Scuola e libertà in Guareschi

Riproporre oggi alcuni pensieri tratti da “Lettera al postero”, di Giovannino Guareschi, pubblicata su Candido numero 51, del 16 dicembre 1956, può apparire operazione anacronistica solo nelle apparenze. In un periodo storico, politico e culturale come quello in cui ci è dato di vivere, non possiamo che trovare straordinariamente profetiche le parole che mi permetto di presentare qui di seguito. Spunti per una riflessione costruttiva, seppur amara, dovendo constatare come l’utilizzo della scolarizzazione di massa, in atto a partire proprio dagli anni appena seguenti questa lettera, attuata da tutta l’area marxista, complice anche una certa miopia culturale e politica cattolica, ha portato il nostro Paese ad una omologazione dei pensieri attuata anche attraverso la scuola, e oggi anche attraverso l’università, mediante l’adozione di libri di testo ideologizzati, se non tendenziosi e docenti “votati alla causa”. Ironia della sorte, Guareschi morì proprio nel “formidabile” 1968, e da allora è un susseguirsi di riforme scolastiche farraginose, l’ultima ancora tutta da verificare sul campo, del Ministro Fioroni, purtroppo ancora troppo infarcita dirigismo statalista, che ripropone, tra le altre cose, la commissione d’esame mista fra docenti interni ed esterni, ma non incide sulla valutazione della qualità dell’insegnamento e nemmeno sulla serietà della preparazione effettiva finale dell’alunno. Aumenterà, invece, il carico di lavoro burocratico dei docenti impegnati nelle commissioni, con la conseguenza di, per citare Guareschi, “Non dire mai con quattro parole ciò che potresti non dire con tremila. Il paradosso serva a chiarirti il concetto: l’italiano preferisce parlare piuttosto che dire”. Veniamo dunque al racconto di Giovannino Guareschi, che rivolgendosi al suo immaginario “postero”, ad ognuno di noi quindi, genitori, insegnanti, studenti scrive: Un tempo si diceva: “Chi comanda fa legge”. Oggi, con maggior precisione, si dovrebbe dire: “Chi comanda fa Regime”. E’ l’eterna storia di chi, arrivato al posto di amministratore, tende a diventare padrone. Mentre il Partito che ha espresso il Governo tende a identificarsi col Paese, il Governo tende a identificarsi con lo Stato. Gli Enti statali, parastatali, criptostatali, nazionali e paranazionali creati dal Governo e diretti e dominati da uomini fidati del Partito funzioneranno da legame fra Stato, Governo e Paese-Partito. Il gioco è fatto. Naturalmente, postero diletto, io non ti ho parlato da tecnico: l’operazione è più complessa. E, quando il Regime è instaurato, ha bisogno di farsi le ossa. Orbene – ed è questo il punto – ogni Regime si fa le ossa rompendo le ossa degli altri. Se si tratta di un Regime sul tipo delle cosiddette repubbliche democratiche orientali, entrano in azione la polizia politica, i carri armati, la statizzazione integrale e via discorrendo. Se si tratta di un Regime a sfondo democratico occidentale, si usano armi di altro genere e l’azione si sviluppa nascostamente e senza strepito.

In ogni tipo di Regime, comunque, si pone la massima diligenza nell’annientare il nemico numero uno della dittatura: l’individuo. Si tende a spersonalizzare l’individuo, a fare di esso un semplice elemento della mandria, o massa o collettività. Si tende cioè a svuotare l’individuo del suo contenuto personale. Postero mio, figurati che la nazione sia un immenso frutteto con alberi di centomila specie diverse: alberi teneri e giovani, alberi vecchi dalla corteccia dura. Cambia il padrone del frutteto, e il nuovo padrone dice: “L’avvenire del frutteto è nelle pesche. Da oggi in avanti voglio solo pesche”. Tutto va bene per i peschi giovani e vecchi che sono nati, appunto, per produrre pesche. Ma per i peri, i meli, i ciliegi e le altre piante la faccenda si complica. I vecchi peri, i vecchi meli, i vecchi ciliegi non possono obbedire e continuano a produrre pere, mele, ciliegie. Si comportano come irriducibili sovversivi e il padrone non può tollerare un fatto del genere e, allora, o li sradica, o li pota barbaramente in modo da renderli improduttivi; o ne avvelena le radici. Il padrone elimina o neutralizza i vecchi alberi soltanto; per giovani, invece, ricorre all’innesto. Ciò è contro natura perché il pero, il melo, il ciliegio non sono nati per produrre pesche, ma il padrone non ammette indisciplina: o rinnovarsi o morire. Non so se la mia similitudine sia molto felice: comunque, apprezza lo sforzo che ho fatto per rendere l’idea. Ora, postero diletto, metti nel frutteto, al posto degli alberi, altrettanti individui: al posto del padrone metti il Regime e arriverai a comprendere probabilmente il problema della spersonalizzazione. Naturalmente, e ciò dispiace molto ai Regimi, trattandosi di uomini, non è possibile tagliare a un tizio la testa, innestandogliene sul collo un’altra. E poi, mentre, anche se l’albero è giovane, è facile stabilire se esso sia un pesco, o un melo, o un pero, o un ciliegio, è difficile stabilire che tipo di testa, di pensieri e di tendenze abbia un giovane. Occorre, allora, una diligente e acuta indagine da compiere caso per caso. E il compito delicato viene affidato alla Scuola che, essendo di Stato, deve funzionare come qualsiasi altra azienda del Regime. I giovani interessano e preoccupano sopra ogni altra cosa i Regimi. I giovani sono pericolosi: le loro reazioni – non ancora sufficientemente controllate da quel senso dell’opportunismo che frena gli impulsi degli uomini maturi – sono pericolose. (…) Ogni Regime ha paura dei giovani e ai giovani rivolge le più attente cure attraverso la Scuola, gli enti parascolastici, le organizzazioni politiche, parapolitiche e criptopolitiche assistenziali e psuedobenefiche, sportive e pseudosportive. Ma la Scuola è lo strumento più efficiente e più importante, perché ha un doppio compito: svuotare il ragazzo eliminando in lui ogni fermento nocivo o sovversivo per poi riempirlo di idee e propositi conformisti. La Scuola, sotto ogni Regime, è destinata a divenire la Grande Pianificatrice dei cervelli. La Fabbrica dei Cretini. Parole certamente dure, velate di amarezza, che risentono del clima politico del tempo, i carri armati del Patto di Varsavia erano ancora agli angoli delle strade di Budapest, ma che non possono non colpire per la loro lucidità e attualità. Proseguendo nell’analisi dell’opera, mi permetto di proporre ancora un paio di pensieri del grande scrittore “della Bassa”. Cerca fuori dalla scuola gli ammaestramenti per la vita. Ai miei tempi, era in grande auge il cosiddetto tema di fantasia: esso è oggi schifato.”Lavorando di fantasia il ragazzo non impara a osservare, si distacca dalla realtà”, dicono i tecnici. “Niente più finzioni”. La verità è un’altra: chi lavora di fantasia non osserva ma pensa. La fantasia è la palestra del pensiero e i Regimi non vogliono gente che pensa. Vogliono uccidere la tua fantasia, postero diletto: questa è la sostanza. La fantasia è reato: quando tu racconti a te stesso una storia fantastica della quale tu sei il protagonista tu esperimenti la tua personalità. Figlio mio, tu sei chiuso dentro una esigua stanza assieme alla tua bicicletta: fin quando quei quattro muri ti terranno prigioniero, tu non potrai mai provare – pedalando -l’efficienza dei tuoi garretti. La potrai provare avendo a tua disposizione, tutta per te, una pista. La fantasia ti offre lo spazio e l’aria che ti sono necessarie. La fantasia è la palestra del pensiero e della personalità: e il Regime vuole, uccidendo la tua fantasia, mortificare, comprimere, contenere la tua personalità.

Prosegue ancora Guareschi, con quell’ironia e con quel realismo inconfondibili, riflessi di un animo profondamente cristiano, autentico; i pensieri che seguono non possono non far riflettere, da un lato, i docenti che, nonostante tutto, si trovano ancora ad amare il proprio mestiere, accettando e tentando di vincere (o almeno a non perdere) ogni giorno la sfida dell’educazione; dall’altro mi auguro che qualche studente faccia proprio l’invito, la preghiera che uscì oltre cinquanta anni fa dalla penna del grande scrittore emiliano. Difenditi, postero mio. Diffida di tutto quello che a scuola t’insegnano. Anche dello stesso Teorema di Pitagora. Controlla pignolescamente se il Teorema di Pitagora che t’insegnano funziona come il Teorema di Pitagora che insegnavano cinquant’anni fa. Impara a detestare, nel tuo intimo, tutto ciò che è collettivo. Collettivismo significa umiliazione dei migliori ed esaltazione dei peggiori. Il collettivismo è per i vili che vogliono sottrarsi alla responsabilità individuale per rifugiarsi nell’ombra della irresponsabilità collettiva. Difenditi e reagisci.

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Comma 22 per i cattolici

La Chiesa cattolica è l’unico soggetto attorno al quale, in una società libera e democratica, infuri un acceso dibattito centrato su questa domanda epocale: la Chiesa ha il permesso di parlare? Di che cosa, come, quando? I consigli, talvolta le minacce, fioccano generosi. Quasi nessuno considera quelli del mondo cattolico dei contributi al dibattito, che possono riscuotere consenso o suscitare dissenso, ma comunque preziosi per rendere più ricca e viva la vita democratica e la stagione delle idee, perché un’opinione in più, specialmente se frutto di duemila anni di storia, tradizione e valori, dovrebbe essere meglio di un’opinione in meno. Quasi tutti, invece, considerano tali contributi “un’indebita ingerenza”; specialmente se contraddicono il pensiero dominante e intralciano la strada alle lobby più aggressive.
E i cattolici? Assomigliano curiosamente agli aviatori americani del celebre “Comma 22″…
Un passo indietro. Rileggiamo il brano centrale dell’ultimo intervento in proposito di Miriam Mafai (La Repubblica di martedì scorso): “La Chiesa ha certamente il diritto di esprimere su queste materie (dalle unioni civili al testamento biologico, dalla ricerca scientifica alla fecondazione assistita) le sue preoccupazioni e le sue opinioni, ma non può pretendere di intervenire come un attore politico nel processo legislativo”. Impeccabile. Ma come potrebbe la Chiesa farsi attore politico che interviene nel processo legislativo? Non è un partito, non ha deputati né ministri, non detta disegni di legge. Possiede dei mezzi di comunicazione di massa, ma del tutto minoritari. E allora, dov’è il problema? Il problema è questo: com’è possibile esprimere una libera opinione su un argomento di cui si occupano tutti, anche il Parlamento, senza che questa opinione influenzi il dibattito politico? ? davvero possibile esprimere delle idee che non intacchino in alcun modo le opinioni altrui?
Ed ecco il Comma 22 dell’Articolo 12 del Regolamento degli aviatori americani durante la seconda guerra mondiale. Viene dopo il Comma 1, che recita: “L’unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia”. Il Comma 22 avverte: “Chiunque chiede il congedo dal fronte non è pazzo”. Ovviamente il Comma 22 non esiste. ? un’invenzione letteraria di Joseph Heller (“Catch 22”, pubblicato nel 1961), da cui il regista Mike Nichols ha tratto l’omonimo film. Non è molto diverso dal paradosso di Russel, che suona così: “La frase seguente è falsa; la frase precedente è vera”. ? la contraddizione eretta a norma, una norma che evidentemente è impossibile rispettare, a meno di tacere. Miriam Mafai è come se scrivesse: “La Chiesa è libera di parlare, purché stia zitta”.
“Comma 22”, libro e film, miravano a far emergere l’insensatezza di certe consuetudini del mondo militare. Il Comma 22 dei laicisti, che si assumono l’incarico di insegnare le “buone maniere” a questi cattolici che disturbano il manovratore, funziona allo stesso modo. La Chiesa, ci dicono, non può “definire la tavola dei valori alla quale lo Stato deve attenersi”. D’accordo; infatti si limita a proporla, offrendola a un dibattito al quale desidera partecipare portando il proprio contributo originale. Il Comma 22 reciterebbe: “La Chiesa è libera di parlare di valori, ma non di definirli”. La cosa buffa è che la stessa Mafai commenta: “Stiamo vivendo una situazione che non esito a definire paradossale”. Come ha ragione.
Da “Avvenire”, 1? febbraio 2007).

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Per amare la vita ci vuole coraggio

Più è secca, più una domanda è vera. Come questa: “Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione amano davvero la vita?”. La domanda sbuca improvvisa in mezzo al Messaggio per la Giornata per la vita, il cui nocciolo quest’anno è l’amore. ? il coraggio di farcela, quella domanda; e di darle una risposta sincera.
Non è una domanda campata per aria. ? la cronaca a riproporla senza sosta. I dati recenti sulla denatalità in Italia parlano chiaro. Ci vuole coraggio, molto coraggio ad amare la vita fino a mettere al mondo un secondo (un terzo, un quarto…) figlio, quando le solerti cronache informano che mantenerne uno costa 800 euro al mese, e quando due coniugi sono confinati nel loro bilocale che gli succhia metà stipendio. E allora ci vuole un bel “coraggio”, tra virgolette, a ignorare i problemi di chi vorrebbe metter su famiglia, sposandosi, assumendosi seri impegni di fronte alla società e si trova letteralmente taglieggiato, ignorato, perfino deriso. Promosso? Sostenuto? Mai. Se proprio hai bisogno, ci sono i suoceri, i nonni. E così la stessa rete familiare, che si sta indebolendo nella sostanziale indifferenza di chi dovrebbe avere a cuore il bene della nazione, in questo caso fa comodo. Sì, ci vuole “coraggio” a far credere all’opinione pubblica che “il” problema sia quello delle unioni di fatto o delle coppie omosessuali. Che là stia la discriminazione, quando ben più discriminato è oggi chi vorrebbe sposarsi e non ci riesce, chi si sente chiamato a non fermarsi al figlio unico ma non ha alternative, e attorno a sé trova indifferenza, se non ostilità.
La cronaca ci sbatte in faccia anche la gigantesca operazione che ha rinchiuso in galera centinaia di moderni schiavisti. Le loro schiave, però, non stavano recluse in chissà quale lager. Erano tutte le notti sui nostri marciapiedi. Amare la vita significa dunque liberarle, ma anche dare ascolto, ad esempio, a un prete con la tonaca lisa che per i suoi modi naif viene guardato anch’egli con un sorriso di commiserazione dai paladini della modernità: don Oreste Benzi da anni combatte quell’ignobile rete di schiavitù. Amare la vita significa dire, con lui, che vigliacchi sono gli schiavisti ma vigliacchi sono pure i tantissimi italiani che quel vile commercio hanno contribuito ad alimentare; che con quelle schiave si divertivano senza domandarsi chi fossero, da dove venissero, che ne sarebbe stato di loro; non ragazze, ma carne umana; non persone, ma oggetti da consumare.
No. Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione non amano la vita, non abbastanza. Se davvero la amassero, investirebbero energie nel salvare i rapporti di coppia in crisi almeno quante ne investono per romperli più velocemente e asetticamente possibile. E questi non sono discorsi soltanto “da cattolici”. La domanda se la stanno ponendo in tanti. Uno a caso: Gabriele Muccino, il regista della Ricerca della felicità: “Nei nuclei famigliari c’è oggi una buona dose di vigliaccheria. Per molti – ha detto a Erica Bianchi dell’Espresso – è più facile mandare all’aria un rapporto con la scusa che la famiglia non ha ragione d’essere, piuttosto che mettersi in gioco e rimboccarsi le maniche”. Chi ama la vita, appunto, ha il coraggio di rimboccarsi le maniche.
(Da “Toscana oggi”, 4 febbraio 2007).

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Sabato sera il Miguel Manara a teatro

L’Associazione Edus Educazione e Sviluppo, intende organizzare, in collaborazione con la Compagnia Teatrale “Lo Sguardo” di Trento, la rappresentazione di uno spettacolo teatrale allo scopo di raccogliere fondi per sostenere le proprie attività a favore dei più poveri. Lo spettacolo si svolgerà a Trento pressi il Teatro Cuminetti il giorno 3 febbraio 2007 e consisterà nella messa in scena dell’opera di Milosz: “Miguel Manara”. L’incasso della serata sarà devoluto all’Associazione a sostegno dell’opera di Padre Berton in Sierra Leone ed in particolare per la realizzazione del centro di formazione professionale per la lavorazione del legno a Freetown.

Questo il progetto da realizzare in Sierra Leone

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La questione palestinese secondo mons. Robert Stern.

“Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere”. Papa Pio XII, nella sua lettera enciclica Redemptoris nostri del venerdì santo del 1949, dipingeva così la situazione dei palestinesi dopo il primo conflitto arabo-israeliano successivo alla nascita dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948. La Pontificia Missione per la Palestina nasce così, il 18 giugno del 1949, con l’intento di dirigere e coordinare tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche impegnate negli aiuti alla Terra Santa. Per i venticinque anni d’attività della Missione Pontificia, nel 1974, papa Paolo VI ne parlò come “uno dei segni più chiari della preoccupazione della Santa Sede per la sorte dei palestinesi, particolarmente a noi cari perché sono popolazione della Terra Santa, contano fedeli seguaci di Cristo e sono stati e sono tuttora così tragicamente provati”.
Monsignor Robert L. Stern, archimandrita del patriarcato greco-cattolico di Gerusalemme, ebreo, presiede dal 1987, per nomina del papa, questa speciale agenzia della Santa Sede, che ha la sede principale a New York, e uffici in Vaticano, a Gerusalemme, Beirut, Amman, e che oggi stende la sua azione caritatevole e pastorale tra Palestina, Israele, Libano, Siria, Giordania e Iraq. Così ci racconta del suo lavoro, e della carità del papa per i palestinesi.
Quale è la Palestina che la Missione Pontificia aiuta?
ROBERT L. STERN: Da quando, nel 1967, Israele ha preso il controllo politico della Palestina, c’è una popolazione intera che vive sotto occupazione militare di un altro Paese. E l’Autorità nazionale palestinese non è un vero governo. La Pontificia Missione sta prestando il suo servizio in una situazione d’inadeguatezza delle istituzioni governative cui di solito la gente si rivolge. E gli enti pubblici, che pure esistono, non funzionano come di norma. Allora, necessariamente, oltre al sostegno alle Chiese e alle Comunità cristiane presenti in Terra Santa, proviamo a fare qualcosa di buono per il popolo.
Poveri tra i poveri nel Palestine Camp, in Siria: i beduini del deserto si adattano a vivere in accampamenti ai margini dei campi profughi
Può suggerire esempi recenti di aiuto?
STERN: La nostra Missione ha operato nelle zone di Betlemme, Beit Jala, Beit Sahour, e anche a nord di Gerusalemme, a Ramallah, dove c’era una presenza cristiana. Ma il nostro servizio non è solo per i cristiani. Ad esempio, mentre la Chiesa locale favorisce la costruzione di nuovi appartamenti, da anni la Pontificia Missione ripara le case distrutte, soprattutto nell’area della città vecchia di Gerusalemme dove sopravvive una fetta di popolazione palestinese indigente. La tensione tra israeliani e palestinesi ha prodotto tanta povertà e così noi oggi appoggiamo iniziative idonee a creare posti di lavoro, soprattutto sovvenzionando quelle opere che necessitano di tanti operai e quindi sfamano più famiglie…
Riparare case non va in un certo senso al di là della attività originale della vostra Missione?
STERN: Ma è assolutamente necessario aiutare questa povera gente. Quando la nostra Missione fu fondata, lo scopo primario era la mobilitazione dell’aiuto del mondo cattolico internazionale per la Terra Santa, e il coordinamento in Terra Santa di tutti i settori della Chiesa – i patriarchi, i vescovi, i religiosi e le religiose, le associazioni laicali… Nel 1949, nessuno si occupava di questo coordinamento, oggi siamo molti di più.
Chi sono i destinatari principali della vostra azione?
STERN: Tutti coloro che si trovano nella necessità. Statisticamente non sono gli ebrei, per i quali esiste una serie numerosissima di enti di sostegno. La stragrande maggioranza dei musulmani invece – dato che i cristiani rappresentano un numero esiguo – sono afflitti dalla povertà, sebbene esistano comunque moltissime istituzioni caritatevoli musulmane. Allora… il criterio adottato dalla nostra Missione è di portare aiuto alle zone dove sono rimasti ancora dei cristiani, ma senza mai escludere dall’aiuto gli altri, come i musulmani. L’esempio calzante è l’Università di Betlemme – fondata con un accordo tra la Congregazione per le Chiese orientali e i Fratelli delle scuole cristiane – qui nota come “l’università del Vaticano”. Circa il 33 per cento degli studenti sono cristiani, gli altri sono tutti musulmani. Noi diciamo che “non il credo ma il bisogno” guida la carità che facciamo a nome del papa in Terra Santa.
Come può descrivere la povertà in Palestina?
STERN: A Gaza gran parte della popolazione vive ancora nei campi profughi, amministrati dalle Nazioni Unite. I campi sono come un vecchio villaggio del tutto privo di organizzazione. La gente abita in case anguste fatte di blocchi di cemento, non esistono vere e proprie strade, ma percorsi più o meno disagevoli, e tutti vivono accalcati. In una sola stanza possono vivere anche dodici persone, perché i figli sono numerosi. La libertà di movimento è limitata. Si vive dei contributi delle Nazioni Unite. Manca il lavoro. Quando uno di questi numerosi figli diventa maggiorenne e vuole sposarsi, deve avere prima un luogo dove andare, e uno stipendio. Ma non c’è né l’uno né l’altro, per chi vive nel campo. Si può solo aggiungere alla casa d’origine una stanza in più, fatta di mattoni. Stanza che s’affaccerà sempre sulle solite strade sporche, e sui campi che non conoscono facile accesso all’acqua pulita e dove non c’è mai ordine. Così è triste vivere.
Due anni fa abbiamo costruito un piccolo parco giochi per i bambini di Gaza. Avreste dovuto vedere la loro curiosità, gli sguardi. In vita loro era la prima volta che qualcuno gli dava qualcosa per giocare. Loro che sono abituati a ricevere il minimo per sopravvivere, abituati a vivere al peggio.
Ci mancano le parole per spiegare la difficoltà della vita a Gaza. E mi permetta di aggiungere qualcosa cui tengo.
Prego.
STERN: C’è chi si pone la domanda retorica del perché ragazzi e ragazze della Palestina accettano di farsi esplodere come martiri. Non possono studiare, non possono viaggiare, non possono lavorare, non possono avere una famiglia, vivono nell’assurdo, non hanno altra speranza che annientarsi in un momento di gloria per la loro religione.
Tre generazioni nel campo di Gaza, in Giordania, in attesa che cambi qualcosa
Io non sono un politico né un economista, ma posso almeno immaginare che il giorno in cui avremo da offrire lavoro a questi ragazzi musulmani, avremo sconvolto i piani dei terroristi: con una onesta paga settimanale e la possibilità di uscire con la propria ragazza.
Sono convinto, nonostante la loro retorica molto negativa, che i responsabili di Hamas comprendono perfettamente questa situazione. Vogliono un futuro per il loro popolo, come tutti coloro che gestiscono la politica. E l’aspetto positivo della loro politica è la quantità di servizi sociali e di benessere che hanno cercato di dare al loro popolo. Ciò resta vero, nonostante le parole che usano e gli slogan che, secondo la retorica araba, urlano.
Lei considera un errore interrompere i flussi dell’aiuto economico internazionale alla Palestina come forma di pressione sul governo di Hamas.
STERN: Ripeto che non intendo formulare un giudizio politico. La mia impressione è precisamente che così facendo si regala al popolo – e ai giovani – altra disperazione che può essere sfruttata dai terroristi. L’obiettivo conclamato da chi vuole l’embargo degli aiuti è di forzare, nel breve termine, il governo attuale verso un cambiamento di direzione politica, lasciando come obiettivo di lungo termine quello di arrivare alla pace… ? uno sbaglio totale. Primo, bloccare i fondi è un castigo per il popolo, mai per la leadership, e il popolo già soffre troppo. Secondo, per la mentalità degli arabi, noi stiamo offendendo il loro senso d’onore, la loro dignità, con tutte le conseguenze che ne derivano. L’embargo è al cento per cento controproducente. Sono convinto, e di certo spero, che attraverso la mutua collaborazione si potrà raggiungere il risultato di guadagnare il consenso di Hamas.
Voi avete portato aiuto anche nei campi profughi in Libano. Qual è la situazione?
STERN: ? diversa ma egualmente penosa. I palestinesi rifugiati in Libano vivono tutti nei campi gestiti dalle Nazioni Unite. Le difficoltà vengono anche dal tradizionale e ormai scricchiolante bilanciamento dei poteri costituzionali vigente in Libano tra cristiani maroniti, musulmani sunniti e musulmani sciiti, basato sulle quote rispettive di popolazione. Ora, nessuno di questi tre gruppi vuole che una numerosa componente palestinese entri in gioco, e tutti sono d’accordo nel dire che la prospettiva per questi rifugiati è solo quella di tornarsene al proprio Paese. Ma questo è ora praticamente impossibile. Così a questa povera gente non resta che il campo profughi, cioè vivere in prigione. Sogno il giorno in cui ci sarà uno Stato palestinese universalmente riconosciuto, e forse tutta questa povera gente potrà avere un passaporto palestinese, al fine di ottenere un visto di soggiorno per lavoro in Libano. Perché, stando così le cose, comunque il Libano non accetterà mai queste persone come propri cittadini. Oggi sono rifugiati nei campi profughi oltre duecentomila musulmani palestinesi, armati, in isolamento completo, e impossibilitati ad andare in Palestina. ? una vita insopportabile, che li ha fatti incattivire, a ragione.
I palestinesi vanno via oggi anche dall’Iraq.
STERN: I palestinesi che lasciano l’Iraq non sono però così numerosi come gli iracheni che oggi sempre di più migrano verso la Giordania, la Siria e il Libano. E, in proporzione, a fuggire sono sempre di più i cristiani. Il direttore del nostro ufficio di Amman, che serve la Giordania e l’Iraq, mi ha riferito che vi è la possibilità concreta, sebbene manchino ancora dati ufficiali, che i rifugiati iracheni in Giordania arriveranno a essere milioni, su una popolazione giordana di circa 5 milioni. La nostra Missione Pontificia cerca di fare tutto il possibile per appoggiare la Chiesa locale e dare una mano a questi rifugiati. Normalmente aiutiamo chi vuole lasciare l’Iraq e andare in Europa, in America del nord o del sud, o in Australia…
Nell’opera di carità in Palestina lei rappresenta il papa. C’è un fatto che ricorda in particolare?
STERN: Papa Giovanni Paolo II è venuto in Terra Santa nel 2000. E in casi come questo al presidente della Pontificia Missione spettano anche dei piccoli privilegi, come partecipare da vicino a quanto accade. Ricordo in particolare la messa all’aperto che papa Wojtyla celebrò a Betlemme, davanti alla Basilica sorta dove è nato Gesù. A un certo punto, come accade ogni giorno, è salita dalla moschea vicina la voce del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera. La voce era forte, diffusa con gli altoparlanti. Il Papa, in quel momento, s’è fermato, non ha alzato la voce per contrastare i diffusori, ma ha atteso. Fino alla fine dell’orazione musulmana. Poi ha ripreso la liturgia. ? come se il Papa stesso ci avesse detto, in quel modo, che la comunità cristiana palestinese deve comprendere e rispettare i musulmani, che sono fratelli, e sperare e pregare che anche da parte loro arrivi comprensione.
Il silenzio rispettoso del Papa è stata l’immagine della convivenza tra cristiani e musulmani in Palestina. (30Giorni).

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L’ombra di Faust sui pacs

Intorno ai PACS si è aperto un dibattito importante, delicato che va a toccare l’essenza stessa delle radici culturali dell’Europa e dell’Italia in particolare. E’ in atto un attacco diretto, frontale, violento anche nelle parole, oltre che nei modi, alla famiglia tradizionale.

Si sta insinuando con grande determinazione il concetto che la famiglia tradizionale eterosessuale, in cui un uomo e una donna accettino responsabilmente di vivere insieme e di responsabilmente educare i propri figli possa essere non più il modello, ma genericamente uno dei modelli di relazione familiare possibile. Il focus della diatriba non è certamente soltanto una questione di fede: anche non volendo prestare orecchio agli accorati appelli di Benedetto XVI° e della CEI, e prendendo in considerazione la questione anche da un punto di vista unicamente razionale, o genericamente laico, non possiamo non sottolineare il fatto che lo Stato dovrebbe incentivare quelle forme di vita che contribuiscono in primo luogo al bene comune e senza ombra di dubbio il maggior contributo al bene comune dovrebbe consistere nella procreazione e nell’educazione responsabile dei figli. Solo una società che investe responsabilmente nei figli può guardare al futuro con determinazione e speranza. In gran parte dell’Europa del nord, ormai secolarizzata e scristianizzata, presa e citata costantemente dai maestri del pensiero laicista nostrano, attanagliati da un complesso di perenne inferiorità culturale, come modello di riferimento sociale e giuridico, i risultati di politiche scellerate sulla famiglia hanno prodotto risultati drammatici. Perché allora questo impeto, anche in Italia, per cambiare la famiglia, un’istituzione che dura da migliaia di anni, da quando in qua è diventato così urgente garantire le nozze ai gay e la pensione alle coppie di fatto? Ripeteva Engels che «tutto ciò che esiste merita di morire»; una frase che fu pronunciata da Mefistofile, il diavolo, nel Faust di Goethe: una demoniaca volontà di distruzione. Vi è purtroppo una certa classe politica italiana che, come Faust sembra voler barattare l’anima della nostra cultura, delle nostra tradizioni, del nostro modo di intendere la famiglia, la società, la comunità in cui viviamo. In realtà, una certa classe politica non fa che confermare le sue antiche radici. Diceva ancora Engels che lo scopo della rivoluzione comunista non è migliorare le condizioni della classe operaia, ma «cambiare lo stato di cose presente». La distinzione è sottile. Vuol dire che un tempo si istigavano gli operai alla rivolta solo finché essi erano «la forza sociale più potente» (altra definizione di Engels. ndr); ora che non lo sono più, si scelgono altri nuclei sociali “potenti” e senza ombra di dubbio le lobbies omosessuali lo sono. Almeno, sono influenti in TV, nei giornali, nel mondo dello spettacolo, ma anche tra le forze politiche, anche in Italia, e soprattutto a livello europeo. La questione è drammatica in questo momento storico, inoltre, perchè anche una parte dei cattolici sembra seguire questa ventata di novità, mostrandosi culturalmente subalterna. Davvero, come si va ripetendo in questi mesi con una amara constatazione, sembra passato un secolo da quando il mondo cattolico seguiva soltanto le indicazioni di arcipreti e arcivescovi…oggi, nel nome di un moralismo falso e di una tolleranza fatta di indifferenza, preferisce accodarsi all’arcigay.

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Il nuovo esame di stato calpesta le scuole paritarie

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano l’assessore Salvaterra e gli esponenti politici del centrosinistra trentino. E sarei curioso di leggere un commento del direttore dell’istituto Arcivescovile di Trento, don Umberto Giacometti, presidente delle scuole cattoliche della nostra regione.

Con la legge n. 1 dell’11 gennaio 2007 il nuovo esame di Stato, che conclude il ciclo dell’istruzione secondaria superiore, è diventato realtà. Nelle nuove norme aspetti positivi si sommano ad aspetti assolutamente negativi. Con la legge è stata infatti introdotta una discriminazione nei confronti dei docenti e degli alunni delle scuole paritarie, discriminazione che contraddice, nello spirito e nella lettera, la legge paritaria n. 62 del 2000.

Succede, infatti, che i dirigenti e i docenti delle scuole paritarie, provvisti dei dovuti titoli accademici di laurea ed abilitazione, non potranno ricoprire il ruolo di presidenti e commissari esterni nelle Commissioni di esame delle scuole statali e paritarie. Inoltre non è prevista la copertura delle spese da parte dello Stato dei commissari interni paritari alla stregua dei corrispettivi colleghi statali. Il modo in cui è stata introdotta questa discriminazione è la norma che stabilisce che i commissari esterni devono essere insegnanti assunti attraverso pubblico concorso, quindi solo statali.

Se l’assunzione per concorso dovesse essere un prerequisito per partecipare come commissario esterno ad una commissione di esame di Stato, lo stesso dovrebbe valere anche nel caso dei commissari interni perché concorrono a "costituire" la "commissione" esaminatrice di Stato di una scuola paritaria, valutando gli alunni e rilasciando un titolo di studio con valore legale a seguito appunto di un esame di Stato.

La necessità di un "concorso" pubblico non era mai stata prescritta nei decenni scorsi né per i membri interni delle scuole legalmente riconosciute o paritarie, né per i membri esterni, provenienti dalle scuole legalmente riconosciute, delle commissioni statali. Inoltre la decisione di mettere a carico delle scuole paritarie l’onere spettante ai propri commissari interni è ingiusta in quanto essi svolgono una funzione pubblica, all’interno di una commissione statale, per rilasciare un titolo di studio con valore legale.

Si smentisce così una prassi esistente da decenni, ben prima della legge sulla parità, nonostante le scuole legalmente riconosciute non fossero affatto considerate "parte costitutiva" dell’unico sistema scolastico nazionale, come recita il primo articolo della legge 62/2000.

Ecco perché queste nuove norme sull’esame di Stato costituiscono distorsioni, forme striscianti di neostatalismo, di misconoscimento della funzione pubblica della scuola paritaria e del servizio altrettanto pubblico e di pubblica utilità svolto dai suoi dirigenti e docenti. A dichiarazioni verbali di rispetto e attuazione della legge 62 del 2000 corrispondono sempre più spesso atti che ne violano lo spirito e la lettera.

La Provincia autonoma di Trento, che come dimostra la recente riforma varata in questo settore nel luglio scorso dispone in materia scolastica di una relativa indipendenza normativa, per ora ha accolto la nuova legge nazionale senza batter ciglio, senza probabilmente curarsi dell’impatto di questi cambiamenti sugli istituti paritari. I cui dirigenti preferiscono subire queste mortificazioni e continuare a vedere discriminate le paritarie, per il timore che protestare contro queste sopraffazioni potrebbe magari determinare ritorsioni finanziarie della Provincia.

Ma sentirsi sotto ricatto vuol dire accettare il rango di istituti di "serie B" o "C" assegnato dalla politica – e non, si badi bene, dalle leggi – a queste scuole che esercitano un servizio pubblico a tutti gli effetti e dovrebbero quindi godere di pari diritti rispetto a quelle gestite dalla Provincia. Altrimenti anche gli alunni e le famiglie che hanno scelto l’iscrizione a queste scuole sono da considerare, in ragione di questa scelta, cittadini di "serie B" o "C".

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Micromega e l’eutanasia.

L’ultimo numero di Micromega è dedicato in buona parte all’eutanasia. Si apre, nella prima pagina, con una celebre frase del filosofo ed economista liberale John Stuart Mill: “Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”. Una dichiarazione importantissima, che ci ricorda l’alleanza strategica, sempre rinnovata, tra l’ individualismo materialista ed utilitarista del pensiero liberista e il materialismo collettivista dei socialisti. Entrambi, da due secoli, alleati nella battaglia per la disgregazione della persona umana, ridotta semplicemente ad ego, ad individuo, ad “un atomo nello spazio e un attimo nel tempo”, nel liberismo, e a massa indistinta, senza volto e senz’anima, nel socialismo. Io, vuole dire Staurt Mill, anticipando il celebre slogan “L’utero è mio e lo gestisco io”, sono mio, mio è il mio corpo, mia la mia vita, mia la sovranità sulla mia esistenza: l’io, però, ridotto a proprietà privata, perde la sua caratteristica di persona, cioè di io in relazione con gli altri, e dimentica la sua vocazione alla solidarietà, il suo essere unico e irripetibile, ma appartenente al genere umano; “separato, come scriveva Donoso Cortes, dagli altri per ciò che lo costituisce come individuo e unito con gli altri attraverso quello che lo costituisce individuo di una specie… soggetto ad una responsabilità che gli è propria e a un’altra che gli è comune con tutti gli altri uomini”. Solo dopo aver capito questo concetto, questa riduzione dell’uomo a proprietà di se stesso, all’io-mio che si fa dio, si può capire la lunga prefazione al lettore, che compare su Micromega, in favore dell’eutanasia. In essa, infatti, dati i presupposti appena esposti, si arriva coerentemente a ribaltare il principio di carità, il concetto di solidarietà, la sostanza del nostro essere in relazione, chiamando “cura” il procedimento attraverso il quale il medico elimina il paziente che, disperato, chiede di morire. Nella prima pagina l’atto eutanasico del dottor Ricco nei confronti di Welby è definito ben tre volte come “prendersi cura”, mentre il suicidio “aiutato” diviene, ormai per convenzione, “assistito”, allo stesso modo della fecondazione artificiale: sino alla conseguente affermazione secondo cui un medico che dovesse rifiutarsi di uccidere un malato che lo richiede, tralasciando così di prendersi “cura” di lui, di “assisterlo”, dovrebbe essere considerato “sanzionabile per omissione”. Ecco ribaltato, con pochi inganni lessicali ed antropologici, una cultura millenaria di pietà, di solidarietà, di compassione, di vera cura per il malato. Ecco come invece coloro che propongono l’eutanasia, presentandosi come personaggi pietosi, tolleranti, liberali e comprensibili, finiscono poi per condannare, per invocare l’intervento del magistrato, nei confronti di quei medici che preferissero veramente curare, e non si sentissero di porre fine, con le proprie mani, drasticamente, alla vita di un altro uomo!
Immaginiamo per un attimo, qualora l’umanità dovesse accogliere questi concetti, il paziente quotidiano di domani. Attorniato da “amici” come quelli di Welby, che lo consigliano fortemente di andarsene, che ritengono così di essere, appunto, amici, e da medici smaniosi di “assistere”, di “prendersi cura”, per mille motivi: magari per la volontà di espiantare qualche organo, come Kevorkian in America, oppure di liberare qualche letto d’ospedale; oppure per la paura di essere denunciati da Micromega, o dal suo giurista di riferimento, quell’ Amedeo Santosuosso per il quale non solo l’eutanasia dovrebbe diventare obbligatoria, per i medici, in casi estremi, ma i medici dovrebbero pure “farsi carico della sofferenza psichica del paziente”, anche non in stato terminale, con l’obbligo di ucciderlo. Infatti, continua il Santosuosso – dimenticando di spiegarci che così si apre la strada, come in Olanda, al suicidio dei depressi e dei tristi-, allo stesso modo in cui oggi si può abortire, o cambiare sesso, o ricorrere alla fecondazione artificiale, o subire operazioni di chirurgia plastica, per motivi psichici, ugualmente sarebbe lecito esigere dalla collettività e dal medico l’atto eutanasico di chi abbia appunto problemi psichici (non ben identificati, e potenzialmente illimitati). Se infatti l’eutanasia è “cura”, la non eutanasia diventa “omissione di soccorso”!
Alla prefazione di cui si è detto, e ad alcuni altri articoli, tra cui quello citato di Santosuosso, seguono, nell’ultimo numero di Micromega, quattro interventi di altrettanti sacerdoti che, secondo la dichiarazione ex chatedra del periodico laicista, “prendono sul serio il Vangelo”, a differenza di tutti coloro che invece la pensano diversamente. Sarebbe bello capire se l’intenzione con cui Micromega ospita il parere di quattro preti è quella di un dialogo con il mondo cattolico, o se l’ospitalità è limitata a coloro che la pensano nella medesima maniera della rivista stessa.
Fatto sta che l’idea sostenuta dai quattro è che la posizione della Chiesa in materia di eutanasia, sia troppo dura, inutilmente dura. Per Don Gallo, don Farinella, don Franzoni e don Antonelli, tale posizione appare inficiata da un certo “materialismo”, perché concede eccessiva importanza al corpo di Welby, al suo essere ancora vivente, pulsante, pensante. E’ vero, fa parte della tradizione cattolica, della sua storia, il dare importanza al corpo, alla carne, a quell’involucro splendido in cui soffriamo e con cui compiamo ogni azione, buona o cattiva. E’ da questa visione, così criticata dagli gnostici e dagli spiritualisti di ogni tempo, che sono nati gli ospedali, gli orfanatrofi, gli ordini religiosi dediti ai malati, ai lebbrosi, ai poveri: sono nati san Camillo de Lellis, san Vincenzo de Paoli, San Giuseppe Cottolengo…le sette opere di misericordia corporale accanto alle sette di misericordia spirituale. Don Gallo dice anche di diffidare “dalle precisazioni, dai distinguo senza cuore”. Se fossimo solo sentimento, se il sentimento fosse un cannocchiale abbastanza preciso per vedere tutta la realtà, a 360 gradi, don Gallo avrebbe ragione. Il fatto è che siamo uomini, e non ci è possibile: accanto al sentimento abbiamo la ragione, accanto alla compassione per Welby, abbiamo la capacità di capire che aprire mediaticamente e poi giuridicamente la porta all’eutanasia ci porterà a breve, come in Olanda o Svizzera o nell’Oregon, a dover accettare anche l’eutanasia per i depressi, per i bambini, decisa magari solo dai medici, contro il volere dei genitori, per chi ha sofferenze psicologiche, e poi, un giorno, come si è detto, per chi occupa troppo a lungo letti d’ospedale. Se questo non fosse successo, e non succedesse ogni giorno, in molte parti del mondo, forse la ragione non servirebbe, e basterebbe il sentimento. La realtà è che “il medico pietoso fa la piaga cancerosa”: così una Chiesa che dimentica la verità dell’uomo, e la sacrifica in nome di una presunta misericordia apparente, non fa il bene dell’uomo, ma riapre il vaso di Pandora. Don Giovanni Franzoni, nell’articolo successivo a quello di don Gallo, esprime anch’egli il suo disappunto: purtroppo tira in ballo concetti strani, di “quantità della vita” e di “qualità della vita”. Cosa è questa “qualità della vita”? Chi la stabilisce? Come si pesa, con quale formula si calcola? Chi ha detto che ci siano vite, e cioè uomini, perché è questa equazione, evidente, che si vuole nascondere, di qualità superiore o inferiore? La verità è che quattro uomini che hanno incontrato Cristo avrebbero potuto dire ben altro.
Che la misericordia di Dio è grande, che ha sofferto con noi, che l’uomo deve essere solidale con l’uomo, come diceva anche un ateo come Leopardi nella Ginestra…che il malato non deve essere lasciato solo, ma accompagnato, non da persone che spingono per la sua morte, ma da amici che tengono in vita la sua speranza, il senso della sua vita, accompagnandolo serenamente verso “sorella morte”. E poi, se proprio volevano parlare di eutanasia, avrebbero dovuto accennare anche alle terapie contro il dolore, alla differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico…avrebbero dovuto mostrare di conoscere il tema, difficilissimo e complesso, a risolvere il quale non basta un po’ di sentimento. Avrebbero parlato un po’ meno di Dio, e della Fede, come la vedono loro, e un po’ più con la ragione, capace di distinguo, che per ogni buon sacerdote è a fondamento di ogni vera indagine sulla realtà.

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Per una politica attenta alle famiglia: disegno di legge sulla valutazione dell’impatto famigliare

Quello della famiglia è uno dei temi più gettonati nei programmi delle forze di ogni schieramento politico. Anche il presidente della Giunta provinciale, Lorenzo Dellai, nella sua recente relazione al bilancio di previsione 2007, ha dichiarato una particolare attenzione del suo esecutivo ai problemi delle famiglie trentine. Un segnale positivo che mi auguro non si esaurisca nel mero annuncio, come spesso accade, ma sia seguito da atti concreti: non sfugge a nessuno, infatti, l’urgenza di politiche di sostegno alla famiglia, soprattutto sul piano dell’equità fiscale. I dati parlano chiaro: le famiglie con reddito medio-basso e con figli a carico (anche solo uno) sopportano una vera e propria situazione d’iniquità fiscale. La circostanza non è secondaria se si prende sul serio il convincimento diffuso secondo cui i problemi economici incidano pesantemente e siano uno degli ostacoli alla stessa contrazione di un legame affettivo matrimoniale ed alla generazione di figli. Sono, ovviamente, diversi i fronti su cui operare per uscire dal circolo vizioso delle facili promesse. La strada che ho proposto con un disegno di legge depositato in Consiglio provinciale, prevede il ricorso sistematico, sia in fase d’approvazione di un atto, d’indirizzo o amministrativo della Provincia di Trento, sia al momento di verificare gli effetti di quello stesso atto, alla Valutazione d’impatto familiare. Si tratta di una procedura finalizzata a promuovere una maggiore equità fiscale, tributaria e tariffaria nei confronti delle famiglie del Trentino. La proposta – che comprende anche l’istituzione di un Osservatorio sulla Valutazione dell’impatto familiare – se approvata, imporrebbe alla Provincia non solo la valutazione preventiva e motivata degli effetti delle proprie scelte nei confronti della famiglia, ma anche di operare scelte che raccordino carico fiscale, tributario e tariffario alla composizione ed al reddito del nucleo familiare. Merita, in conclusione, sottolineare che il disegno di legge, richiamandosi all’art. 29 della Costituzione, esprime una chiara opzione a favore dell’istituto familiare inteso come rapporto basato sul matrimonio tra persone di sesso diverso. In altri termini, se esso diverrà legge, il legislatore provinciale sarà tenuto, prioritariamente e laicamente, ad indirizzare azioni di sostegno e d’equità fiscale, fermi restando tutti i diritti inalienabili di ogni singola persona, verso coloro che assumono coscientemente e pubblicamente un reciproco vincolo fatto di diritti e di doveri, potenzialmente aperto anche alle responsabilità genitoriale e, quindi, alla solidarietà tra generazioni. Walter Viola

 Scarica il disegno di legge sull’impatto famigliare

Clicca qui per vedere la dichiarazione di Dellai.

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Enrico VIII e la nascita del capitalismo selvaggio anglosassone

Dopo la guerra dei cento anni, l’Inghilterra vive una guerra civile, detta delle due Rose, tra la famiglia dei Lancaster, che ha come simbolo una rosa rossa, e quella degli York, che ha come simbolo una rosa bianca; un quarto della popolazione perisce. Enrico Tudor, discendente dei Lancaster, la spunta e concilia le due famiglie sposando una York, Elisabetta. Diviene Enrico VII, che darà fiducia ad un navigatore italiano, Giovanni Caboto, che nel 1497 sbarcherà in Canada.

 Cuore del regno è Londra, con 100.000 abitanti circa, scalo di mercanti di ogni paese. Caterina D’Aragona, figlia di Ferdinando e Isabella, re di Spagna, viene destinata, ancora piccola, a lasciare la sua terra per andare nell’"isola delle nebbie" e sposare Arturo, primogenito di Enrico VII. Controvoglia Caterina obbedisce ma Arturo muore dopo soli cinque mesi di matrimonio. Enrico, secondogenito, diviene erede al trono: dopo la morte del padre diviene Enrico VIII. Enrico VIII è l’opposto del padre: spendaccione, ama i divertimenti , la caccia, i gioielli, i tessuti, i grandi banchetti…; è alto, forte, possente, prima di diventare grasso e lardoso…nel 1509 sposa Caterina D’Aragona, precocemente invecchiata e intristita, che non riesce a dargli un figlio maschio: gli muoiono 5 figli, nasce solo una femmina, Maria.

Enrico VIII è affiancato da Wolsey, un astuto popolano, figlio di un macellaio, che si dimostra disposto ad ogni bassezza: in cambio viene nominato Cancelliere e il re gli ottiene anche un alto ruolo ecclesiastico. Infatti Enrico VIII vuole controllare anche la Chiesa, nominando lui, al posto del papa, i vescovi, gli abati dei monasteri…Ciononostante si dichiara avversario di Lutero e scrive addirittura un saggio contro di lui. Lutero allora gli invia una lettera, in cui cerca di lusingarlo: l’ex monaco agostiniano ha bisogno di principi e di re per combattere Roma. In Germania ha ottenuto l’appoggio di alcuni feudatari che avevano visto nell’adesione al protestantesimo il modo per staccarsi dall’Imperatore, Carlo V, che era cattolico, e per entrare in possesso dei beni della Chiesa cattolica, espropriandoli. Ma Enrico VIII non ha ancora deciso il suo futuro religioso: per ora si scaglia nuovamente contro Lutero, deplorando il suo matrimonio con l’ex monaca Caterina von Bora. Sul fronte amoroso, intanto, è inquieto: ha parecchie amanti, tra cui Maria e Anna Bolena.

Di quest’ultima decide di diventare lo sposo: per questo richiede, inutilmente, al papa che dichiari nullo il suo matrimonio precedente. Intanto Wolsey, dopo aver fedelmente servito, viene tolto dai piedi e sostituito con Tommaso Moro, un uomo conosciuto da tutti per la sua integrità di giudice. Ma è Cromwell, un ex usuraio, la nuova anima nera del re: lo consiglia di proseguire nella sua volontà di ripudiare Caterina e lo spinge sulla strada dello scisma. Così, gli dice, potrai sposare Anna Bolena, poi diventare capo della nuova chiesa inglese, la chiesa anglicana, ed esproprierai i beni della Chiesa di Roma, vescovadi, abazie, monasteri…Il popolo inglese è in buona parte contrario a questi progetti: Anna è odiata e considerata una prostituta e una strega, tanto che in una occasione 5-6000 donne assaltano il palazzo dove la Bolena è rinchiusa per ucciderla. Ma l’opposizione viene domata; Fisher e Moro vengono condannati a morte per non aver pubblicamente riconosciuto la giustezza dell’operato del re; frati e monaci vengono impiccati, affogati e poi squartati: le loro membra vengono messe agli angoli delle strade di Londra; la testa di Moro, appesa su una picca, viene esposta sul ponte di Londra ma presto tolta per evitare le processioni di ammiratori. Intanto nel 1533 Anna, che si è sposata col re sancendo la rottura con Roma, partorisce una bimba: Elisabetta.

 Nel 1534 il Parlamento proclama l’Atto di supremazia: nasce ufficialmente la chiesa anglicana, guidata dal re. E’ una chiesa nazionale di Stato, "l’Inghilterra che celebra se stessa": è fortemente nazionalista, in quanto i confini della fede coincidono con quelli dello stato e il capo della chiesa coincide col capo dello stato; profondamente antipapista, in quanto riprende la polemica luterana contro il papa considerato l’anticristo, e, di conseguenza, profondamente avversa ai due paesi cattolici per eccellenza, la Spagna e l’Italia. Nasce così l’Inghilterra moderna, quella che si espanderà schiacciando sempre di più, senza alcuna pietà, l’Irlanda cattolica, in parte sottomessa già dal XII secolo, e la Scozia, le sue colonie "domestiche", e poi creando a poco a poco l’"Impero su cui non tramonta mai il sole", dall’Australia, all’India all’America; nasce l’Inghilterra patria del capitalismo più spregiudicato, della pirateria che assale i galeoni spagnoli e portoghesi, con la compiacenza dei sovrani; dei trafficanti di schiavi che elimineranno i pellerossa e riempiranno il Nord America di neri schiavizzati, per poi privarli di ogni diritto, persino di quello di sedere sull’autobus, insieme ai bianchi, fino a Novecento inoltrato; dei venditori di oppio, che faranno i loro affari in Cina devastando la popolazione locale…

Di questa nuova mentalità, in cui l’uomo viene sacrificato al denaro in nome della "libertà", in cui il lavoro, esattamente come avverrà poi nell’ideologia marxista, diviene l’unico valore assoluto, sono protagoniste la nobiltà e la borghesia anglicana, che hanno abbracciato il nuovo credo, e che Enrico VIII ha ricompensato e legato a sé elargendo i beni e le terre della Chiesa cattolica: sono costoro che, divenuti più ricchi, potranno lanciarsi nelle speculazioni economiche, nelle monoculture, nelle recinzioni, nella privatizzazione delle terre comuni, spingendo molti contadini che vi vivevano, al vagabondaggio o all’alcolismo, nelle colonizzazioni e nei commerci…senza più l’ingombro della noiosa Chiesa cattolica, sempre pronta a richiamare, e a difendere i diritti umani dei più deboli (in Inghilterra, per secoli i cattolici saranno esclusi per legge dalla possibilità di accedere a cariche pubbliche). Questi nuovi adoratori del denaro, trasformano il vecchio mondo in direzione capitalista, ottenendo dal re e dal Parlamento continui benefici, ad esempio l’abolizione di festività cattoliche, che permette di sfruttare maggiormente i lavoratori subalterni; oppure l’Atto contro il vagabondaggio: la chiusura di opere assistenziali della Chiesa cattolica (ospizi, ospedali, orfanatrofi ecc., tutti passati ai fedeli del Tudor), insieme alle prime recinzioni, ha determinato l’esplodere della povertà, del vagabondaggio e del furto.

Enrico VIII e i suoi, che non vogliono essere frenati nella loro corsa all’arricchimento, usano il pugno duro, semplicemente eliminando poveri e vagabondi: 72.000 ne vengono impiccati durante pochi anni. Per secoli l’Inghilterra sarà famosa per la durezza delle pene nei confronti del furto: "dal 1688 al 1820 i reati che comportano la pena di morte passano da 50 a 200-250, e si tratta quasi sempre di reati contro la proprietà". Hegel denuncerà la severità "draconiana" con cui "in Inghilterra viene impiccato ogni ladro": la pena di morte, l’internamento in case di lavoro, i figli strappati alle famiglie povere già dai tre anni, per spingerli al lavoro, saranno l’unica soluzione dello Stato liberale di fronte al problema dei poveri, sino alla teorizzazione dell’eugenetica prenazista, cioè della loro eliminazione per via politica. Malthus sarà solo uno dei tanti a proporre una politica che ritardi i matrimoni dei poveri e la procreazione tra classi popolari, mentre Franklin, su suolo americano, si scaglierà contro i medici che salvano "metà delle vite che non sono degne di essere salvate". Preludio, evidentemente, alla teorie così in voga negli Usa a partire da fine Ottocento, sulla sterilizzazione degli "inferiori", tra i quali, soprattutto, immigrati, anche europei, e poveri.

Accanto a tutto ciò, convivono nell’Inghilterra che si considera liberale, varie forme di servitù: Adam Smith racconta che ai suoi tempi i lavoratori nelle miniere e nelle saline erano come i servi della gleba, potevano essere venduti o comperati insieme al luogo di lavoro, e portavano un collare con scritto il nome del loro padrone. I pensatori inglesi posteriori a Enrico VIII, seguaci idolatri del liberalismo, giustificheranno la schiavitù dei neri, l’eliminazione dei "serpenti papisti", lo sfruttamento intensivo delle colonie, dei vagabondi e dei bambini. Il maestro del liberalismo, Locke, avrebbe scritto: "il bambino può dimostravi che il negro non è un uomo" (Marco Marsilio, Razzismo, un’origine illuminata", Vallecchi).

Su questo assunto di base convaliderà e giustificherà la pratica dello schiavismo di massa. Riguardo agli irlandesi, nel suo "Trattato sulla tolleranza", affermerà: i papisti sono "come i serpenti, non si otterrà mai con un trattamento cortese che mettano da parte il loro veleno". Riguardo ai bambini poveri, che saranno insieme alle donne le prime vittime della furia capitalista nell’epoca dell’industrializzazione, sosterrà, insieme a Bentham, la necessità di "toglierli dalle mani dei genitori", ancora piccolissimi, per farne dei buoni lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere (Domenico Losurdo, "Controstoria del liberalismo", Laterza).

Ma torniamo ad Enrico VIII, vero padre di quanto si è brevemente raccontato: la Bolena abortisce altre due o tre volte; Enrico inizia a pensare ad una maledizione e decide di far decapitare Anna (nel frattempo Caterina è morta eroicamente, qualcuno dice per avvelenamento, ma non è certo); disfattosi della Bolena sposa Jane Seymour, una giovane bruttina, zoppa, leggermente strabica e col doppio mento: Jane partorisce Edoardo e dopo 12 giorno, forse per mancanza di assistenza, muore. Subito il buon Cromwell procura al suo re un nuovo partito, Anna Claves, brutta, sgraziata, ma figlia di un duca tedesco protestante: un’alleanza contro Roma che può servire. Ma Enrico VIII, quando Anna giunge in Inghilterra, non accetta la sua bruttezza e Cromwell, che aveva combinato tutto, finisce decapitato; Anna viene allontanata e tenuta buona con grandi doni. Enrico non ama neppure il luteranesimo, al punto che minaccia di morte quei vescovi , sacerdoti e frati che hanno preso al volo lo scisma per procurarsi mogli e concubine.

Litigando con la prima moglie, Enrico VIII ha creato una nuova religione; ma non vuole che sia nuovo proprio tutto. Può ora sposare Caterina Howard, che verrà decapitata solo due anni dopo, nel 1542. In questi anni il re prosegue nel suo disegno di assoggettare la Scozia, come sua seconda colonia: attacca violentemente Giacomo V Stuart, re di Scozia e suo cugino, fa incendiare chiese, villaggi e cerca di legare a sé alcuni feudatari scozzesi; in particolare può giocare sui protestanti scozzesi, pronti a fare il gioco di un re straniero pur di contrastare la dinastia Stuart, ancora fortemente cattolica. Giacomo V muore di dolore, lasciando come erede la figlia, Maria Stuart, di sei anni. Enrico VIII muore nel 1547; il suo sepolcro, oggi, è vuoto, forse perché le sue spoglie vennero bruciate e disperse dalla figlia Maria. In conclusione si può dire che se non si mettono a fuoco queste vicende, non si può capire il grande successo del comunismo marxista, che nacque come un tumore in un corpo malato, conservando però lo stesso peccato originale del liberalismo: l’essenza materialista ed economicista.

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