amministrazione Bush ha eleva­to la minaccia delle armi di distru­zione di massa, senza investire il proprio potere nel far rispettare gli impegni di non proliferazione. Una politica americana che lascia gli Sta­ti Uniti a decidere quali Stati rap­presentino delle minacce porterà a un impoverimento dei meccanismi multilaterali. Così Stati che non stanno violando alcuna regola in­ternazionale possono ugualmente essere obiettivo dalla forza ameri­cana. E poi niente fermerà gli altri Paesi dal fare lo stesso: gli Usa vo­gliono che la dottrina dell’azione preventiva sia messa in atto dal Pakistan, o dalla Cina, o dalla Rus­sia? ».

Non crede che gli Usa siano stati la­sciati soli nella lotta al terrorismo? «Il mondo ha visto Washington compiere passi determinati per combattere il terrorismo, ma l’opi­nione prevalente è che gli Stati Uni­ti sembrano pronti ad usare il pro­prio potere per inseguire terroristi e regimi malevoli e non per costruire un ordine mondiale più stabile e pa­cifico. E sull’Iraq non hanno voluto ascoltare le ragioni dell’Europa. La guerra afgana e quella irachena so­no state sostenute in parte dai nuo­vi fondamentalisti per restaurare la paura del potere americano».

In che senso? «I nuovi fondamentalisti hanno fat­to proprio il consiglio di Machia­velli: ‘Dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coe­sistere, se dobbiamo scegliere tra u­no dei due, è molto più sicuro esse­re temuti che amati’. Ma la paura è una strategia pericolosa e distrutti­va. Non vi è nessuna prova persua­siva che l’effetto dimostrativo della guerra in Iraq stia funzionando con la Corea del Nord, l’Iran o altri Stati problematici. Il risultato più proba­bile è che questi regimi continue­ranno a cercare e a possedere armi nucleari, in modo da creare una cer­ta deterrenza nei confronti di una possibile invasione americana».

La Cina o la Russia di Putin non hanno sfidato apertamente gli Usa, ma possono essere considerate u­na minaccia? «La Cina non rappresenta un mon­do a sé, come l’Urss al tempo della Guerra fredda, ma è inserita nel si­stema economico mondiale. Non è un nemico, ci sono comuni interes­si economici. Dal punto di vista po­litico non viene considerata un pe­ricolo. Ma si è persa l’occasione per integrarla in un sistema democrati­co che garantisca i diritti umani. Preoccupa la Russia perché detiene risorse fondamentali come gas na­turale e petrolio».

Eppure negli ultimi tempi la situa­zione sembra migliorare in Iraq, meno in Afghanistan… «È vero, l’Iraq è molto più stabile di quanto lo fosse prima. Ma questo non vuol dire che sia vicina una so­luzione politica, la riconciliazione è ancora lontana. In Afghanistan c’è il problema di garantire i confini con il Pakistan: ci vorranno ancora de­cenni di sforzi delle Nazioni Unite per darle finalmente stabilità. Quan­to alla questione israelo-palestine­se la strada è lunga ma il ruolo de­gli Usa è quello di continuare a far pressione su entrambe le parti per favorire il compromesso. Annapolis è stato solo un primo passo».

Nel 2008 gli Usa andranno alle ele­zioni. Che cosa attende il prossimo presidente? «Dovrà lavorare per restaurare l’im­magine degli Usa. Sul piatto ci sono le questioni ambientali, come il ri­scaldamento globale, e i diritti u­mani anche nel caso di Guantana­mo. Con l’Europa sarà difficile ri­tornare alla sintonia di un tempo. Confido però molto nei candidati democratici. Gli Stati Uniti dovreb­bero rinvigorire le vecchie strategie: dopo la seconda guerra mondiale riuscirono a combinare il proprio potere con altri Paesi democratici, aiutando a creare democrazia e al­tre istituzioni. Tutti gli ordini impe­riali, da Carlo V a Luigi XIV, a Napo­leone, vennero abbattuti quando cercarono di imporre un ordine coercitivo sugli altri. Oggi gli obiet­tivi imperiali dell’America sono molto più limitati, ma con una gran­de strategia imperiale si corre il ri­schio che la storia si ripeta».

«In ogni era storica gli Stati Uniti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli» «Il prossimo Presidente dovrà lavorare per restaurare l’immagine del Paese. Con l’Europa sarà difficile ritornare alla sintonia di un tempo» Avvenire, 2 gennaio 2008

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

La rivoluzione romana del 1848.

Ci è stato insegnato che nel 1849 la popolazione romana oppressa dal millenario giogo pontificio risorge a nuova gloria sotto la guida di un triumvirato (Mazzini, Saffi, Armellini) che le ridona la libertà. Quello che è certo è che gli uomini che hanno liberato la città eterna erano tutti, o quasi, rigorosamente stranieri. Il fatto è strano.

Come si fa a ritenere che il genovese Mazzini, il nizzardo Garibaldi, il genovese ministro della guerra Avezzana, il friulano Dall’Ongaro direttore del giornale ufficiale “Monitore Romano”, il napoletano Saliceti redattore della Costituzione (l’elenco è lungo) e tutti i rivoluzionari che da ogni dove calano a Roma, possano occuparsi delle città eterna con più lungimiranza del papa e dei romani? Questo paradosso si spiega tenendo presente che Roma rappresentava (e per molti ancora oggi rappresenta) non una città con la sua concreta realtà ma una Idea, un ideale universale. Mazzini lo dice a chiare lettere: a chi dice “Roma è dei Romani”, bisogna rispondere: “No; Roma non è dei Romani: Roma è dell’Italia: Roma è nostra perché noi siamo suoi. Roma è del Dovere, della Missione, dell’Avvenire”.

E quelli che non sono d’accordo? quelli che sono e vogliono restare cattolici, cioè quasi tutti? “I Romani che non lo intendono non sono degni del nome”. Nello scritto redatto Per la proclamazione della Repubblica Romana Mazzini proclama: “Roma, la Santa, l’Eterna Roma, ha parlato”. Cosa ha detto Roma per bocca di Mazzini, suo profeta? Che è ora che il potere non spetti più ai papi ma appartenga per intero ai migliori: “Noi vogliamo porre a capo del nostro edifizio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù”. Va da sé che Mazzini ritiene sé stesso il migliore dei migliori. E infatti: “Mazzini era tutto, regolava tutto. Egli era in trono; papa, re, negoziatore, legislatore, cospiratore supremo, e tutto e tutti ai suoi ordini obbedivano”, racconta lo storico romano contemporaneo Paolo Mencacci. I rivoluzionari dell’Ottocento sono assolutamente certi, proprio come i loro successori del XX secolo, di avere ragione. Scrivendo nel lontano 1832 Mazzini esprime bene questa convinzione: “LE RIVOLUZIONI, generalmente parlando, NON SI DIFENDONO CHE ASSALENDO […] se non è guerra d’eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e vilmente!”. Dalle parole ai fatti. Pio IX, da Gaeta dove è fuggito, descrive la situazione romana in termini drammatici. I rivoluzionari, ricorda, sbandierano ai quattro venti di volere la libertà per tutti ed in particolare per la chiesa.

Ebbene, commenta, questi sono i fatti: è impedita al pontefice ogni tipo di comunicazione vuoi col clero, vuoi con i vescovi, vuoi con i fedeli di Roma; la città si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo pieni di odio nei confronti della Chiesa; i liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati. Questa la libertà che viene realizzata. Le società segrete, prosegue Pio IX, non si limitano a perseguitare la Chiesa, mettono in pericolo l’ordine e la prosperità della società civile: l’erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo. Il papa mette in guardia i cattolici: il vero fine delle società segrete (che non esitano ad utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) è la totale distruzione della Chiesa cattolica. I rivoluzionari accorsi a Roma da ogni dove, duramente condannati dal papa, godono dell’appoggio della popolazione? A leggere quanto scrive Luigi Carlo Farini, personaggio di primo piano del mondo liberale e futuro presidente del Consiglio, sembrerebbe proprio di no.

Ne Lo stato romano dall’anno 1814 al 1850 Farini scrive: “Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie”. La situazione nel contado è diversa, più favorevole ai repubblicani? A giudicare dalle Memorie di Garibaldi sembra proprio di no. Scappando da Roma dopo l’intervento delle truppe francesi che riportano Pio IX in città, il generale così descrive l’accoglienza della popolazione: “mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte[…] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma”. Cosa fanno, poi, i rivoluzionari che disertano? “I gruppi di disertori si scioglievan sfrenati per la campagne e commettevano violenze d’ogni specie”. Bisogna dirlo: la libertà che trionfa nella Roma del 1849 è la libertà di quanti non vogliono più che la Rivelazione -e la chiesa che la interpreta- mettano freni o limiti alla volontà di potenza di quanti si ritengono “illuminati”.

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Strana coppia: Binetti e Concia, portavoce gay e lesbiche di sinistra.

Immaginate di battervi da una vita per i diritti degli omosessuali e di dovervi operare d’urgenza. Chi non vorreste al vostro capezzale? Anna Paola Concia, portavoce della diessina Gayleft, s’è ritrovata mano nella mano con l’ape regina dei teodem: Paola Binetti. Quella per cui l’omosessualità è un “comportamento deviante”. Quella che invece, di botto, ha telefonato alla “nemica”:”Ho saputo che ti operi, ti vengo ad assistere”. Sorprese della vita. Effetti del Pd, per gli ottimisti. “Ha fatto un gesto grande, senza clamori, come sanno fare i cattolici”, dice la Concia seguace del motto veltroniano “avversari, non nemici”. Lei pure, del resto, ha fatto una scelta fuori dagli schemi quando, scoperto un tumore alla tiroide, ha scelto di operarsi dove lavora la senatrice diellina, al Campus biomedico. “Che fosse dell’Opus dei non lo sapevo. E comunque quando hai a che fare con la tua vita te ne freghi. Il mio medico mi ha detto di andare là. Punto”. E la Binetti? “E’ stata con me per le due ore dell’operazione. Mi sono addormentata con lei e svegliata con lei”. Nessun disagio ad avere come angelo custode una signora convinta che l’omosessualità sia una devianza? “Contro la Binetti faccio una battaglia politica anche dura. Il piano personale però resta fuori.”. Tentativi occulti di persuasione? “E’ arrivata da me con la mazzetta dei giornali. Unità, Manifesto, Liberazione… Dentro, ben nascosto, c’era Avvenire, con l’inserto sulla famiglia”.

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Assaggi n. 23: Poesiole del giovine Marx

Invocazione di un disperato: “Voglio vendicarmi di colui che regna al di sopra di noi / Voglio costruirmi un trono nelle alture / la sua sommità sarà glaciale e gigantesca / avrà per baluardo un terrore superstizioso / per maresciallo la più tetra agonia”.

Oulanem: “Guarda questa spada: il Principe delle tenebre me l’ha venduta… Mentre per noi due si apre l’abisso / spalancato nelle tenebre / Tu scomparirai nei suoi più profondi recessi / dove io ti seguirò ridendo / sussurrandoti all’orecchio / “scendi amico mio, vieni con me”…”.

La fanciulla pallida: “Così ho perduto il cielo / lo so benissimo / la mia anima una volta fedele a Dio / è stata segnata per l’inferno”.

da http://piccolozaccheo.splinder.com/post/14551452/diavolo+d%27un+Marx

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Assaggi n. 22: La “cultura del niente”

“..Io penso che l?Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l?atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa cultura del niente (sorretta dall?edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all?assalto ideologico dell?Islam, che non mancherà: solo la riscoperta dell?avvenimento cristiano come unica salvezza per l?uomo – e quindi solo una decisa risurrezione dell?antica anima dell?Europa – potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto…”. (S.E. Card. Giacomo Biffi, Nota pastorale settembre 2000)

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

LA SOLITUDINE DELLA CHIESA

Non c’è bisogno di aver studiato la storia del Pci per capire che il cardinal Bertone ha ragione quando dice che la Chiesa era più rispettata ai tempi di Gramsci e Togliatti che non oggi con il Pd: basta aver visto qualche film con Peppone e don Camillo. Ma da quei tempi non è cambiata la sinistra: è cambiato il mondo. Il rapporto tra il popolo e la Chiesa. Anzi, tra il popolo e l’idea stessa di Dio. In politica, è vero che è la sinistra a portare avanti in modo esplicito una visione anti-cattolica in materia di etica. Però anche il centrodestra dà segnali di smarcamento: li ha dati Aznar, li ha dati Fini. Il distacco tra ciò che la Chiesa propone e ciò che il parlamento dispone sembra un processo non più arrestabile: a sinistra ma a gioco lungo pure a destra.
Bertone ha ragione anche quando dice che quanto afferma la Chiesa su temi come diritto alla vita e famiglia corrisponde alla legge naturale. Ma il mondo di oggi crede ancora che esista una legge naturale, oggettiva? O ritiene piuttosto che l’unico vero criterio di comportamento sia il soggettivismo? Faccio quello che credo sia giusto per me, e ogni mio desiderio è un diritto: così pensa il mondo di oggi. ? un pensiero che parte da lontano, e che ha portato alla secolarizzazione di quello che un tempo era il mondo cristiano. “Figurati che nei nervi, nella testa… ci sono certe fibrille, sono i nervi che hanno queste fibrille (…) Ecco perché io vedo e poi penso, perché ci sono queste fibrille, e non perché abbia un’anima e sia fatto a immagine e somiglianza di Dio, quelle sono tutte sciocchezze”, dice Mitja Karamazov a suo fratello Al?sha.
Tutto parte da questa diversa concezione dell’uomo. Come ha scritto su queste pagine Gianni Baget Bozzo, il mondo di oggi è dominato dall’idea che le neuroscienze possano spiegare in termini puramente materiali ogni comportamento dell’uomo; peggio, dall’idea che l’uomo sia solo il prodotto di una materia messasi insieme per caso e destinata a dissolversi nel nulla. La conseguenza è inevitabile: “Ma allora, che farà l’uomo?”, dice ancora Mitja ad Al?sha, “Senza Dio, senza una vita futura? Allora tutto è permesso, si può fare qualsiasi cosa? (…) Se Dio non esiste, l’uomo è il re della Terra, della creazione. Magnifico! Però, come farà a essere virtuoso l’uomo senza Dio?”. Siamo partiti da lontano, e abbiamo scomodato la grande letteratura, ma il punto ci pare proprio questo. La Chiesa chiede oggi ai politici di seguire una morale che deriva da una fede che il mondo non ha più. Eppure avrebbe altre carte, la Chiesa, da giocare. La scienza ha migliorato la qualità della vita: ma non dà una risposta alle nostre domande ultime. E la morale laica, come aveva previsto Dostoevskij, nonostante le buone intenzioni ha finito con l’approdare a un “secondo me” dove ciascuno può stabilire una propria verità. ? da questo doppio fallimento che la Chiesa dovrebbe ripartire, tornando a parlare di ciò che trascende il visibile e il materialmente percepibile, di ciò che dà un senso non effimero alla vita. ? di questo che l’uomo di oggi – e di sempre – ha davvero bisogno.
Michele Brambilla – Il Giornale – lunedì 31 dicembre 2007,

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Assaggi 21: Del perché la punizione (pena di morte compresa) sia un bisogno dell’anima umana (Simone Weil)

? stata recentemente approvata la famosa moratoria ONU sulla pena di morte. Grande giubilo delle forze sinistrorse e/o anticristiane. I Radicali, dopo aver perseguito per decenni la condanna a morte degli innocenti (aborto, eutanasia, eccetera), ottengono finalmente l’assoluzione per i colpevoli. Nel mondo alla rovescia che costoro vogliono inaugurare, un provvedimento simile non fa una piega. Ma i cristiani? La soddisfazione di molte organizzazioni cattoliche e di uomini di Chiesa per l’abolizione della pena di morte è incomprensibile. Da Socrate a Tommaso d’Aquino ad Antonio Rosmini, la grande filosofia occidentale approva la pena di morte, considerata come una vera e propria esigenza di giustizia e di carità al contempo. La Tradizione della Chiesa, concorde in questo con il comune sentire di tutte le culture religiose e tradizionali dell’umanità, non ha mai avuto nulla da eccepire (così come moltissimi Santi). Riporto qui un brano di Simone Weil sulla punizione come bisogno (e quasi diritto) dell’anima umana, datato 1949, che può aiutarci a ragionare al di là del sentimentalismo e dell’emotività.

La punizione è un bisogno vitale dell’anima umana. ? di due tipi: disciplinare e penale. Le punizioni del primo tipo offrono una sicurezza contro quelle mancanze nei confronti delle quali la lotta sarebbe troppo estenuante se fosse priva di un sostegno esteriore. Ma la punizione più indispensabile all’anima è la punizione del delitto. Col delitto l’uomo si pone da sé al di fuori di quella rete di obblighi eterni che uniscono ogni essere umano a tutti gli altri. Egli può esservi reintegrato soltanto con la punizione; interamente, se v’è consenso da parte sua, e parzialmente se non ve n’è.
Come il solo modo di testimoniare rispetto a chi soffra la fame è dargli da mangiare, così l’unico modo di testimoniare rispetto a chi si è posto fuori della legge è reintegrarlo nella legge sottoponendolo alla punizione che essa prescrive.
Il bisogno di punizione non è soddisfatto quando il codice penale, come avviene di solito, sia solo una procedura di costrizione mediante il terrore.
La soddisfazione di questo bisogno esige anzitutto che quanto riguarda il diritto penale abbia un carattere solenne e sacro; che la maestà della legge si comunichi al tribunale, alla polizia, all’accusato, al condannato, e che questo avvenga persino nei casi poco importanti, purché comportino privazione di libertà. Occorre che la punizione sia un onore, che non solo cancelli la vergogna del delitto, ma venga considerata un’educazione supplementare a essere maggiormente devoti al pubblico bene. Occorre anche che la gravità della pena risponda al carattere degli obblighi violati e non all’interesse della sicurezza sociale.
La sconsideratezza della polizia, la leggerezza dei magistrati, il regime delle prigioni, il declassamento definitivo dei pregiudicati, la scala delle pene che prevede una punizione assai più crudele per dieci furti insignificanti che per uno stupro o per certi assassinii, e che inoltre prevede punizioni per il semplice incidente, tutto ciò impedisce che esista fra noi qualunque cosa meriti il nome di punizione.
Per gli errori come per i delitti, il grado di impunità deve aumentare non quando si sale ma quando si scende la scala sociale. Altrimenti le sofferenze imposte sono sentite come costrizioni o persino come abuso di potere, e non costituiscono punizioni. La punizione esiste solo se, in un qualche momento, foss’anche quando tutto fosse finito e quindi nel ricordo, la sofferenza si associa alla coscienza della giustizia. Come il musicista desta con i suoni il sentimento della bellezza, così il sistema penale deve destare nel delinquente il sentimento della giustizia mediante il dolore, o persino, se occorre, mediante la morte. Come dell’apprendista che si è ferito diciamo che il mestiere gli è entrato in corpo, così la punizione è un metodo per far entrare la giustizia nell’animo del delinquente mediante la sofferenza nella carne.
Il problema della procedura migliore per impedire che si stabilisca nelle alte sfere una cospirazione volta a ottenere l’impunità è uno dei problemi politici più difficili da risolvere. Può essere risolto soltanto se uno o più uomini hanno l’incarico di impedire tale cospirazione e si trovano in una situazione tale da non essere tentati di farne parte”.
(da Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano)

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.