La ragione, esigenza di totalità

Ho trascritto e riordinato per titoli gli appunti presi ieri sera nel corso dell’incontro all’auditorium di Trento con don Julian Carron (nella foto), presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che ha presentato il libro di Luigi Giussani "Il rischio educativo". Tema della serata: "L’educazione come fattore costruttivo di persona e popolo". Seguito da più di 1.500 persone (anche da un vicino teatro in videoconferenza diretta) e promosso dal rettore dell’Università Davide Bassi insieme al presidente della Cooperazione trentina Diego Schelfi, si è trattato di un vero e proprio evento per la nostra regione. I brani citati mi sembrano fra i più significativi, ripresi purtroppo solo in minima parte dalla stampa, e riflettono il nucleo sia dell’intervento introduttivo che delle risposte di don Carron alle domande emerse in sala.

Destare l’interesse 

 «Oggi un educatore non può dare per scontato che un soggetto abbia il desiderio di imparare. Il problema è che tante volte questo desiderio di imparare non c’è. Occorre dunque ridestarlo. La Chiesa ha lo stesso problema, perché non può dare per scontato l’interesse per la fede. Deve destarlo. Ci troviamo davanti ad una profonda crisi dell’umano. Sembra che niente interessi abbastanza per mettere in moto l’io. Questo succede perché c’è negli adulti uno scetticismo che sono soprattutto i giovani a pagare. Senza qualcosa di vero da proporre, gli adulti non riescono ad interessare i giovani, e allora restano solo i richiami etici e moralistici, che però non sono in grado di mobilitare l’io. Ciò che è in crisi è il nesso misterioso che unisce il nostro essere con il reale.

La domanda di totalità

L’educazione esiste quando qualcuno è introdotto alla realtà nella sua totalità. Ma il punto di partenza è la realtà che continua a ridestare una domanda di totalità. Quali che siano le circostanze in cui si trovano, questa domanda continua a sorgere soprattutto nei giovani. Ecco perché con l’educazione occorre offrire loro un’ipotesi di significato esplicativa della totalità della realtà. Non a caso ad un bambino non interessano i singoli pezzi di un giocattolo ma il suo significato Sarebbe assurdo regalare a un bambino un giocattolo senza svelargliene il significato.

Tradizione, autorità, obbedienza

Il passato è la ricchezza di un popolo che serve alle generazioni per evitare di dover ricominciare ogni volta la storia da capo. Questa è la tradizione. C’è bisogno che a presentarla ai giovani sia un’autorità, cioè una persona piena di affezione per un passato che gli permette di vivere il presente in modo affascinante. Autorità è un adulto che mette nel reale tutto se stesso, che sa affascinare e sfidare gli altri per il suo modo di vivere. L’autorità non sostituisce ma ridesta le domande e lo spirito critico. Anzi. Cerca la critica perché sia possibile la verifica di quel che propone. L’autorità è un volto che abbiamo bisogno di rintracciare perché ci guidi nella strada della vita. Occorre che come educatori ci chiediamo se abbiamo presentato la tradizione con sufficiente interesse e fascino per avere la capacità di trascinare l’interesse dei ragazzi. L’obbedienza è messa in moto se ci troviamo di fronte a qualcosa che ci fa diventare di più noi stessi, che risponde all’attesa del cuore. Allora nasce la curiosità, lo stupore e il tentativo di seguire per immedesimarsi nelle ragioni dell’autorità.

La sfida alla ragione

Una cosa diventa nostra solo se la mettiamo alla prova per verificare se corrisponde alle esigenze del cuore. Dove manca la sfida continua alla ragione non esiste educazione, perché non si riesce a mettere in moto il centro dell’io come ragione, libertà e affezione. Trovare un luogo e persone che ridestano l’io sarà la vera possibilità di speranza per il popolo. La ragione è questa esigenza di totalità che emerge di fronte al contraccolpo del reale. Si è invece ridotto il concetto di ragione a qualcosa che si può misurare. Per questo Benedetto XVI nel suo discorso a Ratisbona ha proposto di allargare la ragione perché essa non sia ridotta ad un tipo di sapere o ad un tipo di razionalità che non risponde all’esigenza di totalità dell’io».

Antonio Girardi

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Il Codice da Vinci e la verità su Gesù

La Parrocchia di S.Giovanni di Borgo Sacco, (Rovereto) organizza un incontro con il prof. Marco Fasol, autore del libro "Il codice svelato", dal titolo "Il Codice da Vinci e la verità su Gesù". L’appuntamento è fissato per venerdi 10 novembre ad ore 20:30  presso l’oratorio di Borgo Sacco, in via Zotti.  Volentieri diamo risalto all’iniziativa, che tra l’altro ci ha visti promotori alcuni mesi fa di uno stesso incontro a Trento proprio con Marco Fasol. Considerato il successo di pubblico, ottenuto in quell’occasione e la capacità dell’autore di mettere in luce i retroscena a dir poco "surreali" di Dan Brown, consigliamo vivamente la partecipazione.

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News su Maria Vika dalla Bielorussia

Qualche aggiornamento su Maria-Vika, l’orfana bielorussa costretta a rimpatriare per motivi e a condizioni ancora ignote alla pubblica opinione italiana. Le notizie sono due: adesso è in affido temporaneo nella stessa famiglia che ha adottato il fratello (che Maria aveva ritrovato grazie ai coniugi di Cogoleto, non certo grazie alla solerzia dei bielorussi). La quale famiglia ha fatto sapere che se non avrà aiuti economici non potrà tenere Maria con sè.

La seconda notizia è che un giornalista del Secolo XIX di Genova le ha telefonato e la bambina ha detto che vorrebbe tornare in Italia. E qui il festival dell’ipocrisia, tutti a protestare per l’intrusione del giornalista nella vita della bambina.

Certo, quando Maria-Vika aveva raccontato di volersi suicidare pur di non tornare nell’orfanatrofio dove aveva subito violenza, ci si era agitati di meno. I discorsi che si sentivano in giro erano: ma si sa che i bambini dell’est negli orfanatrofi spesso sono abusati! Invece adesso, dopo la telefonata, tutti a strapparsi i capelli, a protestare per lo scandalo…oddio la privacy! In un commento surreale sul corriere, Isabella Bossi Fedrigotti invita a far calare il silenzio su Maria, per farla tornare alla vita normale.

La verità è semplice, invece, ed è sotto gli occhi di tutti: nascondendo Maria, contro la legge, i coniugi Giusto l’hanno realmente tutelata, perchè adesso la bambina è sotto i riflettori, e la Bielorussia difficilmente si può permettere di riportarla dove è stata seviziata. Sarà illegale, ma ha funzionato.

Sarà stato sbagliato (?), ma adesso la bambina è curata e seguita come prima non era mai successo, come prima non era stato possibile.

La seconda considerazione è che per Maria la sua famiglia è quella italiana. Lo ha sempre detto, non si capisce perchè avrebbe dovuto cambiare idea.

E la cosa più ridicola è che invece se Madonna si prende i bambini in Malawi senza rispettare le leggi, tutto va bene, perchè è ricca. Sicuramente più dei coniugi Giusto. Pecunia non olet, et piace a tutti.

(tratto da un articolo di Assuntina Morresi nel sito Stranocristiano.it)

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Sabato 25 novembre la Giornata della Colletta Alimentare

E’ in programma anche in tutta la nostra regione, sabato 25 novembre, la decima Giornata della Colletta Alimentare.

Promossa dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus del Trentino Alto Adige con la collaborazione delle sezioni locali dell’associazione Nazionale Alpini e i Nuvola (protezione civile), quest’anno la Giornata della Colletta Alimentare coinvolgerà nel nostro territorio oltre 2000 volontari, che in 150 supermercati raccoglieranno i prodotti appositamente acquistati e consegnati loro dai clienti all’uscita

Sarà poi lo stesso Banco Alimentare a stoccare gli alimenti e ridistriburli a 33 associazioni ed enti convenzionati rispondendo così al bisogno di più di 6000 persone.

Tutti possono partecipare all’iniziativa sia come volontari sia come acquirenti dei prodotti da lasciare al Banco Alimentare. Per avere informazioni e aderire alla Giornata della Colletta basta rivolgersi a Duilio Porro, presidente del Banco Alimentare del Trentino Alto Adige-Onlus (cell: 328-8217330).

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Il grido del ragazzo 28. 10 .2006

“Ci avete reso teppisti di mezza tacca perché non siete forti abbastanza. Non ci avete indicato nessuna strada che abbia un senso, perché questa strada voi stessi non l’avete e non siete riusciti a cercarla.” Queste sono le parole di un giovane maturando tedesco; esse rivelano il vuoto morale, l’assenza di radici, la condizione di abbandono cui sono spesso relegati i giovani da generazioni di adulti, “che per non condizionarli”, hanno smesso di educarli. Ma dalla voce del ragazzo si leva un grido: aiutateci! Cosa rispondiamo a questo ragazzo? Oltre la buona volontà dei singoli, cosa rispondono le istituzioni? Si avverte un gran silenzio, l’unica voce che si leva forte e chiara è quella del Papa. Gli intellettuali “laici” sembrano assillati da un solo problema: che i pronunciamenti della Chiesa non turbino la purezza della laicità; essi sembrano non vedere la crisi che attraversa le generazioni: la perdita della speranza, della capacità di progetto, del valere della rinuncia. Essi non vedono o non vogliono vedere, che l’unico valore rimasto è l’individualismo. Essi parlano di società multiculturale e perciò relativista, confondendo il relativismo con la Babele. Si parla di morale soggettivista, si parla di rispetto della persona, ma non ci si rende conto che la prima vittima del soggettivismo morale è la persona stessa che si trova a vivere in un deserto privo di riferimenti e vittima di ogni seduzione. Se qualcuno parla di riscoperta delle radici ebraico-cristiane rischia di infastidire persino certi ambienti cattolici “progressisti”, tanto preoccupati di occultarle, le radici, e di scomparire nel mondo, con ciò credendo di andargli incontro, al mondo, di essergli più graditi. Ma il ragazzo “del grido”, ha bisogno di vedere, di sentire, di incontrare, di parole forti, di preti forti, di maestri forti, proprio come Benedetto XVI. Il ragazzo non sa che farsene di amiconi stralunati e scettici, tristi e dubitanti di tutto. Non gli importa nulla della “democrazia nella chiesa”, egli, oltre la fecondità dei dubbi, vuole delle scelte, vuole delle proposte e rivendica una direzione.
I “sacerdoti della laicità”, i sacerdoti dello stato neutrale, delle leggi neutrali, declamano i principi racchiusi nella carta costituzionale; li dicono sufficienti per delineare “la pubblica morale”. I “sacerdoti della laicità,” enunciano belle parole: rispetto, diversità, giustizia, uguaglianza, diritti. Ma esse, le parole, restano flatus voci, perché non si incarnano in un sentire comune, perché sono troppo generiche. Un tempo, quando furono fissate nella carta costituzionale non era così; ma un tempo, laici e cattolici sentivano nello stesso modo, si intendevano sull’essenziale. Perché erano cristiani nello spirito, tutti, per dirla alla Benedetto Croce.
Ma oggi, il sentire non è comune, è dilagata la cultura radicale, è dilagato l’individualismo; e le macerie le vediamo. Su tematiche un tempo condivise oggi si dibatte, vacillano i dati elementari che qualificavano la persona, la famiglia, il senso del procreare, la vita, la morte. Gli accordi si raggiungono soltanto attorno ai grandi proclami su pace e giustizia, proclami irrilevanti per la quotidianità dei più. Spesso l’amore per il lontano maschera l’odio per il vicino.
La laicità si è ridotta ad una mera regolamentazione degli interessi contrapposti e la verità è ritenuta irraggiungibile dalla ragione, declassata al rango di convenzione mutevole con il tempo e con le mode. Questa idea di laicità, nata con la rivoluzione francese, ha un vizio d’origine, essa nasce contro il passato, contro la tradizione, contro le religioni, contro la Chiesa.
Da allora, il dogma della stato laico si è librato su tutto, animato intimamente dall’idea di rifare il mondo ex novo. Uno dei frutti di questa idea è oggi l’individualismo.
Per esso, i diritti dei singoli, stanno dilagando ed erodendo ogni terreno comune, perciò l’uomo è sempre più solo.
Da molte parti perciò, si affaccia sulla scena pubblica la rivendicazione di una riscoperta dell’Ethos comune e questo bisogno è sollecitato con forza, tra gli altri, dalla Chiesa Cattolica.
Ma la vecchia idea di laicità non muore, e questo è il motivo per il quale da certi ambienti ogni pronunciamento ecclesiastico è visto con sospetto se non inviso. Per lo stesso principio di laicità, ogni espressione della civiltà cristiana che osi uscire dal privato deve essere represso, additato come confessionale, intollerante, contro la libertà di coscienza. Ma cosa resta dei valori senza l’apporto cristiano? “La politica senza teologia è assurda. Tutto ciò che ha a che fare con la morale e con l’umanità fa riferimento al messaggio biblico.” Queste sono parole di Horkheimer, neo marxista co- fondatore della scuola di Francoforte. Lo stato laico neutrale, come ben visibile è destinato alla rovina, alla decomposizione del proprio tessuto sociale, perché i valori condivisi saranno sempre meno. Conflitti fra leggi, gruppi di pressione, principi costituzionali, gruppi religiosi spontanei, seduzioni mediatiche e commerciali, genereranno una situazione di lotta perenne e la resa di ogni principio morale al criterio dell’utile.
Oltre le costituzioni credo vada ricostruito un comune patrimonio morale. Per fare questo, non solo è necessario tornare all’educazione correttamente intesa, ma pure riscoprire le virtù che sono il mezzo attraverso cui i principi vengono tradotti in azioni. Le virtù dovrebbero tornare al centro del dibattito pubblico. E’ necessario un nuovo patto fra credenti e non credenti accomunati da un concetto di laicità diverso, nuovo, capace di valorizzare gli apporti del cattolicesimo, delle grandi tradizioni religiose e della parte migliore dell’umanesimo laico. Di questo, penso, il Papa si sia fatto interprete, con coraggio e determinazione riportando l’essere cristiani fuori dal tempio, riproponendo, nell’agorà del pensiero, la bimillenaria sapienza cristiana, perché tutti possano trarne beneficio. Questo significa rispondere al grido del ragazzo. Il futuro è l’origine direbbe Gadamer, non dimentichiamolo.

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Sos Libano. Appello per la raccolta di aiuti umanitari

Le drammatiche vicende della guerra israelo-libanese sono a tutti note. Il 12 luglio 2006, gli Hezbollah, militanti islamici del Partito di Dio, attivo nel Libano del sud nell’ambito di una estenuante guerra di rivendicazioni territoriali che prosegue ormai da più di vent’anni, sferrano un attacco contro le truppe israeliane uccidendo otto militari israeliani e rapendone due.

Immediata e violentissima la replica di Israele, che, affermando di interpretare il blitz degli Hezbollah come una dichiarazione di guerra, scatena un conflitto indiscriminatamente proteso alla distruzione del Libano intero.

Numerose ed eloquenti, durante e dopo l’attacco, sono state le prese di posizione critiche sulle ragioni e sugli esiti del conflitto: dai pronunciamenti delle organizzazioni umanitarie, alle esplicite dichiarazioni di numerosi prelati cristiani dell’area mediorientale, alle esternazioni di uomini insospettabili come l’attore ebreo Moni Ovadia…

Non è forse inutile riassumere attraverso le parole di Monsignor Fuad Twal, vescovo di Gerusalemme, le difficoltà che si presentano a chi tenti una ricostruzione delle vicende mediorientali. Presente a fine agosto al famoso Meeting che C.L. organizza annualmente a Rimini, Mons.

Twal, denunciando la manifesta partigianeria dei mass media internazionali, oltre ad esprimere il proprio punto di vista sulla guerra di Israele in Libano, ha ricordato che: "L’informazione è pilotata e non obiettiva. Ci vorrebbe più senso critico, che invece manca. Israele è forte in tutti i sensi e i mass media sono influenzati e così nessuno osa parlare di occupazione israeliana. (…)

Io sono responsabile religioso in Israele, Palestina e Giordania e voglio bene agli abitanti di questi tre stati e posso solo dire che oggi esiste una occupazione militare che può solo raccogliere ulteriore resistenza. Che Dio ci aiuti a ritrovare la via del dialogo, della ragionevolezza, della carità e ridia speranza a questa terra la cui vocazione è di essere una terra di pace e non di sangue".

Per consentire una valutazione sintetica ma effettiva sul significato e sugli scopi di questo ultimo grande conflitto mediorientale, non è in ogni caso superfluo riportare le cifre aride, eppure pregnanti, del disastro libanese, tutte desunte dalle più qualificate fonti giornalistiche del Paese dei cedri:

* l’ingaggio pianificato e ripetuto di obiettivi non militari ha causato la morte ed il ferimento rispettivamente di 1283 e 4055 civili. Significativamente l’83% dei decessi riguarda donne e bambini; tra questi ultimi, un quarto sono al di sotto dei 12 anni. I profughi libanesi sono stati circa 1 milione. Circa 70.000 persone hanno lasciato definitivamente il Paese;

* in 33 giorni l’aviazione israeliana ha compiuto 40.000 ore di volo e 15.500 raid aerei, portando distruzione e morte sul territorio libanese con circa 150.000 bombe. Senza alcun rispetto per le convenzioni internazionali sono state sganciate in quantità bombe al fosforo, bombe a grappolo e persino ordigni contenenti sostanze chimiche il cui contenuto resta a tutt’oggi non identificato. Più volte si sono levati in volo sino a 200 bombardieri contemporaneamente a desolare il Libano. L’artiglieria campale e la marina israeliana hanno sparato circa 175.000 bombe contro il territorio libanese;

* le bombe ancora inesplose, appositamente impiegate dagli israeliani come strumenti di guerra a scoppio ritardato per causare il maggior numero di morti e feriti dopo il cessate il fuoco, sono circa 1 milione e 200 mila (calcolate tenendo conto degli ordigni derivanti dalla frammentazione delle bombe a grappolo), sparse in tutto il paese. In base a rapporti militari e di associazioni libanesi ed internazionali, si parla di un periodo lunghissimo, difficilmente quantificabile, per la bonifica del territorio libanese;

* le costruzioni adibite a civile abitazione parzialmente o completamente distrutte, e quelle più in generale danneggiate, sono in totale circa 60.000, di cui la metà sono state rase a suolo. Soltanto nella periferia meridionale di Beirut, zona a maggioranza sciita, sono stati rasi al suolo 106 palazzi, per un totale di circa 5.000 abitazioni; * novecento sono le industrie e gli esercizi commerciali distrutti;

* i ponti distrutti dall’aviazione israeliana in Libano sono 70;

* i danni alla rete idrica ammontano a 75 milioni di dollari;

* i danni al sistema di approvvigionamento elettrico del Paese sono stimati per 180 milioni di dollari. Il bombardamento dei serbatoi di carburante nelle centrali elettriche di Jiyeh – 23 chilometri circa a sud di Beirut – ha comportato il (necessariamente) previsto riversarsi in mare di 15.000 tonnellate di petrolio, fatto questo che oltre al danno in sé e per sé (svariati milioni di dollari di carburante “bruciati”), ha causato una catastrofe ambientale su tutta la costa libanese, così ponendo una pesante ipoteca sulle possibilità del Libano di risollevarsi grazie al turismo proveniente dall’estero, facendo leva sulle proprie attrattive naturalistiche.

Ripercussioni gravissime, ancora non quantificabili, sono quelle che vanno di conseguenza ad incidere sulla vitale economia di sfruttamento delle risorse ittiche del mare libanese, da sempre essenziali per il sostentamento delle popolazioni costiere, che costituiscono la stragrande maggioranza del popolo libanese.

Non è secondario, in definitiva, considerare quale sia stata la portata del volume di fuoco israeliano contro il cuore di un Paese che ha un’estensione territoriale di circa 10 mila km quadrati (poco meno della metà della Lombardia, per avere un’idea più concreta), la più gran parte dei quali sono rappresentati da una dorsale montuosa, poco ospitale e scarsamente popolata.

Lo scopo di mettere in ginocchio il Libano nell’ambito di una guerra che non ha mai inteso limitarsi a sconfiggere alcune migliaia di guerriglieri Hezbollah, è evidente a chi voglia riconoscere l’evidenza: da regione che poteva competere – unica nell’area di riferimento – con la stessa Israele, in ogni campo di rilevanza culturale ed economica – anche grazie ai propri esclusivi legami con l’Occidente, possibili in forza della massiccia presenza, anche nella vita pubblica, di esponenti della comunità cristiana libanese – attualmente il Paese dei cedri avrà davanti a sé lunghi anni di sforzi esclusivamente finalizzati alla sopravvivenza ed alla ricostruzione.

Israele stessa è stata infine costretta dalla medesima natura delle cose ad esplicitare almeno parzialmente i propri scopi. Ciò è avvenuto in specialissimo modo quando l’esercito ebraico si è disperatamente ma inutilmente accanito per penetrare nel territorio libanese del sud sino al fiume Litani – tutte le fonti giornalistiche sono state costrette a riportare questo dato, anche se per lo più mistificandone il valore – nel tentativo di occupare un’area strategica, accaparrandosi una bramata ed importantissima porzione delle risorse idriche libanesi.

Si tratta di mire ormai datate, che di certo Israele continuerà a perseguire. I media occidentali non hanno però riportato un altro – uno dei numerosi – sintomatico aspetto della guerra israeliana in Libano.

Come a Betlemme, dove l’esercito ebraico, approfittando dell’eterno conflitto israelo-palestinese, nel 2002, aveva mitragliato e danneggiato senza scopo apparente la Basilica della Natività, uno dei luoghi più cari della cristianità, così anche oggi, anche in Libano, dietro alla cortina pretestuosa della guerra contro l’Islam, Israele ha bombardato e distrutto almeno 15 fra chiese e monasteri nella sola regione di Tiro, coinvolgendo anche vari villaggi cristiani, come ha denunciato Mons Georges Bakouni, metropolita di Tiro dei greco-melkiti. “Israele – ha ricordato con estrema franchezza quel prelato – ha voluto bombardare le nostre chiese, i nostri villaggi perché vuole svuotare il Libano dei cristiani”.

Qualunque lettura peraltro si voglia dare del conflitto, sarebbe falsificante sostenere che la distruzione del Libano, di interi ed estesi quartieri residenziali, la pressoché totale tabula rasa fatta delle infrastrutture civili, dei ponti, delle arterie più importanti e vitali, delle fonti di approvvigionamento, delle reti di distribuzione idrica per l’irrigazione dei campi… sia servita al solo, propagandato scopo di estirpare gli Hezbollah.

Il dissanguamento delle risorse materiali di un Paese è un abusato sistema di deportazione (peraltro noto agli studiosi di dottrina militare) di desolazione, di condanna a morte: “pulito”, scientifico, estremamente efficace, che ovviamente colpisce tutti; i civili in primissimo luogo: i cristiani, gli sciiti, i sunniti… Chi non intende morire sotto i bombardamenti, chi comprende l’esigenza elementare di fuggire da un’area priva di fonti di sostentamento su cui ormai aleggiano lo spettro della morte, il terrore di un nuovo e più devastante conflitto, il timore della diffusione di contagi in condizioni igieniche e di approvvigionamenti idrici ed alimentari spaventose, se ne va con il proprio carico di stracci.

È meno inquietante il timore di perdere la vita per strada che non quello di restare. La dispersione della classe media, soprattutto dei cristiani, che da sempre rappresentano parte qualificante della dirigenza libanese, pone il Libano in una condizione angosciante.

Anche se la ricostruzione procede, il Libano è attualmente privo di numerosi servizi essenziali: la distruzione delle infrastrutture ostacola potentemente il recupero collettivo. Gli ospedali e più in generale tutti i servizi sanitari non riescono ad operare correttamente.

E ciò che vale per la sanità vale per ogni altra ipotesi di azione sociale ed individuale. In molte zone scarseggiano cibo, acqua, servizi, medicinali e in buona parte la possibilità stessa di avere quei rapporti che sono indispensabili per recuperare il necessario.

La distruzione del tessuto connettivo del Libano ha effetti che difficilmente in Occidente si possono rappresentare: le ridotte dimensioni del Paese dei cedri hanno determinato una situazione per cui senza aiuti dall’esterno è difficilissimo recuperare facendo affidamento sulle proprie forze, ormai disperse, dissanguate e slegate.

Ad oggi, nell’ottobre del 2006, la possibilità di coordinare dall’interno il sistema sono in effetti misere. Nel tentativo di fornire il mio modesto apporto a favore del Libano, mi rivolgo a chi vorrà sostenere concretamente le attività intraprese a favore del mio Paese d’origine, effettuando un versamento sul conto corrente postale di seguito indicato.

Dall’Italia, che è ormai da molti anni divenuto il mio Paese di adozione, aiutato da alcuni amici, tengo contatti diretti con alcune realtà ecclesiali libanesi, in particolare con la Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo (Kafarchima – Beirut), attivissima nella propria opera di sostegno spirituale e materiale a favore di chi crede che il Libano possa ancora una volta risollevarsi dalla polvere.

Confidando nella Provvidenza, di cui ognuno di voi potrà essere benefico messo, mi affido alla vostra generosità, una generosità che – ne ho la certezza – verrà ricompensata da Chi scruta le reni ed i cuori.

Don Elie Wehbe (Padre Ildebrando) – Padre Benedettino Abbazia San Miniato Via del Monte alle Croci, 34 50125 Firenze C.C. Poste italiane n. 000075343129, causale: SOS LIBANO www.soslibano.it e-mail: soslibano@gmail.com

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Carron a Trento sul rischio educativo: sfida per tutti e per ciascuno

Mercoledì 8 novembre alle ore 20.30 l’Auditorium Santa Chiara ospiterà un incontro che, per la personalità del relatore e l’argomento trattato, è – fra i tanti quotidianamente in calendario – davvero da non perdere. Quest’incontro avrà infatti un requisito piuttosto raro: quello di interessare contemporaneamente tutti e ciascuno.

Per la prima volta parlerà a Trento, invitato dall’Università e introdotto dal rettore Davide Bassi, Juliàn Carron, presidente della fraternità di Comunione e liberazione. Tema del suo intervento: la presentazione del libro "Il rischio educativo", uno degli scritti più significativi ed emblematici dell’opera di Luigi Giussani, il sacerdote brianzolo che, poco tempo prima di morire (nel febbraio di due anni fa), aveva scelto proprio Carron, teologo spagnolo, come suo successore alla guida del movimento ecclesiale da lui fondato e oggi diffuso in molti paesi del mondo.

Perché quest’uomo e la questione educativa di cui si occuperà meritano l’attenzione di tutti e di ciascuno?

Perché diversamente da quel che si potrebbe pensare, chi parteciperà alla serata non sentirà discorsi sulla chiesa, ma la testimonianza di un’avventura umana colta nella concretezza dei problemi e delle scelte, e specialmente il racconto di come sia possibile a ciascuno di noi vivere il rapporto con gli altri e la realtà rimanendo liberi.

Qualche tempo fa era stata promossa nel nostro Paese una raccolta di firme a sostegno di quello che era stato chiamato “Appello per l’educazione”. In quel manifesto si diceva che “l’emergenza” in cui siamo immersi non è innanzitutto politica o economica, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. La prima vera emergenza oggi si chiama “educazione”. Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro.

Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli.

Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere.

È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta.

È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa.

Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose.

Perché l’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. Questa è la strada sintetizzata nel libro ”Il rischio educativo” che Carron presenterà a Trento. In un momento nel quale tutti, anche in Trentino, parlano di risorse umane, di capitale umano, di formazione e di educazione, Carron descriverà il tentativo di rendere concreta, praticata, possibile, viva questa risposta.

Non è, appunto, solo una questione di scuola o di addetti ai lavori, ma di una sfida che coinvolge chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo e il futuro di tutti.

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Ecco ciò che servirebbe alla scuola (il contrario di quel che vuole il ministro)

Riporto di seguito l’articolo di Giovanni Cominelli pubblicato sull’ultimi numero del settimanale "Tempi", perché è la migliore risposta che io abbia trovato alle sconfortanti e per certi aspetti inquietanti dichiarazioni rilasciate anche a Trento, il mese scorso, dal ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni. Leggetelo. Ne vale la pena.

«Secondo il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni l’asse del male è costituito da coloro che sostengono la liberalizzazione del sistema educativo nazionale, perché mettono al centro delle politiche educative il mercato e il profitto. Qui serve una elementare terapia del linguaggio.

Che cosa è la liberalizzazione di un servizio? è il passaggio dall’offerta del servizio da parte di un solo soggetto monopolistico, statale o privato, all’offerta concorrenziale e competitiva da parte di più soggetti, statali e/o privati.

L’offerta plurale consente il dispiegarsi della libertà effettuale, da parte degli utenti, di scegliere sulla base di giudizi fattuali circa la qualità e la convenienza del servizio offerto. Al centro della liberalizzazione stanno la persona, l’utente, il consumatore, la famiglia, cioè la domanda. Al centro del monopolio, a proprietà statale o a proprietà privata, stanno gli interessi del gestore, alle condizioni incontrollabili con cui egli offre il servizio.

Passare da un monopolio statale a un monopolio privato non è liberalizzazione, è solo privatizzazione. Nel sistema educativo italiano, caratterizzato dal 96 per cento di offerta pubblica statale e dal 4 per cento di offerta pubblica paritaria, la liberalizzazione consiste, in primissimo luogo, nel realizzare l’autonomia delle scuole sancita nella Costituzione. Lo Stato definisce il curriculum essenziale della cittadinanza attiva, le scuole lo offrono a ciascun utente nella forma di piano di studio personalizzato, costruito tra scuola, studente, famiglia.

Si tratta di passare dal centralismo burocratico, statale e ministeriale, alle circa 12 mila autonomie scolastiche in competizione virtuosa tra loro, senza con ciò affidarsi al mercato e al profitto. A queste autonomie appartiene anche il 4 per cento pubblico e paritario, la cui espansione ulteriore, fino a raggiungere almeno le percentuali europee del 20/30 per cento del sistema, non può che giovare alla concorrenza e alla qualità.

Perché il ministro identifica statalismo centralistico con qualità ed equità dell’offerta educativa?

Il cattolicesimo politico ha sempre difeso il primato della persona, della famiglia e della società civile contro lo statalismo liberale e fascista, vedasi alla voce Sturzo! Una volta conquistato il governo dello Stato, la cultura statalista ha conquistato il cattolicesimo politico. E lì stanno: discepoli immaginari di Sturzo, nipotini effettivi di Giovanni Gentile».

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Se anche a Trento sorgerà una moschea, si eviti almeno di affidarne la gestione all’Ucoii

Molto probabilmente fra due o tre anni, se non prima, anche Trento avrà la sua moschea. Il nulla osta “politico” al progetto è arrivato dal sindaco Pacher, che ha preannnunciato l’impegno della commissione urbanistica comunale in questa direzione non appena conclusa la partita della variante al Prg.

E’ noto infatti che i cittadini di Trento e provincia non vedono l’ora di poter dotare questo territorio di una moschea. E’ risaputo che questa è la loro maggiore aspirazione. E si sa che il sindaco del capoluogo è sempre pronto a rendersi interprete delle principali attese della popolazione.

Il buon Alberto Pacher ha infatti commentato positivamente anche l’autotassazione lanciata dai musulmani interessati all’edificio. Come dire: impossibile negare un aiuto pubblico a chi per avere quel che chiede attinge alle proprie tasche. Ha poi aggiunto che “la comunità islamica non ha mai creato problemi”, lasciando intendere che a suo avviso neppure ne provocherà.

Ma il primo cittadino si dimostrerebbe un tantino più saggio e previdente se non si fermasse a considerare solo come sono andate le cose finora, e si chiedesse quali effetti potrà avere in futuro la realizzazione di una moschea nel capoluogo provinciale. Specialmente se la gestione verrà affidata all’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia), com’è già accaduto in molte altre città italiane.

Forse il sindaco ricorderà che l’Ucoii, guidata dal sedicente Imam “trentino” Breigheche e che si arroga il diritto di rappresentare la maggior parte dei musulmani, aveva acquistato intere pagine dei maggiori quotidiani nazionali per identificare lo Stato di Israele con la Germania nazista, respingendo poi la richiesta di scusarsi per questo, e non voleva sottoscrivere la carta dei valori comuni a tutti gli immigrati proposta dal ministro Amato alla consulta nazionale islamica.

Forse il sindaco ricorderà che Magdi Allam, autorevole giornalista musulmano del Corriere della Sera, intervenuto il mese scorso a Trento in un affollatissimo incontro pubblico, è costantemente protetto da una scorta perché su di lui pende da tempo una Fatwa (la condanna a morte islamica) dovuta al suo instancabile tentativo di rendere consapevoli le autorità nazionali, locali e l’opinione pubblica del nostro Paese, della minacciosa campagna di odio e violenza contro gli “infedeli” sistematicamente alimentata nelle moschee locali gestite dall’Ucoii. Ucoii che non a caso è affiliata, in campo internazionale, ai Fratelli Musulmani, una delle più potenti e aggressive organizzazioni islamiche da cui, in particolare dall’11 settembre in poi, sono stati sempre giustificati tutti gli attentati terroristici compiuti dai kamikaze di Al Qaeda.

E infine, forse il sindaco di Trento ricorderà che una moschea non è identificabile con una chiesa o con un luogo di culto qualsiasi così come noi lo intendiamo. Per la minoranza islamica che frequenta le moschee (perché anche in Trentino solo di esigua minoranza si tratta), il Corano non riguarda solo la sfera religiosa e spirituale dei fedeli, ma anche quella politica e detta quindi le leggi alle quali come cittadini si devono sottomettere. Leggi non solo diverse dalle nostre ma, se interpretate alla lettera, anche incompatibili con la Costituzione italiana e con il rispetto dei diritti della persona e in particolare della donna.

Per evitare che una moschea a Trento (perché è inutile illudersi: piaccia o no la moschea finirà per essere sicuramente costruita) possa significare tutto questo, cioè rappresentare una sorta di scuola di odio e di violenza nei confronti dei non islamici o degli islamici non praticanti, il sindaco Pacher dovrebbe innanzitutto evitare di affidarne la gestione all’Ucoii , e poi porre delle precise condizioni circa il rispetto delle leggi e i contenuti della predicazione.

Diversamente, fra non molto dovrà confrontarsi (insieme a tutti i trentini non allineati all’Ucoii) con una crescente “tensione sociale” (per usare un eufemismo) anche in quella che fu la città del Concilio.

Gian Burrasca

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La laicità del papa e il laicismo di Rusconi

una riflessione in margine all’intervento che Benedetto XVI ha proposto giovedì a Verona, credo contribuisca a spiegare perché il pensiero del papa sia politicamente “laico” e quanto sia invece “laicista” l’approccio offerto su l’Adige alla questione del rapporto fra Stato e Chiesa dal professor Gian Enrico Rusconi, ordinario di scienze politiche all’Università di Torino.

 

 

In sostanza il papa ha detto che alla Chiesa e ai cattolici in Italia, diversamente da quanto sostiene Rusconi, non interessa difendere o affermare non solo culturalmente ma anche politicamente e attraverso le leggi dello Stato “verità” legate alla fede inadatte da imporre con delle norme perché difficilmente condivisibili da non credenti o da diversamente credenti. 

Alla Chiesa e ai cattolici preme piuttosto che le scelte politiche e legislative non contraddicano, come ha sottolineato il papa a Verona, «fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano». Valori e principi come la ragione, la scienza, l’educazione, la carità (o se si preferisce la solidarietà), la vita in tutte le sue fasi (dal concepimento alla morte naturale), la famiglia fondata sul matrimonio, che appartengono non alla comunità dei fedeli o ai credenti, ma agli uomini in quanto tali, e sono quindi patrimonio di tutti.

Senza di essi, cioè, la società non rispetterebbe le esigenze strutturali di bene, di giustizia, di compimento della persona – di ogni persona – e non potrebbe conseguentemente essere veramente “umana”. Mettere in discussione o negare questo patrimonio di “beni comuni”, ha ricordato in sostanza il papa a Verona, equivale a destabilizzare la società a partire da quella condizione primaria della convivenza che è la famiglia, e prima ancora la tutela della vita.

 

La Chiesa che difende e ribadisce pubblicamente questi valori in larga misura coincidenti con quelli racchiusi nella Costituzione italiana, evidenzia dunque una posizione profondamente “laica”, cioè rispettosa del bene comune e desiderosa di contribuire ad esso, e non confessionale o clericale.

Tant’è vero che è proprio su questo terreno che il pensiero del papa, della Chiesa e di una parte importante del mondo cattolico in Italia si ritrova oggi in sintonia con le preoccupazioni di alcuni intellettuali laici non credenti o non praticanti come Ferrara, Pera, Oriana Fallaci e altri. Il professor Rusconi, invece, pretendendo che i cattolici non si pronuncino a questo livello, non considerino cioè politicamente irrinunciabili (“non negoziabili”) questi valori, esprime un approccio non laico ma “laicista” alla questione dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato.

Laicista – ecco il punto – nel senso che nega la possibilità di quell’amicizia tra la fede cristiana e la ragione, tra la fede e l’intelligenza umana, e quindi anche tra la fede e la giustizia e la comunità politica, affermata da Benedetto XVI.

 

Antonio Girardi

 

 

 

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