Il testamento biologico e il (dubbio) consenso

Il testamento biologico è forse la più complessa delle casistiche che il dibattito in bioetica abbia mai esplorato, e se diversi Paesi europei, per prassi o per legge, l’hanno autorizzato, questa non è affatto una buona ragione per liquidare, come tanti cervelloni vorrebbero, la questione come risolta. Del resto, casi agghiaccianti che mettono in crisi la presunta eticità delle direttive anticipate di trattamento di certo non mancano.

Ricordiamo la vicenda di Kerrie Wooltorton, ventiseienne inglese che, giunta in ospedale in seguito a volontario avvelenamento, ha esibito ai medici pronti a soccorrerla un foglietto nel quale documentava la propria volontà Leggi tutto “Il testamento biologico e il (dubbio) consenso”

Riflessioni di un medico sul testamento biologico.

Il testamento biologico reca in sé il potenziale per una pericolosa apertura all’eutanasia. La spinta verso il riconoscimento di esso nasce proprio nell’ambito della cultura e delle organizzazioni eutanasiche; Luis Kutner ne presenta la prima stesura nel 1967 per conto della Euthanasia Society of America.

La collocazione ed il ruolo che si intende attribuire a tali documenti è essenziale, perché da essi dipende l’eventuale deriva in senso eutanasico e lo stesso stravolgimento del ruolo dei medici, così come è stato concepito per almeno venticinque secoli. Tra i maggiori sostenitori di un impiego allargato delle dichiarazioni anticipate si contano medici di indiscusso valore; è dunque sorprendente la tendenza di questi a glissare sui fatti di cui gli oltre cinquemila studi pubblicati sull’argomento sono espressione difficilmente eludibile. Leggi tutto “Riflessioni di un medico sul testamento biologico.”

Travaglio: suicidio assistito? Ma siamo matti?

Ho sempre faticato a leggere Marco Travaglio. Spesso dice cose vere, ma quasi sempre lo fa, a parer mio, animato da una vena critica perentoria e unilaterale, senza considerare la possibilità di essere, come tutti, fallibile. Eppure lo leggo con assiduità: confrontarsi con le opinioni altrui non è mai una perdita di tempo, e poi scrive molto bene. Anche se questa lettura, dicevo, spesso mi risulta indigesta. Oggi no.

Succede infatti che dopo innumerevoli dissensi mi sia trovato – nella consueta rassegna di tutti i quotidiani – a leggere un editoriale di Travaglio che, cosa più unica che rara, ho condiviso in larghissima parte. L’articolo, intitolato “Il medico salva, non uccide”, riporta un commento del vicedirettore del Fatto Quotidiano a proposito della pratica del suicidio assistito, tornata tristemente alla ribalta con la morte di Lucio Magri, che vi ha fatto ricorso in Svizzera, colpito – come ha confermato anche una fonte insospettabile come la Repubblica – da «una depressione vera». Ebbene, poiché ritengo che l’articolo di Travaglio di oggi sia tutto da leggere, mi permetto – senza commenti aggiuntivi – di condividerne un’ampia parte:

«Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia leggere può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?

Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero di suicidi è indice dell’infelicità, non della "libertà" di un Paese. E quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?» ("Il Fatto Quotidiano", 2/12/2011).

Come dicevo, davanti ad argomenti tanto lineari e convincenti, c’è poco da aggiungere. Eccetto un “bravissimo” che Marco Travaglio, questa volta, si merita senza tentennamenti. E’ un “fatto”, come direbbe lui.

Il Leone che non c’è più. Ma ruggisce ancora

«Se anche per un’unica volta accettiamo il principio del diritto a uccidere i nostri fratelli […] allora in linea di principio l’omicidio diventa ammissibile per tutti gli esseri improduttivi, i malati incurabili, coloro che sono stati resi invalidi, e noi stessi, quando diventiamo vecchi. Chi potrà ancora avere fiducia nel suo medico? Potrà condannarlo a morte». Sono trascorsi esattamente settant’anni da quando il vescovo di Münster, il cardinale Clemens-August von Galen, pronunciò queste parole in un’omelia tenuta nell’agosto del 1941. Eppure non si direbbe, tanto sono attuali rispetto al tema dell’eutanasia e del presunto “diritto a morire”. In particolare, dell’argomentare del cardinale, colpisce il tono col quale ci mette in guardia, perché «se anche per un’unica volta» si accetta l’eliminazione di un essere umano, questa «diventa ammissibile per tutti». A giudicare da come anche tanti esponenti del clero abbiano preferito tacere davanti alle morti di Terry Schiavo ed Eluana Englaro, e di come, più in generale, si sia diffusa l’idea che esistano “casi limite” nei quali si può procedere alla deliberata soppressione di esseri umani ormai «incurabili», viene da sospettare che il cardinale von Galen fosse uno che la vedeva davvero lunga. E che, soprattutto, amasse parlare chiaro, lui che fuori casa aveva gli uomini di Hitler, mica Pannella; non per nulla si meritò il soprannome di "leone di Münster". Peccato che, settant’anni dopo, siano sempre meno, non solo a Münster, coloro che ritengono che non si debba uccidere neanche «per un’unica volta». Ah, se solo ci fossero in giro meno colombe e più leoni!

Osservazioni critiche sulle DAT

di Giorgio Carbone OP

Non vorrei rompere le uova nel paniere di nessuno, ma non voglio neanche fare l’irenista a tutti i costi. E vista la posta in gioco non posso starmene zitto. Al di là delle nobili intenzioni dei proponenti e dei vari relatori parlamentari, il disegno di legge cd. Calabrò, secondo il testo licenziato dalle commissioni della Camera dei Deputati nel marzo scorso e ora in via di discussione alla stessa Camera, sembra essere una «grande trappola».

Non sta né a me né a te giudicare le intenzioni umane, ma ogni cittadino che ama il bene comune della Nazione è chiamato a giudicare il contenuto di una proposta di legge, per ciò che essa dice e per ciò che essa non dice. Gli argomenti usati per favorire tale disegno di legge sono molti, ne ricordo solo alcuni: 1. esso eviterebbe altri casi Englaro; 2. riconosce la vita umana come diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a); 3. afferma che «alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita» (art. 3, c. 5). Dobbiamo leggere il ddl Calabrò, non solo per le affermazioni di principio validissime e nobili, come quelle di cui all’art. 1, ma anche alla luce di ciò che è detto negli articoli successivi.

Infatti, l’applicazione pratica della legge 194/1978 insegna che l’articolato di una legge speciale spesso limita o addirittura nega i principi solennemente affermati all’inizio. Inoltre, dobbiamo considerare anche ciò che il disegno normativo non dice. E, infine, ci dobbiamo immaginare degli esempi concreti di applicazione. 1. Estensione del caso Englaro L’art. 2, c. 6 recita: «In caso di soggetto interdetto il consenso informato è prestato dal tutore che sottoscrive il documento». L’art. 3, c. 3 recita: «Nella DAT può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale». Mentre all’art. 3, c. 5 si dice che: alimentazione e idratazione «devono essere mantenute fino al termine della vita» (si noti che nel testo licenziato dal Senato si diceva che «sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita»; si noti anche che il testo ora in discussione dice «mantenute», il che è diverso dal dire «devono essere iniziate») e «non possono formare oggetto di DAT».

Facciamo ora il caso di un padre-tutore di un paziente-interdetto di una patologia cronica, ma non in fase terminale, paziente che domani avrà bisogno della PEG per l’applicazione della quale si richiede intervento chirurgico poco invasivo con anestesia locale. Se il padre-tutore ha redatto le DAT in cui rinuncia a qualsiasi intervento che richiede anestesia anche locale, o a qualsiasi operazione chirurgica; per quanto la PEG sia finalizzata a idratare e alimentare, se il padre-tutore ha rinunciato e non dà il consenso all’intervento chirurgico, il medico coscienzioso non potrà fare nulla perché ai sensi dell’art. 2, c. 1 «Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole». Si ripeterà così il caso Englaro. Inoltre, ci sarebbe un’aggravante di gran lunga peggiorativa. Mentre Beppino Englaro per raggiungere il suo obiettivo ha dovuto ricorrere molte volte alla magistratura ordinaria, il disegno di legge conferisce al tutore un diritto soggettivo di dare il consenso o di esprimere una rinuncia e a questo diritto soggettivo corrisponde il dovere da parte di terzi di rispettarne l’efficacia. In ogni caso il titolare del diritto soggettivo potrà agire in giudizio per ottenere l’applicazione di quanto gli spetta. Diciamo così: la prassi-Englaro, anziché essere eliminata o arginata, ottiene un riconoscimento giuridico generalizzato.

2. Silenzio circa ventilazione artificiale Altro fatto significativo è il silenzio circa la ventilazione artificiale. Eppure si tratta sempre di atto di sostegno vitale finalizzato a lenire il dolore, conseguente alla sensazione di soffocamento.

3. La disponibilità della vita Come ricordato, il ddl Calabrò riconosce la vita umana come diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a): grande affermazione di un principio cardine degli ordinamenti giuridici occidentali. Tuttavia, se è vero che dare rilevanza giuridica alle DAT e alla «rinuncia ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari» (così l’art. 3, c. 3) equivale ad ammettere che un cittadino possa disporre della propria esistenza fisico-corporea, allora il ddl Calabrò, conferendo rilevanza giuridico-sociale alla rinuncia ad ogni trattamento sanitario giudicato sproporzionato, di fatto e di diritto cancella il principio dell’indisponibilità della vita fisico-corporea, affermato solennemente all’art. 1, c. 1, a. 4. L’identità del medico Inoltre, l’art. 2, c.1 recita «Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole». Oggi non vige questa norma, ma già per molti interventi diagnostici e terapeutici i medici ci chiedono il consenso, come è giusto che sia. Cosa cambia con l’introduzione di questa norma? Viene giuridicizzato il rapporto. Oggi è disciplinato dal Codice di deontologia medica. Domani sarà un rapporto giuridico di tipo contrattuale, opponibile a terzi, e soprattutto con quella norma viene meno l’obbligo terapeutico, assistenziale del medico, la cui contro-faccia è il reato di omissione di soccorso. È vero che l’art. 2, c. 9 recita: «Il consenso informato al trattamento sanitario non è richiesto quando la vita della persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per il verificarsi di una grave complicanza o di un evento acuto» (è il caso degli incidenti stradali); ma in tutti gli altri casi, dove il consenso è stato dato solo per qualche intervento, oppure è stato espresso un rifiuto, il medico non ha più l’obbligo giuridico di agire, pena il reato di omissione di soccorso. Introducendo l’art. 2, c.1, la causa legittimante l’atto medico diventerà esclusivamente il consenso del paziente.

Mentre adesso, come è stato affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008, la causa che legittima il medico a intervenire sul paziente è innanzitutto la sua missione e la sua competenza professionale e poi il consenso informato. La proposta di legge in discussione alla Camera stravolge, quindi, ancora una volta l’identità della professione medica: da professionista che agisce in scienza e coscienza sulla base delle proprie competenze tecnico-scientifiche sarà ridotto a esecutore – o come dicono già in molti – operatore delle volontà altrui, anestetizzando così la propria coscienza professionale. È vero che c’è bisogno di una legge, ma è sufficiente di un solo articolo: «Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica posso fornirle alla persona umana, sono doverose forme di sostegno vitale e finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita».

(Fonte: Il Foglio 14/7/2011)

Una legge sbagliata. Punto

Il testamento biologico e quella zona grigia che non può essere normata

La discussione conclusiva alla Camera della legge sul fine vita, che raccoglie un consenso maggioritario, allude a un problema etico di fondo, quello dei limiti di ingerenza dello stato nelle scelte personali di coscienza. Tra queste non è riconosciuta quella all’eutanasia e quindi a molti è sembrato ragionevole intervenire con una legge per delimitare gli interventi “creativi” della magistratura. Naturalmente è criticabile l’interferenza che si è determinata nel caso Englaro e che ha dato origine al successivo intervento parlamentare.

Il punto, però è questo: è giusto, per contrattare l’interferenza indebita di un ordine dello stato, legiferare nel merito rendendo l’interferenza dello stato sistematica? Pur riconoscendo la difficoltà di una scelta di questo genere, deve essere difeso il principio generale. L’estremo passaggio, specialmente se avviene in condizioni particolarmente tragiche, deve restare oggetto di pietà e di cura, non di commi e codicilli. C’è una zona grigia che non può essere normata, solo rispettata affidandosi alla responsabilità delle persone, dei medici, dei familiari.

Con tutta la buona volontà, il giusto intento di evitare l’estensione di pratiche di eutanasia striscianti finisce con l’ingabbiare un momento cruciale e tragico in una ragnatela burocratica spersonalizzante e, alla fine, inapplicabile. La deriva culturale che fa leggere anche la morte in termini consumistici e che quindi favorisce l’eliminazione delle esistenze inutili e non autosufficienti è un orribile segno dei tempi. Va contrastata senza tentennamenti con una battaglia culturale, che non può essere surrogata da nessun articolo di legge. La morte non è un diritto, è un fatto naturale e inevitabile, che va accettato in tutte le sue complessità, ma di questo bisogna convincersi e convincere. Costringere a nutrire questa convinzione in forza di legge prima che ingiusto è impossibile.
Da http://www.ilfoglio.it/soloqui/9644

La scelta delle bugie

Si chiama www.lamiascelta.it e si presenta come il network del testamento biologico, portale ideato col dichiarato obbiettivo «di raccogliere volontà e testimonianze di tutte quelle persone che credono nel diritto all’autodeterminazione». Primo messaggio tra le righe: noi siamo per la libertà dell’individuo, ma in giro ci sono sinistri figuri che non credono nel diritto all’autodeterminazione, state attenti. Se si clicca su “La legge”, poi, si apprende che il testamento biologico è «un atto formale che consente a chiunque – nel pieno possesso delle facoltà mentali – di dare disposizioni in merito alle terapie e trattamenti sanitari (somministrazione di farmaci, sostentamento vitale, rianimazione, ecc.) che intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di comunicare».

Secondo messaggio implicito: chi sottoscrive le volontà anticipate di trattamento mica desidera l’eutanasia, ci mancherebbe, ma solo un genuino esercizio di libertà. Peccato che nello stesso modulo di testamento biologico scaricabile dal sito (http://www.lamiascelta.it/testamento-biologico.pdf) non ci sia alcuna possibilità – alla faccia della scelta! -di dare disposizioni in merito alle terapie e trattamenti sanitari, ma solo di sottoscrivere la volontà di non essere sottoposti «ad alcun trattamento sanitario, inclusa l’idratazione e l’alimentazione forzate, in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante o in caso di malattia non curabile».

Un errore? Nient’affatto: chi si batte per il testamento biologico non è minimamente interessato alle «disposizioni in merito alle terapie e trattamenti sanitari», ma solo all’eutanasia. E’ così oggi, era così nel 1967, quando l’avvocato Luis Kutner presentò il primo biotestamento per conto, guarda caso, della Eutanasia Society of America. Proposta: e se chiedessimo agli amici che credono nell’autodeterminazione di raccontare meno frottole?

Carlo Casini scriveva: sul fine vita non serve alcuna legge

E’ evidente il pericolo di un più vasto e duraturo indebolimento del principio di indisponibilità della vita umana a seguito di una legge che in qualche modo ne riduca la portata nei confronti dei malati, dei disabili. Per il momento il veicolo è quello del rifiuto delle cure (attuale o anticipato) ma la strada imboccata può portare molto oltre.  

Estate 2008: la rivista “Medicina e Morale” pubblica un articolo di Carlo Casini ed altri studiosi, con cui si assume una posizione molto netta: una legge sul fine vita non è necessaria (C. Casini, M. Casini, E. Traisci, M. L. Di Pietro, Il decreto della corte di Appello di Milano sul caso Englaro e la richiesta di una legge sul c.d. testamento biologico, In Medicina e Morale, 2008/4, 723:745).

La vicenda giudiziaria sul caso Englaro era ormai praticamente finita: Eluana Englaro sarà fatta morire proprio in forza di quel decreto della Corte d’Appello di Milano che l’articolo commentava; la sua morte sarebbe stata solo ritardata dalla sentenza della Cassazione che avrebbe dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale di Milano. Ecco cosa si sosteneva: a) non esiste nessun vuoto legislativo; b) una legge è una soluzione peggiore del male, perché una sentenza su un caso singolo ha pur sempre un effetto limitato; c) sono sufficienti le norme sull’omicidio e sull’omicidio del consenziente.

Riportiamo i passaggi centrali dell’articolo.  Sul presunto vuoto legislativo: “Si sente ripetere spesso che in materia vi è un “vuoto legislativo. L’affermazione è falsa se vuol significare che nessuna norma giuridica regola i comportamenti collegati con la fine della vita. Su questo punto, non solo esistono già alcune leggi di riferimento, come quella sull’accertamento della morte (1993), sul trapianto di organi (1999), sull’amministrazione di sostegno (2004), ma la norma – di legge – c’è ed è chiara: è il divieto di cagionare (cosa, ovviamente diversa dall’accettare) la morte anche quando questa è richiesta e a prescindere dalle condizioni del richiedente (art. 579 del Codice Penale), perché la vita umana è un bene indisponibile”.

Sull’effetto maggiormente nefasto di una legge: “… bisogna sottolineare che il ruolo e la portata della giurisprudenza sono diversi da quelli della legge. Infatti, da un lato abbiamo una decisione che: a) per chi è veramente interessato (e solo per costui) presuppone l’attivazione talvolta faticosa e dispendiosa della “macchina giudiziaria”; b) vale concretamente per il singolo caso per il quale è richiesta; c) non incide sull’organizzazione sociale e di conseguenza non incide in modo determinante sulle relazioni giuridiche tra i consociati. Dall’altro, invece, abbiamo una disciplina che: a) presuppone un dibattito parlamentare – un dibattito cioè che si svolge tra tutti i rappresentanti del popolo – la cui conclusione, pertanto, ha un’autorevolezza di gran lunga maggiore di quella di una decisione giudiziaria; b) vale per tutti: infatti la legge per sua natura è generale e astratta; c) incide sul tessuto sociale e relazionale in modo consistente. Non solo, ma se è vero che il giudice è soggetto solo alla legge, allora la legge incide in modo significativo anche sull’orientamento giurisprudenziale”.

Sulla centralità e sufficienza degli articoli del codice penale: “Nella prospettiva di chi ritiene ingiusta la decisione di far morire Eluana di fame e di sete, è sicuramente necessaria una legge che tuteli in modo incondizionato il principio di indisponibilità della vita umana non solo dell’altrui, ma anche della propria se è ad altri che si chiede di porvi fine. Ebbene, questa legge c’è già: gli articoli 575, 579 e 580 del Codice Penale sanzionano rispettivamente l’omicidio, l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’aiuto al suicidio.”

Il giudizio restava lo stesso anche rispetto ad una legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, non vincolanti: “…non si può ignorare che eutanasica non è solo la tecnica, ma anche la logica che accompagna i comportamenti (….) l’istanza di legalizzazione del testamento biologico nasconde l’intenzione eutanasica non solo quando se ne preveda il carattere vincolante per il medico, ma anche quando lo si intende come espressione di un desiderio manifestato al di fuori della concreta situazione in cui deve decidersi ed attuarsi la cura e di un contesto di alleanza terapeutica in corso tra medico e paziente. Dell’eutanasia (…) ci sono tutte le dinamiche e gli elementi culturali …”. Ecco, perciò, “l’opposizione a una legge che introduca il “testamento biologico” (o, come altrimenti definito, “direttive anticipate” o “dichiarazioni anticipate di trattamento)”.

L’unica legge da approvare era un’altra:Una legge sulla tutela della vita in condizione di malattia inguaribile o di grande disabilità (…) dovrebbe -piuttosto- stabilire i principi e le regole atte a salvare e salvaguardare la vita di Eluana e delle molte altre persone che si trovano o si troveranno in condizioni similari”.

Dunque, fino al 2008, e precisamente fino al discorso del cardinale Angelo Bagnasco del settembre di quell’anno, i pro-life sostenevano le stesse cose oggi sostenute dal Comitato Verità e Vita. Di più: gli argomenti utilizzati da Casini non sono in alcun modo superati dagli eventi accaduti in questi tre anni. E allora: che cosa ha spinto il presidente del Movimento per la Vita Italiano a cambiare la sua posizione?

Comitato Verità e Vita

La salvezza non viene dalla legge

di Riccardo Cascioli

“Lo Stato riconosce il diritto alla vita del concepito e, dato che gode di eguale diritto alla vita della madre, ne garantisce la tutela e con le sue leggi difende quel diritto”.

E’ quanto si legge all’articolo 40 della Costituzione irlandese, una tutela del diritto alla vita del concepito molto esplicita e chiara, che non lascia margine a equivoci. Non dimentichiamo poi, se qualcuno avesse ancora qualche dubbio, che la stessa Costituzione si apre “Nel nome della Santissima Trinità, da Cui viene tutta l’autorità e a Cui tutte le azioni di persone e Stati devono essere finalizzate”.

Una legge che, qualcuno direbbe, più giusta non si può. Un cattolico non potrebbe certo desiderare di meglio. Eppure, dalla metà degli anni ’90, quello che appare come un articolo costituzionale indiscutibile non lo è più perché i giudici della Corte Suprema, dopo diversi assalti dei gruppi abortisti, hanno “reinterpretato” l’articolo e sentenziato che l’aborto è possibile in caso di rischio per la vita della donna, mentre le donne vittime di violenza hanno almeno il diritto di attraversare un fazzoletto di mare per andare ad abortire in Gran Bretagna.

Un referendum inoltre ha reso legale per tutte le donne andare ad abortire all’estero nonché il diritto ad avere tutte le informazioni su come farlo.

Che cosa vuol dire questo? Semplicemente che sebbene avere leggi giuste sia importante, il loro significato è sempre relativo. La legge, cioè, è espressione di una cultura condivisa da una determinata società in un dato momento. E sebbene la legge abbia anche una funzione pedagogica, se la cultura di una società cambia, fatalmente cambierà prima l’interpretazione della legge, poi la legge stessa.

E’ la storia che ce lo dice. In Irlanda, la “cultura della morte” – soprattutto nella capitale – ha cominciato a prendere gradualmente il posto della tradizionale “cultura della vita” e questo ha fatto sì che anche una norma chiara e inequivocabile fosse reinterpretata in senso sfavorevole alla vita.

Questo dovrebbe insegnare che, se si vuole davvero leggi giuste, che difendano la vita, bisogna anzitutto far sì che sia attuale e condivisa una cultura della vita. Venendo all’Italia, e al caso della proposta di legge sul fine vita, pensare che l’eutanasia possa essere fermata da una legge, peraltro con diversi punti controversi, soggetti a diverse interpretazioni, è una enorme sciocchezza.

Le leggi buone sono necessarie, ed è importante che i laici in politica si impegnino a fondo per questo, ma delegare a un processo legislativo la tenuta culturale di una società è un errore madornale. Peggio ancora quando una legge viene “imposta” quasi fosse un “dogma di fede”, e si tacci addirittura di “immoralità” chi porta delle ragioni contrarie. Il rischio più grave, in questo caso, non è che entri l’eutanasia nel nostro ordinamento: dal punto di vista dei pro-vita, abbiamo detto più volte che ci sono ragioni sia a sostegno sia contro questa proposta di legge. Il rischio mortale è invece che la Chiesa affidi la salvezza a una legge, che non abbia più coscienza che solo una nuova evangelizzazione può ricreare quella cultura della vita che renderebbe inaccettabili anche i tentativi “creativi” di alcuni giudici.

Non è un modo di dire: se in Italia e in Europa abbiamo ereditato delle legislazioni in favore della vita e della dignità della persona è solo grazie alla cultura cristiana – e direi più specificatamente, cattolica – che ha letteralmente formato i nostri popoli. Poi le leggi hanno cominciato a cambiare di pari passo con la secolarizzazione e l’avanzare di una cultura laicista, contraria alla vita. E fuori dal mondo cristiano – potremmo citare infiniti esempi – non esiste un diritto alla vita assoluto, né la dignità della persona è considerata inviolabile, neanche come principio astratto.

Non a caso: perché soltanto il cristianesimo ha rivelato all’uomo – e reso esperienza – la sua stessa dignità, data dall’essere “a immagine e somiglianza di Dio”. Che questa dignità venga riscoperta e rispettata non dipende dalle leggi, per buone che siano, ma dalla possibilità che quella esperienza sia presenza oggi, che l’avvenimento di Cristo sia contemporaneo, riaccada oggi: per me, per te, per le persone che abbiamo vicino. Ai pastori che guidano la Chiesa chiediamo soprattutto l’attenzione a far sì che le comunità cristiane siano vive e testimonino la contemporaneità di Cristo. Questo non per svalutare l’impegno politico e legislativo; al contrario, è per dargli la giusta prospettiva senza la quale l’uomo diventa “per la legge”, e non la legge “per l’uomo”. da: la bussolaquotidiana