Replica a L’Adige – Festival dell’EconoMIA

 Trovo se non altro discutibile che una parte politica, in questo caso il partito cui appartengo e, più in generale, la coalizione di centro destra al governo del Paese, venga accusata di faziosità, come fa oggi l’Adige tessendo, di contro, le lodi del Festival dell’economia. I partiti sono per definizione "di parte", ma liquidare come "faziose" le critiche che, non da oggi, il Pdl rivolge alla kermesse della giunta di Lorenzo Dellai non mi sembra un buon servizio alla collettività. È ben strano che si respingano così sbrigativamente le critiche di chi non è d’accordo con chi governa in Provincia, mentre si invocano "dialogo e confronto di idee". In verità, nell’articolo, si parla, a proposito dell’assenza di esponenti di governo al Festival, di paura o, meglio, "allergia" al contraddittorio. Ora, a parte che l’insinuazione è infondata, visto che nel fine settimana i ministri Tremonti e Sacconi parteciperanno, a Levico, alla Festa nazionale della Cisl e le parti sociali non sono certo tenere con il governo in ordine alla manovra finanziaria, è interessante l’uso di questa espressione.

Il contraddittorio, infatti, è un principio fondamentale del processo, sia esso civile, penale, tributario o amministrativo che scaturisce dall’articolo 111 della Costituzione che così recita: “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti”. Si sottintende, forse, che il Festival del’economia sia un processo? E, in questo caso, a chi? Forse, sarebbe opportuno prendere in considerazione, anche solo come ipotesi, l’accusa di "partigianeria" del Festival e provare a verificarla.

Non nascondo le mie perplessità su una manifestazione che tranne pochi acuti – come la testimonianza di Nouriel Roubini – si riduce ad essere una passerella che non sempre giustifica gli elevati costi di organizzazione. Sicuramente non per le ricadute sulla città che sono tutte da verificare se si deve credere alle cronache dell’Adige che il 7 giugno, a pagina 12, riferiva: "Pochi affari e costi elevati (…) pochi, pochissimi clienti. Anzi, beffa delle beffe, quei pochi clienti che nella prima vera domenica di sole estivo hanno scelto la città, anziché laghi o montagne, erano trentini. Gli economisti dentro i negozi non si sono visti, o quasi".

Quanto alla partigianeria, che dire del fatto che il Festival, quest’anno, è stato inaugurato da un atto d’accusa contro il ddl Alfano, quello sulle intercettazioni, e contro il governo di centro destra che l’ha proposto? Ora, si può pensare quel che si vuole di questo provvedimento in discussione al Senato, ma qualcuno sa dirmi cosa esso c’entri con un festival che dovrebbe essere dedicato all’economia? E, per continuare con le domande, si può quantomeno sollevare dubbi sul fatto che, durante un’iniziativa istituzionale e, formalmente, non di partito, quale il Festival dovrebbe essere, si lancino messaggi di discredito e quasi disfattisti sulle politiche economiche nazionali approvate sia dalla Commissione Europea che dal FMI, che rischiano di minare la cultura della proposta e della responsabilità che, in un momento come l’attuale, è di fondamentale importanza per far ripartire il sistema Paese? Comprendo che sia molto facile attaccare – cosa che si è verificata a più riprese nel corso delle giornate del Festival – un governo in carica, soprattutto se di segno diverso da quello della giunta provinciale che paga i conti della manifestazione, ma da un raduno di questo livello ci si aspetterebbe qualcosa di più. D’altronde due anni fa nessuno dei tanti esperti chiamati a ragionare di "Mercato e Democrazia" è stato in grado anche solo di ipotizzare una crisi delle dimensioni di quella esplosa poche settimane dopo negli Stati Uniti e, poi, in tutto il mondo, di cui ancora portiamo che conseguenze. Anzi si sono portati come esempio da imitare Paesi eruropei che sono oggi in situazioni ben peggiori delle nostre.

Possiamo tralasciare, poi, la lista degli invitati, tra cui figuravano nomi come quelli di Guglielmo Epifani, Nichi Vendola, Lucia Annunziata, Luca Sofri, Milena Gabanelli ed una nutrita pattuglia di giornalisti di "Repubblica"? Sara anche vero che Tito Boeri, invitando i relatori, non ha chiesto la loro appartenenza politica, ma è possibile che non conosca nessuno che non sia di sinistra? Tutte persone degne, sia ben chiaro, ma sicuramente non sopra le parti. Così come non erano sopra le parti, per entrare in questioni più di dettaglio, le pubblicazioni proposte negli stand di Piazza Duomo o la satira, tutta a senso unico, delle vignette esposte. Ricordo poi che quando si è parlato di presunti comportamenti truffaldini in campo ambientale in Valsuagana e delle conseguenti verifiche fatte, Dellai ha parlato di attacco all’autonomia, Saviano parla al Festival di possibili infiltrazioni mafiose nel commercio delle mele trentine e viene accolto e acclamato come salvatore della patria (eroe di carta, bandiera di una sinistra politica paralizzata, secondo il noto sociologo non certo di destra Alessandro Dal Lago).

Un cenno, in conclusione, sui costi del Festival. Non è il "solito" argomento dell’opposizione, per la semplice ragione che la situazione in cui ci troviamo non è la "solita". Stando a quel che si è visto – ma faremo le opportune verifiche nelle sedi proprie – la spesa per la manifestazione a carico del bilancio provinciale è molto alta nonostante gli sponsors e questa mancanza di sobrietà è oggettivamente uno schiaffo in faccia ai trentini in difficoltà.

A proposito della sentenza sul crocifisso

A proposito della discussa sentenza depositata nei giorni scorsi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nella quale si condanna l’Italia per le norme che prevedono l’esposizione obbligatoria nelle aule scolastiche del crocifisso perché ciò violerebbe “la libertà di religione degli alunni”, vorrei innanzitutto citare Natalia Ginzbrug. Negli anni Ottanta la scrittrice ebrea, già deputata dell’allora Partito Comunista così commentava in un suo articolo, in questi giorni citato anche a livello nazionale, la proposta di togliere questo segno dalle aule: “il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsi offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano”. E ancora: “Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo (…) prima di Cristo nessuno aveva detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini (…) A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola”. Credo che la riflessione di un’intellettuale di fede diversa da quella cattolica e tuttavia anche “laica” come la Ginzburg, dimostri come l’esposizione del crocifisso nelle scuole e in altri edifici pubblici non mortifichi in alcun modo la libertà di chi professa un altro credo o di quanti non credono affatto in Dio.
Con la sentenza sul crocifisso la Corte di Strasburgo avalla una concezione non laica ma laicista dello Stato, che pretende di rinchiudere la religione, in particolare quella cristiana, in un ghetto. Infatti nelle motivazioni della sentenza si sostiene che l’esposizione di questo come di ogni altro simbolo religioso lede il diritto sia dei genitori nella scelta dell’educazione da dare ai figli, sia dei minori di credere o meno, e nega il “pluralismo educativo”.
Non si comprende come la Corte possa decidere tramite sentenza che lo Stato Italiano abbia violato lo stesso “pluralismo educativo”. Il Crocifisso rappresenta infatti un simbolo religioso, culturale e identitario e proprio per questo non ha mai assunto una valenza coercitiva. Come hanno testimoniato le precedenti decisioni prese dai giudici in Italia, il Crocifisso rappresenta un elemento di coesione in una società che non può prescindere dalla sua tradizione cristiana. Come ha giustamente osservato il direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti nell’editoriale dedicato all’argomento, se togliessimo il crocifisso dalle scuole, in quanto luoghi pubblici, dovremmo allora rimuovere anche tutte le magnifiche opere sacre presenti nelle strade e nelle piazze italiane. La sentenza disconosce il ruolo della religione, in particolare quella cristiana, nella costruzione dello spazio pubblico e promuove un indifferentismo religioso che è in profonda contraddizione con la storia, la cultura e il diritto del popolo italiano. La stessa Costituzione italiana rifiuta l’impostazione laicista, di matrice illuministica, per la quale il fatto religioso ha una natura meramente individuale ed è destinato a restare nell’ambito della sfera esclusivamente privata. La Costituzione valorizza, invece, il ruolo della religione e delle singole Confessioni religiose, come dimostrano gli articoli 7, 8, 19 e 20.
Infine un’osservazione sul ruolo della scuola. Un’autentica integrazione civile non può prescindere da una proposta educativa che abbia il coraggio e l’ambizione di proporre a tutti gli studenti i punti di riferimento sui quali si fonda la nostra società. Siamo di fronte a una sentenza che è il manifesto politico di chi vuole il declino di un modello che ha garantito più di 50 anni di pace e benessere, al quale si vorrebbe sostituire un’ideologia il cui obiettivo è privare un popolo della propria identità e consegnare i cittadini europei alla dittatura del nulla. Auspico quindi che tutte le forze politiche italiane ed europee sostengano senza esitazioni il ricorso che verrà presentato dal Governo italiano contro una sentenza degna di un regime totalitario.

Impresa: l’uomo è la risorsa. Dialogo tra Frangois Mìchelin e giovani studenti.

Tratto dalla rivista Atlantide.

Frangois Michelin

Vorrei innanzilutto presentarmi. Mi chiamo FranQois Michelin, ho 81 anni, sono sposato da cinquantasei anni e ho “ricevuto” sei figli con la missione dì aiutarli a diventare ciò per cui sono nati. Ho lavorato in fabbrica per cinquanta anni e sono molto contento di averlo fatto, perchè le difficoltà che tutti noi incontriamo sono il mezzo più grande che abbiamo per essere educati. Spesso è possibile ottenere più profitto da un fallimento che da un successo, perchè quando si ottengono dei risultati positivi si rischìa di “specchiarsi” senza analizzate nulla, mentre davanti a uno scacco siamo obbligati a essere attenti alla realtà e a imparare da essa. Lo stesso avviene quando parliamo con una persona che non ci capisce, possiamo semplicemente dire: “? un imbecille”, oppure possiamo cercare di capire se abbìamo tenuto conto delle sue capacità e possibilità di ascoltarci. Questo è il processo fondamentale del- I’educazione. Ho perso mio padre e mia madre all’età di circa dieci anni

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Per rilanciare la scuola occorre investire sugli insegnanti.

Basta ripristinare gli esami di riparazione a settembre per migliorare la qualità della scuola italiana? Il recente dibattito – prima sul livello nazionale, poi su quello locale – seguito all’ordinanza del ministro all’istruzione, Fioroni, sulle nuove modalità di recupero dei debiti scolastici se, da una parte, ha avuto il merito di riportare l’attenzione sul sistema dell’istruzione nazionale – e provinciale – dall’altra rischia di rivelarsi un’ennesima occasione mancata. Soprattutto in Provincia di Trento, dove ci si è limitati ad usare le prerogative autonomistiche per varare un provvedimento che ha ridotto la portata dell’ordinanza ministeriale ma ancora non si vedono atti concreti che inizino a toccare i veri nodi del “sistema scuola”.
Così, tutto si è risolto in un’inutile contrapposizione tra chi vuole gli esami di riparazione a settembre e chi no. Tralasciando il fatto che, in realtà, il ministro dell’istruzione non ha reintrodotto gli esami di riparazione (avrebbe potuto farlo solo con una legge), nessuno può ragionevolmente pensare che la scuola non debba valutare e che agli insegnanti debbano essere forniti gli strumenti per farlo nella maniera più equa ed equilibrata possibile. Allo stesso modo, però, non si può misurare la qualità di una scuola dal numero di studenti bocciati.
Sono altri gli interventi di cui ha bisogno la nostra scuola – in Italia come in Trentino – per ritrovare nuovo slancio. Per individuarli è il caso di ricordare il rapporto Ocse-Pisa 2007, reso noto poco più di un mese fa, non per ribadire il quadro impietoso che esso offre della situazione della scuola italiana e della preparazione dei nostri studenti, quanto per richiamare l’attenzione sui Paesi che si trovano in testa a questa particolare classifica. Questi hanno ottenuto tale risultato decentralizzando e destatalizzando i loro sistemi scolastici, riducendo drasticamente materie e cattedre, differenziando gli indirizzi di studio, personalizzando i percorsi formativi, pretendendo una certificazione rigorosa delle competenze, una preparazione esigente dei docenti ed introducendo una severa valutazione di scuole, insegnanti e dirigenti.
Prima di mettere a punto gli strumenti di selezione, allora, è forse opportuno aprire un confronto sulle misure che potrebbero realmente liberare le energie e le risorse pur presenti nel nostro sistema scolastico. Su questo piano, penso che siano sostanzialmente tre le “riforme” di cui la scuola ha bisogno, in Trentino, come nel resto del Paese. Innanzi tutto, l’attuazione di una reale ed effettiva autonomia didattica e finanziaria degli istituti scolastici, che li sottragga al centralismo statale e provinciale. E in tale prospettiva vanno dati reali strumenti didattici, organizzativi e finanziari agli Istituti, a partire dalla valorizzazione, responsabilizzazione e valutazione dei dirigenti scolastici. A tutto ciò è strettamente legata un’adeguata formazione dei dirigenti scolastici i quali, provenendo dal corpo docente, hanno bisogno di integrare la conoscenza pregressa con vere capacità manageriali. Poi, la realizzazione della piena parità scolastica, garanzia di vera libertà di scelta per i genitori, ma anche presupposto di una sana concorrenza virtuosa fra le scuole.
Infine, una riforma seria non può prescindere dalla figura dell’insegnante, che non può essere ridotto a quello di semplice “impiegato” dell’istruzione. In realtà, la scuola ha bisogno di docenti che non rischino di limitarsi al mero ruolo di esecutori delle decisioni prese da altri, ma abbiano la possibilità di giocare fino in fondo la loro funzione di educatori. Per far questo, però, occorrono nuovi modelli di reclutamento degli insegnanti – con la possibilità di chiamata diretta almeno per una parte di essi, se abilitati – e a nuovi percorsi di formazione, anche premiando le scuole che investono sull’aggiornamento degli insegnanti. Ed occorre, soprattutto, prevedere momenti di valutazione dei docenti che andrà accompagnata da un sistema di premi ed incentivi di natura sia economica sia professionale. Probabilmente tutto ciò non potrà avvenire senza un ripensamento – che ovviamente dovrà incidere in primo luogo sulla normativa nazionale – della figura e quindi dello stato giuridico degli insegnanti, mettendo mano al loro sviluppo professionale così da affidare loro responsabilità reali in merito alla didattica e, di conseguenza, come detto, premiando l’assunzione di queste responsabilità.
Con queste osservazioni sulla valorizzazione del ruolo degli insegnanti, so di contrariare chi pensa alla scuola solo come uno dei tanti ambiti del sicuro e garantito impiego pubblico, ma so altrettanto bene che o si comincia a dare maggior peso al merito ed alle competenze degli insegnanti – le persone alle quali è affidata tanta parte della crescita dei nostri figli – in piena armonia con quanto sta accadendo nel resto d’Europa, oppure bisogna rassegnarsi al declino irreversibile del nostro sistema d’istruzione.

Tuteliamo le scuole Paritarie

Se c’è una domanda a cui preme dare risposta rispetto al referendum indetto per abrogare i finanziamenti previsti per le scuole paritarie è capire cosa si cela dietro a questo quesito. Il presupposto sotteso alla consultazione è infatti una mentalità che nega per principio la pubblica utilità di qualunque servizio nato e organizzato dalla società civile. In questa prospettiva il bersaglio da colpire non è solo la libera iniziativa sociale nell’ambito educativo, ma tutte le attività realizzate “dal basso” per rispondere ai bisogni delle persone in qualunque altro settore. Ad irritare certo laicismo e certa sinistra è che qualcuno oltre all’ente pubblico – in questo caso alla Provincia – si permetta di gestire istituti e di erogare prestazioni in vari campi (scolastico, formativo, sanitario, assistenziale, ecc.) capaci di garantire e soddisfare l’interesse generale della comunità, delle persone e delle famiglie, comprese quelle meno abbienti. Non a caso i referendari appiccicano continuamente l’etichetta di “privati” a queste scuole per dare di esse un’immagine tanto elitaria e chiusa quanto irrealistica, evitando accuratamente l’utilizzo del più corretto aggettivo di “paritarie”, sancito peraltro anche a livello nazionale da una legge – la 62 del 2000 – voluta da un Ministro di sinistra come Giovanni Berlinguer. La verità è che gli istituti paritari del Trentino, iniziando da quelli “equiparati” dell’infanzia – i più numerosi in quest’ambito – fino a quelli dell’obbligo e della formazione professionale, rispondono da sempre alla domanda educativa delle famiglie, dei bambini e dei ragazzi accogliendo chiunque, senza distinzioni di ceto e condizione. E svolgendo non senza difficoltà e sacrificio un servizio pubblico largamente apprezzato dalla popolazione trentina. Per questo la Provincia Autonoma di Trento già con la legge 29 del 1990 aveva riconosciuto agli studenti un sostanzioso aiuto in termini di sostegno economico. Approvando l’anno scorso a larga maggioranza una nuova legge sul “sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino” (l’unico voto contrario nel centro-sinistra – è il caso di ricordarlo – è stato di Bondi), il Consiglio provinciale ha confermato e consolidato quella scelta. A questo punto, pretendere di escludere con un referendum le scuole paritarie dalla pianificazione del sistema educativo e dall’accesso alle risorse provinciali, significa attardarsi in una battaglia di retroguardia che non si giustifica neppure evocando l’articolo 33 della Costituzione (il famoso “senza oneri per lo Stato”, riferito peraltro solo al momento in cui la scuola viene istituita da enti e privati, e non alla possibilità di finanziarla una volta sorta e funzionante). Mentre cresce anche nel mondo politico la convinzione che per riuscire ad assicurare un sistema dei servizi di qualità, equo ed efficiente in tutti i settori occorre favorire la responsabilizzazione, il coinvolgimento e l’impegno costruttivo e solidale dei cittadini e delle loro associazioni attraverso forme di partnership con l’ente pubblico, e quindi all’insegna della sussidiarietà e non delle “esternalizzazioni” e dell’abbandono alle logiche di mercato, chi propugna questo referendum vorrebbe condannare sommariamente i “privati” alla marginalità togliendo il sostegno necessario ad istituti e iniziative la cui capacità di rispondere ai bisogni della gente è ampiamente dimostrata e certificata. Per queste ragioni, d’intesa con i vari rappresentanti dell’associazionismo attivo nel mondo scolastico, Forza Italia del Trentino ha deciso di invitare i cittadini a non andare a votare in occasione di una consultazione che, pur legittima, pone tuttavia davanti ad un’alternativa vecchia, superata dalla logica, dalla storia e dal diritto. Credo che anche il corrispondere alla scelta compiuta dai soggetti sociali ed educativi maggiormente coinvolti e interessati – gestori, famiglie, insegnanti – di non presentarsi alle urne perché in disaccordo con la proposta del referendum, sia un modo per mettere la politica concretamente a servizio della gente.

I paradossi dell’ICEF applicata al welfare

L’Icef manca il bersaglio: premia le cicale e penalizza le formiche. Si potrebbe riassumere così l’effetto che il cosiddetto indicatore della condizione economica familiare, di cui si è tornato a parlare negli ultimi tempi, anche sulla stampa locale, ha sulla distribuzione dei benefici e delle provvidenze prevista dalla normativa provinciale in campo sociale. L’Icef – a mio parere un po’ troppo acriticamente – è sempre stato visto con favore, anche dalle forze sociali, perché considerato uno strumento utile per evitare, nel complicato universo delle politiche sociali, gli abusi dei furbetti che nascondono le loro reali capacità economiche. Ora, non c’è dubbio che sia corretto verificare il complesso delle disponibilità economico-patrimoniali di chi si rivolge all’ente pubblico per ottenerne un servizio di natura sociale, sia essa la casa Itea o la mensa scolastica per i figli, poiché è evidente a tutti che il solo reddito – sempre che sia dichiarato – non è l’unico elemento della condizione economica di una famiglia. Se, quindi, è corretta la finalità per cui è stato messo a punto, l’Icef non è, però, uno strumento infallibile per conseguirla. Tutt’altro. Un esempio concreto può essere d’aiuto. Consideriamo il caso di una famiglia composta da due persone anziane (sopra i 65 anni) con una pensione complessiva netta di circa 800 euro mensili e con un canone di affitto a loro carico di circa 400 euro mensili più 100 euro, sempre mensili, di spese condominiali. Aggiungiamo un gruzzoletto in banca, frutto dei risparmi di una vita, di circa 15.000 euro ciascuno. Penso che nessuno giudichi quella che ho appena descritto come una condizione invidiabile. Eppure, questa famiglia, oggi non sarebbe ammessa alla possibilità di presentare domanda di edilizia pubblica. Il suo coefficiente Icef, infatti, supera la soglia di 0,34 fissata dalla giunta provinciale. Come è possibile che due pensionati con un reddito di 800 euro mensili non possano accedere alle graduatorie Itea? È la conseguenza di una vera e propria stortura del sistema di calcolo dell’Icef adottato dalla Provincia di Trento: quei 15.000 euro di risparmi che ognuno dei due pensionati ha messo da parte, vengono, infatti, considerati reddito a tutti gli effetti. Meglio avrebbero fatto, i nostri buoni pensionati, a non dannarsi tanto per mettere via qualche euro da parte per la vecchiaia. Avessero seguito l’esempio della cicala, oggi sarebbero premiati. Avrebbero dovuto andare in vacanza: con un semplice viaggio di 1 mese, spendendo a questo fine almeno 5.000 euro, sarebbero rientrati nei parametri Itea e avrebbero non solo ottenuto il tanto agognato alloggio, ma pure i benefici dell’integrazione del canone sull’affitto. Per non parlare della riduzione del canone sociale e del contributo per la riparazione della protesi dentale. Anzi, se i due anziani coniugi avessero speso il loro denaro anche per una vetturetta di seconda mano, per qualche pranzetto al ristorante o per rinnovare il guardaroba, avrebbero potuto ottenere dalla Provincia molto di più. Non credo che quello che ho presentato sia un caso limite, ritengo, invece, che esso costituisca un esempio di una situazione più diffusa di quanto si pensi ai piani alti della Provincia. Basti pensare ad una coppia con un reddito di 1000 euro netti pro-capite ed un piccolo appartamento di proprietà che si trova a pagare 420 euro di retta per l’asilo nido quando la retta massima è di 450 Euro. Avevo già sollevato la questione in occasione del dibattito sulla trasformazione dell’Itea in Spa e oggi che i problemi vengono alla luce s’impone una riflessione per rivedere gli strumenti che vengono adottati per stabilire chi abbia diritto e chi no alle provvidenze in campo sociale. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che l’Icef, così com’è congegnata oggi, non funziona. Se l’attitudine al risparmio è connaturata alle genti trentine, questa politica che lo colpisce – peraltro discriminando fra chi i propri soldi li deposita nelle banche locali e chi, come i lavoratori immigrati, li trasferisce nel proprio Paese d’origine – certo non lo rappresenta, Si rischia quindi di premiare gli extracomunitari e penalizzare i trentini. Questa politica, che guarda e mette le mani nel portafoglio della gente come fosse il proprio, genera diffidenza verso le istituzioni pubbliche e provoca comportamenti scorretti: ci sarà, infatti, chi nasconderà i soldi, li preleverà dalla banca prima del fatidico 31 dicembre o li trasferirà sui conti di altri familiari per non doverli dichiarare. A breve scadranno i termini per la presentazione delle dichiarazione dei redditi degli inquilini Itea ai fini del calcolo dei canoni di affitto. Se i presupposti sono questi, si rischia di vederne delle belle.

Mutui in Trentino: le famiglie sempre più indebitate

Nei giorni scorsi il Corriere del Trentino ha giustamente riservato grande evidenza al fenomeno dell’aumento del numero di trentini che ogni anno ricorre ad un mutuo per l’acquisto della prima casa, caratterizzato dal contemporaneo aumento degli importi e della durata dei mutui stessi. Non credo sia esagerato affermare che i dati forniti dall’Osservatorio sulle politiche abitative” del Comune di Trento sono, a dir poco, allarmanti. Cercando di non annoiare il lettore con un’eccessiva profusioni di cifre e percentuali, vorrei, però, provare, sia pure sinteticamente e per punti, ad elencare le ragioni di tale allarme.
1. In soli 6 anni sono cresciuti di circa il 30% i mutui per importo da 100 a 200 mila euro e del 13% quelli da 200 a 500 mila, a scapito dei mutui fino a 100 mila euro diminuiti del 40%.
2. Si allunga anche la durata media del mutuo, ma in questo caso la perdita di circa 20 punti percentuali sulla parte bassa (11-15 anni) non si travasa sulla fascia media (16-20 anni) che rimane invariata, bensì su quella fra i 21 e 25 anni che passa dallo 0,94% al 24,08% per utilizzo da parte dei fruitori (tutto ciò sempre in soli 6 anni).
3. Le famiglie si indebitano mediamente quasi del doppio dell’importo e per quasi il doppio di durata media del mutuo.
I dati offerti dal Comune di Trento andrebbero, però, integrati per meglio inquadrare la situazione reale. Ad esempio, non conosciamo il numero degli alloggi sfitti o comunque vuoti: erano 3.071 nel 2001 e c’è da immaginarsi che oggi siano molti di più considerato che la crisi della borsa, proprio nel 2000-2001, ha prodotto una fuga verso il mattone di quanti avevano liquidità da investire.
Sarebbe anche interessante cercare di capire quale sia la fascia sociale interessata da tale dinamica dei mutui, ma i dati disponibili non lo consentono. Penso però di non sbagliare dicendo che, ancora una volta, stiamo parlando del ceto medio, non le fasce deboli che si rivolgono piuttosto all’edilizia pubblica e non quelle abbienti che, potendo, preferiscono non indebitarsi.
Gli effetti negativi di tale situazione sono facilmente prevedibili. Le famiglie si ritrovano sempre più idebitate e ciò fino all’età della pensione, se non oltre. Ciò si ripercuote anche sui figli che, in misura molto inferiore al passato, potranno contare sul sostegno della famiglia d’origine per acquistare una loro abitazione e costituire una propria famiglia.
E c’è di più: cosa potrebbe, infatti, accadere nel caso di un’improvvisa impennata dei tassi d’interesse, eventualità sempre possibile sui mercati finanziari? Il primo effetto sarebbe il “fallimento” delle famiglie (fenomeno che già si registra negli Usa con i cosiddetti mutui sub-prime), costrette a svendere sul mercato la propria abitazione.
Come può una famiglia pagare una rata di 1.000 – 1.200 euro al mese avendo a disposizione un reddito medio di poco superiore a tale importo? Anche quando a lavorare sono entrambi i coniugi, una simile cifra constituisce un onere che pone in seria difficoltà il bilancio famigliare.
Il seguente esempio dimostra cosa può avvenire nel caso di una crescita dei tassi d’interesse sui mutui in essere. Con un mutuo di 200.000 € al tasso del 5% per una durata di 25 anni: la rata mensile è di 1.183 €. Se il tasso sale di 2 punti, al 7%, la rata raggiunge i 1.430 €. Ulteriori altri due punti di aumento del tasso d’interesse, fino al 9%, fanno lievitare la rata a 1.697 €.
Soffermarsi sulle cause di questa situazione sarebbe utile, se non altro per tentare di prospettare possibili interventi, ma sarebbe anche piuttosto complicato e lungo, vista la molteplicità di fattori che ritengo vi abbiano concorso. Penso, ad esempio, alla spinta speculativa seguita all’introduzione della moneta unica europea, alla perdita di appeal dell’investimento azionario (almeno nel 2000-2002) e alla diminuzione dei tassi d’interesse sugli investimenti.
E’ quindi tempo di porre mano ad una nuova normativa sull’edilizia agevolata e ad intervenire per contenere gli effetti del caro mattone avendo a cuore che le famiglie non “falliscano” economicamente oberate da debiti insostenibili per un bene che nel nostro Paese è considerato primario e favorendo la messa in disponibilità sul mercato delle locazioni gli innumerevoli alloggi sfitti anche verificando nuove forme contrattuali che garantiscano un equilibrio tra le esigenze dei proprietari e quelle di chi prende in affitto l’immobile, attivando anche politiche che scoraggino l’investimento in immobili a soli fini speculativi, lasciandoli di fatto sfitti (ad esempio verificando l’applicazione di una tariffa ICI progressiva (simile all’Irpef) in proporzione al numero di anni in cui l’immobile viene lasciato sfitto).
Non dico che ciò sia facile, perché il mercato segue regole e dinamiche su cui la politica non sempre può incidere. Almeno, però, bisogna provarci. E’ una questione di responsabilità.

La priorità è scommettere sulla famiglia

Vi sono casi nei quali la politica dispone di dati attendibili, e non solo di opinioni soggettive, per valutare le situazioni, selezionare i temi e i problemi prioritari e davvero degni di attenzione. Si potrà poi tener conto o meno di questi elementi oggettivi, ma solo se nelle scelte si rispetteranno questi dati di realtà l’atteggiamento sarà davvero laico, cioè non ideologico, non preventivamente preoccupato di affermare ad ogni costo, fino a negare l’evidenza, le proprie opinioni. E’ a mio avviso anche l’indebolirsi di questa attitudine laica, vale a dire realistica e popolare (la radice greca della parola laico è infatti laos, “popolo”), ovvero la tendenza a sottoporre il pur “duro e cocciuto” carattere dei fatti all’affermazione ostinata e “a prescindere” delle proprie idee, ad aver caricato la questione delle coppie non sposate in Italia di una rilevanza politica e mediatica sproporzionata rispetto alla consistenza effettiva del fenomeno. Perché se con lo sguardo scevro da pregiudizi badiamo all’esito delle più autorevoli indagini statistiche prodotte sull’argomento, è molto difficile giustificare la fretta di chi sostiene la necessità di una rapida approvazione del disegno di legge sui Dico “partorito” dal governo Prodi o ora al vaglio del Parlamento. Nel 2006 l’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, ha rilevato la formazione in Italia di 1.300 unioni di fatto, il 47 per cento delle quali formate da celibi e nubili. Dall’indagine è emerso che i Dico potrebbero teoricamente interessare il 3,9 per cento della popolazione. Il condizionale è d’obbligo, perché bisognerebbe sapere quante coppie si servirebbero della legge se venisse approvata. Un autorevole demografo dell’Istat, Bacci, stima che ai Dico potrebbero, forse, essere interessate fra le 10 e le 13mila unioni di fatto. E’ tutto da vedere poi quante di queste convivenze, nate anche a motivo di una intenzionale e strutturale provvisorietà, intendano assoggettarsi a norme e vincoli di tempo fissati dall’ente pubblico. Lo dimostra l’irrilevanza delle iscrizioni finora raccolte dai pubblici registri dei conviventi, creati in alcuni Comuni fra i quali anche Trento (in tutta Italia ad oggi risultano tra le 145 e le 154 coppie). A servirsi della nuova legge potrebbe essere un numero a dir poco esiguo di coppie di fatto, anche perché molti dei casi di queste unioni attendono semplicemente che si verifichino le condizioni (personali, abitative, lavorative, ecc.) per potersi trasformare in matrimoni. E’ quindi perlomeno discutibile da parte dei politici lasciar credere che la legge sui Dico, una volta varata dal Parlamento, si applicherà in modo pressoché automatico ai conviventi. Il dato certo è che la domanda sociale di una disciplina statale in questo campo è irrisoria. Tanto più che ben altre preoccupazioni si impongono all’agenda politica del Paese, nella quale, anche per la gente comune i Dico non figurano. Da un’intervista a 1000 persone realizzata a Roma il 7 e l’8 febbraio dalla società Codres per conto delle Acli, risulta che alla richiesta di segnalare quali leggi ritenessero prioritarie, il 41% ha risposto collocando in cima alla lista la correzione degli squilibri del sistema pensionistico, il 39% ha sottolineato la necessità di norme che risolvano i problemi della sanità, un altro 39% ha proposto di affrontare i problemi del lavoro precario, il 24% di ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione, e ancora il 24% di promuovere una politica di sostegno alla famiglia. Solo per il 6% degli intervistati la regolarizzazione dei Dico sarebbe prioritaria. Alla prova dei fatti non sta in piedi neanche l’argomento che i Dico andrebbero approvati per una questione di principio, quella dei diritti dei singoli conviventi. Il che è falso non solo perché per tutelarli basta il codice civile, ma anche perché, come ha giustamente notato l’Arcivescovo di Trento, con i Dico lo Stato offrirebbe un’alternativa al matrimonio proprio nel momento in cui in Trentino come in Italia c’è invece estremo bisogno di sostenere la famiglia. Come afferma anche un recente appello lanciato dall’associazione Libertà e Persona. Non solo per motivi etici, ma anche demografici. Nel nostro Paese, infatti, il tasso di fecondità totale (che misura i nati per donna in età feconda; è il caso di ricordare che sotto l’1,9 non è garantita la stabilità demografica), è sceso dall’1,33 del 2004 all’1,32 del 2005. In Francia è 1,94. Nel Regno Unito a 1,8 come in Finlandia e Svezia, mentre nei Paesi Bassi è a 1,73. Se questo è oggi il primo grande problema non solo a livello nazionale ma anche in Trentino, come dimostra l’ultimo Rapporto sulla situazione sociale ed economica della nostra provincia, una politica responsabile dovrebbe creare da subito condizioni più favorevoli perché si formino famiglie, e non convivenze, nelle quale sia meno problematico generare e crescere dei bambini. Perché i figli nascono e crescono in modo equilibrato, come i dati anche qui dimostrano ampiamente, molto più nelle famiglie che nelle unioni di fatto. E che oggi le famiglie siano in difficoltà è un motivo in più perché lo Stato ne sostenga maggiormente le responsabilità. Non con iniziative “tampone”, ma rendendola l’unità di misura della qualità di tutti gli interventi, legislativi e amministrativi. Perché dietro i Dico la vera querelle è fra chi scommette sulla famiglia e chi preferirebbe invece affossarla. Per questo ho sottoposto al Consiglio provinciale un disegno di legge, ora all’esame della quarta commissione, che propone di valutare l’impatto di ogni iniziativa pubblica sulla famiglia in modo da adeguare gli strumenti – nel campo delle tariffe, dei servizi sociali, sanitari, scolastici, della casa e del lavoro, ecc.– alle sue esigenze concrete. Sono convinto che l’affermazione della “centralità della persona” resta un’enunciazione astratta se non si traduce in azioni precise a supporto dei compiti della famiglia, prima formazione sociale in cui ogni essere umano si sviluppa e inizia a realizzarsi. Il che è non a caso riconosciuto dalla Costituzione anche grazie al contributo determinante non solo della componente democristiana, ma anche di Palmiro Togliatti. Il quale durante i lavori dell’Assemblea Costituente propose questa formula: “La famiglia è riconosciuta come naturale associazione umana ed è tutelata allo scopo di accrescere la prosperità materiale e la solidità morale della nazione”. Un atteggiamento quello recepito dalla costituzione e anche quello di Togliatti, laico e popolare, perché leale verso i dati della realtà e verso il popolo italiano e che mantiene a tutt’oggi tutta la sua validità.

Walter Viola

Consigliere provinciale di Forza Italia

Ru 486. In Trentino un triste primato

Il recente plauso con cui è stato salutato l’uso nella sanità trentina della cosiddetta Ru 486 mi ha fortemente incuriosito. Certamente ribadisco la mia netta contrarietà a tale pratica, ma mi è sembrato opportuno e anche doveroso cercare di saperne di più. Non è facile addentrarsi in tematiche di tal fatta, ma ritengo che le valutazioni e la documentazione che ho trovato sull’argomento, sebbene non certo esaustive, possano essere un utile contributo per rendersi conto di cosa si tratta. Dunque il nostro sistema sanitario detiene un primato nel campo dell’aborto chimico. In pochi mesi sono stati realizzati 100 aborti con l’ormai famosa Ru 486. Un risultato non da poco per la nostra sanità che continua ad importare questo farmaco dalla Francia. Perché? Perché la Ru 486 non è registrata in Italia, in quanto la casa produttrice non ne ha mai fatto richiesta, e c’è il timore che la pillola abortiva non supererebbe tutte le sperimentazioni richieste nel nostro Paese, tanto con un governo di centro destra quanto con uno di centro sinistra, da cui è appena arrivato un ulteriore stop agli entusiasmi. Non si riesce a trovare nessuno disposto a produrre la Ru486, e la casa che l’ha inventata ha addirittura ceduto gratuitamente i diritti, perché la “pillola” non è affatto innocua e indolore come si vuol far credere. Infatti anche negli Usa è stata approvata dalla Food and Drug Adiministration (Fda) con un escamotage: presentarla come un farmaco salvavita, per il quale sono ammessi anche effetti collaterali molto gravi. Oggi la Ru 486 negli States è sottoposta a continue critiche: porta una banda nera ed è dotata di un bugiardino che mette chiaramente in guardia da numerosi effetti collaterali (tra l’altro vieta l’utilizzo della pillola per chi abiti lontano da un ospedale o non sappia guidare: infatti è frequente il caso di improvvise emorragie). Infatti la Fda ha dovuto ammettere numerosi casi di morte in seguito all’uso di tale pillola: il caso più famoso è quello di Holly Patterson, una ragazza minorenne che ingerì la pillola, credendo che fosse la cosa più facile del mondo, e ci rimase. Da allora, nella sola California, sono venuti alla luce almeno 5 casi di morte, a cui se ne sono aggiunti molti altri. Si ricorda anche la morte di un’altra giovane, la figlia del dottor Sicard, la più alta autorità di bioetica in Francia. Del resto basta recarsi nel sito americano della Fda per constatare quanto detto. Oppure si può visitare il sito della Danco, l’industria farmaceutica che produce la pillola, per trovare oltre 600 testimonianze di donne che ne denunciano gli effetti collaterali: si va dalle emorragie al vomito, agli aumenti della pressione ai dolori e crampi addominali fino alle infezioni pelviche o genitali. Talvolta la Ru 486 fallisce rendendo così obbligatorio anche l’intervento chirurgico. Il farmaco mette inoltre a rischio la possibilità di gravidanze future. Desta quantomeno forti perplessità pensare che un veleno potente al punto da uccidere un embrione già formato, non abbia controindicazioni per la donna, che quel veleno riceve. Una delle riviste più autorevoli in campo medico, il New England Journal of Medicine, ha dimostrato con una ricerca del 2005 che, a parità di età gestazionale, la mortalità della donna per aborto con Ru 486 è ben dieci volte superiore rispetto a quella con tecnica chirurgica. Non è difficile da capire: mentre l’intervento chirurgico, che dal punto di vista morale è assolutamente equivalente, dura una sola seduta, nel caso dell’aborto chimico si richiede che la donna assuma la Ru 486 in presenza del medico, poi dopo 24 ore ritornerà in clinica per assumere la prostaglandina, e quindi nella maggior parte dei casi dopo 12-24 ore avrà violente contrazioni uterine che espelleranno l’embrione dall’utero. Il protocollo seguito per l’aborto chimico richiede molti più incontri tra il personale sanitario e la donna rispetto a quello chirurgico, la permanenza in ospedale per almeno tre giorni consecutivi e una vista di controllo al quattordicesimo giorno. Concludo avvertendo che questo non è, come sicuramente qualcuno mi rinfaccerà, facile “terrorismo psicologico”, ma un semplice attenersi alla realtà dei fatti e dei dati. Si enfatizzano spesso, per tutelare la salute e l’ambiente dall’immissione di sostanze innaturali, i principio di prevenzione e precauzione. Giustissimo. Questa della pillola Ru 486 è un’ottima opportunità, considerata anche l’autonomia del Trentino, per applicarli.

ll welfare che nasce dalla società e dal territorio

Politiche sociali: la proposta di Forza Italia fa del Trentino un laboratorio. Promuovere valide esperienze di programmazione e di gestione dei servizi sociali dal basso, restituendo centralità reale al protagonismo della società civile, nella convinzione che la realtà sociale trentina, grazie alle peculiari prerogative dell’autonomia speciale, possa costituire, in quest’ambito, un laboratorio d’assoluta rilevanza: è questo l’obiettivo del disegno di legge di riforma del welfare che, quale primo firmatario, ho presentato insieme ai colleghi del gruppo consiliare di Forza Italia. Il disegno di legge di Forza Italia – che prima del deposito in Consiglio provinciale è stato sottoposto all’esame di molte associazioni ed operatori del settore – si fonda sul riconoscimento che al centro d’ogni intervento vi è, innanzi tutto, la persona con i suoi bisogni. Per dare risposte sostenibili economicamente e, soprattutto, adeguate ed efficaci occorre studiare ed introdurre forme di rapporto e di collaborazione con le libere organizzazioni dei cittadini e delle famiglie, con le associazioni di volontariato, le imprese non profit, le cooperative e le fondazioni, consentendo a queste realtà non più solo di integrare o completare marginalmente l’iniziativa della Provincia o dei Comuni, ma d’essere protagonisti e responsabili di progetti e attività rilevanti al servizio della comunità trentina. Dare maggior peso, ruolo ed importanza a questi soggetti nell’ambito delle politiche sociali, come si propone la riforma sostenuta da Forza Italia, non significa affatto, per la pubblica amministrazione, privatizzare tout court o appaltare i servizi, ma instaurare relazioni di partnership e, quindi, contratti strutturati per garantire risposte adeguate al profilo della domanda. In tal modo, il partneriato sociale diventa espressione della miglior sintesi delle caratteristiche di garanzia del pubblico e d’efficienza del privato. Il principio basilare cui il disegno di legge, in ossequio anche a quanto previsto dalla normativa europea e dall’articolo 118 della Costituzione, fa riferimento è quello di sussidiarietà, che afferma il primato della persona rispetto alla società e della società rispetto allo Stato, affinché ogni decisione attinente l’interesse generale sia presa al livello più vicino al cittadino. Ciò si traduce, concretamente, nella valorizzazione del ruolo e della funzione degli ambiti locali nell’elaborazione e nell’attuazione dei piani sociali territoriali. Ecco allora l’istituzione, nell’ambito d’ogni Comunità di Valle, dei tavoli territoriali. Questi organismi – la cui composizione può variare a seconda della Comunità ed in cui sono rappresentati gli enti locali, i soggetti operanti nel terzo settore ed i servizi pubblici d’assistenza e beneficenza operanti sul territorio di riferimento – hanno il compito di redigere ed attuare i piani territoriali triennali, che concorreranno poi al piano provinciale per le politiche sociali. Mentre il ruolo di controllo e d’indirizzo politico viene, com’è naturale, mantenuto in capo alla Provincia, la proposta assegna ad un Comitato di codecisione, nominato dalla Giunta provinciale, il compito di valutare – attraverso il Nucleo di valutazione, organo di natura squisitamente tecnica, – i piani territoriali triennali e di predisporre, sulla base degli indirizzi che da essi provengono, le proposte di programmazione delle politiche socio-assistenziali e di distribuzione delle risorse finanziarie da formulare alla stessa Giunta provinciale. Il riordino del sistema delle politiche sociali del Trentino è una sicura priorità che, mi auguro, costituirà nei prossimi mesi uno dei temi centrali del dibattito politico e del confronto in consiglio provinciale. Un confronto che dovrà essere il più ampio possibile e libero da pregiudiziali politiche, perché non si può metter mano ad un settore così importante per l’intera società trentina senza tener conto di tutte le posizioni in campo e di tutti i contributi.

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TABELLA DI CONFRONTO DDL VIOLA-DALMASO

INTERVISTA A WALTER VIOLA SUL DISEGNO DI LEGGE