Le infatuazioni di Zapatero per i moriscos

Mentre in Svizzera la popolazione si pronuncia non contro le moschee, ma contro il proliferare di minareti islamici, svettanti sulle case e le chiese degli indigeni, vedendo in essi una minaccia culturale e politica, nella Spagna di Zapatero la deriva nichilista si manifesta nel più acceso odio di sé e della propria tradizione avita.

Non basta, ai progressisti spagnoli, equiparare i diritti delle scimmie a quelli degli uomini; neppure è sufficiente smantellare ogni giorno i valori della cristianità, sostituendoli col più triste ed infelice individualismo, che è poi quanto resta dopo l’ideologia alienante del comunismo. Occorre fare di più, occorre riscrivere la storia, con un solo intento: svillaneggiare il passato cristiano della Spagna e deturparne il ricordo.

Così i socialisti spagnoli propongono di risarcire pecuniariamente nientemeno che i tris-nipoti dei tris-nipoti dei moriscos cacciati dopo la Reconquista del 1492! Ecco, similmente, il grande successo di un romanzo antispagnolo, La mano di Fatima di Ildefonso Falcones, subito adocchiato, recensito ed elogiato, anche dalla sinistra nostrana! Cosa si dice in questo libro cui gli spagnoli hanno tributato tanto successo? Si racconta la storia dei “poveri” islamici, “stanchi di ingiustizie e umiliazioni”, che si battono contro i cattivi cristiani! Il protagonista, siamo nel 1568, è “un ragazzo di quattordici anni dagli occhi incredibilmente azzurri”, nato dall’atrocità di un prete cristiano, guarda caso un prete!, che ha stuprato una povera donna morisca!

Il libro, secondo i giornali progressisti spagnoli, ricostruirebbe le discriminazioni dei cristiani e la loro intolleranza. Ma come sono andate realmente le cose in Spagna: chi sono stati gli aggrediti, gli intolleranti, e chi gli aggressori, le vittime?

Nel 711 la Spagna viene assalita da settemila Berberi del Marocco convertiti all’Islam e dediti alla “guerra santa” contro gli infedeli. Sono gli anni in cui l’Islam si espande con velocità inaudita, conquistando una ad una le terre cristiane, dalla Siria all’Africa del nord. Il Mediterraneo, infestato dai pirati saraceni, diviene impraticabile per gli europei; muoiono i commerci, le città sulle coste decadono, e, come ricorda lo storico Henri Pirenne, per la prima volta l’Occidente latino si trova isolato ed escluso dal contatto con i paesi a sud del mare nostrum. In pochi anni cadono sotto i musulmani Lisbona, Cordova, poi la Sicilia e altre isole del Mediterraneo. Nell’840 i musulmani saccheggiano Roma, rapinando e uccidendo senza pietà. A breve, sulle coste italiane inizierà ad riecheggiare il noto grido di terrore: “mamma li Turchi”. Ebbene la Spagna cristiana subisce il giogo islamico per oltre sette secoli. Si libererà solamente con la conquista di Granada nel 1492, in una battaglia a cui partecipano, a fianco degli spagnoli, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi… Pochi anni prima i musulmani hanno definitivamente distrutto e conquistato Costantinopoli, pronti a chiudere l’Europa in una morsa (1453). Durante la presa di Granada, come racconta lo storico J.Dumont (“La regina diffamata“, Sei), i “re cattolicissimi” “hanno proibito ai cristiani rappresaglie o saccheggi”, che in effetti non si verificano.

Ma cosa fare dei moriscos, una volta liberata la città? Isabella e Ferdinando, dal 1492 al 1499 propongono loro la conversione volontaria, senza alcuna imposizione, concedendo nel contempo moschee, libertà di culto e di costumi. Ma la politica tollerante non ha successo: molti moriscos sono sempre pronti alla sedizione e alla prova di forza. E’ in questa situazione, dopo la loro ennesima ribellione, che i re di Spagna, nel 1501, li invitano ad una scelta estrema: o la conversione, volontaria, o l’esilio, il ritorno nelle proprie terre. Dopo 7 secoli di oppressione islamica, non se ne ha diritto? Convertendosi liberamente, scrive il Dumont, i moriscos “potevano conservare i costumi musulmani, le abitudini more, l’uso della lingua araba…La conversione diveniva dunque un semplice modus vivendi tra Cristianesimo di principio e Islam di fatto”. Infatti molti accetteranno queste condizioni. Sarà solo nel 1566-68, dopo che i Turchi hanno lanciato una poderosa offensiva nel Mediterraneo e i Mori nordafricani hanno razziato le coste della regione di Granada, in combutta coi moriscos “spagnoli”, riforniti di armi raccolte in una moschea di Algeri, che Filippo II proibirà l’uso della lingua, degli abiti e dei costumi arabi, e imporrà a tutti i moriscos di imparare lo spagnolo entro tre anni, favorendo nello stesso tempo i matrimoni misti. In questi anni, scrive lo storico H. G. Koenigsberger, i frequenti attacchi turchi alle navi, ai villaggi e ai porti della Spagna meridionale, “contribuirono a tenere continuamente vivo il senso di minaccia” negli spagnoli, mentre “i contatti (dei turchi, ndr) con i moriscos di Granada portarono il pericolo musulmano nel cuore della Spagna” (Cambridge University, Storia del mondo moderno, vol. III).

Infine, nel 1609, quando si apprese che “i moriscos complottavano con i barbareschi ed Enrico IV di Francia, grande nemico della Spagna, per organizzare una nuova sollevazione, estesa a tutto il regno“, Filippo II ordinò l’espulsione di 300.000 di loro.

Erano passati sette secoli di dominio islamico e oltre cent’anni di falliti tentativi di convivenza: con quale coraggio Mario Vargas Llosa ed altri intellettuali “progressisti”, di continuo col ditino alzato, con le loro analisi sempre così banali, scontate, ripetitive, straparlano, a proposito di queste vicende, di “intolleranza religiosa” e “pregiudizio razzista“? (Il Foglio, 10 dic.2009)

Le insorgenze marchigiane

L’insorgenza marchigiana merita particolare attenzione, sia per l’importanza degli avvenimenti che la caratterizzarono soprattutto in quel 1799 tradizionalmente designato come l’ anno terribile, ma recentemente ribattezzato da Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti l’anno magico per la Contro-Rivoluzione italiana, sia perché questa regione, pur risparmiata dalla prima invasione del ’96, sperimentò, condensandole in un più breve arco di tempo, tutte le fasi attraversate dall’ Insorgenza lungo il triennio giacobino.

nella foto : Monaldo Leopardi

Alla prima, tumultuosa e spontaneistica (qui del 1797), fece, difatti, seguito quella del 1799, caratterizzata da forme organizzative abbastanza avanzate e da rapporti stabili con le Potenze europee in guerra con la Francia con conseguente coinvolgimento nel gioco diplomatico e militare, nel quale queste Potenze, unite dalla concorde volontà di respingere la Francia nei suoi antichi confini e, soprattutto, di estirpare dall’ Europa il virus rivoluzionario, non dimenticavano tuttavia di assicurarsi situazioni di vantaggio in vista di possibili allargamenti territoriali dopo una vittoria che nei primi mesi del 1799 appariva a portata di mano.

Come noto, l’ invasione francese della tarda primavera 1796 toccò soltanto la parte più settentrionale dello Stato della Chiesa, le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna, sicché è nel 1797, dopo la sconfitta dell’esercito pontificio nella battaglia del Senio (2 febbraio), in terra di Romagna, che i marchigiani fecero conoscenza dell’ esercito invasore e sperimentarono sulla loro pelle i benefici della Rivoluzione. Un’ esperienza abbastanza breve, dal momento che la vittoria del Senio fu rapidamente seguita dal trattato di pace firmato a Tolentino il successivo 19 febbraio, che toglieva allo Stato della Chiesa le Legazioni, ma gli restituiva (temporaneamente) la provincia marchigiana, con conseguente ritiro delle truppe francesi fra marzo e maggio, ad eccezione che da Senigallia ed Ancona .

Quest’ultima città, dove operavano i più consistenti circoli giacobini della regione, tornò al Pontefice solo al termine della guerra di liberazione del 1799 e non per caso dal momento che il Bonaparte nel maggio 1797, pochi mesi dopo la firma del Trattato, enunciava: Ancona che abbiamo già in nostro potere, diventa ogni giorno più formidabile, e noi la conserveremo, finché i nostri affari di Roma ce la daranno irrevocabilmente. In questo breve lasso di tempo, in alcuni casi già prima del Trattato, in altri nei giorni immediatamente successivi, le popolazioni insorsero unanimi contro gli invasori e i giacobini locali, esattamente come era accaduto l’ anno precedente negli altri territori italiani invasi, ma forse con ancora maggiore immediatezza, perché la dolorosa esperienza dei vicini non lasciava adito a dubbi su quanto ci si doveva attendere, e, per lo stesso motivo e per avere la rapacità delle requisizioni superato anche le voci più allarmistiche, con tale vigore e determinazione che in molti casi i francesi, per il momento più interessati ad una rapida e fruttuosa scorreria di rapina che a stabilire nelle Marche una di quelle repubblichette giacobine strettamente dipendenti dalla Repubblica-madre e a suo totale servizio, furono costretti a venire a patti.

E’ il caso degli urbinati, che, dopo avere, il 25 febbraio, pressoché distrutto al Gallo una colonna francese proveniente da Pesaro e resistito all’ attacco portato alla città dal generale Sahuguet, reduce dal terribile saccheggio di Fossombrone (vi erano stati compiuti atti sacrileghi e violentate molte donne, fra le quali le suore del convento di S. Agata), ne ottennero, l’ 11 marzo, l’impegno al rispetto della religione e a non entrare nella città e nel suo contado (ad ogni buon conto, non fidandosi troppo, gli urbinati collocarono presidi su tutto il territorio in attesa della effettiva partenza dei francesi).

Come ricorda nel libro Insorgenti marchigiani Sandro Petrucci, analoghi successi ottennero le insorgenze di S. Lorenzo del Campo, di Cingoli e del Montefeltro. Qui la fortezza di S. Leo, caduta senza combattere il 5 febbraio, venne riconquistata un mese dopo dagli insorgenti condotti da un uomo di legge, un rappresentante della borghesia benestante di solito aliena dalle imprese guerresche e spesso favorevole alle idee rivoluzionarie: il notaio Giovanni Masini. Diversa la situazione delle città e dei paesi della costa, in particolare Ancona, Pesaro e Senigallia, nonostante che nel 1799, dopo lo scoppio del conflitto fra la Francia e le truppe delle Potenze della Seconda Coalizione, l’Adriatico fosse dominato dalle flotte alleate. Qui la forte presenza francese scoraggiò o fece presto tramontare i tentativi di resistenza.

Insorgenze sfortunate, seguite da veri e propri eccidi, si ebbero, oltre che a Fossombrone, a Tavoleto, paese a cavallo del confine romagnolo e, quindi, partecipe tanto dell’Insorgenza urbinate, con un tentativo di assalto a Pesaro, quanto di quella che, come si è ricordato nel capitolo dedicato alle insorgenze emiliano-romagnole, nel marzo 1797 coinvolse il contado cesenate dall’appennino al mare. Le Marche centro-meridionali furono, a loro volta, interessate da centinaia di piccole e grandi insorgenze, perché se a volte le città si mostrarono inclini a chinare la testa di fronte alla forza, magari recuperando antiche ambizioni autonomistiche, di diversa opinione furono dovunque contadini e paesani, ad ingrossare le cui file concorsero poi, al loro arrivo nei centri più grossi, pressoché totalitariamente gli artigiani.

In questo territorio sembrano particolarmente significativi, anche a titolo di esempio di una assai più vasta realtà, i casi di Cingoli, Sant’Elpidio e Civitanova, anche qui coi rispettivi contadi in funzione di promotori. A Cingoli, come ad Urbino, gli insorti, che avevano dato inizio all’insurrezione con l’uccisione di quattro francesi incaricati di riscuotere le contribuzioni, si mostrarono così decisi a sostenere con le armi la fedeltà al Pontefice, che il generale Rusca, comandante della colonna incaricata della repressione, preferì evitare uno scontro che. anche se vittorioso, gli avrebbe causato troppe perdite e patteggiare, acconsentendo a tenere le truppe fuori dal paese e a condonare le richieste contribuzioni. A San’Elpidio e Civitanova l’Insorgenza, anche qui soprattutto contadina, prese toni ed aspetti da indurre alcuni storici ad attribuirle natura di sollevazione dei ceti subalterni rurali contro l’aristocrazia e la ricca borghesia (un caso di proto-lotta di classe). Si trattò in realtà della solita contrapposizione, comune a tutta la realtà marchigiana e non solo, fra i contadini, pronti a battersi per la salvezza del loro mondo minacciato di distruzione, e i nobili e i possidenti, che, anche quando si mantenevano in cuor loro fedeli al legittimo Sovrano, erano in gran parte assai più preoccupati della salvezza dei propri beni e, di conseguenza, inclinavano a cercare un compromesso con i troppo forti francesi

A Sant’Elpidio il contrasto assunse aspetti di particolare durezza o per particolari aspetti caratteriali di qualche protagonista o perché, a differenza di quanto era avvenuto ad Urbino e altrove, nessun appartenente al ceto dirigente aveva accettato la richiesta degli insorti di unirsi a loro prendendone la direzione militare. Ce ne offre prova nei suoi scritti un possidente di Sant’Elpidio, Gerolamo Mallio, decisamente avverso agli insorgenti. Costui, mentre si stava allontanando con altri del suo ceto dal convento dove si erano rifugiati per sottrarsi alle pressioni dei paesani, si era imbattuto in alcuni contadini, che vedendomi andar via mi dicevano che ero un cane a lasciare così la patria, che essi difendevano con tanto fervore. In pratica, commenta il Petrucci, una percezione di tradimento, da parte dei contadini, che spiega anche l’uccisione del conte Brancadoro, che non era affatto un giacobino, ma un inviato della città di Fermo al comando francese per scongiurare rappresaglie per l’uccisione di alcuni soldati.

Al ritorno aveva seguito la colonna del generale Rusca e nel corso di una scaramuccia era stato sorpreso da una pattuglia di insorti, di cui faceva parte un suo ex-colono, che si adoperò per salvarlo, assicurando che il suo padrone non aveva relazioni col nemico. Il conte se la sarebbe cavata se non gli fosse stata trovata addosso una coccarda tricolore, che, giudicata prova del tradimento, gli costò la fucilazione. Amor di patria dunque e fedeltà al legittimo Sovrano. Sentimenti che però poco hanno a che spartire col nazionalismo, proprio in quegli anni partorito dalla Rivoluzione, e trovano riferimenti e contenuti in un sistema di valori, al cui centro è collocata la Religione.

Anche nelle Marche, come nel resto d’Italia e in tutta Europa, la Controrivoluzione trova la sua motivazione più profonda nel Cristianesimo, all’epoca elemento fondante dell’identità delle popolazioni, che non per caso si riunivano sotto gli stendardi delle Confraternite al grido di Viva Gesù e Viva Maria e appuntavano al cappello o al farsetto un’immagine dei Santi o, più spesso, della Beata Vergine. Questa religiosità tuttavia non nasconde l’ affiorare di contrasti e divergenze con le gerarchie ecclesiastiche, ritenute troppo deboli e pavide e a volte addirittura complici dei francesi (nel corso del XVIII? secolo l’ eresia giansenista aveva contagiato non piccola parte del clero, predisponendolo ad accogliere con favore la Rivoluzione).

Divergenze destinate, invece che a risolversi, ad accentuarsi durante il dominio napoleonico e a crearel’ ambiente favorevole al sorgere e al proliferare dell’ anticlericalismo e dell’ avversione al governo dei preti e spesso della vera e propria irreligione, che nei successivi decenni caratterizzeranno sia le Marche, sia la Romagna e la Toscana. Si è definita l’ Insorgenza del 1797 spontanea e tumultuosa, il che ovviamente non comporta totale assenza di forme di organizzazione comune, sia pure all’ interno di ambiti territorialmente ristretti ed omogenei (in genere una città e il suo contado, come, appunto, Urbino e l’ Urbinate o anche l’intero Montefeltro), e anche di tentativi di stabilire più ampi collegamenti con le Insorgenze di città meno prossime, sicché a ragione il Petrucci respinge la tesi liberale di uno scoppio improvviso di follia collettiva.

Nelle Marche questa pur rudimentale organizzazione si presenta ad uno stadio più avanzato di quello riscontrabile in Lombardia, in Emilia e nella finitima Romagna nel 1796, perché le notizie di quanto vi era accaduto si erano rapidamente diffuse e il permanere su quei territori dell’esercito francese, accompagnato dall’ installazione di governi-fantoccio e dall’ arruolamento di truppe locali, era motivo di costante allarme, facendo sospettare che difficilmente l’ invasore si sarebbe accontentato di quanto già assicuratogli dalle sconfitte inflitte agli austriaci e ai pontifici. Quello firmato a Tolentino era uno di quei trattati che la Francia repubblicana e, in seguito, quella napoleonica, stipulava con la riserva mentale di rispettarli solo finché le riuscissero utili. Il governo pontificio si era acconciato alla pur dolorosa amputazione delle sue province più ricche e per gran parte degli anni ’97 e ’98 gli ecclesiastici si adoperarono per tenere tranquille le popolazioni marchigiane.

Queste si sentivano particolarmente esposte, sia perché in vari luoghi avevano ancora in casa le truppe francesi, sia perché il territorio era percorso in tutte le direzioni dai commissari del Direttorio parigino alla ricerca di beni da confiscare per il sostentamento delle truppe e di opere d’arte da inviare a Parigi, tanto che, come scrisse l’ambasciatore francese a Roma, Cacault, ciò riduce all’estrema disperazione questa provincia che vede che le tolgono ogni cosa e che le incombe la più crudele carestia. Secondo il Cacault per ridurre allo stremo non solo le Marche, ma l’intero Stato della Chiesa fino ad un rapido e irreversibile collasso sarebbe stata sufficiente la rigorosa applicazione delle clausole del Trattato. Tuttavia già nell’ autunno del 1798 a Parigi, anche in considerazione di una prossima scomparsa dell’anziano Pio VI, gravemente malato, si era decisa una intromissione diretta nelle vicende dello Stato pontificio.

Il 10 ottobre il ministro degli esteri francesi, Talleyrand, scriveva al Bonaparte: Due cose dovete fare, cittadino generale. La prima impedire con tutti i mezzi possibili che il re di Napoli entri nel territorio del Papa. La seconda aiutare le buone disposizioni di chi pensasse che il tempo dei papi deve finire, incoraggiare la spinta del popolo romano verso la libertà. Ancora più deciso il direttore La Réveillére-Lépaux, l’inventore di una nuova religione destinata a sostituire il cristianesimo, che invitava il generale a prendere ogni iniziativa affinché non si dia a Pio VI un successore. Nei mesi seguenti, forse perché il Papa deluse le attese non decidendosi a morire e intanto erano cresciute le esigenze finanziarie del Direttorio, a Parigi venne decisa una nuova invasione, preceduta ed annunciata il 7 dicembre 1797 dalla conquista della fortezza di San Leo per iniziativa, formalmente, della Cisalpina, che ne sosteneva l’appartenenza anche geografica alla Romagna, ma in realtà condotta in porto dai polacchi del generale Dabrowscki e ancor più dalla terrorizzata remissività degli amministratori pontifici.

Il comandante della fortezza, Filippo Silvani, aveva respinto il primo attacco, ed era tutt’altro che propenso alla resa, ma da Pesaro, dove ancora ci si illudeva di salvare la pace, gli giunse l’ordine di non opporre ulteriore resistenza e solo di cercare di ottenere una capitolazione vantaggiosa. Come sempre la remissività non servì a nulla. Il 23 dicembre i cisalpini occuparono Fano, il 25 il generale Lechi prese Pesaro e il 27 Urbino. Intanto già a metà novembre ad Ancona, dove si trovavano ancora truppe francesi, era stata proclamata la repubblica democratica. Nei primi giorni dell’anno seguente Macerata si diede ai francesi per evitare l’occupazione da parte dei temutissimi cisalpini, che scrive Carlo Botta, commisero atti di cui quei popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all’ultima uccisione, se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia. Infine, cogliendo il pretesto della morte del generale Duphot, ucciso a Roma dai pontifici il 28 dicembre mentre tentava di eccitare il popolo romano alla rivolta, l’11 gennaio 1798 il Direttorio ordinò al Berthier (il Bonaparte aveva lasciato Milano per la Francia il 16 novembre) di invadere Roma e tutto lo Stato. L’occupazione di Roma e ancor più l’esilio intimato al Papa (17 febbraio) riaccesero il fuoco della rivolta in molti territori e città, che già in occasione dell’occupazione di San Leo e della penetrazione cisalpina avevano invitato le autorità pontificie ad organizzare la resistenza, offrendosi di affiancare le truppe regolari.

Così era accaduto ad Urbino, dove le nuove truppe erano state inviate non già per opporsi ai francesi, ma per prevenire eventuali tumulti di popolo e, come scrisse il cronista urbinate Fiorini, reso sospettoso dalla debolezza del governo e, soprattutto, dagli stretti legami di amicizia apparentemente esistenti fra un certo numero di ufficiali del Papa e i locali circoli giacobini, tenere a freno gli Urbinati e per più facilmente consegnare questa Città a dispetto della fedeltà del popolo nelle mani de’ Francesi e Cisalpini, come pur troppo avvenne. Comunque la pace continentale firmata il 17 ottobre 1797 fra la Francia e l’Impero consentiva agli occupanti una maggiore disponibilità di truppe e , quindi, un più efficace controllo militare del territorio.

Di conseguenza anche nelle Marche il 1798 fu un anno relativamente tranquillo per i repubblicani e le insorgenze risultarono meno estese, tanto nello spazio quanto nel tempo, e meno intense di quelle del ’97. Unica rilevante eccezione proprio la città di Roma e le province pontificie del Lazio e dell’Umbria, verosimilmente perché l’attacco al centro stesso della Cristianità e al successore di Pietro rendeva ancora più manifesto il carattere anticristiano e, in particolare, anticattolico della Rivoluzione. Per di più queste popolazioni subivano per la prima volta la dominazione straniera e le offese al loro sentimento religioso sicché massima ne risultava la reattività, mentre i marchigiani si erano già impegnati in dure lotte protrattesi per poco meno di un anno, al termine del quale avevano dovuto constatare, assieme all’alto numero delle vite umane sacrificate e all’immensa quantità di bene materiali perduti, il fallimento di questi, pesantissimi sacrifici. Un insuccesso tanto più difficile da sopportare, in quanto era inevitabile attribuirlo, ancor prima che alla protervia dei repubblicani, alla debolezza del governo, all’assenteismo, quando non addirittura al tradimento dell’aristocrazia. Al contrario nel 1799 l’ Insorgenza (non solo nelle Marche, ma qui i fenomeni risultano particolarmente evidenti), pur senza modificare le caratteristiche essenziali, raggiunse il punto più alto nell’organizzazione politico-militare grazie alla collaborazione con le iniziative sul campo delle Potenze europee nuovamente in guerra con la Francia: Austria e Russia, le cui armate erano affidate al comando supremo del generale Suvorov, Inghilterra (alcune navi inglesi incrociavano al largo delle coste marchigiane) e Regno di Napoli, rappresentato, dopo la rapida dissoluzione dell’esercito, dall’ Armata della Santa Fede, al comando del cardinale Fabrizio Ruffo, alter ego del Re, rifugiatosi in Sicilia, sul continente.

Mentre nel nord della penisola il principale punto di riferimento degli insorti era costituito, oltre che dal locale Sovrano legittimo e dal Papa, dall’ Impero e a quest’ ultimo da Roma in giù si sostituiva il Regno di Napoli, nelle Marche, terra di passaggio fra Settentrione e Meridione, agivano entrambe le influenze, sicché qui la diversità dei progetti coltivati dalle singole Potenze per l’ assetto politico dell’ Italia dopo la liberazione dai francesi, diede luogo a diversità di posizioni e anche a situazioni conflittuali, se non fra gli insorgenti, fra i loro capi. Nell’ ambito marchigiano si possono quindi distinguere zone di maggiore o minore influenza delle Potenze interessate. Nei territori più prossimi alla Romagna risulta prevalente la presenza imperiale (militarmente rappresentata dalle truppe austro-russe del generale Suvorov e dalle masse agli ordini dell’ ex-generale giacobino Giuseppe Lahoz, capace di inquadrarle e disciplinarle in un vero e proprio esercito). Più a Sud, in particolare nell’Ascolano, riesce determinante l’ attrazione del Regno di Napoli, anche perché rappresentato sul campo, più che da truppe regolari, dall’ Armata della Santa Fede e da gruppi di insorti locali sicché gli insorgenti marchigiani facilmente si trovano in sintonia con quanti portano la coccarda rossa del Re di Napoli.

Comunque nel ’99 tanto al nord quanto al sud della regione accorsero per battersi contro i francesi i volontari delle truppe a massa, fra i quali spiccavano, anche perché armati di fucili e carabine, invece che di forcali, accette, falci e altri arnesi del lavoro dei campi, gruppi di ex-soldati pontifici, di cacciatori e anche qualche antico bandito non necessariamente spinto dal desiderio del saccheggio. Molti fuorilegge, nonostante scelte spesso forzate dalla miseria o da un gesto inconsulto commesso in uno scoppio d’ira, avvertivano forte il richiamo del popolo dal quale erano usciti e della religione tutt’altro che rinnegata anche se contraddetta dal loro sistema di vita e che offriva con la guerra contro i nemici di Dio e del Papa un’occasione di riscatto. Fra i capi-massa marchigiani, si distinguono (i nomi, ricorrenti nelle cronache del tempo, rimarranno a lungo vivi nella memoria popolare finché non provvederanno a cancellarli, dopo l’unificazione italiana, le manipolazioni della storiografia e dell’istruzione obbligatoria) personaggi come Giuseppe Costantini detto Sciabolone di Lisciano, un piccolo coltivatore conosciuto per la sua passione venatoria e l’infallibile mira, esponenti della piccola nobiltà come Giuseppe Vanni da Calderola, Clemente Navarra da Castel Clementino, della borghesia benestante come Giuseppe Cellini, considerato fino all’arrivo del La Hoz il capo morale dell’Insorgenza marchigiana, il frate (o meglio, nonostante la scelta a favore del legittimismo, l’ex frate per il suo totale distacco, in via di fatto, dall’Ordine e l’assoluta indipendenza dai superiori) Donato de Donatis, più noto col nome di battaglia di Generale dei Colli.

Su tutti sovrasta, dapprima nel Pesarese, ma ben presto con un ruolo decisivo nell’intera regione, il milanese Giuseppe La Hoz, già ufficiale austriaco, poi generale cisalpino (in tale veste presente alla battaglia del Senio, dove rimase ferito, e, nel successivo aprile-maggio, alla feroce repressione delle Pasque Veronesi), infine unitosi, nella primavera 1799, ai capimassa Cellini e De Donatis. Questo lombardo di remote origini spagnole, assai discusso e arduo da decifrare per i suoi cambiamenti di fronte (comunque tutt’altro che rari in quegli anni tumultuosi), nominato dal generale Suvorov comandante in capo degli Insorgenti d’ Italia, riuscì a trasformare i capi-massa in luogotenenti, membri di un suo stato maggiore, e soprattutto a dare alle truppe a massa organizzazione e disciplina quasi militari. Un risultato questo che, ancor più delle sue vittorie, gli assicurò l’ammirazione degli esponenti di quella parte della nobiltà che, pur rimasta in cuor suo fedele al governo pontificio, temeva più di ogni cosa al mondo, francesi inclusi, l’indisciplina degli insorti, anche per gli ampi varchi che questi lasciavano alla presenza di veri e propri banditi e dei profittatori a fini propri di ogni disordine.

Rappresentante di questo modo di pensare, nonostante il suo legittimismo, che ne ha fatto, con il De Maistre e il principe di Canosa, uno dei maggiori pensatori reazionari di questo periodo, il conte Monaldo Leopardi, che nella sua Autobiografia dipinge dapprima il La Hoz al suo approssimarsi ai confini di Recanati e nella prima fulminea incursione nella città come una minacciosa figura giganteggiante nel buio, per passare poi a riconoscerne i meriti quando, quando, poco dopo, vi sostò un paio di giorni coi suoi uomini: Nel giorno 3 di agosto del 1799 sulle ore 21 il generale La Hoz seguito da quattro o cinque a cavallo, entrò di gran galoppo a Recanati, e raggiratosi come un fulmine nell’interno e nell’esterno della città tornò a riunirsi con la sua truppa sulla strada di Macerata. Fra non molto rientrò alla testa di tutta la truppa, che ci sorprese con la sua disciplina, e col suo silenzio pari a quello di un coro di Cappuccini. Erano circa duemila uomini, quaranta cavalli, sei cannoni, e qualche carriaggio, e tutti andarono ad accampare a mezza via di Loreto sul terreno del Santuario coltivato da un certo Palpa. Il contegno di quella gente ci rassicurò, e infuse un rispetto grandissimo per il Generale che aveva saputo ispirarlo in tanti pochi giorni. Con questa truppa, che comprendeva accanto ai contadini, ex-soldati pontifici e i non molti giovani che avevano risposto ad una sorta di leva, in parte obbligatoria in parte volontaria, da lui bandita, il generale La Hoz inflisse ai francesi ripetute sconfitte, che, pur insufficienti ad evitare improvvisi ritorni offensivi dei repubblicani, tuttora forti dietro le ben munite mura di Ancona, gli assicurarono un controllo del territorio sufficiente a permettergli di istituire a Fermo e di trasportare poi a Macerata, designata capitale della regione in attesa della liberazione di Ancona, un’amministrazione civile denominato, per sottolineare l’unità di intenti degli Stati della penisola, Imperial Regia Pontificia Provvisoria Reggenza.

L’istituzione di questo organo di governo e il tentativo di creare un’organizzazione amministrativa capace di mantenere l’ordine senza coinvolgere le truppe, e di realizzare una leva militare e la riscossione non di contribuzioni di guerra, ma di regolari imposte rappresentano un’importante caratteristica dell’Insorgenza marchigiana, che sotto la guida dell’ex cisalpino era giunta a rendersi conto della necessità di accompagnare alle imprese militari un’ordinata vita sociale per favorire il ritorno alla normalità in attesa del definitivo ristabilimento di quelle antiche forme di governo che rappresentavano, come un sospirato mondo perduto, la concorde aspirazione degli insorti. Questi tentativi di organizzazione in certo senso da tempo di pace attribuiscono un ruolo particolare al generale La Hoz, distinguendolo anche sotto questo aspetto dagli altri capi dell’Insorgenza, quasi mai capaci di vedere oltre le immediate esigenze belliche e inclini a rinviare ogni diverso problema a dopo la definitiva cacciata dei francesi. Ciò non toglie che il La Hoz, condizionato dalle sue origini di ufficiale austriaco e di generale cisalpino, restasse sempre e soprattutto un soldato, e che, una volta fissatene le basi, preferisse delegare totalmente ad altri, non di rado, apprezzandone l’influenza sulla popolazione, ecclesiastici di sua fiducia, l’attuazione e la gestione dell’amministrazione civile per dedicarsi alla campagna militare.

Suo scopo immediato la conquista di Ancona, dentro le cui mura si erano asserragliati i francesi del generale Monnier, fiancheggiati da numerose truppe cisalpine, per passare subito dopo all’impresa che avrebbe dovuto coronare il suo sogno di gloria: la liberazione di Roma per ridonargli quel lustro e primato, che ha goduto da tanti secoli fra i popoli cattolici, come si legge in un suo proclama. La città che affascinava il generale non era l’antica Roma repubblicana, tanto cara ai rivoluzionari pettinati alla Bruto, o quella imperiale, ma la Roma cristiana e pontificia. Alla liberazione di Roma miravano anche, con l’appoggio della flotta inglese, i napoletani, ansiosi di riscattare le troppo rapide sconfitte patite nel dicembre 1798. e il protrarsi dell’assedio di Ancona, condotto dal La Hoz con una abilità da tutti ammirata (il conte Leopardi, che per altro li considerava due abili avventurieri, arrivò a paragonarlo al Bonaparte), ma non sostenuto da un adeguato parco di artiglieria, consentì ai napoletani di vincere la corsa alla capitale della cristianità. Vi entrarono, trionfalmente accolti, il 30 settembre, quattro giorni dopo la capitolazione della Repubblica Romana, firmata a Civitavecchia dal generale Garnier.

E’ probabile che se non fosse rimasto così a lungo bloccato sotto le mura di Ancona La Hoz, aprendo un nuovo fronte sul fianco delle truppe francesi in ritirata, avrebbe anticipato di qualche tempo la liberazione di Roma, con esiti tuttavia imprevedibili, per la possibilità di una accentuazione dei contrasti esplosi fra lui e gli altri capi dell’Insorgenza marchigiana, che avevano come punto di riferimento il Regno di Napoli. e lo ritenevano partigiano dell’Austria. Contrasti che avevano indotto il generale lombardo, col quale si era schierato nonostante i suoi stretti rapporti con l’Insorgenza meridionale, Sciabolone, a ordinare l’arresto di Clemente Navarra, di Giuseppe Vanni e di Giuseppe Cellini, che pure era stato il primo, col De Donatis, anch’egli arrestato, a trattare e favorire il suo passaggio dall’armata cisalpina all’Insorgenza. S’ignora con quali sentimenti l’abbia accolta, ma è verosimile che Giuseppe La Hoz abbia fatto in tempo a ricevere la notizia dell’ingresso dei napoletani a Roma, prima della sua morte seguita appena dieci giorni più tardi a seguito di una ferita patita la notte precedente quando era intervenuto per respingere una sortita da Ancona dei repubblicani, che, guidati personalmente dal generale Monnier, erano riusciti a superare d’impeto, sbaragliandone i difensori, due delle tre linee d’assedio disposte dal La Hoz intorno alla città. Grazie al suo intervento i repubblicani erano stati respinti dentro le mura e la soritita poteva considerarsi fallita.

Tanto grande era però l’importanza attribuita dal Monnier alle capacità militari del La Hoz, che la sua morte, comunicata agli anconetani con un apposito ordine del giorno in italiano e in francese, gli consentì di celebrare la sconfitta come una grande vittoria. Il cisalpino Balbi, autore del fortunato colpo di fucile che, come si legge nella motivazione, aveva ammazzato il generale de’ Briganti (il Monnier lo credeva morto sul campo, ma in realtà il ferito, trasportato a Loreto, vi morì il giorno successivo), ricevette il grado di sergente. Dopo la morte del La Hoz la resistenza di Ancona si protrasse ancora per un mese, ma, sopraggiunto intanto il maresciallo austriaco Froelich con truppe regolari e un robusto parco di artiglieria, il 13 novembre il Monnier si arrese con l’onore delle armi. Venne così meno per il momento l’ultima presenza francese nelle Marche. Tuttavia i francesi vi rientreranno da padroni nel 1808, in contemporanea con la nuova occupazione di Roma decisa dal Bonaparte, ormai Napoleone I. Nella circostanza molti dei capimassa e dei combattenti dell’Insorgenza del ’99 riprenderanno le armi. Primi fra tutti Giuseppe Cellini, De Donatis e Sciabolone. di : Francesco Mario Agnoli (Da “Le Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1815)”, Il Cerchio, Rimini, 2003)

12 ottobre 1492: la scoperta dell’America…

" Ben sette Oscar per «Dance with wolves», «Balla coi lupi», il film americano "dalla parte degli indiani". Fu attorno alla metà degli anni Sessanta che il western procedette alla svolta: fu messo in crisi lo schema "bianco buono – pellerossa cattivo", con i primi dubbi sulla bontà della causa dei pionieri anglosassoni. Da allora quella crisi è andata sempre aumentando, sino al rovesciamento completo: ora, le nuove categorie esigono di vedere nell’indiano sempre un puro eroe e nel pioniere sempre un brutale invasore.

Nauralmente, anche questo rischia di diventare una sorta di nuovo conformismo dell’uomo occidentale P.C., Political Correct, come si dice per indicare chi rispetta i canoni e i tabù della mentalità corrente. Mentre prima era socialmente scomunicato chi non vedesse un martire della civiltà e un campione del patriottismo "bianco" nel colonnello George A. Custer, ora incappa nella stessa scomunica chi parlasse male di Toro Seduto e dei suoi Sioux che, quel mattino del 25 giugno 1876, a Little Big Horn, massacrarono il Custer stesso con gli yankees del 7° cavalleggeri. Malgrado il rischio di nuovi slogan conformistici, non si può non accogliere con soddisfazione l’attuale scoprimento degli altarini dell”altra" America, quella protestante, che diede (e dà) tante sdegnose lezioni di morale all’America cattolica. Già dal Cinquecento le potenze nordiche riformate – Gran Bretagna e Olanda in primis – diedero inizio alla guerra psicologica, inventando la "leggenda nera" della barbarie e dell’oppressione, nei suoi domini oltreoceano, di quella Spagna con cui erano in lotta per il predominio marittimo.

"Leggenda nera" che – come accade puntualmente per tutto ciò che è fuori moda nel mondo laico – viene ora scoperta golosamente da preti, frati e cattolici "adulti" in genere i quali, protestando con toni virulenti contro le celebrazioni del quinto centenario del «descubrimiento» non sanno di essere succubi, con qualche secolo di ritardo, di una fortunata campagna dei servizi di propaganda britannici e olandesi.

Ha scritto uno storico di oggi, insospettabile in quanto calvinista, Pierre Chaunu: «La leggenda antispanica, nella sua versione americana (in quella europea punta soprattutto sull’Inquisizione) ha giocato un ruolo salutare di valvola di sfogo. Il preteso massacro degli indios da parte degli spagnoli nel XVI secolo ha coperto il massacro americano sulla frontiera dell’Ovest nel XIX secolo. L’America protestante ha così potuto liberarsi del suo crimine rigettandolo sull’America cattolica».

Intendiamoci: prima di occuparsi di simili temi occorrerebbe liberarsi da certi attuali moralismi irreali che non vogliono riconoscere che la storia è una inquietante, spesso terribile signora. Nella prospettiva realistica da ritrovare, bisognerebbe condannare, ovviamente, errori ed atrocità (da qualunque parte vengano) senza però maledire, quasi fosse stato cosa mostruosa, il fatto in sé dell’arrivo degli europei nelle Americhe e del loro installarsi in quelle terre, organizzandovi un nuovo habitat. Nella storia non è praticabile l’edificante esortazione a "restare ciascuno nella sua terra, senza invadere quella di altri". Non è praticabile non soltanto perché così si negherebbe ogni dinamismo alla vicenda umana; ma soprattutto perché ogni civiltà è frutto di un rimescolamento che mai fu pacifico. Senza scomodare la Storia Sacra stessa (la terra che fu promessa agli ebrei da Dio non era loro, ma fu da essi strappata a forza agli abitatori precedenti), le anime belle che inveiscono contro i malvagi usurpatori nelle Americhe dimenticano (tra l’altro) che, al loro arrivo, quegli europei trovarono ben altri usurpatori.

L’impero azteco e quello inca erano stati creati con la violenza ed erano mantenuti con sanguinaria oppressione da popoli invasori che avevano ridotto in schiavitù i nativi. E si fa spesso finta di ignorare che le sbalorditive vittorie di poche decine di spagnoli contro migliaia di guerrieri non furono determinate né dagli archibugi né dai pochissimi cannoni (tra l’altro, spesso inutilizzabili, in quei climi, perché l’umidità neutralizzava le polveri) né dai cavalli (che non potevano essere lanciati alla carica nella foresta). Quei trionfi furono dovuti innanzitutto all’appoggio degli indigeni oppressi dagli incas e dagli aztechi. Dunque, più che come "usurpatori", gli iberici furono salutati in molti luoghi come liberatori. E aspettiamo ancora che gli storici "illuminati" ci spieghino come mai non ci furono, negli oltre tre secoli ispanici, rivolte contro i nuovi dominatori, pur ridottissimi di numero ed esposti, quindi, al pericolo di essere spazzati via al minimo moto.

L’immagine dell’invasione dell’America del Sud svanisce subito a contatto con le cifre: nei cinquant’anni tra il 1509 e il 1559, dunque nel periodo di una conquista dalla Florida allo stretto di Magellano, gli spagnoli che raggiunsero le Indie Occidentali furono poco più di 500 (ma sì: cinquecento!) l’anno. In totale, 27.787 persone in tutto, in quel mezzo secolo. Per tornare ai rimescolamenti di popoli con i quali bisogna fare realisticamente i conti, non va dimenticato ad esempio – che i colonizzatori del Nord America venivano da un’isola che a noi sembra naturale definire "anglo-sassone". In realtà, era dei Britanni, che prima furono assoggettati dai Romani e poi da barbari germanici – gli Angli e i Sassoni, appunto – che massacrarono buona parte degli indigeni e l’altra parte la fecero fuggire sulle coste della Gallia dove, cacciati a loro volta gli abitanti originari, crearono quella che fu detta Bretagna. Del resto, nessuna delle grandi civiltà (né quella egizia, né quella romana, né quella greca, senza mai dimenticare quella ebraica) fu creata senza invasioni e relative cacciate dei primi abitatori. Dunque, nel giudicare la conquista europea delle Americhe, occorrerà guardarsi dall’utopismo moralistico che vorrebbe una storia fatta tutta di inchini, di buone maniere, e di "prego, prima Lei". Chiarito questo, andrà pur anche detto che c’è "conquista" e "conquista": è certo (e anche film come il premiatissimo Balla coi lupi cominciano a farlo capire) che quella "cattolica" è stata ampiamente preferibile a quella "protestante".

Come ha scritto un altro storico contemporaneo, Jean Dumont: "Se, per disgrazia, la Spagna (con il Portogallo) fosse passata alla Riforma, fosse divenuta puritana e avesse dunque applicato gli stessi principi del Nord America ("lo dice la Bibbia: l’indiano è un essere inferiore, anzi è un figlio di Satana"), un immenso genocidio avrebbe spazzato via dal Sud America la totalità dei popoli indigeni. Oggi, i turisti, visitando poche "riserve" dal Messico alla Terra del Fuoco, scatterebbero fotografie di sopravvissuti, testimoni del massacro razziale, compiuto per giunta in base a motivazioni «bibliche»".

In effetti, le cifre parlano: mentre i "pellerossa" superstiti nel Nord America si contano a poche migliaia, nell’America ex-spagnola ed ex-portoghese la maggioranza della popolazione o è ancora di origine india o è il frutto di incroci di precolombiani con europei e (soprattutto in Brasile) con africani. Il discorso sulle diverse colonizzazioni (iberica e anglosassone) delle Americhe è talmente vasto – e tanti sono i pregiudizi accumulatisi – che non possiamo che allineare qualche appunto. Per restare alla popolazione indigena, questa (lo ricordammo) è quasi scomparsa negli attuali Stati Uniti, dove sono registrati come "membri di tribù indiana" circa un milione e mezzo di persone. In realtà, la cifra, già assai esigua, si riduce di molto se si considera che, per quella registrazione, basta un quarto di sangue indiano. Situazione rovesciata a Sud, dove – nella zona messicana, in quella andina, in molti territori brasiliani – quasi il 90 per cento della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati. Inoltre, mentre la cultura degli Stati Uniti non deve a quella indiana che qualche parola, essendosi sviluppata dalle sue origini europee senza quasi scambi con le popolazioni autoctone, non così nell’America ispanoportoghese, dove l’incrocio non è stato certo solo demografico, ma ha creato una cultura e una società nuove, dalle caratteristiche inconfondibili.

Certo: questo è dovuto anche al diverso stadio di sviluppo dei popoli che anglosassoni e iberici trovarono in quei continenti; ma è dovuto anche, se non soprattutto, alla diversa impostazione religiosa. A differenza di spagnoli e portoghesi cattolici che non esitavano a sposare indigene, nelle quali vedevano persone umane alla pari di loro, i protestanti (seguendo la logica di cui già parlammo e che tende a far tornare indietro, verso l’Antico Testamento, il cristianesimo riformato) erano animati da quella sorta di "razzismo" o, almeno, di senso di superiorità da "stirpe eletta", che aveva contrassegnato Israele. Questo, unito alla teologia della predestinazione (l’indiano è arretrato perché "predestinato" alla dannazione, il bianco è progredito come segno di elezione divina), portava a considerare come una violazione del piano provvidenziale divino il rimescolamento etnico o anche solo culturale.

Così è avvenuto non solo in America e con gli inglesi, ma in tutte le altre zone del mondo dove giunsero europei di tradizione protestante: l’apartheid sudafricano, per fare l’esempio più clamoroso, è tipica creazione – e teologicamente del tutto coerente – del calvinismo olandese. (Sorprende, dunque, quella sorta di masochismo che ha spinto di recente la Conferenza dei vescovi cattolici sudafricani a unirsi, senza alcuna precisazione o distinguo, alla "Dichiarazione di pentimento" dei cristiani bianchi verso i neri di quel Paese. Sorprende perché, se qualche comportamento condannabile può esserci stato anche da parte cattolica, questo – al contrario di quanto verificatosi da parte protestante – è avvenuto in pieno contrasto sia con la teoria sia con la prassi cattoliche. Ma tant’è: sembra che, oggi, ci siano non pochi clericali ben lieti di addossare alla loro Chiesa anche colpe che non ha). E’ proprio dalle diverse teologie che traggono origine i diversi modi di "conquista" delle Americhe: gli spagnoli non considerarono la popolazione dei loro territori come una sorta di spazzatura da eliminare per installarvisi da soli padroni.

Si riflette poco sul fatto che la Spagna (a differenza della Gran Bretagna) non organizzò mai il suo impero americano in "colonie" ma in "province". E che il re di Spagna non assunse mai la corona di "Imperatore delle Indie", anche qui a differenza di quanto farà, e ormai alle soglie del XX secolo, la monarchia inglese. Sin dall’inizio (e poi, con costanza implacabile, per tutta la storia seguente) i coloni protestanti considerarono loro diritto fondato sulla Bibbia stessa – il possedere senza problemi né limiti tutta la terra che riuscivano ad occupare, cacciandone o sterminandone gli abitanti. I quali, in quanto non facenti parte del "nuovo Israele" e in quanto marchiati dai segni di una predestinazione negativa, erano in completa balia dei nuovi padroni. Il regime dei suoli instaurato nelle diverse parti americane conferma queste diverse prospettive e spiega i diversi esiti: al Sud si ricorse al sistema della «encomienda» che era un istituto di derivazione feudale, era la concessione fatta dal sovrano a un privato di una porzione di territorio tenendo conto della popolazione già presente, i cui diritti erano tutelati dalla Corona, che restava la vera proprietaria. Non così al Nord, dove prima gli inglesi e poi il governo federale degli Stati Uniti dichiareranno la loro proprietà assoluta sui territori occupati e da occupare: tutta la terra è ceduta a chi lo desideri al prezzo che verrà poi fissato, in media, in un dollaro ad acro. Quanto agli indigeni eventualmente presenti su quelle terre sarà cura dei coloni (se necessario con l’aiuto dell’esercito) di allontanarli o, meglio, di sterminarli. Il termine sterminio non è esagerato e rispetta la realtà concreta.

Molti, ad esempio, non sanno che la tecnica della scotennatura era conosciuta dagli indiani del Nord come del Sud. Ma tra questi ultimi scomparve subito, vietata dagli spagnoli. Non così al Nord. Per citare, ad esempio, la voce relativa su una enciclopedia insospettabile come la Larousse: «La pratica dello scotennamento sì diffuse nel territorio degli attuali Stati Uniti a partire dal XVII secolo, quando i coloni bianchi presero ad offrire grosse ricompense a chi portava la capigliatura (o scalpo) di un indiano: uomo, donna o bambino che fosse».

Nel 1703 il governo del Massachusetts pagava 12 sterline per scalpo, tanto che la caccia all’indiano (organizzata con tanto di cavalli e mute di cani) diventò presto una sorta di sport nazionale, per giunta molto redditizio. Il motto «il miglior indiano è l’indiano morto», sempre messo in pratica negli Stati Uniti, nasce non solo dal fatto che ogni indiano soppresso era un fastidio in meno per i nuovi proprietari, ma pure dal fatto che il suo scalpo era ben pagato dalle autorità. Usanza che nell’America "cattolica" non era solo sconosciuta ma che avrebbe suscitato – se qualcuno, abusivamente, avesse cercato di introdurla – non soltanto lo sdegno dei religiosi, sempre presenti accanto ai colonizzatori, ma anche le severe pene stabilite dai re a tutela del diritto alla vita degli indigeni. Ma questi, si dice, morirono a milioni anche nel Centro e Sud America. Certo, morirono: ma non al punto di quasi scomparire come nel Nord. Il loro sterminio non fu determinato soprattutto dalle spade d’acciaio dì Toledo e dalle armi da fuoco (che, come vedemmo, tra l’altro facevano quasi sempre cilecca), bensì dagli invisibili quanto micidiali virus portati dal Vecchio Mondo.

Lo choc microbico e virale che causò in pochi anni il dimezzamento delle popolazioni nell’America iberica è stato studiato dal "Gruppo di Berkeley", formato da studiosi di quella università. Fu qualcosa di paragonabile alla peste nera che, nel Trecento, aveva desolato l’Europa provenendo dall’India e dalla Cina. Tubercolosi, polmonite, influenza, morbillo, vaiolo: mali che, nella loro isolata nicchia ecologica, gli indios non conoscevano, per i quali non avevano dunque difese immunitarie e che furono portati dagli europei. I quali non possono, evidentemente, essere considerati responsabili per questo: anzi, furono falcidiati a loro volta da malattie tropicali alle quali gli indigeni resistevano assai meglio.

Giustizia vuole che si ricordi (cosa che si fa assai di rado), che l’espansione dell’uomo bianco al di fuori dell’Europa assunse spesso l’aspetto tragico di un’ecatombe, con una mortalità che – con certe navi, incerti climi, con certi autoctoni – raggiunse percentuali impressionanti. Ignorando i meccanismi del contagio (Pasteur era ancora ben lontano…) anche uomini come Bartolomé de Las Casas – figura controversa della quale bisognerà parlare al di là degli schemi semplificatori – caddero nell’equivoco: vedendo quei popoli diminuire drasticamente, gettarono il sospetto sulle armi dei connazionali, mentre non erano, spesso, che i virus di costoro. E’ un fenomeno di contagio micidiale osservato anche molto di recente tra tribù restate isolate nella Guyana francese e nell’Amazzonia brasiliana. L’usanza spagnola di un «Jesùs!» detto come augurio a chi starnutisce nasce dal fatto che anche un semplice raffreddore (di cui lo starnuto è segnale) era spesso mortale per gli indigeni che non lo avevano mai conosciuto e per il quale, dunque, non avevano difese biologiche.

«Le pressioni ebraiche attraverso i media e le proteste di cattolici impegnati nel dialogo con l’ebraismo hanno avuto successo. La causa di beatificazione della regina di Castiglia, Isabella la Cattolica, ha ricevuto in questi giorni uno stop improvviso (…). La preoccupazione di non scatenare le reazioni degli israeliti, già irritati per la beatificazione dell’ebrea convertita Edith Stein e per la presenza di un monastero ad Auschwitz, ha favorito la decisione di una "pausa di riflessione" circa il prosieguo della causa della Serva di Dio, titolo cui Isabella I di Castiglia ha già diritto». Così, in un articolo su il «Nostro Tempo», Orazio Petrosillo, informatore religioso de «il Messaggero». Petrosillo ricorda che lo stop vaticano è giunto malgrado ci sia già stato il giudizio positivo degli storici, basato su un lavoro di vent’anni che ha prodotto un totale di 27 volumi. «In tutto questo immenso materiale» dice il postulatore della causa, Anastasio Gutiérrez «non si è trovato un solo atto o detto della regina, sia pubblico che privato, che si possa dire in contrasto con la santità cristiana».

Padre Gutiérrez non esita a definire «codardi quegli ecclesiastici che, intimoriti dalle polemiche, rinunciassero a riconoscere la santità della regina». Eppure, conclude Petrosillo, «l’impressione è che difficilmente la causa arriverà in porto». Non si tratta di una notizia confortante: ancora una volta (per restare alla Spagna, Paolo VI – lo vedemmo – aveva bloccato la beatificazione dei martiri della guerra civile) si è creduto che le ragioni del quieto vivere fossero in contrasto con quelle della verità. La quale, in questo caso, è attaccata, con una virulenza che non rifugge dalla diffamazione, non solo dagli ebrei (cui, negli anni di Isabella, fu revocato il diritto di soggiorno nel Paese), ma anche dai musulmani (scacciati dal loro ultimo possesso in terra spagnola, a Granada), e infine da tutti i protestanti e gli anticattolici in genere, da sempre imbestialiti quando si parla di quella vecchia Spagna i cui sovrani avevano diritto al titolo ufficiale di Reyes católicos. Titolo che presero talmente sul serio che una secolare polemica identificò ispanismo e cattolicesimo, Toledo e Madrid con Roma.

Per quanto riguarda l’espulsione degli ebrei, sempre si dimenticano alcuni fatti: come quello che, già ben prima di Isabella, i sovrani di Inghilterra, Francia, Portogallo avevano preso la stessa misura, e tanti altri Paesi la prenderanno, per giunta senza quelle giustificazioni politiche che spiegano il decreto spagnolo, che pur fu un dramma per entrambe le parti. Occorre ricordare (e già ne parlammo), che la Spagna musulmana non era affatto quel paradiso di tolleranza che hanno voluto dipingerci e che, assieme ai cristiani, anche gli ebrei subirono in quei luoghi periodici massacri. E’ però più che provato che, dovendo scegliere tra due mali – Cristo o Maometto – gli israeliti parteggiarono sempre per quest’ultimo, agendo da quinta colonna a svantaggio dell’elemento cattolico. Da qui, un odio popolare che, unendosi al sospetto per coloro che avevano formalmente accettato il cristianesimo pur continuando in segreto a praticare l’ebraismo (los marranos), portò a tensioni che spesso degenerarono sanguinosamente in «matanzas» spontanee e continue alle quali le autorità cercavano invano di opporsi.

L’ancora malfermo Regno, appena nato da un’unione matrimoniale tra Castiglia e Aragona, non era in grado di sopportare né di controllare una simile, esplosiva situazione, minacciato com’era – per giunta – da una controffensiva degli arabi che contavano sui musulmani, a loro volta spesso fintamente convertiti. Alla pari di quanto avveniva in tutti i Regni dell’epoca, anche in Spagna la condizione giuridica degli ebrei era quella di "stranieri", temporaneamente ospitati senza diritto di cittadinanza. E di ciò anche gli israeliti erano perfettamente consapevoli: la loro permanenza era possibile sino a quando non avessero messo in pericolo lo Stato. Ciò che a parere non solo dei sovrani, ma anche del popolo e dei suoi rappresentanti si sarebbe a un certo punto verificato, a causa delle violazioni della legalità sia degli ebrei restati tali che di quelli solo formalmente convertiti e per i quali Isabella ebbe a lungo «una speciale tenerezza», tanto da mettere nelle loro mani quasi tutta l’amministrazione finanziaria, militare e persino ecclesiastica. Pare però che i casi di "tradimento" fossero divenuti così diffusi da non potere più permettere una simile situazione. In ogni caso, come scrive la Postulazione della causa di santità di Isabella, «il decreto di revoca del permesso di soggiorno agli ebrei fu strettamente politico, di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato: non ci si consultò affatto con il papa, né interessa alla Chiesa il giudizio che si voglia emettere al proposito.

 Un eventuale errore politico può essere perfettamente compatibile con la santità. Quindi, se la comunità israelitica di oggi volesse fare qualche querela, dovrà presentarla alle autorità politiche, ammesso che quelle attuali siano responsabili dei predecessori di cinque secoli fa». Aggiunge la Postulazione (la quale, non si dimentichi, ha lavorato con metodi scientifici, con l’aiuto di una quindicina di ricercatori che, in venti anni, hanno esaminato oltre 100.000 documenti negli archivi di mezzo mondo): «L’alternativa, l’aut-aut "o convertirsi o uscire dal Regno", che sarebbe stata imposta dai Re Cattolici è una formula semplicistica, uno slogan volgare: nelle conversioni non ci si credeva più. L’alternativa proposta durante i molti anni di violazioni politiche della stabilità del Regno fu: "O cessate dai vostri crimini o dovrete uscire dal Regno"».

A ulteriore conferma sta la precedente attività di Isabella in difesa della libertà di culto ebraica contro le autorità locali, con l’emanazione di un «seguro real» nonché con l’aiuto nell’edificazione di molte sinagoghe. Significativo, comunque, che l’espulsione sia stata particolarmente consigliata dal confessore reale, quel diffamatissimo Tomàs de Torquemada, primo organizzatore dell’Inquisizione, il quale era però di origine ebraica. E significativo pure (a mostrare quanto la storia sia sempre complessa) che, allontanati dai ”Re cattolici”, seppure sotto la spinta popolare e per ragioni politiche anche di legittima difesa, le più ricche e influenti famiglie ebraiche chiesero e ottennero ospitalità al solo che gliela concedesse volentieri, sistemandoli nei suoi territori: il Papa… E può sorprendersi di ciò solo chi ignori che la Roma pontificia è la sola città del Vecchio Continente dove la comunità ebraica abbia avuto alti e bassi a seconda dei papi ma non sia mai stata espulsa, anche solo per breve tempo.

Occorrerà attendere il 1944 e l’occupazione tedesca per vedere – più di 1600 anni dopo Costantino – gli israeliti dell’Urbe razziati e costretti alla clandestinità: e coloro che scamparono lo dovettero in maggioranza all’ospitalità concessa da istituzioni cattoliche, Vaticano in prima linea. Ma la strada verso gli altari è preclusa a Isabella anche da coloro (numerosi, oggi, anche tra i cattolici) che hanno finito per accettare acriticamente quella «Leyenda negra» di cui abbiamo cominciato a parlare e che ci impegnerà ancora. Alla sovrana e al consorte, Ferdinando di Aragona, non si perdona di avere dato inizio a quel Patronado, negoziato col Papa, con cui si impegnavano all’evangelizzazione delle terre scoperte da Cristoforo Colombo, la cui spedizione avevano finanziato. Sarebbero i due «Reyes católicos», insomma, gli iniziatori del genocidio degli indios, compiuto brandendo da una parte una croce e dall’altra una spada. E coloro che sfuggirono al massacro sarebbero stati ridotti in schiavitù. Ma, anche qui, la storia vera ha cose diverse da dire rispetto alla leggenda. Sentiamo, ad esempio, Jean Dumont: «La schiavitù per gli indiani è esistita, ma per iniziativa personale di Colombo, quando aveva i poteri effettivi di vice-re delle terre scoperte: dunque nei soli, primissimi stanziamenti nelle Antille, prima del 1500. Contro questa schiavitù degli indigeni (Colombo ne inviò molti in Spagna, nel 1496) Isabella la Cattolica reagì come aveva reagito facendo liberare, sin dal 1478, gli schiavi dei coloni nelle Canarie. Fece dunque riportare nelle Antille gli indios e li fece liberare dal suo inviato speciale, Francisco de Bobadilla il quale, per contro, destituì Colombo e l’inviò prigioniero in Spagna per i suoi abusi. Da allora, la politica adottata fu ben chiara: gli indiani sono uomini liberi, soggetti come gli altri alla Corona e devono essere rispettati come tali, nei loro beni come nelle loro persone».

E chi sospettasse che il quadro sia troppo idillico, leggerà utilmente il "codicillo" che, tre giorni prima di morire, nel novembre del 1504, Isabella aggiunse di suo pugno al testamento e che così, testualmente, dice: «Poiché, dal tempo in cui ci furono concesse dalla Santa Sede Apostolica le isole e terra ferma del mare Oceano, scoperte e da scoprire, la nostra principale intenzione fu di cercare di indurre i popoli di esse alla nostra santa fede cattolica e inviare là religiosi e altre persone dotte e timorose di Dio per istruire gli abitanti nella fede e dotarli di buoni costumi e porre in ciò lo zelo dovuto; per questo supplico il Re, mio signore, molto affettuosamente, e raccomando e ordino alla principessa mia figlia e al principe suo marito, che così facciano e compiano e che questo sia il loro principale fine e che in esso impieghino molta diligenza e che non consentano che i nativi e gli abitanti di dette terre acquistate e da acquistare ricevano danno alcuno nelle loro persone o beni, ma facciano in modo che siano trattati con giustizia e umanità e se alcun danno hanno ricevuto lo riparino». E’ un documento straordinario, che non trova alcun riscontro nella storia "coloniale" di alcun Paese. Eppure, nessuna storia è diffamata come questa che inizia da Isabella la Cattolica. Bartolomé de Las Casas: è il nome che sembra inchiodare alle sue responsabilità la colonizzazione spagnola nelle Americhe. Un nome sempre tirato in campo, assieme alla più fortunata delle sue opere che ha un titolo che è già un programma: «Brevssima relaciòn de la destrucciòn de las Indias».

Una "distruzione": se così uno spagnolo stesso, un frate domenicano, definisce la Conquista del Nuovo Mondo, come trovare argomenti che difendano quella impresa? Il processo non è forse chiuso, con definitivo verdetto negativo, per la colonizzazione iberica? E, invece, no: non è affatto chiuso. Anzi, verità e giustizia impongono di non accettare acriticamente le invettive di Las Casas; per dirla con gli storici più aggiornati, è giunto il momento di farlo anche a lui una sorta dì "processo", a lui così furibondo nell’imbastirne ad altri. Chi era, innanzitutto, Las Casas? Nacque a Siviglia nel 1474 dal ricco Francisco Casaus, il cui nome denuncia una origine ebraica. Alcuni studiosi, analizzando dal punto di vista psicologico la personalità complessa, ossessiva, "urlante", sempre bisognosa di puntare il dito contro dei "cattivi" di Bartolomé Casaus, divenuto padre Las Casas, si sono spinti addirittura a parlare di uno «stato paranoico di allucinazione», di una «esaltazione mistica con conseguente perdita del senso della realtà». Giudizi severi, difesi però da grandi storici, come Ramòn Menéndez Pidal. E’, questo, uno studioso spagnolo e, quindi, potrebbe essere sospettato di parzialità. Ma non è spagnolo, bensì statunitense di origini anglosassoni, docente di storia sudamericana in una università Usa, William S. Maltby che, nel 1971, ha pubblicato uno studio sulla "Leggenda nera", sulle origini del mito della crudeltà dei "papisti" spagnoli. Maltby, scrivendo tra l’altro che «nessuno storico che si rispetti può oggi prendere sul serio le denunce ingiuste e forsennate di Las Casas», conclude: «Tirando le somme, si deve dire che l’amore di questo religioso per la carità fu quantomeno maggiore del suo rispetto della verità». Davanti a questo frate che, con le sue accuse, è all’origine della diffamazione della gigantesca epopea spagnola nel Nuovo Mondo, qualcuno ha pensato che (certo inconsciamente) giocassero anche le origini ebraiche. Quasi un emergere, insomma, dell’ostilità ancestrale contro il cattolicesimo, soprattutto di quello spagnolo, reo di avere allontanato gli israeliti dalla penisola iberica. Troppo spesso si fa storia dando per scontato che i suoi protagonisti si comportino sempre e solo in maniera razionale, non volendo ammettere (e proprio nel secolo della psicoanalisi!) l’influenza oscura dell’irrazionale, delle pulsioni nascoste ai protagonisti stessi. Può dunque ben darsi che neppure Las Casas sia sfuggito a un inconscio che (attraverso l’ossessivo diffamare i suoi connazionali, confratelli religiosi compresi) rispondesse a una sorta di occulta "vendetta". Comunque sia, il padre di Bartolomé, quel Francisco Casaus, accompagnò Colombo nel suo secondo viaggio oltre Atlantico, fermandosi nelle Antille e dando conferma delle doti di abilità e di intraprendenza semitiche col crearsi una grande piantagione dove praticò quella schiavitù degli indios che, come abbiamo già visto, aveva contrassegnato il primissimo periodo della Conquista.

 E, almeno ufficialmente, quel periodo soltanto. Dopo gli studi all’università di Salamanca, anche il giovane Bartolomé parti per le Indie, dove raccolse la pingue eredità paterna, impiegando, sino ai 35 anni e oltre, quegli stessi metodi brutali che con tanto sdegno denuncerà in seguito. Supererà, grazie a una conversione, questa fase, facendosi partigiano intransigente degli indios e dei loro diritti. Ascoltato dalle autorità della Madrepatria che, su sua insistenza, approveranno severe leggi di tutela degli indigeni, provocherà però un imprevisto "effetto perverso". Succederà infatti che i proprietari spagnoli, bisognosi di numerosa mano d’opera, non troveranno più conveniente utilizzare le popolazioni autoctone che qualche autore definisce oggi (rovesciando il luogo comune di crudeltà e arbitri) addirittura «sin troppo protette» e cominciarono a dar retta a quegli olandesi, inglesi, portoghesi, francesi che offrivano schiavi importati dall’Africa e catturati da arabi musulmani. La tratta dei negri (colossale affare quasi interamente in mani islamiche e protestanti) interessò però solo marginalmente, quasi solo nelle isole dei Caraibi, le zone sotto dominio spagnolo. Basta viaggiare anche oggi in quelle regioni, restate, nella zona centrale e andina, a grande maggioranza india e, nella zona meridionale, tra Cile e Argentina, di popolamento quasi esclusivamente europeo: rari i neri, a differenza del Sud degli Stati Uniti, del Brasile, delle Antille inglesi e francesi.

Ma, seppure in numero ridotto rispetto alle zone sotto dominio di altri popoli, gli spagnoli cominciarono a importare africani anche perché ad essi non fu estesa subito la protezione degli indios, adottata sin da Isabella la Cattolica e poi sempre perfezionata. Quei neri potevano essere sfruttati (almeno nei primi tempi, ché anche per essi giungerà una legge spagnola di tutela, mentre nei territori inglesi non giungerà mai), mentre farlo con gli indios era illegale (e le audiencias, i tribunali dei vice-re spagnoli, spesso non scherzavano). Un effetto imprevisto e, dicemmo, "perverso", dell’accanita lotta condotta da Las Casas; il quale, va pur detto, se nobilmente si batté per gli indios, non altrettanto fece coi negri, per i quali, quando cominciarono ad affluire, catturati sulle coste africane dai musulmani e portati dai mercanti del Nord Europa, non sembra abbia avuto particolari attenzioni. Per tornare alla sua conversione, determinata dalle prediche di denuncia degli arbitri dei coloni (tra i quali era egli stesso) pronunciate da religiosi – e ciò conferma la vigilanza evangelica esercitata dal clero regolare – fattosi prima prete e poi domenicano, Bartolomé dedicò il resto della sua lunga vita a perorare presso le autorità di Spagna la causa degli indigeni. Occorre, anche qui, riflettere. Innanzitutto, sul fatto che il focoso religioso abbia potuto impunemente attaccare, e con espressioni terribili, il comportamento non solo dei privati ma pure delle autorità. Per dirla con l’insospettabile americano Maltby, critiche anche ben più blande non sarebbero state di certo tollerate dalla monarchia inglese, la quale avrebbe subito ridotto al silenzio l’imprudente contestatore. E questo perché (continua lo storico yankee, rovesciando un altro luogo comune) «a parte le questioni di fede, la libertà di parola fu prerogativa degli spagnoli durante il loro Secolo d’oro, come dimostra il fatto che gli archivi ci restituiscono tutta una gamma di accuse pronunciate in pubblico – e non represse – contro le autorità».

Ma, poi, si riflette ancor meno sul fatto che questo furibondo "contestatore" non solo non fu neutralizzato, ma divenne intimo dell’imperatore Carlo V, fu da lui nominato ufficialmente Protector General de todos los indios, fu invitato a presentare progetti che, discussi e approvati malgrado le forti pressioni contrarie, divennero legge nelle Americhe spagnole. Mai, nella storia, un "profeta" (come Las Casas stesso si considerava) fu tanto preso sul serio da un sistema politico che invece ci dipingono tra i più oscuri e terribili. Le denunce di Bartolomé de Las Casas, dunque, sono state prese radicalmente sul serio dalla Corona spagnola e l’hanno spinta a promulgare leggi severe a difesa degli indios e poi addirittura ad abolire l’encomienda, la concessione temporanea delle terre ai privati, con grave danno dei coloni. Sentiamo Jean Dumont: «Il fenomeno Las Casas è esemplare in quanto porta una conferma del carattere fondamentale e sistematico della politica spagnola di protezione degli indiani. Il governo iberico, sin dal reggente Jiménez de Cisneros, nel 1516, non si mostra affatto offeso per le denunce – pur talvolta ingiuste e quasi sempre forsennate del domenicano. Non solo il padre Bartolomé non è fatto oggetto di alcuna censura, ma i monarchi e i loro ministri, con una straordinaria pazienza, lo ricevono, lo ascoltano, riuniscono delle giunte per studiare le sue critiche e le sue proposte e anche per varare, sulle sue indicazioni e raccomandazioni, l’importante provvedimento delle "Leggi Nuove". Ancor più: sono gli avversari di Las Casas e delle sue idee che la Corona riduce al silenzio».

L’imperatore, Carlo V, per dare maggiore autorità a questo protetto che pure diffama i suoi sudditi e funzionari, lo fa fare vescovo. E anche in base alle denunce del domenicano e di altri religiosi che, all’università di Salamanca, si crea una scuola di giuristi che elaboreranno il diritto internazionale moderno, sulla base fondamentale dell"’eguaglianza naturale di tutti i popoli" e dell’aiuto reciproco tra le genti. Un aiuto del quale gli indios avevano particolarmente bisogno; come ricordavamo (ma come spesso non si ricorda) i popoli dell’America Centrale erano caduti sotto l’orribile dominio degli invasori aztechi, una delle genti più feroci della storia, con una fosca religione basata sui sacrifici umani di massa. Nelle solennità, che duravano ancora quando giunsero i Conquistadores a sbaragliarli, sulle grandi piramidi che servivano da altare si giunse a sacrificare agli dei aztechi sino a 80.000 giovani per volta. Le guerre erano determinate dalla necessità di procurarsi sempre nuove vittime. Si accusano gli spagnoli di avere provocato un tracollo demografico che abbiamo visto essere dovuto in gran parte allo "choc virale". In realtà, senza il loro arrivo, la popolazione si sarebbe ridotta ancor più ai minimi termini, vista l’ecatombe che i dominatori facevano della gioventù delle popolazioni soggiogate.

L’intransigenza, talvolta il furore dei primi cattolici sbarcati, sono ben spiegabili davanti a questa oscura idolatria nei cui templi scorreva sempre sangue umano. Di recente, l’attrice americana Jane Fonda che tenta, dai tempi del Vietnam, di presentarsi come "politicamente impegnata" schierandosi a difesa di cause sbagliate, ha voluto adeguarsi al conformismo denigratorio che ha travolto anche non pochi cattolici. Se questi ultimi lamentano (incredibilmente, per chi un poco conosca che cosa fossero i "culti" aztechi) quella che chiamano «la distruzione delle grandi religioni precolombiane», la Fonda si è spinta ancora più in là, affermando che quegli oppressori «avevano una migliore religione e un migliore sistema sociale di quello imposto con la violenza dai cristiani».

Le ha replicato, su uno dei maggiori quotidiani, uno studioso anch’egli americano, ricordando all’attrice (e magari ai cattolici che piangono il "crimine culturale" della distruzione del sistema religioso azteco) quale fosse il rituale delle continue mattanze sulle piramidi messicane. Eccolo: «Quattro preti afferravano la vittima scaraventandola sulla pietra sacrificale. Quindi, il Gran Sacerdote piantava il coltello sotto il capezzolo sinistro facendosi largo attraverso la cassa toracica, finché, rovistando a mani nude, non riusciva a strappare il cuore ancora pulsante e a metterlo in una coppa per offrirlo agli dèi. Dopodiché, i corpi venivano fatti precipitare dalle scale della piramide. Ad attenderli, al fondo, c’erano altri preti che incidevano ogni corpo sulla schiena, dalla nuca ai talloni, e ne strappavano la pelle in un unico pezzo. Il corpo scuoiato era preso da un guerriero che lo portava a casa e lo faceva a pezzi. I quali erano offerti agli amici, oppure questi erano invitati a casa per festeggiare con le carni della vittima. Le pelli, invece, conciate, servivano di abbigliamento alla casta sacerdotale».

Mentre così erano sacrificati i giovani e le giovani (a decine di migliaia ogni anno: il principio era che i cuori umani dovevano essere offerti senza interruzione alle divinità), i bambini erano precipitati nella voragine di Pantilàn, le donne non vergini erano decapitate, gli uomini adulti scorticati vivi e finiti poi con le frecce. E così via, con altre piacevolezze che verrebbe voglia di augurare a Jane Fonda (e a certi frati e clericali vari, oggi così virulenti contro i "fanatici" spagnoli) perché, provatele, ci dicano poi se davvero "il cristianesimo è peggio".

Solo un po’ meno sanguinari erano gli incas, gli altri invasori che avevano ridotto in schiavitù gli indigeni più a Sud, lungo le Ande. Come ricorda uno storico: «I sacrifici umani erano praticati dagli incas per allontanare un pericolo, una carestia, un’epidemia. Le vittime erano di solito dei bambini, a volte degli uomini e delle vergini. Le vittime erano strangolate o sgozzate, a volte si strappava loro il cuore alla maniera azteca». Tra l’altro, il regime imposto dai dominatori incas agli indios era un chiaro precursore del "socialismo reale" alla marxista. E, naturalmente, come ogni sistema di questo tipo, non funzionava, tanto che gli oppressi diedero una mano entusiasta per liberarsene ai pochi spagnoli giunti provvidenzialmente. Come nell’Europa Orientale del XX secolo, sulle Ande del XVI era vietata la proprietà privata; denaro e commercio non esistevano; l’iniziativa dei singoli era vietata; la vita privata era sottoposta a un duro regolamento di stato. E, tanto per dare un ulteriore tocco ideologico "moderno", precedendo in questo caso non solo il marxismo ma anche il nazismo, il matrimonio era permesso solo seguendo le leggi eugenetiche di stato, per evitare "contaminazioni razziali" e assicurare un razionale "allevamento umano". A questo terribile scenario sociale, si aggiunga che nessuno, nell’America precolombiana, conosceva l’uso della ruota (se non per impieghi religiosi), né il ferro, né sapeva impiegare il cavallo. Il quale pare non fosse assente all’arrivo degli spagnoli, forse viveva in alcune zone allo stato brado, ma gli indigeni non conoscevano il modo di domarlo né avevano inventato i finimenti. Niente cavallo significava assenza anche di muli e di asini, così che – aggiungendovi la mancanza delle ruote – tutti i trasporti, in quelle zone montagnose, anche per la costruzione degli enormi palazzi e templi dei dominatori, erano fatti a spalle da torme di schiavi. E’ su queste basi che i giuristi spagnoli, nel quadro della "eguaglianza naturale di tutti i popoli", riconoscevano agli europei il diritto oltre che il dovere di aiutare genti che ne avessero bisogno. E non si può dire che non avessero bisogno d’aiuto gli indigeni precolombiani. Non si dimentichi che, per la prima volta nella storia, degli europei si confrontavano con culture tanto diverse e lontane. A differenza dì quanto faranno gli anglosassoni, che si limiteranno a sterminare quegli "alieni" che trovavano nel Nuovo Mondo, gli iberici raccolsero la sfida culturale e religiosa con una serietà che è una delle loro glorie. Sulla colonizzazione spagnola nelle Americhe e su denunce come quelle di Las Casas (continuiamo il nostro discorso), è significativo quanto scrive il protestante Pierre Chaunu: «Ciò che deve stupirci non sono gli abusi iniziali, è semmai il fatto che siano stati tanto contrastati da una resistenza che veniva, a tutti i livelli – quelli della Chiesa, ma anche quelli dello Stato – da una profonda coscienza cristiana». Così, opere come la «Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie» di fra Bartolomè furono utilizzate senza scrupoli dalla propaganda protestante e poi illuminista, mentre sono – per dirla ancora con Chaunu – «il più bel titolo di gloria della Spagna». Testimoniano, in effetti, della sensibilità al problema dell’incontro con un mondo del tutto nuovo e inatteso, sensibilità che sarà a lungo assente nel colonialismo prima protestante e poi "laico", gestito dalla brutale borghesia europea dell’Ottocento, ormai secolarizzata.

Abbiamo visto come, dalla Corona in giù, non solo non si prendano provvedimenti contro una contestazione come quella di Las Casas, ma si tenti di correre ai ripari con leggi che tutelino quegli indios dei quali il "contestatore" stesso sarà proclamato Protector General. Per dodici volte il frate varcherà l’Oceano per perorare presso il governo della Madrepatria la causa dei suoi protetti: e, sempre, sarà onorato e ascoltato e i suoi cahiers de doléances saranno passati a commissioni che ne trarranno leggi, oltre che a professori che daranno vita al moderno "diritto delle genti". Siamo di fronte a un fatto inedito, che non ha esempi nella storia dell’Occidente: ed è tanto più sorprendente se si aggiunge che Las Casas non fu solo preso sul serio ma – probabilmente – fu persino preso troppo sul serio. Dicemmo già, in effetti, di un sospetto – avanzato da chi ne ha indagato la psicologia – addirittura di uno "stato di allucinazione", di una "esaltazione mistica" in questo convertito. Per dirla con l’insospettabile americano William S. Maltby, «le esagerazioni di Las Casas lo espongono a un giusto e indignato ridicolo». O, per citare Jean Dumont: «Nessuno studioso che si rispetti può prendere sul serio le sue denunce estreme». Scegliendo ancora, ecco qui, tra i mille, il laicissimo Celestino Capasso: «Trascinato dalla sua tesi, il domenicano non esita a inventare notizie, precisando persino a 20 milioni il numero degli indios massacrati, o accogliendo per fondate notizie fantastiche, come l’uso dei conquistatori di farsi accompagnare da schiavi per il pasto dei cani da combattimento…». Come dice Luciano Perena, dell’Università di Salamanca: «Las Casas si perde sempre in cose vaghe e imprecise. Non dice mai quando né dove si consumarono gli orrori che denuncia, né si cura di stabilire se costituiscano l’eccezione. Al contrario: contro ogni verità, lascia intendere che le atrocità sarebbero state il modo unico e abituale della Conquista». Per lui, personalità pessimista e ossessiva, il mondo è in bianco e nero. Da una parte i suoi malvagi connazionali, quasi belve scatenate; dall’altra parte gli indigeni, visti, testualmente, come «gente che non conosce sedizioni o tumulti», che è «del tutto sprovvista di rancore, di odio, di desiderio di vendetta». In questo senso, è tra i predecessori del mito del "buon selvaggio", caro agli illuministi del Settecento come Rousseau, e che continua ad agire in certo attuale, ingenuo terzomondismo secondo il quale tutti gli uomini sono santi, purché non siano europei o nordamericani: i soli, ovviamente, che nascano marchiati da una colpa imperdonabile. Stupisce, in un frate, questa negazione del peccato originale, questa mancanza di realismo e anche di giustizia: da una parte starebbero degli angeli indifesi e dall’altra dei demoni spietati. Tra l’altro, quell’Hernán Cortés che mise fine al grande impero degli aztechi e che è presentato da Las Casas a tinte fosche (che pare non meritasse del tutto) era anche colui che dalle piramidi vide scendere il fiume di sangue umano delle vittime sacrificate.

Mai un’impresa come quella di simili Conquistadores avrebbe potuto realizzarsi con le buone maniere: qui, poi, la durezza era considerata sacrosanta dagli spagnoli perché di quelle popolazioni "mitissime", secondo Las Casas, facevano pur parte gli aztechi – e poi gli incas, di cui si occuperà Francisco Pizarro – con quel loro "vizietto" di strappare il cuore a decine di migliaia di giovani. Come tutti gli utopisti, Las Casas non superò la prova della realtà: tra i molti altri privilegi, il governo gli concesse di provare a mettere in pratica, in appositi territori messigli a disposizione, il suo progetto di evangelizzazione tutto "dialogo" e scuse. Ogni volta, finì col massacro dei missionari o nella loro fuga, incalzati dai cosiddetti "buoni selvaggi" muniti di temibili frecce avvelenate. Come sempre, i sogni, messi in pratica, si rovesciano in incubi. Così, per dirla con il suo più recente biografo, Pedro Borgés, docente alla Complutense di Madrid, Bartolomé si rifugiò di nuovo nell’irrealismo, «predicando sempre non ciò che si poteva, ma ciò che si sarebbe dovuto fare». E comunque lo stesso Borgés che mette in guardia dal pensare che Las Casas sia il precursore di certa marxisteggiante "teologia della liberazione": da buon convertito, ciò che gli interessava era la salvezza eterna. La sua ossessione per gli indios non era per mettere al riparo i loro corpi, bensì per salvare le loro anime. Solo se presi nel verso giusto avrebbero accettato il battesimo, senza il quale sarebbero andati all’inferno sia essi che gli spagnoli. Siamo, dunque, all’opposto di chi oggi non vede che la dimensione orizzontale e che, quindi, nulla ha a che fare con il mistico Las Casas.

Comunque, come riconosce Maltby, «quali che fossero i difetti del suo governo, nessuna nazione della storia eguagliò la Spagna nella preoccupazione per la salvezza delle anime dei suoi nuovi sudditi». Fino a quando la corte di Madrid non fu inquinata da massoni e "illuminati", non si badò né a spese né a difficoltà per onorare gli accordi con il Papa, che aveva concesso i diritti del Patronato contro precisi doveri di evangelizzazione. I risultati parlano: grazie al sacrificio e al martirio di generazioni di religiosi mantenuti con larghezza dalla Corona, nelle Americhe si creò una cristianità che è ora la più numerosa della Chiesa cattolica e che, malgrado i limiti di ogni cosa umana, ha dato vita a una vivace fede "meticcia", incarnata nell’incontro vitale di diverse culture. Lo straordinario barocco del cattolicesimo latino-americano è il segno più evidente di come (malgrado gli errori e gli orrori) sia felicemente riuscita una delle più grandi avventure religiose e culturali. A differenza che nel Nord America, qui cristianesimo e culture precolombiane hanno dato vita a un uomo e a una società davvero nuovi rispetto alla situazione precolombiana. Pur nelle sue esagerazioni, generalizzazioni illecite, invenzioni e diffamazioni, Las Casas è testimone importante di un Occidente non dimentico dei moniti evangelici. Abusivo fu isolarlo dal dibattito in corso allora nella penisola iberica, per strumentalizzarlo come arma da guerra contro il "papismo". Fingendo oltretutto di ignorare che, contro la Spagna, si utilizzava la voce di uno spagnolo (membro, tra l’altro, di un ordine nato in Spagna), ascoltato e protetto dal governo e dalla Corona di quella Spagna stessa. «Arma cinica di una guerra psicologica», così Pierre Chaunu definisce l’uso che le potenze protestanti fecero dell’opera di Las Casas. Le redini dell’operazione antispagnola furono prese innanzitutto dall’Inghilterra; per ragioni politiche ma anche religiose, poiché in quell’isola il distacco da Roma di Enrico VIII aveva creato una Chiesa di Stato abbastanza potente e strutturata da porsi come capofila delle altre comunità riformate in Europa. La lotta inglese contro la Spagna fu vista così come la lotta del "puro Evangelo" contro "la superstizione papista". Una parte importante in questa operazione di "guerra psicologica" fu giocata anche dai Paesi Bassi e dalle Fiandre, impegnati contro gli spagnoli. Fu proprio un fiammingo, Theodor De Bry, che disegnò le incisioni per accompagnare una delle tante edizioni fatte in terra protestante della «Brevissima Relazione»: disegni truculenti, dove gli iberici sono rappresentati mentre si danno a ogni sorta di sadiche efferatezze contro i poveri indigeni. Poiché queste del De Bry (il quale, naturalmente, lavorò di fantasia) sono praticamente le sole immagini antiche della Conquista, esse furono continuamente riprodotte e ancora adesso stanno, ad esempio, su molti manuali scolastici. Inutile dire quanto abbiano contribuito al formarsi della "Leggenda nera". A proposito della quale – tanto per dare qualche altro elemento ai molti già elencati – va anche osservato che sempre si dimentica di riflettere su ciò che avvenne dopo il dominio spagnolo. Il Paese iberico, si sa, fu invaso da Napoleone e (malgrado quella tenace, invincibile resistenza popolare che fu il primo segno della fine per l’impero francese), dovette abbandonare a se stessi gli immensi territori americani. Quando la stella napoleonica si eclissò e la Spagna riebbe il suo governo, era ormai troppo tardi per ristabilire oltre Oceano lo statu quo: furono inutili i tentativi di domare la rivolta dei "creoli", cioè della borghesia bianca ormai radicata in quei luoghi. Quei borghesi benestanti erano coloro che da sempre avevano relazioni tese con la Corona e il governo della Madrepatria, accusati di "difendere troppo" gli indigeni e di impedirne lo sfruttamento. Soprattutto, l’ostilità creola si dirigeva contro la Chiesa e in particolare contro gli ordini religiosi perché non solo vegliavano affinché fossero rispettate le leggi di Madrid a tutela degli indios ma anche perché (a partire da subito, prima ancora di Las Casas: la prima denuncia contro i Conquistadores risuonò nell’Avvento del 1511 in una chiesa dal tetto di paglia a Santo Domingo e la pronunciò padre Antonio de Montesinos) sempre si erano battuti affinché quella legislazione fosse continuamente migliorata.

Si è forse dimenticato che le spedizioni armate per distruggere le reducciones dei gesuiti erano state organizzate dai proprietari spagnoli e portoghesi, quegli stessi che fecero pesanti pressioni sulle rispettive Corti e governi perché la Compagnia di Gesù fosse definitivamente soppressa? Anche a causa di questa opposizione alla Chiesa, vista come alleata degli indigeni, l’élite creola che guidò la rivolta contro la Madrepatria era inquinata in profondità dal Credo massonico che diede ai moti di indipendenza il carattere di duro anticlericalismo – se non di anticristianesimo – che è continuato sino ai giorni nostri. Sino – ad esempio – al martirio dei cattolici nel Messico della prima metà del nostro secolo. I «Libertadores», i capi della insurrezione contro la Spagna, furono tutti alti esponenti delle Logge: del resto, proprio da quelle parti si formò alla ideologia liberomuratoria Giuseppe Garibaldi, destinato a diventare Gran Maestro di tutte le massonerie. Un’occhiata alle bandiere e ai simboli statali dell’America Latina rivela l’abbondanza di stelle a cinque punte, triangoli, piramidi, squadre e di tutto l’armamentario del simbolismo dei "fratelli". Sta di fatto che, proprio in nome dei principi di fratellanza universale massonica e dei "diritti dell’uomo" di giacobina memoria, i creoli, non appena liberati dall’impaccio delle autorità spagnole e della Chiesa, poterono disfarsi anche dell’impaccio delle leggi di tutela per gli indios. Quasi nessuno dice l’amara verità: dopo il primissimo periodo (fatalmente duro per l’incontro-scontro di culture tanto diverse) della colonizzazione iberica, nessun altro periodo fu tanto disastroso per gli autoctoni sudamericani come quello che inizia agli albori del XIX secolo, con l’assunzione del potere da parte della borghesia sedicente "illuminata". Al contrario di quanto vuol far credere la "leggenda nera" protestante e illuminista, l’oppressione senza limiti, il tentativo di distruzione delle culture indigene inizia con l’uscita di scena della Corona e della Chiesa. E’ da allora, ad esempio (già ne parlammo nel frammento 205), che si inizia un’opera sistematica di distruzione delle lingue locali, per sostituirle con il castigliano, idioma dei nuovi dominatori che pur proclamavano di avere assunto il potere "in nome del popolo". Ma era un "popolo" costituito in realtà solo dalla esigua classe dei proprietari terrieri di origine europea. Fu da allora che spuntarono quei provvedimenti, che mai erano stati presi durante il periodo "coloniale", per impedire il "meticciamento", la mescolanza razziale e culturale. Mentre la Chiesa approvava e incoraggiava i matrimoni misti, i governi "liberali" li contrastarono e spesso li vietarono del tutto. Si cominciò, cioè, a seguire l’esempio così poco evangelico delle colonie anglosassoni al Nord: anche qui, non a caso, era stata la massoneria a guidare la lotta per l’indipendenza. Si crea allora un fronte comune tra Logge dell’America Settentrionale e di quella Meridionale, prima per battere la Corona di Spagna e poi la Chiesa cattolica.

Nasce anche così la dipendenza – che contrassegnerà tutta la storia che continua sino ad ora – del Sud nei riguardi del Nord. E’ curioso: quei "progressisti" che inveiscono contro le colpe della colonizzazione cattolica spagnola e denunciano al contempo la sudditanza dell’America latina verso quella yankee, non sono evidentemente consapevoli che questa loro duplice protesta è contraddittoria: re di Spagna e papi furono, finché poterono, i grandi difensori dell’identità religiosa, sociale, economica delle zone "cattoliche". Il "protettorato" nordamericano è stato determinato anche dai criollos, i creoli, «i ricchi coloni che vollero scrollarsi di dosso autorità spagnole e religiosi per poter far meglio i loro comodi e i loro affari». Così Franco Cardini, il quale, a proposito dei nordamericani chiamati a soccorso (spesso occulto) dei "fratelli" in lotta contro Corona e Chiesa, aggiunge: «Si pensi alle porcherie che hanno accompagnato l’egemonizzazione dell’area panamense e la guerra di Cuba alla fine del XIX secolo; si pensi al costante appoggio americano offerto al governo laicista messicano, che da decenni mantiene una Costituzione che, nel suo dettato più che anticlericale, anticattolico, umilia e offende i sentimenti della maggior parte del popolo del Messico: e gli Usa hanno appoggiato banditi come Venustiano Carranza quando si è profilata la possibilità che qualcosa potesse cambiare. E non hanno mosso un dito durante la sanguinosa persecuzione anticattolica degli anni Venti».

Oggi, si sa, il governo americano favorisce e finanzia il proselitismo di sette protestanti che, sradicando il popolo dalle sue tradizioni di quasi mezzo millennio, costituisce una grave violenza anche culturale. Gli sforzi "razzisti" del dopo Spagna sono tragicamente simboleggiati dall’arte: mentre le due culture, prima, si erano meravigliosamente intrecciate, dando vita al capolavoro del barroco mestizo, il "barocco meticcio", si divisero di nuovo con l’arrivo al potere degli illuministi. Alla architettura straordinaria delle città coloniali e delle missioni si sostituì l’architettura solo di imitazione europea delle nuove città borghesi, dove per i poveri indios non c’era più alcun posto. ( Vittorio MESSORI Leggenda nera: La Corona spagnola e le Americhe tratto da: Vittorio MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 637-660, da www.storialibera.it).

Risorgimento e brigantaggio.

Recensione: Ottavio Rossani, Stato società e briganti nel Risorgimento italiano, Pianetalibroduemila, Possidente, 2002, € 10.

Ottavio Rossani, inviato speciale del Corriere della Sera, già autore di saggi di storia politica e opere di narrativa, poesia e teatro, arricchisce con questo volume la fiorente storiografia revisionista sul Risorgimento italiano.

Questa storiografia è quasi esclusivamente di ambito non accademico ed è animata da un’impostazione dottrinale cattolica contro-rivoluzionaria e/o da un militante spirito nostalgico, particolarmente diffuso nel Mezzogiorno continentale, per l’epoca borbonica.

L’opera di Rossani si distingue per un atteggiamento meno dottrinalmente marcato ed alieno da nostalgie, pur condividendo larga parte delle tesi della polemica filo-borbonica ed antiunitaria, tanto da scrivere: “Che cosa fu quindi lo scontro tra briganti e soldati piemontesi? Fu il tentativo controrivoluzionario di far ritornare sul trono dell’ex Regno delle Due Sicilie Francesco II, considerato legittimo Re, non deposto, ma costretto all’esilio“.

Del resto, nella sua ricostruzione, l’autore fa largo uso proprio della letteratura contro-rivoluzionaria coeva agli avvenimenti o dei nostri giorni, a cominciare dalla famosa serie di articoli del padre Curci su La Civiltà Cattolica, il primo dei quali definì “guerra civile” la lotta in corso nelle province meridionali, che con precisione denunciarono la politica del governo di Torino e ne confutarono le versioni ufficiali.

L’autore utilizza però utilmente testimonianze e documenti anche di parte piemontese, come la Relazione Massari (appena ripubblicata, come le memorie del brigante Carmine Donatelli, dallo stesso editore di questo volume) e l’opera sul brigantaggio, scritta sulla base dell’esperienza personale, dal capitano dell’Esercito Italiano (la denominazione Regio Esercito sarà introdotta solo nel 1879) Alessandro Bianco di Saint-Jorioz. Da tali fonti risultano giudizi e ammissioni importanti, come quella sul vasto consenso che i combattenti anti-unitari ricevevano in ampi settori della popolazione.

Il volume si sofferma anche sulle fasi storiche precedenti e seguenti al brigantaggio. Il capitolo 3, Il contesto socioeconomico, presenta il quadro della situazione del Regno delle Due Sicilie alla vigilia della conquista piemontese, sottolineandone la solida situazione finanziaria e quegli “aspetti che lo mettevano addirittura all’avanguardia in Europa”.

Il capitolo 9, La questione meridionale, si proietta sui decenni successivi, indicando nella politica seguita dai governi italiani al momento e all’indomani dell’unificazione le radici di una situazione, ancora in parte irrisolta, di arretratezza economica e di diversa coscienza civile del Mezzogiorno rispetto al resto dell’Italia.

Completa il volume una rassegna della storiografia sul brigantaggio, che, per quanto riguarda l’ambito accademico, non si è mai emancipata dal drastico giudizio espresso da Benedetto Croce, che lo liquidò come una forma di ribellismo motivato da gretti motivi di interessi o di malaffare, definendo “lurida commedia” e “atroce drammaccio da arena” il paragone tra esso e la Vandea.

Qualche tempo fa, interrogato a proposito del valore della storiografia revisionista, riferita sia al Risorgimento sia alla Resistenza (due eventi storici la cui ricostruzione è sempre stata fortemente condizionata da spinte politiche), un illustre storico rispondeva con sufficienza che era disposto a prendere in considerazione solo opere basate su nuove fonti, meglio se d’archivio.

Da questo punto di vista molte opere pubblicate negli ultimi anni, compresa quella di Rossani, proprio perché non utilizzano nuovi documenti, dovrebbero essere considerate non degne di attenzione o inutili. Chi scrive rivendica con orgoglio, contro le denigrazioni di stampo montanelliano, la propria qualifica di storico universitario ed in particolare, come cultore della storia diplomatica, ben conosce l’importanza primaria dei documenti; però non condivide la posizione liquidatoria appena ricordata.

La lettura delle fonti, soprattutto nella storia politica, spesso non è ideologicamente neutra; le fonti possono essere censurate o lette in maniera distorta e devono essere talvolta riscoperte. In questo senso il volume di Rossani è utile, non perché scopra fatti nuovi, ma perché infrange miti consolidati e riporta alla luce verità a lungo occultate. (Massimo De Leonardis)

Le persecuzioni contro i cristiani, oggi e ieri.

La notiza oggi su tutti i giornali è che almeno 6 cristiani sono stati bruciati vivi in Pakistan, dai fondamentalisti islamici, con la falsa accusa di aver profanato il Corano. Scrive il Corriere:  " Un’accusa ripetuta di bocca in bocca: aver dissacrato il sacro Corano durante un matrimonio. Un processo popolare e sommario, in stile fra west. Poi, l’inferno. I cristiani del villaggio di Korian…sono stati oggetto di un vero pogrom lanciato da estremisti islamici. Per giorni hanno saccheggiato, distrutto, sparato dai tetti e nelle strade. Ieri, armati di taniche di benzina, hanno dato fuoco a due chiese e a decine di case…Almeno sei cristiani sono morti, tra loro un bambino e certamente qualche donna. Bruciati vivi…"

Come ai tempi dei primi cristiani, nei paesi musulmani, in India, nei paesi comunisti (Cina, Vietnam, Corea del nord ecc…), insomma in almeno metà del mondo, vale ancora oggi quanto scriveva Tertulliano:  “Se il Tevere sale sugli argini, se il Nilo non arriva sui campi, se il cielo è immobile, se la terra si muove, se la fame, se la peste, subito si grida: I cristiani ai leoni!” (Apologetico, 40, 20).

Eppure qui in Europa sembra che la cosa non interessi a nessuno. E’ quasi un caso che oggi si parli del Pakistan: infatti le persecuzioni sono all’ordine del giorno, e solitamente non meritano neppure un trafiletto. I nostri quotidiani sono occupati maggiormente dalla lotta costante contro i valori e l’insegnamento della Chiesa, il resto non interessa (vedi Repubblica, Unità, Terra, Liberazione….).

I credenti  e gli uomini di buona volontà non possono che indignarsi, dinanzi a questa ingiustizia, e nello stesso tempo ricordare che si avvera la profezia di Cristo: come hanno perseguitato me, così perseguiteranno anche voi.

Eppure è bene ricordare, in occasione dei fatti pakistani, la secolare lotta dell’Islam contro il nome cristiano, non certo per sostenere guerre di civiltà, da cui siamo lontanissimi, ma per obiettività storica e realismo.

Di seguito riportiamo uno studio eccellente sull’Islam e il suo assalto all’Europa nell’età moderna, scritto dal prof. Paolo Taufer.

"Correva l’anno giubilare 1600 e folle di pellegrini – se ne contarono circa 3 milioni – affluivano a Roma da tutta l’Europa. Buona parte di essi giungeva via mare, opzione talora imprescindibile anche se tutt’altro che scevra di rischi a causa dei predoni che infestavano le acque di quello che un tempo era considerato il “Mare nostrum” della romanità. Né altrimenti fu per il giubileo del 1650, coi legni pontifici che incrociavano vigilanti sulle rotte delle navi cariche di pellegrini diretti a Roma. L’anno seguente una squadra navale pontificia salpava assieme alle galere dell’Ordine di Malta alla volta di Candia per soccorrere i soldati della Serenissima che disperatamente difendevano laggiù uno degli ultimi baluardi avanzati della civiltà cristiana contro l’Islam.

 

Lo scenario era ormai usuale da secoli: tutti gli anni al ritorno della bella stagione le galere di volta in volta livornesi, pontificie, veneziane, genovesi, napoletane o spagnole partivano in crociera di guerra, crociera che di solito doveva essere interrotta prima dell’arrivo della brutta stagione che avrebbe obbligato i navigli di allora, incapaci di tenere il mare perturbato, al rientro nei porti. Rendez-vous a Messina o a Corfù e di lì, issato sulla capitana, così si chiamava la nave ammiraglia, il vessillo del Papa, facevano rotta verso l’Egeo per riconquistare qualche piazzaforte o per intercettare i convogli turchi provenienti da Alessandria e diretti a Costantinopoli carichi di merci e schiavi cristiani, spingendosi all’uopo fino ai Dardanelli. Poteva anche accadere che le prue venissero invece indirizzate a sud e a ovest, lungo le coste della Barberia o della Spagna in operazioni di controcorsa, alla ricerca di legni corsari e covi pirati da distruggere.

 

Dati i tempi, la tendenza a chiedere perdono del proprio operato a corsari e predoni musulmani era piuttosto poco sentita e i giubilei, pur costituendo occasioni privilegiate di pentimento e di conversione, vedevano spesso fervorosi predicatori richiamare alla virile applicazione dei precetti evangelici, primo fra tutti la difesa del debole e dell’oppresso. E chi era più oppresso agli occhi della Cristianità dell’abitante delle zone litoranee che, scorti all’orizzonte i legni musulmani, si ritrovava in un batter d’occhio a bordo di essi in compagnia dei sopravvissuti, donne e bambini inclusi, con il paese o la città alle spalle deserti e in fiamme? Il destino che attendeva quegli sventurati era da incubo: deportati nei “bagni” della Barberia – i “lager” del tempo apprestati ad Algeri e a Tunisi, ma anche a Fez in Marocco e a Tripoli in Libia – giacevano in attesa che qualcuno sopravvenisse a versare la somma del riscatto e di essere venduti al turpe mercato degli schiavi. Le donne giovani e belle andavano a popolare gli harem dei ricchi e dei notabili islamici, merce atta a soddisfare la loro lussuria, ma solo dopo la loro conversione all’Islam: erano infatti previste pene severissime per il musulmano che avesse avuto rapporti carnali con una cristiana, fosse essa schiava o libera[1]. Facilmente immaginabile la sua sorte se avesse rifiutato la conversione.

 

 I giovanetti, quando non facevano la stessa fine o venivano ridotti a eunuchi da porre a guardia degli harem, erano oggetto di apprezzati omaggi che il dey di Algeri o il bey di Tunisi indirizzavano alla “Sublime Porta”, nome riservato alla dimora del Sultano di Costantinopoli. Ivi i fanciulli abbracciavano la religione musulmana e venivano istruiti nell’arte della guerra, come i famosi giannizzeri, fanciulli tra gli 8 e i 14 anni strappati con violenza alle loro famiglie e intensamente condizionati fino a farne terribili guerrieri al servizio del Sultano[2] da opporre un giorno ai guerrieri cristiani. Gli uomini più robusti, invece, una volta venduti, finivano incatenati ai remi o adibiti ai lavori quotidiani più duri e umili – attività che ogni buon musulmano rifuggiva in virtù del superiore status religioso – senza speranza alcuna di redenzione salvo scambiare la propria fede con un po’ più di pane al prezzo di un’ignominiosa abiura. Trattavasi solitamente di gente comune, poverissima, che già in patria viveva di stenti e che quindi non aveva nessuno in grado di versare la somma del proprio riscatto. Si pensi che nel 1830, quando la flotta francese mise la parola fine alla millenaria pirateria islamica occupando militarmente Algeri, gli Ordini monastici che erano sorti in seno alla Chiesa per il riscatto degli schiavi cristiani – essenzialmente i Trinitari e i Mercedari con l’aiuto minoritario dei Francescani – erano riusciti a liberare col frequente sacrificio della propria vita, a far data dall’istituzione dei rispettivi Ordini[3] (rispettivamente l’anno 1197 per i Trinitari e il 1218 per i Mercedari), circa un milione di questi infelici, mentre si valuta in due milioni il numero complessivo di persone predate e schiavizzate fra il XVI e il XIX secolo[4].

 

La presenza della bandiera verde con la Mezzaluna dei pirati barbareschi, che verso il XV secolo venne affiancata dal vessillo rosso dei Turchi, nel ’600 continuava a pendere, ormai da più di otto secoli, come un’autentica spada di Damocle sul capo delle popolazioni rivierasche di tutto il Mediterraneo cristiano.

 

Il giubileo, che già di per sé riecheggiava la restituzione delle terre e la liberazione degli schiavi presso il popolo ebraico, era dunque preziosa occasione di sprone alla lotta contro le flotte turco-barbaresche, ed era del tutto logico e naturale che il Papa predicasse la crociata per la liberazione degli schiavi cristiani incatenati nei bagni della Barberia o legati al remo delle flotte musulmane.

 

Sarebbe grande stoltezza pensare di poter conquidere i Turchi e i pirati solo con le orazioni: dobbiamo metterci alle armi e combattere da senno se vogliamo liberarci dalla loro oppressione[5], proclamava nel 1516 Leone X – il papa Medici, che nel maggio di quell’anno era sfuggito per un soffio alle fuste corsare – facendo seguire alle parole l’invio verso tutti i principi d’Italia e d’Europa di cardinali e legati latori di lettere che chiamavano alla Lega contro il Turco, sinonimo di musulmano. La scarsa propensione al dialogo reciproco rispettoso di Leone X giungeva fino a impartire disposizioni per la costruzione immediata di ulteriori 7 galere da allineare con la flotta pontificia a disposizione dei legati.

 

In realtà quelli erano tempi di ferro per uomini di ferro, dove non si credeva punto ai pastrocchi ecumenici di oggi e, meno degli altri, ci credevano i Turchi e i discendenti dei Saraceni sul mare: i confronti erano diretti, le posizioni nettissime: duramente realisti, come si conviene allo spirito che li animava, i cattolici mai si sarebbero sognati di considerare la melassa (scarto di lavorazione della canna da zucchero, importata peraltro dagli Arabi in Sicilia dall’India) ingrediente per cementare fedi dottrinalmente inconciliabili. Turchi e Barbareschi avevano un fine comune unico e dichiarato: muovere alla conquista delle terre degli infedeli “Nazzareni” per sottometterli e farvi trionfare l’Islam.

 

In questo studio si cercherà di illustrare la fondatezza di questo asserto dimostrando come quella millenaria spinta tesa a sommergere l’Europa abbia ripreso slancio e vigore ai nostri giorni, solidamente assisa sulla stessa, immutabile fonte di allora: il Corano, dal quale ogni buon musulmano trae le motivazioni del suo essere e le modalità del suo collocarsi nel mondo.

 

Vale la pena osservare che, rispetto a quei tempi, la singolarità risiede oggi piuttosto nella stretta alleanza fra paesi islamici emergenti e un paese cristiano in particolare, frutto maturo del virulento pollone calvinista dell’albero protestante: gli Stati Uniti. Un’alleanza diretta contro l’Europa, che una disinformazione capillare tende a confondere e occultare nel rumore di fondo di una tambureggiante distinzione mass-mediatica fra paesi musulmani “buoni” e paesi “fondamentalisti” e, perciò, nemici dell’Occidente e antidemocratici. Si vedrà invece che proprio quei paesi cosiddetti fondamentalisti sono un’efficace punta di lancia a disposizione degli Stati Uniti per la colonizzazione dell’Europa.

Si dovrà quindi tornare a parlare di Potere mondialista e dell’inflessibile mano di quell’AUTORITÀ, i cui connotati religiosi sono ben noti a coloro che frequentano questi convegni, che si cela dietro di esso, informandone programmi e indirizzi. Per questi ultimi bastino le odierne, tumultuose “globalizzazioni” che attraverso occulti innervamenti sotterranei riempiono sincronicamente di sussulti e minacciose prospettive tutto il pianeta[6].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NASCITA DELL’ISLAM ED ESPANSIONISMO ISLAMICO NEL VII SECOLO. IL MOTORE DELLA CONQUISTA: LA GUERRA SANTA.

 

 

 

 

Verso il 570 d.C. nasce in Arabia Ahmad “il sigillo dei profeti”. Il suo nome significa “l’illustre”, esattamente come il greco Pericle, ed è equivalente a Muhammad, italianizzato in Maometto. La sua vita si confonde fra racconto e leggenda. Si sa che, rimasto orfano, venne presto aggregato da uno zio alle carovane che percorrevano l’Arabia spingendosi fino in Siria. Con esse egli compie numerosi viaggi ed entra a contatto con la religione cristiana non tanto nella forma cattolica di Bisanzio, quanto piuttosto in quella scismatica nestoriana e del monofisismo siriaco, che attribuiva a Cristo la sola natura divina. Giovane di spiccata iniziativa e ingegno si fa notare per la sua attitudine al comando e per le naturali doti di abile mediatore e amministratore, mettendosi ben presto al servizio di una ricca mercantessa ebrea della Mecca, Khadigia, che sposerà nel 595, nonostante la grande differenza di età. Diventa così un uomo ricco, autorevole e influente.

Anche se le sue biografie tendono a sorvolare sull’influenza della religione ebraica sulla sua formazione è lecito pensare che, a contatto con una sposa di religione ebraica e nell’ambiente dei facoltosi commercianti della Mecca, fra i quali non mancavano coloro che professavano la religione dell’unico Dio di Abramo, ne rimanesse invece impregnato. Il padre domenicano francese Théry, con la collaborazione dell’abbé Joseph Bertuel, sotto lo pseudonimo comune di Hanna Zakarias, pubblicò nel 1955 un’opera in due tomi[7] di studi esegetici del Corano, intitolata “ L’Islam, entreprise juive – De Moïse à Mohammed” (L’Islam impresa ebraica – Da Mosè a Maometto), dove si prendono comparativamente in esame passi della Bibbia ebraica e del Corano. La conclusione dei due studiosi fu quella alla quale erano già pervenuti gli apologeti cristiani dei primi secoli dell’Islam, che il Corano altro non fosse che la trascrizione di una serie di precetti attinti da Maometto dalle coeve dottrine giudeo-cristiane. Il padre Théry ipotizzava, peraltro piuttosto arbitrariamente senza alcun conforto testimoniale, la presenza alla Mecca di un dottissimo rabbino istruttore, figura che sarebbe stata affiancata all’analfabeta Maometto dalla stessa Khadigia. Costui gli avrebbe impartito un insegnamento orale che si protrasse fino al 610, a quella “Notte del destino” (Sura XCVII, 1-3), nella quale Maometto avrebbe ricevuto la totalità della rivelazione del Corano con i suoi 114 capitoli, o Sure, contenenti 6226 versetti per un totale di 323.871 lettere, dalla voce dell’Arcangelo Gabriele.

 

Nel 613 il Corano (Qur’an = recitazione) sembra fosse stato pronto e Maometto poteva così iniziare la sua predicazione, dapprima in modo discreto fra coloro che lo circondavano, di preferenza verso i notabili. In seguito si formarono dei gruppi a lui favorevoli dai quali emerse presto la figura di Abu Bekr. Il compito era improbo: si trattava nientemeno che di far abbandonare ai ricchi, avidi di guadagno e spesso crudeli commercianti della Mecca, che dominavano la città, il loro politeismo fatto di un Pantheon popolato di centinaia di idoli e dire loro che l’unico Dio era Allâh, (corrispondente al tempo di Jahvè della letteratura giudeo-cristiana). Peraltro lo stesso nome, noto da secoli agli abitanti dell’Arabia, riservato alla divinità creduta al di sopra di tutti gli altri idoli. La cosa non si annunciava facile, sia per il naturale conservatorismo di quella gente, che per il concomitante appello alla loro generosità col versamento dell’elemosina che il nuovo credo esigeva, generosità che davvero non era il loro forte. L’opposizione infatti, sia pure con alterne vicende, fu fortissima e Maometto, minacciato di morte, dovette ben presto abbandonare la Mecca e trasferirsi a Medina (= città del Profeta), allora chiamata Yathrib, abitata da tribù arabe e per metà da tribù ebraiche dedite al commercio e all’artigianato, fuggite dalla Siria e dalla Palestina all’avanzare delle truppe di Nabucodonosor. Questa fuoriuscita, chiamata “hijra” (= Egira, emigrazione) avvenne nel 622 e segna l’inizio dell’era musulmana, della fondazione cioè della società islamica, una società ben distinta e separata così da quella politeista come da quella cristiana.

 

A Medina Maometto continua a ricevere rivelazioni divine di natura sempre meno spirituale e più pratica. Dio, attraverso l’arcangelo Gabriele, comunica al suo profeta l’ordine di abbandonare la pazienza e avviare la guerra santa, la jihâd[8] che da quel momento diventa un obbligo derivante dalla sua istituzione divina:

uccidete i politeisti ovunque li troviate, prendeteli prigionieri, assediateli e opponetevi ad essi in tutte le loro imboscate…” (Sura IX, versetto 5);

 

 

 

Maledetti, ovunque vengano trovati, essi dovranno venir presi e inesorabilmente uccisi” (Sura XXXIII, vers. 61).

Un obbligo peraltro solo collettivo, nel senso che non era imposto ad ogni singolo credente essendo sufficiente che fosse eseguito da un certo numero di fedeli.

 

Al contrario del Vangelo, dove è difficile trovare dei passi a supporto persino della legittima difesa della società cristiana con le armi, il Corano offre tutto un corpus dottrinale di più di 100 versetti che incitano alla guerra contro l’infedele[9]. Per un musulmano che combatte la jihâd è quindi lecito uccidere gli infedeli, e tale prescrizione ha trovato codifica presso numerosi giuristi musulmani. Il celebre imâm an-Nawawi (1263-1308) insegnava ad esempio:

La legge nella guerra contro gli infedeli vieta di uccidere: i minori, i pazzi, le donne e gli ermafroditi […] ma si può uccidere legalmente: i monaci, i mercenari che gli infedeli hanno assoldato al loro servizio, i vecchi e le persone deboli, cieche o malate, anche se non hanno partecipato al combattimento, né fornito informazioni ai nemici. Quando non li si può uccidere in guerra occorre ridurli in schiavitù. È lecito assediare gli infedeli nelle loro città e nelle loro fortezze, impiegare contro di essi le inondazioni, l’incendio o le macchine da guerra e attaccarli e di notte all’improvviso[10]. Lo sgozzamento dei sette monaci cistercensi della Trappa di Thiberine, in Algeria, del 21 maggio 1996 e la decapitazione di numerose suore[11] riposerebbe quindi su fondamenti giuridico-legali…

 

 

 

Iniziano dunque gli agguati alle carovane che fruttano ai nuovi fedeli i mezzi per espandere il verbo di Allah. Il quinto anno dell’Egira vede un fatto assai significativo: il profeta attacca e assedia la tribù ebraica dei Beni Qoraija. Fa sgozzare gli 800 abitanti maschi e trascina in schiavitù donne e bambini. I “Cavalieri di Allah” si presentano. Uno sterminio che intende sottolineare la sua indipendenza dall’influenza rabbinica e dal clima che lo aveva sostenuto per quindici anni, l’affermazione di un’originalità e di un’unicità che intendeva imporsi spazzando ogni ostacolo. Da quel momento la preghiera rituale doveva rivolgersi verso la Kaaba, verso la Mecca. Giunto a Medina, infatti, Maometto, ancora compenetrato dell’atmosfera ebraica della Mecca, aveva fissato Gerusalemme come punto orientamento della preghiera rituale, stabilendo inoltre come giorno di festa per i nuovi fedeli il giorno dell’Achura, la festa della Propiziazione degli ebrei e l’osservanza del digiuno del Kippúr[12]. Volgendosi verso la Kaaba, la pietra santa dell’Arabia che porterebbe incisa l’impronta del piede di Abramo che di lì sarebbe asceso al cielo, egli intendeva sottolineare la diretta discendenza degli arabi da Abramo. E come il Dio degli ebrei è il vincitore di tutte le battaglie, del pari lo saranno i popoli che seguiranno Maometto. Le tribù arabe diventano il nuovo popolo eletto che parte con durezza e determinazione per assolvere la nuova missione che gli è stata affidata dal cielo di conquistare il mondo alla volontà di Allah per sottometterlo al nuovo verbo dell’Islâm (= sottomissione alla volontà di Dio) e muslim sarà il nome dei novelli sottomessi. La fisionomia dell’Islam è ormai definita e non perderà più quel carattere di teocrazia militante e guerriera, ben distinto dal Giudaismo e dal Cristianesimo.

 

I continui attacchi alle carovane condussero nel secondo anno dell’Egira al confronto decisivo di Badr, una località a 105 km da Medina. Su ordine dell’arcangelo Gabriele, Maometto con 300 combattenti, tende un’imboscata presso Badr ad un’importante carovana, che trasportava anche molti notabili meccani proveniente dalla Siria. Il feroce combattimento ha inizio e Maometto annuncia ai suoi che gli angeli combatteranno al loro fianco e ciò avviene fino alla vittoria. Dopo alterne vicende, sempre sotto la guida di Gabriele, Maometto nel 630 entra finalmente alla Mecca e, come primo gesto si porta alla Kaaba a distruggere ben trecento e più idoli. Mette poi a morte una decina di meccani impenitenti, mentre gli altri per salvare la testa si convertono rapidamente all’Islam.

La jihâd aveva definito il suo metodo: l’infedele vinto, se non recita la professione di fede che lo fa musulmano, va messo a morte. Per i membri delle religioni “del Libro”, invece, (cioè ebrei e cristiani) il metodo è attenuato: pur non avendo nessun diritto politico e militare essi sono soggetti ad uno statuto di “protezione” pagando una gravosa imposta di capitazione (jiziya) e un tributo sulle terre possedute, al quale ancora oggi i dhimmi (= gente del patto di protezione) sono sottoposti nei paesi islamici[13]. In realtà il bisogno di schiavi come componente essenziale dell’organizzazione sociale islamica non consentiva un’applicazione rigorosa della regola e cristiani ed ebrei razziati andavano ben volentieri ad ingrossare le file degli schiavi, come avremo agio di vedere trattando della pirateria nel Mediterraneo. Giova inoltre annotare che la dottrina islamica tradizionale dal punto di vista geopolitico divideva – e divide ancor oggi – il mondo in due parti, fra loro avverse e inconciliabili: le terre abitate dai musulmani, o dimora dell’Islam (dar-el-Islam) e il mondo empio che le circonda abitato dai miscredenti, chiamato dimora di guerra (dar-el-Harb), da conquistare all’Islam[14]. Di più: quando una terra sia stata conquistata dai musulmani, essa da quel momento è dar-el-Islam, anche se l’infedele se ne riappropriasse[15].

 

Ne deriva che ciascuna moschea eretta in Europa[16], inclusa la maggiore che domina San Pietro a Roma, viene interpretata come una testa di ponte nel dar-el-Harb e un riconoscimento da parte dei kaffur (= peccatori, miscredenti) occidentali della superiorità temporale del dar-el-Islam. Ne deriva ancora che i massacri del Sudan, la persecuzione dei cristiani in Arabia, nel Libano e in Indonesia, dei pogrom contro i copti d’Egitto, degli indù nel Bangladesh, l’invasione di Cipro da parte dei Turchi del 1974 e la stessa azione in Kosovo nel 1999 sono azioni legittime dal punto di vista islamico, costituendo unicamente l’adempimento del grave dovere che incombe su ciascun musulmano di fare guerra all’infedele, al kaffir, per liberarsi dal suo potere “empio” e sottometterlo, allargando allo stesso tempo i confini del dar-el-Islam.

 

 

 

La narrazione della storia di Maometto a questo punto si arricchisce di altri scontri e battaglie fra i medinesi alleati con i meccani contro le tribù idolatre della regione, ma qui il racconto sfuma nelle nebbie della leggenda dove angeli appaiono di continuo in forze a fianco dei guerrieri musulmani rivelandosi costantemente un fattore decisivo e schiacciante in loro favore. Maometto si dichiara restauratore della fede monoteista già predicata da Abramo ed eleggendosi suo diretto erede, invita tutti, prìncipi e popoli della terra, a professare la nuova fede.

Gli ultimi anni di vita Maometto li spese dedicandosi al proselitismo, a consolidare il suo potere politico e a ricevere ininterrottamente rivelazioni dal cielo.

Maometto moriva assalito dalla febbre nel 632, a 62 anni, dopo aver partecipato, pare, a più di 80 combattimenti lasciando in qualche modo il testo del Corano in forma scritta. Parallelamente ha inizio, a cura dei suoi fedeli, la raccolta dei detti, delle gesta, dei commenti e persino dei silenzi di Maometto, raggruppandoli sotto il nome di Hadîth. Gli atti della sua vita andranno assieme a formare la “Sunnah” (= tradizione), che diventerà il modello comune sul quale per 14 secoli i musulmani cercheranno di uniformare i minimi gesti della propria esistenza quotidiana, finanche il taglio delle unghie[17].

 

Secondo il Sufismo (dall’arabo lana, in allusione al mantello indossato dagli iniziati), parola corrente per indicare un movimento islamico che tende al disprezzo del mondo e all’attuazione di  esercizi di purificazione dell’anima per renderla degna di avvicinarsi a Dio, Maometto avrebbe trasmesso anche un messaggio esoterico, riservandolo nondimeno ad una ristretta cerchia di compagni, i primi sûfi. Nel III secolo dall’Egira coloro che ne avevano raccolto il messaggio si raccolsero in gruppi e, sotto l’azione di influssi cristiani, si strutturarono in ordini al seguito dei rispettivi maestri, che fedelmente seguivano lungo gli itinerari della Tarîqah (= via spirituale, termine equipollente di sufismo). Mediante opportune tecniche iniziatiche i maestri sufi introducevano i loro discepoli alla lettura esoterica del Corano e degli Hadîth, prospettando una serie di passaggi attraverso i cosiddetti “stati molteplici dell’essere” (così essenziali alle speculazioni indù, guénoniane e quindi massoniche) atti a “risvegliare” progressivamente la divinità in loro latente e con essa la liberazione dai lacci della contingenza e delle limitazioni umane, fino all’approdo ultimo dove la distanza fra il sé e Dio veniva annullata[18] (è il tahwid, stato nel quale scompare l’umanità e resta solo la divinità).

 

Erede degli insegnamenti esoterici di Maometto è l’imam sciita: di qui il conflitto, tuttora non sanato, fra mondo sunnita ortodosso dove “si concepisce l’Islam attraverso tutta la comunità che circondava il suo fondatore” e mondo sciita, che oggi interessa circa un quinto dei credenti musulmani, dove l’Islam “lo si concepisce mediato da una particolare élite costituita dalla sua famiglia e da coloro che erano spiritualmente apparentati a lui[19]. Gli sciiti, infatti, sono gli eredi dei legittimisti che ritengono solo i discendenti del quarto califfo ‘Alì (657-660) – membro della famiglia di Maometto di cui aveva sposato la figlia Fatima – dotati del carisma profetico di Maometto e qualificati per assumere la guida dell’islamismo, in contrasto con gli “scismatici” sunniti presso i quali la guida spetta ad un eletto della comunità dei credenti.

 

 

 

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ESPANSIONISMO ISLAMICO: PRIMA INVASIONE DELL’EUROPA. I PREDONI MUSULMANI CHIUDONO IL “MARE NOSTRUM”. IMPOVERIMENTO DELLE POPOLAZIONI RIVIERASCHE E SPOSTAMENTO DELL’ASSE EUROPEO A NORD VERSO IL CUORE DELL’EUROPA.

 

 

 

 

 

 

Con un impero romano in via di esaurimento e quello persiano in declino, l’espansione islamica fu in un certo senso favorita. L’espansione araba in Europa e in Asia fu rapidissima, quasi senza precedenti, la diffusione della religione musulmana fulminea se paragonata alla lentezza con cui il cristianesimo si affermò. Davanti agli arabi crollavano come castelli di carta intere parti di impero. Maometto è morto da soli 3 anni quando cade Damasco, l’anno successivo, nel 636, la Siria bizantina è interamente in mano araba e con essa le numerose chiese ereticali che vi si erano formate, nel 638 gli arabi entrano in Gerusalemme e nel 690 vi iniziano la costruzione della Cupola della Roccia, un edificio che esprime al meglio il trionfo della nuova fede sul cristianesimo e sul giudaismo. Nel 641 gli arabi dilagano in Egitto dove, nel 642, il successore di Maometto, il califfo Omar, si impadronisce della popolosa e ricchissima Alessandria distruggendo quanto era sfuggito ai successivi incendi della sua famosa biblioteca, che coi suoi dei 700.000 rotoli di papiri al tempo di Cesare era la maggiore dell’antichità e aveva dato larghissimo impulso alla formazione della cultura. È celebre la riflessione attribuita al califfo Omar quando venne interpellato sulla sorte dei rotoli: “Che fare di queste migliaia di volumi? Bruciarli” – rispose Omar – poiché delle due cose l’una: “o essi dicono le stesse cose del Corano, e allora sono inutili, o dicono il contrario e allora sono dannosi[62].

 

Verso il 660 i legni musulmani contrastano quelli bizantini e conquistano Cipro, indi Rodi, poi fanno vela per la Sicilia. Costantinopoli nel 668 è assediata e nel 673 circondata con un blocco che durò quasi 5 anni.

Nel 670 partono le spedizioni contro i Berberi che vengono massacrati a più riprese fino alla loro completa sottomissione, e già nel 681 con uno slancio formidabile viene raggiunto l’Atlantico. Cartagine cade in modo definitivo nel 698 e ad essa viene sostituita ben presto una nuova capitale, Tunisi, il cui porto della Goletta diventerà la grande base dei pirati barbareschi del Mediterraneo. Nel 675 gli arabi attaccano la Spagna, ma sono respinti dalla flotta visigota. Nel 711 settemila Berberi del Marocco, convertiti all’Islam e infervorati dalla jihâd, al comando di Tarik attraversano il mare e si lanciano alla conquista della Spagna. Nello stesso anno sono occupate Lisbona, Cordova e tutto il sud della Spagna che gli arabi chiameranno al-Andalus. Già nel 720 i Pirenei sono varcati e tocca a Narbona di spalancare le sue porte alle nuove orde, mentre Tolosa è posta sotto assedio. Nel 725 viene occupata Carcassonne. Soltanto nel 732 si accentua la reazione cristiana che culmina nella vittoria di Carlo Martello in quella stessa piana di Poitiers dove già Clodoveo aveva un giorno sconfitto i Visigoti. Una battaglia epica narrano gli storici, nulla più di una scaramuccia marginale sostengono altri storici[63]. Nel frattempo ad Akroinos, in Asia Minore, l’imperatore bizantino Leone III Isaurico (l’iconoclasta) infliggeva una grave disfatta alle armi musulmane, completata nel 747 col trionfo in una battaglia navale. Vittorie che fecero di Bisanzio, indomabile pur in mezzo ai disastri, il bastione che resse l’urto musulmano a Oriente permettendo così il sorgere dell’Europa di Carlo Magno e quindi lo sviluppo dei successivi luminosi secoli cristiani.

 

Poitiers fu comunque una battuta di arresto dell’espansione musulmana verso il nord della Francia e la sua deviazione verso sud, in direzione della Provenza. Avignone è espugnata nel 737 e le devastazioni si estendono fino a Lione e in Aquitania. Seguono alterne vicende, con interventi vittoriosi da entrambe le parti e nel 759 le posizioni in Provenza si definiscono: gli arabi possono contare sulla roccaforte di Fraxinetum (paese dei frassini o Frassineto)[64] dalla quale per quasi un secolo si irradieranno le scorrerie piratesche lungo i litorali dove le campagne “furono devastate in modo abominevole”[65] e verso l’interno, lungo i passi alpini, risalendo il corso del Rodano e saccheggiandone le sponde fino al Vallese. Il seguito è un crescendo impressionante, sembrava che nulla potesse fermare questi predoni del deserto che, abili sul mare, dimostravano di essere a proprio agio anche nelle condizioni proibitive del clima alpino. Vengono attaccati i pellegrini, l’abbazia di Novalesa in val di Susa è devastata e arsa, viene imposto un pedaggio ai viandanti che si avventurano attraverso il passo del San Bernardo. Nel 972 viene addirittura rapito l’abate di Cluny per il quale è richiesto un forte riscatto. Solo una lega di principi francesi porrà fine alla loro presenza sui colli alpini e appenninici con la distruzione di Fraxinetum. Nel 997 in Spagna il califfo di Cordova ‘Abd al-Rahman III si spinge fino in Galizia radendo al suolo San Giacomo di Compostella e lasciando in piedi solo la tomba dell’apostolo.

 

In Asia la conquista araba è ancor più prodigiosa e impressionante: le armate musulmane già nel 651 – a soli 30 anni quindi dalla morte di Maometto – straripano nella Persia il cui impero viene prontamente sottomesso, raggiungendo Kabul nel 664. Nel 710 il potere dei califfi si allarga ai protettorati cinesi della Fergana e della Sogdiana (oggi Uzbekistan e Kirghizistan) con le città di Samarcanda e Buchara, quest’ultima già conquistata nel 328 a.C. da Alessandro Magno, mentre nel 711 l’Indo era superato, il Sind sottomesso e la via verso l’India aperta. La battaglia del 751 sul fiume Talas, nell’odierno Kirghizistan, vide la rovinosa sconfitta dell’esercito imperiale cinese della dinastia T’ang e la morte di uno dei suoi più valenti generali, ad opera di due eserciti coalizzati: quello arabo della guarnigione sogdiana assieme a quello turco del Turkestan occidentale costituito da nomadi fieramente anticinesi.

 

La battaglia di Talas permise agli arabi di estendere la loro influenza sull’Asia centrale e sull’importante “via della seta”, limitando quella cinese a occidente, e di giungere a contatto con una civiltà molto evoluta dalla quale essi seppero mutuare regole di governo e processi fino allora sconosciuti di cui il più famoso è la fabbricazione della carta, che trasferirono dapprima a Samarcanda e quindi a Baghdad e di lì irradiarono verso il resto del mondo musulmano e in Europa. Fu questa una delle battaglie decisive della storia che segnò però anche il limite dell’impeto arabo verso oriente, complice, verosimilmente, la grande peste che nel 742-43 imperversò dalla Cina all’Europa, desolando senza distinzione i focolari cristiani e musulmani.

 

Il califfato abbàside (749-1258), che governava il mondo musulmano dall’Iraq, nel 751 si estendeva dunque dall’Atlantico alla Cina, dal Mediterraneo ai Tropici, dalla penisola iberica ai Pirenei. Un secolo dopo avrebbe accolto massivamente nelle file del suo esercito quel giovane popolo guerriero dei Turchi[66] che già al tempo della battaglia di Talas, nella loro migrazione verso occidente, avevano incontrato gli arabi in marcia verso oriente, divenendone alleato contro i cinesi. Diventati presto la forza culturale dominante del Turkestan, gli arabi non avrebbero poi faticato a convertire i Turchi all’Islam[67]. La grande spinta del califfato verso nord fu invece contenuta dai Khazari, un popolo anch’esso di origine turca che nel 740 passò in massa al giudaismo dando origine a quella componente “orientale” dell’attuale ebraismo, più nota come “ashkenazita[68]. A sud verso l’India l’espansione si esaurì, per riprendere nel XII secolo con l’annessione del Punjab: meno di mezzo secolo dopo il sultanato si estendeva dal Sind all’attuale Bangladesh, passando per Delhi.

La lancia islamica non risparmiò neanche l’Africa nera verso cui si volse fin quasi da subito, inaugurando, è l’anno 666, un traffico di schiavi negri che avrebbe raggiunto il numero di 20.000 teste all’anno (2 milioni a secolo) che, inquadrate dai predoni nomadi, venivano instradate lungo le piste verso l’Egitto e l’Arabia.

 

 

 

La cosa ha dello sbalorditivo: come poteva un popolo di nomadi analfabeti giungere a tanto? E come poterono gli arabi rendere durevoli le loro conquiste senza essere assorbiti dai paesi di civiltà superiore che essi avevano conquistato, come era accaduto innumerevoli volte nell’antichità? Una convincente risposta è stata fornita dal grande storico belga del Medioevo Henri Pirenne (1862-1935):

Questo popolo – scrive il Pirenne – ha infranto i vecchi idoli per passare bruscamente al monoteismo più puro, e ha dei suoi doveri verso Dio una concezione di una semplicità terribile: obbedire ad Allah e costringere gli infedeli ad obbedirgli. La guerra santa diviene per esso un obbligo morale e ha in se stessa la ricompensa. I guerrieri caduti con le armi in pugno godranno le beatitudini del paradiso. Per gli altri il bottino dei ricchi sensali, che da tutte le parti circondano la povera Arabia, sarà il premio legittimo dell’apostolato militare. Non si può dubitare che il fanatismo o, se si preferisce, l’entusiasmo religioso sia stata la spinta che ha lanciato i Mussulmani nel mondo (evidenz. del riduttore) […] Nomadi e poveri, essi erano pronti ad obbedire all’ordine di Dio. Era sufficiente per loro sellare i cavalli e partire. Essi non sono come i Germani emigranti, che si portano dietro donne, fanciulli, schiavi e bestiame. Sono cavalieri abituati dall’infanzia alle razzie di bestiame ed ai quali Allah comanda di lanciarsi in suo nome a razziare l’universo[69].

Era dunque l’esaltazione della nuova fede da opporre al cristianesimo e alle religioni pagane che rendeva questo popolo inassimilabile, a differenza ad esempio dei popoli barbari che non avendo nulla da opporre alla cultura e alla religione dell’impero ne rimanevano compenetrati. Per i musulmani le loro conquiste prodigiose costituivano la miglior prova della verità contenuta nel Corano: chi avesse perso la vita nel combattimento, secondo il Corano, avrebbe avuto “una mercede grande” (Sura IV, versetto 76), il Paradiso. In realtà, annota un islamista insigne, quella musulmana fu ai suoi esordi “una religione singolarmente adatta alla mentalità di molti popoli per i quali le aspre rinunzie del Cristianesimo divenivano, di fronte alla nuova fede dilagante, esercizio troppo arduo e austero[70].

 

Singolare il metodo adottato per ottenere la conversione dei popoli sottomessi all’Islam, almeno in principio. Non era il vincitore che andava verso il vinto, ma viceversa. L’infedele, infatti, veniva considerato un essere abietto, spregevole, da ignorare e tenere in stato di umiliazione, secondo i dettami coranici (cfr. Sura IX, v. 29), privo di ogni diritto, la cui utilità poteva derivare solo da una condizione di schiavitù o dal versamento di una forte “tassa di protezione” che comportava la confisca della metà di ogni provento dell’infedele. Scrive un autore arabo contemporaneo: “Lingua, cultura, storia, testimonianza di civiltà dei popoli dhimmi furono proscritte, cancellate dalla memoria[71], respinte nel nulla […]Fu la Dhimma (= il patto di protezione che il Corano riconosce a cristiani ed ebrei nella Città Musulmana, N.d.A.) che assicurò gran parte del successo della politica di islamizzazione dei territori fuori dall’Arabia e l’estinzione progressiva dei popoli e delle culture indigene[72].

Uno stato di cose che anche oggi è solo apparentemente diverso: chi ha vissuto in paesi musulmani, infatti, sa benissimo che il cristiano è un cittadino di seconda classe, al quale è precluso ogni incarico pubblico ed è sottoposto a limitazioni sulla carriera e a imposte spesso esorbitanti. La cultura politica musulmana tradizionale, infatti, prevede per i cristiani un regime di tendenziale subalternità[73]. Basti pensare che a tutt’oggi un cristiano che risiedesse in Marocco, considerato lo stato islamico più tollerante e “occidentale” fra i paesi islamici, si vedrebbe negare dalla legge di quel paese, in virtù della sua qualità di cristiano, la cittadinanza marocchina. Solo passando all’islamismo egli diventerà un soggetto e membro dell’ummah, la comunità universale dei credenti, barriera insormontabile per l’infedele. Un’appartenenza che obbliga in coscienza gli altri membri ad accorgersi di lui e trattarlo alla pari. Ma così facendo egli dovrà recidere ogni legame col suo passato, vale a dire con la sua patria e con il suo popolo. Il diritto fondato sul Corano, cioè sulla legge islamica, (fiqh) si sostituirà a quello romano, la sua lingua diverrà l’arabo, in sostituzione del greco o del latino. Ecco il motivo per cui non era – e non è a tutt’oggi – possibile una commistione, o ancor più, un’assimilazione fra Islam e popoli con una fede diversa. Ecco uno dei motori della rapida scristianizzazione dell’Africa settentrionale: o la conversione e l’accesso ad una vita possibile, o il disprezzo e l’emarginazione.

 

Per avere un’idea dello status riservato ai cristiani in schiavitù basti pensare che quando il condottiero saraceno al-Abbâs nell’854 fece una retata di abitanti che si erano rifugiati su un colle roccioso all’interno della Sicilia, dopo cinque mesi di assedio si impadronì di 6.000 uomini validi da adibire alla coltivazione delle terre, fatto che i cronisti arabi del tempo annotarono sotto la voce di “6.000 capi”, come si trattasse di bestiame[74]. Nel corso della jihâd garante dell’equa ripartizione del bottino era l’imâm (capo spirituale) in virtù di alcuni versetti (LIX, 6-8) in cui Maometto veniva incaricato di gestirla a beneficio dell’ummah, la comunità islamica, alla quale spettavano i beni dei non credenti “restituiti” in tal modo ai musulmani. Un quinto del bottino andava all’emiro, il resto all’equipaggio e ai proprietari delle navi. È evidente che il principio della razzia si adattava perfettamente all’espansionismo islamico. Del Valle osserva in proposito giustamente che il guerriero della fede musulmano è individuato con due termini: quello di mudjahid, colui che combatte la jihâd, (da cui il plurale mudjahidûn) e quello di ghazi (o razi) vale a dire di guerriero saccheggiatore, che deriva dall’arabo ghazwa che significa razzia.

 

 

 

L’antica unità del Mediterraneo, che le invasioni barbariche avevano lasciato sussistere è sconvolta: sulle sue rive si instaurano due civiltà, ostili e inconciliabili. Il cristianesimo dell’Africa, che aveva espresso le grandi figure di un Sant’Agostino o un San Cipriano, schiere di teologi e missionari, arretra sotto i colpi del maglio islamico. Dei 286 vescovi cattolici e 279 vescovi donatisti[75] nordafricani che nel 411 si erano riuniti in sinodo a Cartagine sotto la presidenza di Aurelio (il più grande vescovo di Cartagine dopo San Cipriano) per comporre lo scisma donatista, nel 1050 non ne rimanevano che cinque residenti. Il Nordafrica era stato, di fatto, “purificato” dalla presenza cristiana grazie all’apostasia o all’esilio.

Muta anche il volto di quelle terre: ai toni dominanti di verde delle coltivazioni che i coloni romani avevano conteso al deserto spingendosi fino ai confini della Mauritania, progressivamente si sostituisce il panorama giallo della terra incolta e della sabbia. I nuovi padroni non sono agricoltori, essi non pensano che al saccheggio o, tutt’al più, ad attività nomadi come la pastorizia. L’agricoltura di sopravvivenza è lasciata agli schiavi cristiani che sempre più numerosi, razziati sulle coste della “terra lunga”, come i Saraceni chiamavano l’Italia, ma anche su quelle francesi e greche, affluiscono in Barberia.

 

Nel sud della Spagna e a Baghdad, invece, si sviluppa una civiltà più elevata, tuttavia solo modestamente profittevole per l’Europa: i popoli soggiogati, infatti, erano tutti più civili dei loro conquistatori nomadi che attinsero a piene mani alle loro civiltà, soprattutto all’ellenistica e alla persiana, assimilandole con stupefacente rapidità. “Il predominio greco, scrive ancora il Pirenne, si manifesta ancor più nel campo del pensiero. Aristotele è il maestro dei filosofi arabi, che non vi hanno però aggiunto niente di essenziale. Insomma, intellettualmente la civiltà mussulmana non ha esercitato influenze profonde sui popoli europei, e ciò si spiega molto semplicemente, sia per quanto essa mostra di artificiale, sia per il fatto che le fonti alle quali essa si è soprattutto ispirata erano per la maggior parte fonti europee[76].

Fu il contatto vivificante con queste civiltà superiori e la loro prontezza intellettuale che permise agli arabi di fare il passaggio indispensabile dallo stato di predoni a quello di amministratori di un vasto impero fino a diventare gli intermediari commerciali tra Occidente cristiano ed Estremo Oriente, con reciproci grandi vantaggi. Tutte le grandi vie marittime erano controllate infatti dai musulmani: dallo stretto di Gibilterra al mar della Cina attraverso i porti dell’Egitto che comunicano col Mar Rosso, a quelli della Siria cui facevano capo le carovaniere provenienti da Baghdad e dal Golfo Persico.

Potremmo allora riassumere dicendo che la nuova presenza islamica nel Mediterraneo comporta un rapido declino del commercio e della conseguente circolazione monetaria. L’incapacità bizantina di fronteggiare i mori, le scorrerie saracene sempre più audaci che si spingono fino al cuore della Cristianità, l’arroccamento delle popolazioni verso l’interno con l’abbandono delle fertili terre costiere sono all’origine di un diffuso impoverimento delle popolazioni. Il papa si rivolge alle potenze del tempo, essenzialmente ai Franchi e ai Longobardi, gli unici in grado di prendere le difese dell’Italia contro la minaccia saracena. Carlo Magno, approfittando delle profonde modificazioni sociali indotte dalla mancanza di ricchezza nel bacino del Mediterraneo, costituisce un Impero unicamente continentale. Di conseguenza l’asse dello sviluppo europeo si sposta per la prima volta nella storia della civiltà occidentale dal caldo clima mediterraneo alle brume del nord, verso il cuore dell’Europa.

 

Lo sviluppo delle popolazioni litoranee è arrestato, il cabotaggio declina, la paura ad affrontare il mare diventa una costante, le coste vengono gradualmente evacuate, le terre rimangono incolte e cedono il passo agli acquitrini, alla malaria e ai cinghiali. Gli abitanti, arroccati nelle zone impervie lontane dalle coste, escono dalle mura solo al mattino e rientrano all’ora dell’Ave Maria per timore di essere sorpresi dalle bande saracene che infestano le campagne alla continua ricerca di schiavi. Le coltivazioni si riducono a terre magre, spesso lontane dal borgo. La vita stentata e le malattie che imperversano provocano un calo demografico e un generale arretramento delle condizioni di vita: il minore sviluppo del Sud deve molto a questi secoli, che possiamo definire veramente tristi e bui. Basti per tutte la constatazione che la massima parte dei due milioni di schiavi deportati solo negli ultimi tre lunghi secoli della pirateria provenivano dalle coste italiane, per rendersi conto della devastazione inferta al nostro Mezzogiorno.

 

 

 

 

 

 

IL FLAGELLO DEI PIRATI SI ABBATTE SULLE COSTE E SUI LITORALI DEL MEDITERRANEO CRISTIANO: PRESSANTI APPELLI DEL PAPA ALLA CROCIATA. LO STATO PONTIFICIO SI ARMA. LE FLOTTE CRISTIANE ALL’ATTACCO.

 

 

 

 

 

 

I Saraceni conquistano la Sicilia. Roma al sacco.

 

 

 

 

 

 

Cosa accadeva nel frattempo in Mediterraneo? Ben presto tutte le sue coste riecheggiarono di un sol grido di terrore: “i Saraceni!”. Era questo il nome riservato a tribù africane arabe o berbere, nomadi e refrattarie ad ogni ordine esterno, dedite in massima parte al furto e alla rapina[77], il cui atavico istinto di predoni aveva trovato nell’Islam conforto e sostegno. Costoro avevano poco in comune con la civiltà che si stava sviluppando a Baghdad o a Cordova, dove i cristiani, i dhimmi, erano in qualche modo tollerati e lasciati vivere dietro pagamento del tributo riservato ai “popoli del Libro”, ebrei e cristiani, la jiziya.

Lo spirito di rapina e di conquista rivolto verso le terre dei Rûmi (così i Saraceni chiamavano i cristiani) non avrebbe invece più abbandonato i popoli della Barberia, in arabo “al-Maghrib” (= Ponente), – nome col quale era conosciuta la regione dell’Africa settentrionale che dai confini orientali della Cirenaica, attraverso la Tripolitania e il Marocco, si spingeva fino all’Atlantico. Per più di mille anni, affiancati verso il XIII secolo dai Turchi, avrebbe infierito soprattutto contro le popolazioni costiere indifese e gli equipaggi delle navi cristiane in navigazione.

 

Una menzione merita l’allora ricca e fertile Sicilia, attaccata la prima volta nel 652, quindi da un succedersi di spedizioni e scorrerie che fecero bottino e schiavi nel 727, 728, 732, 752, 753.

Né furono risparmiate le coste della Sardegna, della Corsica e della Provenza, passate al sacco anche ad opera dei musulmani di Spagna, al punto che Carlo Magno e papa Leone III decisero di apprestare due flotte a difesa rispettivamente dell’Aquitania e del Tirreno. Ai vescovi venne inoltre affidato il compito di guidare le milizie cittadine ad excubias, alle scolte, a pattugliare cioè le rive del mare loro più vicino per impedire gli sbarchi.

Con alterne vicende i greci bizantini cercarono di respingere o scendere a patti con gli emiri (= principi) di Tunisi riuscendo a conservare integra la Sicilia praticamente fino all’anno 827, quando un armata musulmana di 10.000 uomini e 700 cavalli sbarcò a Mazara e percorrendo la litoranea romana andò a porre l’assedio a Siracusa, col miraggio di un ricco bottino. Un’epidemia vanificò il tentativo e i musulmani dovettero ritirarsi.

Papa Gregorio IV, raggiunto da queste notizie, aveva ordinato la mobilitazione generale, rivolgendosi alle città marinare affinché corressero in aiuto dei siciliani. Una piccola flotta fu apprestata mettendo assieme i legni del papa e quelli di Pisa agli ordini del conte Bonifacio, capitano del Tirreno. Fu deciso di attaccare direttamente le basi di partenza saracene a imitazione di Scipione l’Africano che, portando ad Annibale la guerra in casa, lo costrinse a ritirarsi dall’Italia. La spedizione punitiva ebbe successo, ma i Saraceni non tardarono a vendicarsi: Nell’anno 829, distrutto il porto di Centocelle a nord di Roma, dal quale era salpata la spedizione del conte Bonifacio, misero a ferro e a fuoco la campagna romana con gravissimo pericolo per la stessa Roma. Nell’830 una flotta saracena di 300 navi con ventimila uomini a bordo pose l’assedio a Palermo, che cadde l’anno successivo: pochi i sopravvissuti, solo 3.000, 60.000 i morti.

 

Palermo diventava ben presto un trampolino di scorrerie verso l’interno, in un susseguirsi di devastazioni, saccheggi e conseguente abbandono delle terre da parte delle popolazioni. Chi non muore di inedia colpito dalla carestia, cerca scampo all’interno nelle zone meno accessibili.

In Adriatico la flotta di Venezia subisce un pesante rovescio a Taranto e viene inseguita fino in Istria, dove i musulmani mettono a ferro e a fuoco l’isola di Cherso. Ancona è devastata e data alle fiamme nell’840, cadono nel frattempo Messina e Ragusa, grazie al tradimento dei napoletani. Bari è occupata e devastata nell’842. Nell’840 le schiere musulmane saccheggiano Roma raggiungendo San Pietro sul Colle Vaticano e san Paolo fuori le Mura. Gli altari diventano mangiatoie per i cavalli. Di passata ricordiamo che fu nel 845 che un capo musulmano, El Mutawakil, precorrendo i nazisti di molti secoli, impose agli ebrei di portare un abito giallo e furono ancora gli arabi a inventare il ghetto (mellaha) per gli ebrei del Marocco nel 1434, con un secolo di anticipo su quello di Venezia[78].

E giunse l’infausto 846 che vide giungere ammassarsi alle foci del Tevere ben 73 legni saraceni con trentamila guerrieri fra arabi e mori[79]. Risalito il fiume a bordo di imbarcazioni, e distruggendo tutto quello che loro si presentava, condussero nuovamente i loro cavalli a pascolare in San Pietro, mentre i predoni danzavano davanti al grande altare. Grande fu il bottino di tesori che, donati da re e imperatori, adornavano il principale tempio dei Rûmi. Né diversa fu ancora una volta la sorte toccata a San Paolo fuori le Mura e alle altre chiese raggiunte all’esterno della cerchia urbana. Fu allora lo stesso popolo a reagire, sull’onda dello sdegno per la profanazione delle tombe degli Apostoli, assalendo da ogni direzione i Saraceni, che a malapena riuscirono ad aprirsi un varco verso sud. Ritirandosi in direzione di Benevento devastarono e massacrarono tutto il possibile; Fondi, Terracina, Formia vennero devastate e incendiate e Gaeta fu cinta d’assedio.

 

Il Mediterraneo era un mare molto trafficato e sonoro e le notizie circolavano con grande rapidità: messi al corrente del rovescio subito in Africa e in Sicilia i capi arabi si volsero febbrilmente all’apprestamento di una flotta per impadronirsi definitivamente di Roma. Papa Leone IV intanto non attendeva passivamente, ma provvedeva a far apprestare macchine da guerra, mobilitare e addestrare alle armi gli uomini validi, non disdegnando di porsi alla testa della flotta che era riuscito a congiungere fra Napoli, Amalfi e Gaeta. Profilandosi lo scontro navale Leone IV celebrò la Messa invocando forza “per i campioni cristiani che stanno per difendere una causa giusta e santa”, e movendo contro l’armata islamica la sbaragliò di fronte ad Ostia. Le migliaia di prigionieri mori furono adibite alla costruzione di una nuova cinta muraria a protezione della città, cinta che venne terminata nell’852 e prese il nome di “Città Leonina” in onore del coraggioso Pastore.

La tranquillità non era proprio più di casa sui litorali italiani: nell’869 veniva infatti assalito San Michele al Gargano e i chierici e i fedeli sopravvissuti si ritrovarono schiavi ai remi delle fuste saracene, nell’870 i musulmani sbarcarono a Ravenna saccheggiando S. Maria in Classe, nell’871 fu la volta di Grado, mentre l’incendio di Comacchio tingeva a distanza il cielo di sinistri bagliori. Nell’878 il baluardo greco di Siracusa crollava in un bagno di sangue di 4.000 greci. Nell’885 i Saraceni assalgono Montecassino, uccidono i monaci, scannano l’abate presso l’altare e bruciano il monastero, le cui rovine rimasero tali per vent’anni a testimonianza del loro passaggio.

 

Il calvario della Sicilia e delle città costiere continuava. Nell’882 i bizantini vennero nuovamente sconfitti da un capo saraceno che inviò all’emiro di Palermo il simpatico omaggio di 3000 teste su altrettanti bastoni. Reggio venne assalita a più riprese: nel 901 i Saraceni vi fecero 17.000 schiavi, nel 950 venne nuovamente assalita e saccheggiata, nel 952 vi si costruì in centro una moschea con minareto, nel 977 fu depredata per la terza volta e nell’XI secolo subì l’oltraggio del saccheggio delle sue chiese e della deportazione delle monache negli harem di Siracusa.

 

Le descrizioni rese dai cronisti del tempo del passaggio dei predoni saraceni sono assimilabili a quelle di un catastrofe naturale: alberi tagliati, messi incendiate, case e villaggi dati alle fiamme dopo essere stati svuotati dagli abitanti validi. Nessuno poteva sentirsi sicuro. I principi cristiani, in perenne lotta fra loro, non riuscivano a trovare la via di un’azione comune per far fronte ad un nemico particolarmente efferato e ubiquitario. Solo il papa, per la superiore autorità e il rispetto sacrale della sua figura riusciva ad imporsi super partes. Egli sollecitava con insistenza l’imperatore, inviava missive, scongiurava, e quando non giungeva risposta, non esitava a intervenire di persona alla testa della sua flotta, come fece Giovanni VIII nell’877 a Terracina, infondendo nei combattenti il coraggio e la determinazione per combattere e debellare i mori.

 

Grandi figure morali, alieni dai moderni bolsi buonismi, questi papi erano dominati dalla loro missione di tutela del gregge, anche col ricorso alle armi quando la minaccia era portata alla vita stessa della comunità: erano ben consci, infatti, che suppliche, patti, doni, non avrebbero mai sortito effetto alcuno su predoni adusi a razziare e a uccidere. La scelta di Giovanni X, che nel 916 cavalcava su un destriero bianco alla testa di un armata italiana di varia composizione e provenienza, deciso a distruggere il covo saraceno del Garigliano che si era conquistata la fama di invincibilità – impresa che lo spirito moderno censurerebbe senza remissione incurante dello scherno e del disprezzo, oggi come allora, dell’impermeabile mondo musulmano – in quel momento era invece l’unica forma praticabile di carità. Stretti attorno a quella bianca figura, che li coagulava al di là delle eterne dispute e delle differenze che li separavano, in nome della sopravvivenza stessa della propria fede e della gente che rappresentavano, i combattenti stravinsero.

 

Fu l’esito di una vera e propria crociata, che ebbe come conseguenza la liberazione per un lungo periodo del centro-sud dell’Italia dalla piaga del ladroneccio e del rapimento dei cristiani da parte dei Saraceni.

Lo spirito modernista dominante nella Chiesa e che si esprime nell’oblio, quando non nel pubblico rinnegamento del passato cristiano, non cessa di proclamare ignominiosa la presenza militare della Roma papale nella sfera del temporale, sorvolando con disinvoltura su contesti storici e realtà calamitose che impedivano alla società cristiana non solo quella libertà di coscienza oggi così altamente osannata ed invocata per ogni falsa religione (incluso il satanismo, perfettamente legale negli Stati Uniti), ma anche la sua stessa sopravvivenza. L’irruzione della Chiesa nel temporale, in questi casi, discendeva invece unicamente dal suo ruolo di massima autorità del Cristianesimo, status che agli occhi del mondo islamico equivaleva ad un’equiparazione a capitale dell’Occidente, con tutte le immaginabili conseguenze. Un ruolo, peraltro, al quale i pontefici di allora e quelli che seguirono fino al Vaticano II, mai si sottrassero, come fu pienamente confermato nella giornata di Lepanto, costantemente celebrata per secoli con la massima solennità dalla Chiesa.

 

 

 

I cristiani non possono far galleggiare sul mare neanche una tavola”, scriveva il grande storico arabo di Tunisi Ibn-Khaldun[80] commentando quel periodo. La navigazione commerciale, gli scambi con l’Oriente erano, di fatto, interrotti; il Mediterraneo andava lentamente suddividendosi in due bacini, uno dal Golfo del Leone alla Sicilia con porti e città progressivamente abbandonati, l’altro, quello orientale bizantino, dove il commercio marittimo ancora prosperava, con un canale di collegamento con Venezia che si estendeva lungo la Grecia e l’Adriatico[81].

A tutto questo si aggiungeva un processo di vero e proprio trasferimento coattivo di massa delle popolazioni litoranee verso la Barberia, i cui “bagni” rigurgitavano di schiavi, e l’infamia delle giovanette costrette a prostituirsi negli harem dei notabili musulmani aveva spinto la misura al colmo. Fu ancora una volta il papa a chiamare alla crociata: nel 1087 Vittore III riuscì a smuovere una moltitudine di combattenti e unire alla squadra delle navi pontificie le ben più motivate Repubbliche marinare, che si vedevano soffocare nella loro vitale attività commerciale dalla chiusura del mare ad opera dei pirati saraceni.

 

Una flotta di 300 navi di Genova, Pisa, Amalfi, unite in lega alle squadre pontificie e calabresi con 30.000 combattenti a bordo si abbatté come una valanga sulla costa africana, espugnando la città di Al-Mahdia e spezzando le catene a migliaia di schiavi. Animati da una terribile sete di vendetta, i legati saccheggiarono e fecero bottino di tutto quello che capitava loro sotto le mani, indi, riscosso un forte tributo dall’emiro Tamîm, si reimbarcarono e, conducendo con sé le molte migliaia di schiavi liberati fecero vela verso i porti di origine, dove vennero accolti con grandi feste, processioni di ringraziamento e suon di campane.

Ma la minaccia viene stornata solo per un breve periodo: con la conquista di Noto del 1091, infatti, i Saraceni si impadroniscono di tutta la Sicilia. Altre volte è magari una sola Repubblica marinara che parte in crociera contro i mori, come fu il caso di Pisa che nel 1113 bandisce in tutta la penisola una “Crociata d’Occidente” di 300 navi e 40.000 combattenti che l’anno successivo, con i principi francesi e spagnoli alleati dell’ultima ora, espugnarono e rasero al suolo la roccaforte musulmana di Maiorca nelle Baleari, insidiosa base di partenza delle scorrerie dei ladroni in Tirreno.

 

La situazione in Sicilia migliora con l’arrivo dei Normanni che la sottraggono completamente al dominio arabo. Morto Ruggero, il re normanno che pur nutriva simpatia per gli arabi e per l’Islam, i Saraceni, insediati in Sicilia ormai da più di due secoli si sottomettono a fatica, suscitando sommosse spesso sanguinose, al punto che Federico II ordinerà la loro deportazione in massa a Lucera, in Puglia, città che si trovò popolata da una maggioranza di musulmani. Il ghibellino Federico II fece costruire per loro addirittura una moschea nel cuore di Lucera, con tanto di minareto e non trovò di meglio che far convergere il loro innato spirito guerriero al suo servizio, impiegandoli come truppe d’assalto contro i Comuni guelfi. Fedelissimi all’imperatore, i musulmani si lanciarono nelle loro temute scorrerie con puntate fino alle porte di Assisi. Morto Federico II essi passarono a servizio di Manfredi, cadendo a migliaia nella battaglia di Benevento del 1266 contro gli Angioini.

Situazione permanentemente critica e minacciosa era quella del mare e delle riviere: i pirati barbareschi, fatti sempre più audaci grazie all’incapacità di organizzare ubiquitariamente la difesa del naviglio e delle coste e giocando sul timor panico delle popolazioni, vivevano ormai praticamente dei proventi delle loro rapine e del riscatto degli schiavi. Contro di essi si cimentarono anche re come Luigi IX di Francia il Santo, che, sensibile ai continui appelli di soccorso che giungevano fitti da ogni direzione, sbarcava a Tunisi alla testa di un esercito. Sfortunatamente invece dei Saraceni trovò ad attenderlo la peste che lo portò alla tomba. Attaccata dai musulmani l’armata, agli ordini del fratello del re, Carlo, coi siciliani alla testa, riesce in una battaglia sanguinosa a sconfiggere l’emiro obbligandolo a liberare le migliaia di schiavi imprigionati nei “bagni”.

 

Sul diritto di guerra applicato ai prigionieri resi schiavi ci ragguaglia il Panetta, nel suo pregevole studio sulla pirateria islamica nel Mediterraneo:

“Durante le “guerre sante” i “raîs”, ovvero i capi delle spedizioni, avevano, secondo il diritto islamico, ampia facoltà di fare dei prigionieri ciò che avessero voluto: ucciderli o rimetterli in libertà, scambiarli con prigionieri musulmani o ridurli in schiavitù, dichiarandoli raqîq (= schiavi). Il loro valore costituiva parte del bottino. All’erario (in pratica all’emiro o al governatore) spettava il quinto delle prede. Con le donne e i fanciulli non si poteva fare altro che ridurli a schiavitù perpetua, salvo eventuale riscatto”[82]. Di qui evidentemente l’interesse diretto dei reggitori musulmani, anche se ormai lontani dallo spirito di razzia che infervorava i pirati, come potevano essere i raffinati califfi di Baghdad o Cordova, a favorire in ogni modo la pirateria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA INVASIONE ISLAMICA: COSTANTINOPOLI E OTRANTO. IL SECOLO XVI E IL GRANDE CICLO DELLA PIRATERIA TURCO-BARBARESCA. PIRATI TURCHI ASSALGONO LE NAVI PORTOGHESI NELL’OCEANO INDIANO. MALTA, CIPRO, LEPANTO, TAPPE DI GLORIA E DI SANGUE IN DIFESA DELLA CIVILTÀ CRISTIANA.

 

 

 

 

 

 

Questo capitolo deve molto al libro del colonnello Rinaldo Panetta “Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum[83], un’opera corredata da ricca documentazione, scritta col rigore e il necessario distacco dello storico, ma non per questo meno ricca di passione e avvincente per il lettore.

Narra dunque il Panetta che il grande ciclo della pirateria turco-barbaresca prese il suo avvio nella seconda metà del XV secolo, un secolo che si sarebbe tosto annunciato drammatico per la Cristianità. È con la caduta di Costantinopoli ad opera di Maometto II nel 1453 che lo stesso, secolare termine di Saraceni cade in disuso lungo le tormentate coste della “lunga terra” italiana, sostituito da quello di Turchi e Barbareschi. La loro pressione diventa ognor più schiacciante nel quadro di una strategia che punta direttamente, dopo la caduta della Roma d’Oriente, alla conquista di quella – ben più pagante in quanto avrebbe sancito il trionfo del credo musulmano – di Occidente. In un quadro di predominio quasi assoluto sul mare, Maometto II tenterà di inserire il suo progetto di una manovra a tenaglia per calare sulla capitale del cristianesimo dal nord, attraverso l’Ungheria, e dal sud provenendo dal mare.

 

 

 

La conquista di Costantinopoli e il tentativo di Otranto

 

 

 

 

 

 

Nel 1452 Costantinopoli era una città circondata da due ordini concentrici di poderose cortine turrite alte tredici metri, di quattro metri di spessore la prima e due la seconda, precedute e inframmezzate di profondi e ampi fossati. Nello stesso anno Maometto II giunse nel Bosforo dall’Asia Minore alla testa di una flotta di una trentina di navi e di 50.000 armati ponendo un blocco navale e terrestre e dando l’avvio ai preparativi per l’assedio. Il Sultano sapeva benissimo che Bisanzio sarebbe stato un osso durissimo e aveva preso le sue precauzioni. La speranza di espugnare la città riposava infatti soprattutto sulle artiglierie, senza le quali non sarebbe stato possibile avere ragione delle inattaccabili mura. Fu un ungherese rinnegato, tale Urban, a mettere a disposizione del Turco, dietro lautissimo ingaggio, le sue notorie abilità di costruttore di bombarde. Alla fine di quell’anno la fusione della prima bombarda era terminata. Essa, lunga fra i sei e i sette metri e con un peso di qualche decina di tonnellate, aveva un calibro terrificante (fra gli 800 e i 1.200 millimetri) ed era in grado di lanciare sfere di granito del peso di cinquecento chilogrammi.

A fronte di circa 10.000 soldati bizantini schierati a difesa delle mura, Maometto II spiegò in ordine di battaglia su un’area relativamente piccola, un esercito mai visto di 150.000 soldati e 8.000 giannizzeri, fortemente armato e motivato, col supporto di 3 gigantesche bombarde, una cinquantina di pezzi di artiglieria fra grandi e medi e circa 500 pezzi di piccolo calibro. Il 12 aprile 1453 tutte le bocche da fuoco iniziarono la loro opera di devastazione, mentre sul mare appariva l’intera flotta turca forte di 300 legni a bloccare la città da ogni lato. Insistenti e ripetute le ondate di assalto si alternarono ai cannoneggiamenti, regolarmente respinte con gravissime perdite dai greci. A un certo punto scoppiò anche una delle gigantesche bombarde uccidendo, fra gli altri, anche il rinnegato che l’aveva fusa ai danni dei suoi antichi correligionari. Il 28 maggio, dopo 55 giorni di assedio, i giannizzeri riuscirono finalmente a penetrare le difese in un punto sul quale Maometto II fece tosto convergere il fuoco di efficacia di tutta la sua artiglieria, lanciandovi all’assalto 30.000 uomini che, fatta collassare la difesa organizzata, dilagarono nella città.

 

La massima efferatezza venne praticata sulla popolazione civile secondo il collaudato schema musulmano di crearsi una fama di temibile ferocia per incutere timore alle località limitrofe[84]. Tutti i personaggi di corte furono giustiziati e a migliaia i cristiani furono sgozzati. Più di 50.000 greci sopravvissuti furono venduti come schiavi a titolo di risarcimento bellico. A tre soli giorni dalla caduta della città la preghiera musulmana del venerdì venne recitata nella cattedrale di Santa Sofia, trasformata immediatamente in moschea dopo essere stata ripulita dal sangue di 4.000 nobildonne ivi poste al riparo. Le due massime potenze navali dell’epoca, Genova e Venezia, sorde agli appelli angosciati del papa e timorose piuttosto per i loro interessi in Oriente, cercarono invece di accaparrarsi la benevolenza del vincitore, ma “i due legati (genovesi, ma anche i veneziani non ebbero sorte migliore, N.d.A.) se ne tornarono indietro senza aver potuto ottenere nulla e a stento poterono ridursi in salvo[85].

 

Il Cardinale Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, in un’accorata lettera del 23 settembre 1453 rendeva scoperte le intenzioni del Sultano di assalire l’Italia scegliendo “come punto di transito il tratto da Durazzo a Brindisi”, previsione che si sarebbe presto rivelata esattissima.

 

 

 

La testa di ponte musulmana in vista di una massiccia invasione in direzione di Napoli e quindi di Roma era stata individuata in un porto di discreta grandezza, prossimo ad una spiaggia con grande facilità di sbarco, situato nel limite inferiore dell’Adriatico, a poca distanza dalla base turca di Valona, Otranto appunto. In realtà Otranto non fu nulla di tutto questo, riducendosi solo a una grossa razzia episodica, non sfruttabile per ulteriori sviluppi strategici, principalmente a causa dell’intempestiva mancanza di risorse turca e dell’imperfetto controllo di quella parte del mare, tenacemente difeso dai Veneziani.

Una flotta turca di 150 navi recanti a bordo 10.000 armati, cavalli, artiglierie e munizioni, con un equipaggio altrettanto numeroso si presentò dunque davanti alla costa il 28 luglio 1480 proveniente dalle coste albanesi, sbarcando in un luogo deserto a parecchi chilometri dal borgo di Otranto. Furono compiute fulminee scorrerie nell’entroterra che fruttarono 2.000 schiavi e venne quindi posto l’assedio alle mura di Otranto, battendone all’interno le abitazioni con le bombarde. La gente, intimorita dal cannoneggiamento, corse a rifugiarsi sotto la robusta volta della cripta del Cattedrale. Il 12 agosto la città capitolava ed ebbe inizio l’usuale strage, l’arcivescovo fu squartato, tutti i sacerdoti sorpresi nella chiesa trucidati.

 

Il Muratori parla di 10.000 morti complessivi, anche se altre fonti ritengono questa cifra eccessiva e tendono a ridurla. Certissimi sono invece gli 800 martiri giustiziati sul vicino Colle della Minerva per non avere abiurato la fede cattolica posti di fronte alla scelta fra Islam o la morte. Per Ahmed Pascià, il comandante del contingente turco, quell’abiura sarebbe stata importante, un’ottima carta da presentare al Sultano potendosi in tal modo presentare la costituzione di un’enclave musulmana in terra pugliese che avrebbe non poco favorito le successive operazioni di conquista.

 

 Del resto l’uccisione di uomini e donne validi in caso di rifiuto alla conversione cozzava con la prassi corsara che vedeva della schiavitù una fonte di sicura remunerazione; inoltre essa avrebbe reso assai impopolare lo stesso Ahmed Pascià presso i suoi predoni. Ma la determinazione degli idruntini e l’appello radicale esatto da quella religione invocata a giustificazione dei loro misfatti, obbligarono il Pascià a mantenere la sua promessa. Un prete rinnegato fu l’interprete turco che pose il tragico e ingiurioso dilemma, e un calzolaio, Antonio Primaldo, anima della resistenza al turco, si fece portavoce dello sdegnoso rifiuto comune ad abbandonare la fede dei padri, dichiarando di preferire la morte a simile ignominia. Furono tutti giustiziati, mentre si confortavano e si esortavano a vicenda concludendo la loro umile esistenza chi decapitato, chi confitto negli occhi con frecce e verrettoni.

Emblematica la sorte del carnefice turco Berlabei che, alla visione del miracolo di Antonio Primaldo, rimasto in piedi senza testa fino al termine della strage, proclamò di volersi fare cristiano e per questo fu immediatamente impalato. Atrocità tipica della barbarie corsara musulmana che non esitava a destinare al supplizio i prigionieri più deboli, maschi o femmine, al momento stesso della loro cattura: fu il caso di Otranto, ma anche di Vieste nel 1557, dove vecchi e inabili vennero decapitati in massa, di Sorrento nel 1558 quando i Turchi la desertificarono assieme a Massa Lubrense, uccidendo tutte le persone di età avanzata[86], mentre 4.000 fra giovani, donne e monache prendevano la via della schiavitù. E ancora Manfredonia, dove venne operata una strage “selettiva” dei superflui, i vecchi e gli infermi, mentre – narrano le cronache manoscritte dell’epoca – venivano sterminati “sbattendo la testa al muro i più piccioli bambini ed appiccando dopo morte negli architravi e pennate delle Botteghe le donne vecchie[87].

 

 

 

 

 

 

La pirateria musulmana nel secolo XVI. La reazione cristiana. Rovesci dolorosi e strepitose vittorie: le Gerbe, Malta, Cipro, Lepanto.

 

 

 

 

 

 

 Rilevano i cronisti dell’epoca che fra il 1470 e il 1500 il Mediterraneo era così infestato di navi pirate che ben difficilmente una nave uscita dal porto giungeva a destinazione, riuscendo a sfuggire all’inseguimento, e quindi all’abbordaggio dei predoni che stavano in agguato.

La presenza dei Turchi al fianco dei Barbareschi comportò un infittirsi degli attacchi alle coste e ai legni cristiani in navigazione, dai quali non furono immuni nemmeno l’Atlantico e l’Oceano Indiano. Iniziarono ad essere sistematicamente rapinate, infatti, le coste della Normandia[88], della penisola iberica, del Portogallo, con intercettazione delle navi spagnole e portoghesi che provenivano dal Nuovo Mondo cariche di ogni ricchezza. Né miglior sorte era riservata alle navi portoghesi lungo le rotte oceaniche verso l’India.

 

Nel 1534 i raîs turchi (i comandanti delle navi pirate), fino a quel momento in azione, al pari dei Barbareschi, “in proprio”, pur sotto la protezione della “Sublime Porta”, alla quale, peraltro, non facevano mancare il costante omaggio di schiavi e ricchezze predate, diventano corsari per conto del Sultano con l’ordine di seminare panico e terrore nel Mediterraneo contro “quei cani di infedeli”. Ammiraglio della flotta turca fu nominato Kair-ed-Din soprannominato il “Barbarossa”, figura temuta e terribile per la sua leggendaria ferocia, predone senza concorrenti nel XVI secolo. Alla testa di 80 galere da guerra egli dunque sbarca mettendo a ferro e fuoco le coste di Sicilia, Calabria, Campania, razziando donne, bambini e schiavi, spingendosi fino ad Ostia da dove minaccia Roma. In nessun luogo i cristiani dovevano essere lasciati in pace e le coste spagnole non facevano eccezione, flagellate e sconvolte di continuo. Solo quelle francesi erano relativamente tranquille, grazie alla posizione della Francia, praticamente alleata dei Turchi, in funzione antispagnola, un’ “empia alleanza” che faceva gridare allo scandalo la Cristianità.

 

Ciononostante le coste provenzali erano sì risparmiate, ma le navi francesi sorprese al largo venivano regolarmente abbordate e saccheggiate. Una gelosia, quella di Francesco I nei riguardi degli Asburgo, che avrebbe procurato infiniti lutti alle popolazioni rivierasche dell’Italia e della Spagna, nuocendo, in definitiva, gravemente alla causa della Cristianità e dell’Europa. Francesco I, infatti, sapendo di non disporre di forze sufficienti a contrastare la potenza spagnola si era rivolto a Solimano per aiuti proponendogli una vera e propria alleanza militare. Si trattava, per il Sultano, di riprendere il disegno di Maometto II. Mentre l’esercito francese avrebbe inchiodato le truppe imperiali nel nord della penisola, i turchi avrebbero invaso i domini spagnoli del sud. Era sottinteso che poi il Sultano avrebbe marciato su Roma. Di qui l’entusiasmo col quale il Turco accettò, forte delle sue vittorie che l’avevano visto battere gli ungheresi nella battaglia di Mohács nel 1526, e tre anni dopo cingere d’assedio Vienna.

 

Questi accordi mostrano a quale livello erano cadute le nazioni cristiane. La Guerra dei Cent’anni, il Grande Scisma, le eresie di Lutero e Calvino, le guerre intestine in Inghilterra, in Italia, le guerre di religione avevano fatto perdere agli uomini e ai loro capi il senso del servizio a Dio come primo dovere (“Dieu premier servi”).

Narrano dunque le antiche cronache che il Mediterraneo nel 1539 potesse ormai considerarsi dominio assoluto degli agguerriti legni pirati: le bandiere verdi e rosse con la mezzaluna (rispettivamente la corsara e la turca) sventolavano ovunque. La misura era tuttavia giunta al colmo: nonostante la presenza ininterrotta lungo i litorali di rocche e torri di guardia, fra di loro collegate, con le milizie a pattugliare i tratti sensibili di costa e le flotte che vigilavano senza interruzione al largo, le incursioni si susseguivano con precisione e con gran danno per le popolazioni. I pirati disponevano da sempre di un servizio di informazioni di prim’ordine: erano infatti puntuali in occasione di feste paesane in località costiere con grande concorso di persone o in occasione dell’ammassamento dei raccolti o della trebbiatura del grano. Erano spesso i transfughi della fede cattolica, inseriti nella corsa barbaresca attratti dalle occasioni di rapidissimo arricchimento, che conoscevano perfettamente i dettagli della costa di provenienza, gli usi e le risorse del retroterra. Vi furono anche due tentativi di impadronirsi del Papa, del cui passaggio erano stati messi al corrente da spie al soldo del turco.

 

 

 

Nel 1535 papa Paolo III e l’imperatore Carlo V, posti di fronte ad una situazione ormai insostenibile, e pressati dagli appelli che provenivano da ogni direzione, indissero una vera e propria crociata per la liberazione del mare e delle coste dai pirati, ma soprattutto per quella degli schiavi cristiani deportati nei “bagni” del Nordafrica, dai quali giungevano notizie terrificanti. Le 12 galere pontificie che pattugliavano il Tirreno dall’Argentario al Circeo andarono ad aggiungersi alle 79 galere e caravelle della flotta spagnola, portoghese, maltese, siciliana, napoletana e genovese che, assieme a 200 navi onerarie, adibite al trasporto delle artiglierie e relative munizioni, delle fanterie e del loro vettovagliamento, furono poste al comando dell’ammiraglio genovese Andrea Doria. Se la flotta era comandata dal Doria, Carlo V in persona guidava la spedizione che mosse direttamente alla conquista della grande base barbaresca di Tunisi, dalla quale partivano le temutissime scorrerie dei pirati dagli impronunziabili nomi di Barbarossa, Dragût, Cacciadiavoli o Assan Agà.

 

Quest’ultimo, nipote di Dragût, era un veneziano apostata, raîs particolarmente crudele con i cristiani[89], che fra i suoi tremila schiavi avrebbe annoverato anche Miguel de Cervantes, catturato nella battaglia di Lepanto e tenuto nei “bagni” in attesa di riscatto per tre lunghi anni. Andrea Doria aveva allora settant’anni e nonostante l’età era un condottiero e uno stratega vigoroso, severo e amato dalle sue truppe[90]. Tutti ricordavano come nel 1532 non avesse esitato a far impiccare alcuni suoi soldati che, durante una campagna in Egeo, avevano derubato e violentato alcune donne turche. Carlo V, che aveva percorso a cavallo i campi di battaglia di tutta Europa sempre alla testa delle sue truppe, aveva concertato l’azione in modo da distruggere in un sol colpo la flotta del Barbarossa e impadronirsi di Tunisi. Conquistata l’isola fortificata di La Goletta dirimpetto a Tunisi, 30.000 combattenti italiani, tedeschi, spagnoli e portoghesi posero l’assedio alla città bombardandola da terra e dal mare. Il racconto fatto dal Panetta è dei più avvincenti e ad esso rimandiamo il lettore non potendo qui appesantire troppo la narrazione[91].

 

Ci limitiamo ad annotare che i 10.000 schiavi cristiani, avuto sentore di quel che stava accadendo, guidati da un cavaliere di Malta piemontese, Paolo Simeoni, rotte le catene, uccisi i custodi e impadronitisi delle loro armi, dilagarono per la città salendo sulle mura da dove agitavano bandiere bianche all’indirizzo degli assalitori. Il 21 luglio 1535 Carlo V entrava in Tunisi. Barbarossa, Assan Agà, il Giudeo, il Cacciadiavoli e altri pirati si erano nel frattempo volatilizzati col loro seguito verso il deserto, mentre si scatenava incontrollata la vendetta degli ex schiavi e delle truppe sui loro aguzzini e sulla popolazione musulmana. Trentamila abitanti perirono e diecimila furono a loro volta tratti prigionieri. Un massacro e un saccheggio che, se pure parzialmente giustificato dal livore che quella gente recava nell’animo per le malefatte secolari dei pirati, “non tornò a onore del nome cristiano[92]. Tunisi verrà poi definitivamente riconquistata nel 1574 dai corsari algerini guidati dal celebre rinnegato calabrese Ulugh Alì, più noto come Luccialì.

 

Come accade in questi casi furono offerti ottimi motivi a Barbareschi e Turchi per la vendetta. Ed essa non si fece attendere al punto che nel 1541 Carlo V dovrà organizzare un’altra imponente spedizione, questa volta verso Algeri, dove giunge con 71 galere e 300 navi da carico il 20 ottobre, nonostante nel frattempo il Gran Sultano, con un poderoso esercito, stesse dilagando in Ungheria e avesse posto l’assedio a Buda. Sulle navi c’era anche il conquistatore del Messico Ferdinando Cortez accompagnato dai due figli. Ma questa volta la fortuna non arrise alle armi cristiane: lo sbarco avvenne sotto la pioggia battente e la marcia di avvicinamento poté procedere solo con grande fatica a causa degli attacchi dei Beduini e del fango. A ciò si aggiunga che le polveri, le corde e le micce si bagnarono, rendendo di fatto inservibili i cannoni. Carlo V ordinò il reimbarco, mentre i musulmani si scatenavano e il mare sembrava impazzito sotto la sferza dell’uragano. Andarono perdute 150 navi e migliaia furono le vittime che perirono tra i flutti.

 

Le conseguenze per l’Europa furono terribili e il plurisecolare flagello della pirateria subì una vistosa impennata. Le flotte turco-barbaresche, approfittando del grave rovescio delle armi cristiane, nella certezza che nessuno avrebbe potuto arrestarle, si scatenano con temerarietà e aggressività sempre maggiori piombando, al comando di Barbarossa nel 1542 su Reggio e mettendola a ferro e a fuoco[93]. Il pirata sale poi fino a Marsiglia, dove è accolto con tutti gli onori dai francesi, nonostante i suoi legni fossero pieni di schiavi cristiani al remo, per congiungersi con la flotta francese. Le due flotte si rivolsero a bombardare Nizza, dominio di un alleato di Carlo V, cingendola d’assedio. La città ben presto capitolò. Rimaneva una fortezza, quella dei Cavalieri di Malta[94] che fra i suoi difensori aveva quel Paolo Simeoni che si era posto alla testa della rivolta degli schiavi di Tunisi. Barbarossa lo sapeva perfettamente e rivolse tutta la sua forza ad espugnarla. Ma invano.

 

Quando giunse però la notizia che Andrea Doria stava per mettersi in mare con le sue galere in soccorso gli alleati, levato l’assedio fuggirono precipitosamente. Furente il Barbarossa ridiscese con una flotta di 150 navi dalle riviere della Liguria, dove devastò San Remo, giù giù lungo il Tirreno fino allo Stretto di Messina facendo il contropelo alle coste e catturando dai 15 ai 20.000 schiavi, 6.000 fra Talamone e l’Isola del Giglio, 8.000 solo fra Lipari e Procida. Duecento monache vennero inviate al Sultano come regalo di donne vergini per l’harem dell’imperatore. Pianosa è distrutta e i 1.000 cristiani che la popolavano tratti schiavi. Devastazioni, schiavitù e una maggiore ferocia coi cristiani catturati – quelli catturati da Dragût venivano obbligati a suon di botte a farsi musulmani[95] – contribuiscono così ad alimentare un terrore dei pirati, che si sarebbe trasmesso per generazioni, contribuendo per almeno due secoli a creare attorno ai Turchi un alone di ferocia e invincibilità.

 

Nel 1546 “l’archimandrita dei ladroni”[96], il Barbarossa, muore di malattia a 80 anni. I Turchi lo seppelliscono con grandi onori e la sua tomba diventa subito meta di venerazione per i musulmani.

In quell’epoca lo Stato della Chiesa, pressato dall’incubo musulmano, fu costretto a cimentarsi a fondo con la guerra difensiva delle sue coste e ad acquisire una sua particolare dimensione militare. Il risultato fu di suscitare “le fortificazioni più evolute, fornendo alle generazioni successive dei tecnici del settore gli archetipi da imitare, con i debiti aggiornamenti, fino a quasi la metà del XIX secolo[97]. Le coste tirreniche e adriatiche dello Stato Pontificio ebbero così i primi forti bastionati del mondo, mentre le forze armate papaline conquistavano la supremazia numerica in Italia. In realtà il papa lavorava di concerto con Carlo V il quale, a fronte della chiusura commerciale del mare alle navi europee strette nella morsa corsara, nel 1563 decise la costruzione di un’ininterrotta catena di torri armate costiere lungo i 2.000 chilometri dell’intero perimetro marittimo del reame.

 

Un’iniziativa che solo nel Regno di Napoli avrebbe fruttato una serie di oltre 300 torri di avvistamento, ciascuna sotto la protezione dei cannoni dell’altra. In questo modo un minimo di traffico mercantile poteva finalmente riprendere, mantenendo la navigazione nell’ambito della copertura balistica incrociata delle torri. La presenza di un migliaio di torri, che non ebbe più equivalente sul pianeta – i cui interstizi erano saldati con reparti di cavalleria stanziata alle spalle dei punti nodali – iniziò la sua tranquillizzante opera permettendo persino il ritorno alla coltivazione delle fertili terre della fascia costiera, dopo secoli di abbandono per la minaccia pirata. Il rischio a quel punto veniva spostato verso i piccoli centri o, peggio ancora, le piccole isole. I frutti, già a partire dal ’600, si estrinsecarono in una contrazione irreversibile del numero di persone tratte in schiavitù, fenomeno particolarmente avvertito in centri di smistamento come la libica Tripoli, dove i mercanti di schiavi non tardarono a rivolgersi alla più remunerativa tratta dei negri catturati in Africa, che essi provvedevano ad avviare verso i bazar turchi.

 

Nel 1560, all’apogeo della potenza ottomana, una sfortunata spedizione navale cristiana composta da 47 galere, 4 galeotte e 3 galeoni, mirante a riprendere Tripoli, venne sorpresa e fatta a pezzi dalla flotta turca fatta affluire dal predone Luccialì alle Gerbe (si tratta dell’isola di Djerba, nel golfo tunisino di Gabes, l’isola dei Lotofagi di omerica memoria), un ottimo scalo strategico dove gli spagnoli avevano costruito un munito forte tenuto da una guarnigione. I morti, i feriti e i dispersi di parte cristiana furono 18.000 con 28 galere e 12 navi catturate o affondate. I Turchi, per celebrare la vittoria, eressero in zona dominante una piramide alta più di venti metri, che si poteva scorgere a distanza, accatastando teschi e ossa dei cristiani uccisi. Simile abominevole monumento venne rimosso solo nel 1846 per interessamento del console francese e di un porporato che provvide a dare degna sepoltura ai miseri resti calcinati dal sole. Qualcosa del genere accadde alle Gerbe anche nel 1605, quando il 15 agosto i pirati si impadronirono di 7 galere siciliane e 3 di Malta massacrando 1400 soldati. Seicento delle loro teste furono portate in trionfo a Tunisi, e con esse venne costruito un trofeo[98].

 

 

 

La Francia intanto continuava a lavorare contro i cristiani a favore del Turco. Nel 1563 venne riproposta al Sultano un’alleanza per spezzare il cerchio col quale Carlo V aveva chiusa la Francia, proponendo la conquista congiunta della Corsica e del Regno di Napoli.

 

Un invito a nozze per il Sultano, che non chiedeva di meglio di rinfocolare la jihâd in Italia e far sventolare finalmente le bandiere dell’Islam su Roma. Fu così che una flotta turca di 112 galere, 2 grosse navi da guerra e 12.000 fanti da sbarco appoggiati da 600 cavalieri e 5000 genieri per le opere di fortificazione, uscì dal Bosforo preceduta e scortata dalle fuste pirate. Le principali azioni furono l’assalto all’indifesa Gozo, la più settentrionale delle isole dell’arcipelago maltese, con un bottino di 6.000 cristiani, che presero la via dei bagni e l’attacco alla fortezza di Tripoli dell’odiato Ordine di Malta che venne ridotta alla resa, grazie anche agli intrighi dell’ambasciatore francese presso i Turchi per dividere i Cavalieri. L’estremo avamposto della Cristianità sulle rotte del Levante rimaneva Malta, una vera e propria spina nel fianco del Sultano, difesa da monaci guerrieri le cui galere solcavano senza posa il Mediterraneo effettuando audaci colpi di mano che fruttavano legni, artiglierie, merci e liberazione di schiavi. Dopo l’episodio di Tripoli, per la cui caduta, senza l’espresso ordine di resa del Gran Maestro dell’Ordine, il comandante della piazzaforte fu messo in prigione, a Malta si affrettarono i lavori per renderla inespugnabile, sotto la direzione di un architetto pugliese: in meno di sei mesi sorsero i poderosi forti di Sant’Elmo e di San Michele, che avrebbero rappresentato in un futuro poco lontano un baluardo sanguinoso per i Turchi.

 

Le riviere erano sempre senza pace e l’attività turco-barbaresca stava attingendo livelli terrifici: i pirati di Dragût e i francesi uniti in empia alleanza conquistavano la Corsica sottraendola al Doge di Genova, Sorrento – grazie a un tradimento – venne devastata e saccheggiata con tutta la costa fino a Torre del Greco, Minorca fu messa a ferro e a fuoco con duemila anime condotte in schiavitù, Francia, Genova e Spagna pagavano al Turco decine di migliaia di scudi sonanti per avere qualche momento di pace. Nel monastero di Yuste moriva il 9 settembre 1558 Carlo V, il martellatore dei pirati, mentre a Trento era in corso il grande Concilio. Dragût ne era informato e nel 1561 si impadroniva di una galera con due vescovi a bordo che si recavano al Concilio, una merce pregiata che avrebbe fruttato un riscatto altissimo. La sua carriera di masnadiero doveva terminare con una palla di cannone alla cui traiettoria si era avvicinato un po’ troppo nel corso dell’assedio di Malta del 1565.

Nuovi capi pirati, raîs, si aggiungevano alle trionfanti flotte turchesche e barbaresche le cui bandiere rosse e verdi con la Mezzaluna sventolavano invitte sul Mediterraneo. Essi si gettavano sui codardi “Nazzareni”, paralizzati ormai da un terrore atavico, secolare, nascosti in isole fortificate e degni perciò solo di servire e divertire i guerrieri dell’Islam. Fu un uomo di Dragût, a rinnovarne i fasti. Il suo nome era Luca Galeni, un calabrese di Cutro, borgo affacciato sul golfo di Squillace. Novizio dei domenicani, il Galeni fu catturato in gioventù dai pirati. Rinnegata la fede cattolica si inserì stabilmente nella pletora dei rinnegati assumendo il nome di Ulug-Alì Fartas, Luccialì per le popolazioni rivierasche che ben presto ne avrebbero pronunziato il nome con terrore.

 

Con spregiudicata coerenza divenne presto pirata prendendo parte al massacro dei cristiani alle Gerbe nel 1560 e assurgendo al ruolo di protagonista assoluto nelle devastanti incursioni lungo le coste liguri. Nominato pascià di Tripoli alla morte di Dragût, nel 1568 fu investito del titolo di pascià di Algeri – il centro maggiore della pirateria barbaresca del Mediterraneo – nel frattempo seminando sempre morte e terrore sulle coste dei paesi cristiani. A capo di 65 galere formò l’ala sinistra dello schieramento ottomano alla grande battaglia di Lepanto e dopo la sconfitta fu il sorprendente artefice, in pochi mesi, della ricostruzione della flotta musulmana. Efferato con i cristiani, era mite con gli schiavi, soprattutto se questi erano sacerdoti, ai quali anzi chiedeva di pregare per lui. Morì a ottant’anni nel 1587, non prima di avere eretto a Istanbul una moschea che portava il suo nome.

Assai improvvidamente, alla presenza dell’ambasciatore turco, le contrade che lo videro nascere posero a suo onore e memoria nell’aprile 1989 un busto, in località La Castella, sulla costa ionica in provincia di Catanzaro, con il beneplacito dell’Istituto Italiano dei Castelli [99].

 

 

 

 

 

 

E venne il 1564, anno in cui Solimano il Magnifico decide di farla finita con i cristiani e spazzarli definitivamente dal Mediterraneo proclamando ancora una volta la jihâd. La piazzaforte di Malta doveva essere la prima a cadere, seguita da Cipro e dalle altre fortezze soprattutto veneziane della Morea e della Dalmazia[100].

Allo scopo venne allestita una forza mai vista di 100.000 combattenti con 150 galere e navi onerarie alla quale si doveva aggiungere la flotta francese del “Re Cattolicissimo”, sempre disponibile a combattere la cattolica Spagna. A capo della flotta turchesca e degli eserciti vennero posti dei sanguinari degni di stare al fianco dei più feroci Saraceni: ad essi doveva unirsi Luccialì e gli altri raîs in uno sforzo comune.

 

Malta venne attaccata il 19 maggio del 1565, mentre a Trento si chiudeva il grande Concilio cattolico che avrebbe avviato la Controriforma restituendo identità e ordine alla Cristianità. La difesa dell’avamposto cristiano era affidata a 600 Cavalieri italiani, francesi, tedeschi e spagnoli e 4.000 fanti siciliani, toscani e marchigiani ai quali si aggiungevano 5.000 maltesi: 9.000 uomini in tutto al comando del settantunenne Gran Maestro Giovanni di La Vallette-Parisot. Il 23 giugno cade il forte Sant’Elmo: i superstiti, 200 uomini in tutto, vennero massacrati, i Cavalieri scorticati vivi o crocifissi, le teste degli sventurati furono infilzate sulle picche e fatte sfilare sotto gli occhi dei resistenti, intimando nel contempo al Gran Maestro di arrendersi per non fare la stessa fine. Ma il Gran Maestro, assai poco impressionabile, in tutta risposta fece decapitare tutti i prigionieri turchi bene in vista del campo ottomano. Asserragliati nel forte S. Michele i Cavalieri resistevano all’assalto islamico condotto con l’impiego di ogni risorsa bellica, dai bombardamenti ininterrotti di artiglieria ai guastatori con le macchine da assedio, ai “teriaki” truppe d’assalto algerine che, prima di andare al macello, ricevevano una razione di oppio.

 

Il 9 settembre Mustafà Pascià ordinava l’attacco finale. Mentre esso era in corso, una salva di artiglieria al largo annunciò l’arrivo della flotta cristiana in soccorso dei difensori e dei messi portarono la notizia di truppe cristiane che, sbarcate all’altro capo dell’isola, stavano marciando a tappe forzate verso il forte. Il capo turco, che aveva subito la perdita di più di 20.000 uomini, la metà del suo corpo di spedizione, fu costretto a togliere in gran fretta l’assedio e reimbarcarsi verso levante. Dei 9.000 difensori ne erano sopravvissuti a malapena 600, fra cui il Gran Maestro: fu una delle maggiori prove di valore dell’umanità di tutti i tempi. Cavalieri e combattenti si ritrovarono uniti al di sopra dei nazionalismi in nome della Religione, di un ideale comune contro un comune nemico, annota il Panetta[101], riuscendo ancora una volta a bloccare l’espansione musulmana verso Occidente mentre in Europa ci si stava dilaniando in lotte fratricide.

 

I Cavalieri di Malta non tardarono a passare al contrattacco. Fegatosi come nessun altro, penetrarono nell’arsenale sul Bosforo travestiti da Turchi provocando un colossale rogo di navi in costruzione e riprendendo in pieno la guerra di corsa nel Levante. Nel frattempo il Solimano in Ungheria “si sbrigava da questa vita” – per usare l’espressione colorita del Muratori, attento cronista delle vicende narrate – non prima di aver fatto uccidere il proprio figlio Mustafà per assicurare la successione all’altro figlio Selim.

 

E fu Selim II che, ripresa la jihâd, mosse alla conquista di Cipro, difesa dai Veneziani. San Pio V, rendendosi conto che Cipro sarebbe stato solo l’inizio di quell’offensiva determinante contro l’Occidente cristiano ricercata da secoli, favorì con ogni mezzo la costituzione di una Lega fra Roma, Venezia, Spagna, Genova, Firenze e Malta. Obiettivo immediato: portare aiuto a Cipro. Ma un rovescio della flotta subito ad opera di Luccialì e alcune rivalità interne impedirono che i Collegati riuscissero nel loro intento. Nel frattempo, il 9 agosto 1571 capitolava Nicosia mentre il 15 successivo toccava alla fortezza di Famagosta. Al momento della sua caduta i Veneziani, al comando di Bragadin, avevano perso 6.300 uomini, ma avevano fatto pagare uno scotto altissimo ai Turchi, che, al comando di Lala Mustafà, contarono circa 80.000 caduti. La notizia dell’orribile fine di Marcantonio Bragadin, del generale Baglioni e degli altri comandanti veneti, ai quali i Turchi riservarono il delicato supplizio della scorticatura, assieme a quella dei 15.000 massacrati fra l’inerme popolazione di Nicosia e alle deportazioni che ne conseguirono, ruppe gli indugi e fu la molla di Lepanto.

 

Ottantamila combattenti cristiani su 207 galere e galeazze al comando di don Giovanni d’Austria, ingaggiarono nel mare Jonio al levar del sole del 7 ottobre di quell’anno la lotta decisiva. Di fronte avevano 220 galere musulmane rinforzate da 60 fuste turche e barbaresche che imbarcavano un’armata equivalente. Dopo cinque ore di scontro l’armata musulmana era pressoché distrutta o catturata, Alì Pascià ucciso, 30.000 erano i caduti da parte musulmana contro i circa 8.000 cristiani. La cristianissima Francia, ancora una volta, brillò per la sua assenza, talché il suo re meritò di vedersi mutare il titolo da “le Roi Très chrétien” a “le Turc Très chrétien”.

 

 

 

Viene a tal punto da chiedersi se i perdonisti della Chiesa neoterica fossero ancora al corrente di questi episodi, quando ardivano restituire ai musulmani le bandiere catturate con tanta abnegazione e sacrificio da queste fulgide figure, o quando si chinavano a baciare il Corano, nel cui nome tante efferatezze furono compiute. Se fossero consci di invocare perdono a nome di chi, in difesa della fede, non aveva in realtà esitato ad impugnare le armi e rinunciare a tutto, anche alla propria vita. Se fossero consci che l’Islam per un millennio aveva arrestato lo sviluppo dei paesi cristiani del Mediterraneo, seminando lutti, morte e schiavitù. Viene da chiedersi se davvero ai perdonisti tutto ciò fosse apparso solo l’incapacità di violenti e prevaricatori, aggravata dall’avallo dei papi del tempo (quale differenza con oggi, invece, dove la laico-massonica Turchia invia la propria delegazione alla beatificazione di Giovanni XXIII e gli dedica pure una via a Istanbul[102]!), di confrontarsi in termini pacifici affrontando i “diversi” di allora con il dialogo e la santa democrazia, invece che con la spada e i vascelli da guerra.

 

Un confronto che agli occhi degli odierni neoterici avrebbe potuto anticipare di vari secoli i luminosi intendimenti del Vaticano II sulla dignità umana e il rispetto dell’altrui errore, spingendo tale rispetto fino alla costruzione nella Città Santa della Cristianità – dove a migliaia i martiri preferirono affrontare il fuoco, le belve e la spada, all’ignominiosa apostasia – della moschea più grande d’Europa.

Miope melassa ecumenica o tradimento deliberato?

 

 

 

 

 

 


 

 

 

IMPRESE DEGLI STEFANIANI. TRADIMENTI EUROPEI ED EPICI AMMIRAGLI. DUECENTOMILA TURCHI ALLA CONQUISTA DELL’UNGHERIA. LA COSTA ADRIATICA E LE ISOLE DEL TIRRENO DEVASTATE. ULTIMI SECOLI DELLA PIRATERIA.

 

 

 

 

 

 

Il giro di boa ebbe inizio nel 1561 con la nascita dei Cavalieri stefaniani ad opera del Granduca di Toscana Cosimo I de’Medici, un Ordine monastico con regole rigidissime, il cui solo nome avrebbe presto fatto tremare la pirateria e i suoi capi. Bandiera dell’Ordine di Malta con i colori invertiti, l’Ordine militare dei Cavalieri di Santo Stefano, con sede a Pisa, venne approvato da Pio IV lo stesso anno. A disposizione di questi monaci guerrieri che prestavano pubblico giuramento di combattere i pirati fino alla morte, venne posta una squadra di galere da corsa e da caccia con equipaggio e ciurme livornesi. Gente durissima, decisa fino in fondo, il loro impegno si esplicava pattugliando notte e giorno il Tirreno, l’inverno come l’estate, con ogni condizione di mare. La loro tecnica era quella stessa dei predoni: portare la guerra sulle coste barbaresche e turche, inseguire le navi corsare, serrarle da vicino, speronarle, abbordarle e distruggerle, spesso incuranti delle sproporzioni delle forze, fidando solo nell’ardimento e nel Cielo. I pirati impararono ben presto la sorte che li attendeva quando cadevano in mano agli stefaniani: il raîs veniva immediatamente impiccato all’albero maestro, mentre i sopravvissuti passavano ai remi carichi di catene, a provare ciò che fino a quel momento essi avevano riservato ai cristiani. Implacabili e decisi a tutto, quando in mare incontravano i Cavalieri di Malta, i Cavalieri di Santo Stefano dovevano, per disposizione tassativa del Granduca, mettersi ai loro ordini.

 

Nonostante la batosta di Lepanto galere, fuste e galeotte pirate non tardano a riorganizzarsi e a riprendere la loro secolare attività esercitando una pressione incursiva spesso insostenibile. È da considerare, infatti, che per gente adusa a razziare, saccheggiare e distruggere, le prede umane e le loro ricchezze rappresentavano la stessa sopravvivenza, non essendo i Barbareschi abituati a lavorare duramente come gli europei. Uno dei problemi della Barberia era invero rappresentato dall’endemica mancanza di risorse agricole, in particolare del grano, che doveva in ogni modo essere reperito anche attraverso la razzia, onde assicurarsi il minimo vitale. Negli anni di cattivo raccolto si scatenava perciò insistente la caccia alle navi onerarie lungo le coste di Puglia e Sicilia.

 

Un’altra difficoltà non trascurabile consisteva nell’accresciuta attività piratesca, vieppiù incompatibile col mantenimento dell’ordine pubblico nelle grandi città barbaresche, popolate da percentuali di schiavi sempre più elevate, che avrebbero potuto innescare sommosse di dimensioni incontrollabili. C’era poi l’ingrata incombenza di riscuotere i tributi dagli arabi del retroterra i quali, pur essendo musulmani, erano armati, turbolenti e insofferenti a causa della loro sistematica esclusione dalla ricchezza maturata dal crimine organizzato barbaresco. La soluzione escogitata dai reggitori fu di ottenere dal Sultano un congruo distaccamento di giannizzeri, una specie di Legione Straniera del tempo, feroce e disciplinatissima, dedita unicamente alla guerra, con un proprio governo (il cosiddetto “Divano”) indipendente persino dal Sultano, presieduto dal comandante in capo chiamato Agà il cui mandato non poteva superare il bimestre[103]. A questa milizia vennero affidati compiti di difesa, ovvero la gestione delle fortezze, di tutela dell’ordine pubblico nonché di polizia tributaria, mentre i pascià Barbareschi potevano nel frattempo dedicarsi più fruttuosamente e senza soverchie preoccupazioni alla guerra di corsa.

 

Nel 1579, venticinque legni pirati si presentarono davanti a Fiumicino, avendo avuto sentore che nelle vicinanze si trovava il papa, il “gran papasso dei Cristiani” come lo chiamavano, la cui cattura avrebbe fruttato un riscatto colossale. Scesi a terra si trovarono però il passo sbarrato dai cavalieri e dai fanti di Giordano Orsini, tempestivamente richiamato dalle milizie di una delle nuove torri di avvistamento innalzate lungo la costa. L’Orsini, con perfetta ignoranza del retto ecumenismo, iniziò il dialogo a colpi di archibugio, convincendoli tosto a reimbarcarsi.

Le significative batoste inflitte alla pirateria dai Cavalieri di Santo Stefano meritarono presto all’ammiraglio Jacopo Inghirami, che ne comandava la flotta, il soprannome presso i musulmani di “Gran Diavolo”. Nel 1607 gli stefaniani conquistarono di slancio e in pieno giorno la fortezza di Bona, facendo 2.000 mori prigionieri da utilizzare come merce di scambio per il riscatto di altrettanti cristiani. Nel 1627 sei galere stefaniane forzano i Dardanelli giungendo fino a Costantinopoli e attaccano senza esitazione la cosiddetta “carovana di Alessandria” che dall’Africa trasportava regolarmente verso la “Sublime Porta” ricchezze e schiavi di colà. Le azioni di “commando” degli stefaniani erano accuratamente preparate e spesso si giovavano della mimetizzazione dei battelli e del camuffamento degli equipaggi, in guisa da apparire inconfondibilmente barbareschi.

 

Fu il caso dell’azione contro la base turchesca di Scio del 1599 dove le galere medicee riuscirono a liberare 200 schiavi cristiani. L’implacabilità degli stefaniani era leggendaria, né risparmiava gli europei che colludevano col Turco: sorpresi, infatti, a bordo di una nave inglese, che assieme ai Turchi aveva predato una nave veneziana, 387 inglesi passarono al remo delle galere stefaniane. Fiamminghi e inglesi, infatti, avendo aderito alla Riforma, si arruolavano spesso sulle navi turche come artiglieri mercenari contro i cattolici: l’odio protestante unito alla sete di guadagno si spinse addirittura ad insegnare – e in questo fiamminghi e inglesi furono maestri – ai Turchi le nuove tecniche costruttive dei vascelli da guerra in grado di tenere il mare grosso molto meglio delle galere e imbarcare un numero incredibile di cannoni in grado di sparare dalle fiancate. Verso il 1600 Algeri, la capitale della pirateria che fra il 1560 e il 1587 parlava prevalentemente italiano per via di Luccialì, risuonava di lingue nordiche, soprattutto inglesi e olandesi. Grazie ai nuovi velieri, fra il 1627 e il 1631 i Barbareschi spingeranno le loro incursioni contro le coste inglesi, l’Islanda, Terranova e persino nel mar Baltico.

 

Turchi e Barbareschi non si stancavano mai di incursioni e razzie, ormai divenute l’arma migliore con la quale colpire la compagine cristiana. Di fatto entrambi gli schieramenti avevano rinunciato ai grandi scontri frontali, non ritenendo una supremazia definitiva conseguibile per tal via. In realtà il Mediterraneo si stava rivelando un teatro secondario rispetto a quello rappresentato dal Nuovo Mondo per gli europei, e alla rinascita della potenza musulmana in direzione della Persia. L’Occidente optò quindi per la difesa statica delle coste mediante una catena sempre più impenetrabile di fortificazioni, mentre la guerra di corsa trasse invece ulteriori motivazioni dal rarefarsi delle grandi flotte di guerra.

 

Messa al sacco Manfredonia nel 1620 da 6.000 giannizzeri e 4.000 armati imbarcati su 54 galere e deportati gli abitanti, il 29 giugno del 1630 i Barbareschi attaccano Agropoli. Si calcola che tra il 1628 e il 1634 i soli francesi avessero perso 80 navi, di cui 50 nell’Oceano Atlantico, mentre i bagni di Algeri, capitale per antonomasia della corsa barbaresca, si popolavano di più di 3.000 schiavi di quella nazione. La collusione secolare col turco non pagava!

 

 

 

Gli ultimi secoli della pirateria turco-barbaresca

 

 

 

 

 

 

La successione degli eventi è densissima. Ci limitiamo qui a citare solo per sommi capi i principali fatti d’arme rimandando il lettore al terzo libro del Panetta, per una lettura appassionante e un esame meticoloso e documentato dei numerosissimi episodi di quell’epoca[104].

         Nel 1645 viene proclamata a Costantinopoli la jihâd. Gli ottomani muovono con 80 galere, 2 galeazze, 1 galeone, 22 vascelli da guerra con 7.000 giannizzeri e 54.000 fanti. Consiglieri: ingegneri fiamminghi, francesi ed europei. Viene attaccata la guarnigione veneta di Candia e i possedimenti veneziani della Dalmazia. Nel 1656 una flotta veneziana e dei Cavalieri di Malta blocca i Dardanelli per impedire ai Turchi di portare rinforzi all’esercito che assediava Candia. I Turchi nello scontro perdono 10.000 uomini con la liberazione dal remo di 7.000 schiavi cristiani. Lazzaro Mocenigo, valoroso “generale da mar” veneziano, fa sbarcare i suoi uomini sotto gli occhi dei turchi sulla costa per fare l’acquata per tutta la flotta ed è attaccato dalla cavalleria turca. Respinta a fatica con gravi perdite i Veneziani si reimbarcano, ma il Mocenigo intendendo dimostrare ai Turchi la propria determinazione fa sbarcare alcuni battaglioni a protezione dei marinai e ripete l’operazione indisturbato. A mezzogiorno presso il ruscello fa poi celebrare la Santa Messa seguita da un Te Deum di ringraziamento, sotto il naso dell’esercito musulmano.

         Il raîs Bruciacristiani è catturato dagli stefaniani, partiti su allarme da Livorno, e impiccato.

         Il “generale da mar” Francesco Morosini libera 1.100 cristiani al remo, puntando poi su Candia assediata dove il 7 luglio 1669 fa brillare sotto i piedi dei Turchi tre poderose mine. Candia si arrende ai Turchi. Il Sultano, bloccato sul mare, attacca la Polonia. Il generale Giovanni Sobieski, chiesti aiuti agli europei, lo respinge.

         Nel 1683 i calvinisti ungheresi minacciati dalla riconquista cattolica dei Cavalieri Teutonici fanno appello al Sultano. L’offensiva turca contro l’Europa riprende vigore dall’Ungheria e Kara Mustafà alla testa di 200.000 uomini marcia su Vienna. Grazie all’intelligenza tattica di Sobieski e nonostante l’esercito europeo fosse numericamente inferiore, il 12 settembre – il 20 di Ramâdan per i musulmani – dopo un assedio alla città durato due mesi, che la strema per la fame, le malattie e i bombardamenti, il secolare nemico viene ancora una volta sgominato. Ancora una volta nessun contingente militare della “Figlia primogenita della Chiesa” aveva preso parte, nemmeno in quell’ora di estremo pericolo, alla difesa della città. In quell’occasione – e non solo – sfolgora invece la figura del cappuccino padre Marco da Aviano, inviato apostolico presso le truppe della Lega Santa e confessore di re Sobieski, che gli servì messa al mattino della domenica dello scontro decisivo[105]. Il padre Marco, che godeva fama di santo, durante la battaglia era visto percorrere il fronte da una parte all’altra con il crocifisso in mano, presente a incoraggiare e benedire ovunque lo scontro fosse più duro. Significativa la testimonianza, attestata da un documento notarile, resa tre anni dopo la battaglia di Vienna al convento del Redentore di Venezia a padre Marco e ad alcuni suoi confratelli da una delegazione di mercanti turchi: “[…] essi raccontarono che in Turchia e nei territori da cui loro provenivano, si parlava solo dell’uomo di Aviano. I turchi raccontavano che durante la battaglia egli aveva in mano un pezzo di legno che era il suo Cristo, e che durante il combattimento aveva sollevato il braccio facendo dei movimenti che avevano portato totale confusione alle loro azioni militari e avevano messo loro molta paura. Pensavano che a ciò dovettero l’insuccesso e la sconfitta. Padre Marco era apparso loro un uomo così grande da sembrare quasi si sollevasse dalla terra verso il cielo, così che furono costretti a battere in ritirata. Pensavano che si trattasse di un’arte magica e chiesero a padre Marco di darne loro atto […][106]. La vittoria a Vienna fu grande, paragonabile a quella di Lepanto sul mare, ma l’imperatore Leopoldo, il Papa Innocenzo XI, la Polonia, Venezia, il principe Eugenio, i Cavalieri di Malta e quelli di Santo Stefano, conoscendo il turco, non si illusero e, assai avvedutamente, strinsero una nuova “Lega cristiana contro il Turco” a carattere difensivo. Fu sempre padre Marco a sollecitare i senatori della Serenissima affinché entrassero nella Lega con l’imperatore “per liberare le spiagge adriatiche ch’ogni anno porta in barbara schiavitudine tanti poveretti innocenti”.

         Il 2 settembre del 1686 fu liberata la città di Buda e la parte dell’Ungheria che per quasi un secolo e mezzo i Turchi avevano cercato di islamizzare, distruggendo ogni traccia di arte cristiana. Quel giorno padre Marco d’Aviano entrò in Buda reggendo nelle mani una statua della Madonna, a significarne l’intercessione per la vittoria conseguita e collocandola in quel duomo che era stato trasformato in moschea.

         Il 12 agosto 1687 i Turchi subirono una dura sconfitta sulla Drava, a Mohács. Fu ancora padre Marco d’Aviano a celebrare la Messa di ringraziamento e il Te Deum nella tenda dello sconfitto gran visir Suleyman, mentre l’8 settembre dell’anno successivo l’avrebbe celebrata in Belgrado, capitolata davanti all’esercito imperiale dopo una battaglia di quattro settimane. Una Santa Lega promossa dal papa e alla quale si era associato lo zar Pietro il Grande porta la guerra nell’impero ottomano. Le isole ionie vengono invase, Corinto è espugnata e Atene viene sottoposta a bombardamento.

         Nel 1715 i pirati attaccano a sciami sull’intera costa adriatica: Senigallia, Porto Recanati, Rimini, dove 17 ragazze sono rapite dai Barbareschi, Ancona, Pesaro, Fano, Ravenna, Civitanova furono oggetto delle loro incursioni, ma anche la Puglia, la Calabria, la Sicilia. Loreto, già attaccata nel 1480 all’indomani di Otranto, per via delle ricchezze custodite nel santuario che facevano gola ai ladroni musulmani, venne fortificata. Due fuste turchesche che osarono far bottino nel territorio di Loreto furono catturate dal “generale da mar”, il veneziano Canaletto, i pirati impiccati, recuperata la preda.

         Nel 1716 il grande esercito ottomano in Ungheria fu sbaragliato in due distinte battaglie dalle truppe imperiali agli ordini di uno dei più grandi condottieri del secolo, Eugenio di Savoia.

         Entra in scena la Marina del Regno delle Due Sicilie compiendo un numero sempre maggiore di azioni navali di ritorsione contro gli Stati barbareschi sempre più aggressivi e arroganti.

         1799: trecento predoni tunisini a bordo di 12 legni saccheggiarono l’isola di S. Pietro in Sardegna deportando nei bagni di Tunisi 830 persone, che solo faticosamente vennero riscattate nel tempo grazie alle generosissime collette fra gli isolani. Il 18 novembre 2.000 pirati sbarcano per l’ennesima volta sull’isola del Giglio, uccidendo tutti gli uomini e portando al seguito donne e bambini. Nel 1803 nei bagni di Tunisi giacevano ancora 2.000 italiani. Il 17 ottobre 1815 venne investita la penisola di sant’Antioco, vicinissima all’isola di San Pietro, ma le difese ormai efficaci costarono assai care ai pirati che vi lasciarono 300 caduti. Ciononostante riuscirono a deportare 133 persone.

         1803: la prima squadra navale americana penetra in Mediterraneo. Il bastimento “Philadelphie” che ne faceva parte viene assaltato dai pirati musulmani e 300 marinai vengono catturati.

         1830: fine del flagello della pirateria e fine del tributo annuo versato ad Algeri dagli stati europei per ottenere la tranquillità della navigazione con l’occupazione militare francese di Algeri, appoggiata da tutte le nazioni europee, tranne l’Inghilterra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esclusività islamica. Genocidio armeno e sradicamento dei greci.

 

 

 

 

 

 

L’Islam è un’appartenenza, un’identità che va ben oltre l’aspetto religioso. La moschea per il musulmano non è solo luogo di culto e di preghiera, come lo è la chiesa per noi: la funzione della moschea (giâmi’ in arabo, dove la radice gm’ significa radunare) costituisce invece qualcosa di molto più complesso e articolato. Essa infatti si pone come punto di aggregazione, di rafforzamento della identità musulmana, di giudizio sulla società circostante e di rivisitazione di quanto accade alla luce del Corano.  È il punto di coagulo dell’ummah al di sopra delle singole identità e provenienze, quando non di trasmissione di ordini di tipo politico[112]. Circa quest’ultimo aspetto un gesuita egiziano, p. Samir Khalil, segnala che nel paese arabo più popoloso, l’Egitto, tutte le moschee il venerdì sono vigilate e le più importanti addirittura circondate dalla polizia speciale. Nella storia musulmana, infatti, rivoluzioni e sollevamenti popolari hanno quasi sempre originato dalla preghiera del mezzogiorno seguita dalla khutbah, il discorso, il venerdì in moschea. Il p. Samir giunge addirittura paradossalmente ad affermare, mettendo oggi in guardia i poco avvertiti responsabili occidentali, che: “[…] La moschea, in quanto centro socio-politico culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei luoghi di culto. Deve essere esaminata come tale. Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali centri, vista la funzione politica che hanno assunto nella tradizione islamica[113].

 

 

 

È tuttavia accaduto che l’appartenenza all’Islam abbia trovato espressione a livello apparentemente[114] anche solo laico, come fu il caso della Turchia del massone[115] Mustafà Kemal Pascià Atatürk (1881-1938), esempio censurabile di laicizzazione agli occhi dei musulmani ortodossi, ma la cui irruzione in quel preciso momento storico fu un vero successo dal punto di vista del dar-el-Islam, cioè della difesa dei territori islamici. Agli inizi del ventesimo secolo, infatti, i Giovani Turchi[116], che solo a prima vista avevano deislamizzato la Turchia, per renderla invece più moderna ed efficiente di fronte all’Occidente, organizzarono uno dei più feroci genocidi della storia moderna, quello della cristianità greco-armena, spostando più in là il confine del dar-el-Islam. Fu infatti dopo una proclamazione in piena regola della jihâd da parte degli imâm turchi e curdi paradossalmente decretata del potere “laico” dei “Giovani Turchi”, che venne mossa guerra ai Raias (termine che letteralmente significa gregge, bestiame, col quale i turchi designavano i non credenti) e il loro sterminio. I cristiani armeni, che già avevano subito un’ondata di uccisioni tra il 1895 e il 1896 oscillante fra le 100.000 e le 200.000 persone, seguita dal massacro nel 1909 della “piccola Armenia”, nella zona di Adana, in Cilicia, dove i morti furono da 15.000 a 25.000, nell’agosto 1915 erano stati pressoché cancellati dai distretti orientali turchi.  Un insediamento bimillenario di oltre un oltre milione di individui (le stime più condivise parlano di 1.250.000 armeni ottomani residenti e di circa 70mila, al più 100mila sopravvissuti) non era più, né mai fu possibile stabilire quante donne e quanti bambini fossero stati rapiti e forzati alla conversione all’Islam[117].

 

Vale la pena segnalare che il britannico Bernard Lewis, arabista di Oxford adottato dalle grandi università americane e considerato uno dei più grandi orientalisti viventi[118] – con un premio assegnato dalla Turchia per il contributo alla sua cultura – il 21.6.1995 venne condannato dal Tribunale di Parigi per aver negato, in un’intervista a “Le Monde” avvenuta nel 1993, la storicità del genocidio armeno. Assai singolarmente i curdi, che allora parteciparono attivamente al genocidio armeno, sono oggi, quasi per nemesi storica, perseguitati dai correligionari turchi.

I kemalisti che succedettero ai Giovani Turchi furono degni emuli dei loro predecessori conducendo nel 1922, in perfetta continuità con lo spirito del dar-el-Islam, una guerra per annettersi le ex-colonie greche dell’Impero Ottomano, svuotandole dai greci che vi risiedevano da oltre 20 secoli. Nel 1923 quasi un milione e mezzo di greci dovettero abbandonare l’Anatolia, “scambiati” con 400.000 turchi che abitavano la Tracia occidentale.

 

 

 

Non può invero sfuggire che il genocidio degli armeni dell’Anatolia – in realtà allargato a tutte le comunità cristiane dell’impero ottomano[119] – fu il primo grande genocidio che aprì il repertorio dei genocidi commessi a sangue freddo del Novecento, e fu islamico. In quell’occasione fece anche per la prima volta il suo ingresso nel diritto internazionale il termine giuridico di “crimine di lesa umanità”. Com’è noto la lista del disonore proseguì con l’URSS di Lenin e di Stalin e quindi con l’Europa di Hitler, con le stragi del comunismo in Cina e in Cambogia, con il genocidio condotto nel 1994 in Ruanda, nel corso di una guerra interetnica tribale teleguidata dalle potenze occidentali. In Europa i protagonisti degli stermini furono di volta in volta turchi che proclamavano il proprio diritto a difendere il dar-el-Islam dagli infedeli, atei fanatizzati dai miti socialisti, nazisti ebbri di potenza. Il Novecento doveva infine tramontare fra i sinistri bagliori di altri tre genocidi, tutti islamici: Sudan, Timor e Molucche.

La novità dei genocidi moderni stava nella loro fredda pianificazione, nella singolare efficacia con la quale furono portati a termine, dai moventi comuni che li determinarono. Il primo di questi, immediatamente riconoscibile, era la proclamata necessità di pervenire ad un nuovo ordine dello Stato, eliminando all’uopo in massa i “nemici”, gli “stranieri” – foss’anche parte del proprio popolo – la cui presenza era dichiarata incompatibile con quell’omogeneità di razza e di lingua sulle quali dovevano fondarsi le nuove identità nazionali. Fu il caso degli armeni, profondamente legati alla cultura occidentale e alla Chiesa di Roma, ma anche dei kulaki ucraini, dei “piccolo-borghesi” russi e degli ebrei. Meno evidente, ma non per questo meno reale, fu il concorso a livello decisionale e di vertici esecutivi (costituito solitamente da iniziati) di un sordo odio gnostico per l’umanità, spesso accompagnato da una radicale avversione per la religione del “nemico”.

 

 

 



[1]Relazione del padre Francesco di S. Lorenzo, trinitario, redentore di schiavi in Barberia”, Roma, Moneta, 1654, riportato da R. Panetta nel suo “Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum – XVI secolo”, ed. Mursia, Milano, 1981, pag. 43, nota 2.

[2] Operazione che i Turchi individuavano col termine devscirmé.

[3] Rinaldo Panetta “I Saraceni in Italia”, ed. Mursia, Milano, 1998, pag. 286.

[4] Cfr. Flavio Russo “Guerra di corsa. Ragguaglio storico sulle principali incursioni turco-barbaresche in Italia e sulla sorte dei deportati tra il XVI e il XIX secolo”, Roma, 1997, Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito, Tomo I, pag. 8. L’Autore giustamente pone la questione della sensibilità storica per questa tratta di schiavi, di gran lunga minore rispetto alla più famosa e deprecata tratta dei negri, che avrebbe invece interessato circa 10 milioni di persone. Riteniamo che credibili risposte possano derivarsi dal clima postconciliare di un ecumenismo a tutt’orizzonte, di cui il perdonismo è stata solo l’espressione più recente (si invocò il perdono anche per la suddetta tratta dei negri). Tutto si spiega nel contesto di un articolato disegno che riconduce al dilagante e ormai generalizzato mondialismo massonico, per sua natura proteso alla rimozione di ogni gloriosa memoria storica dell’Europa cristiana e, di converso, all’esaltazione di ogni suo difetto.

[5] Raimondo Panetta “Pirati e corsari turchi e barbareschi…”, cit., p. 22.

[6] Per la disamina e l’approfondimento di questi ultimi aspetti rimandiamo il lettore agli Atti del Convegno di Rimini del 1995 per il tema globalizzazione, mentre per la distinzione fra Autorità e Potere al libro di Epiphanius “Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della Storia”, ed. Ichtys, Albano Laziale, 1996, pagg. 411, 543 e passim, disponibile presso i Priorati della Fraternità S. Pio X.

[7] Hanna Zakarias “L’Islam, entreprise juive – De Moïse a Mohammed”, Tolosa, 1955, Tomi I e II per un totale di 683 pagine. Stampato in 500 esemplari presso l’Autore.

[8] Il significato di jihâd non è univoco: generalmente esso significa “sforzo” condotto nei propri riguardi, contro il nemico che l’uomo porta in se stesso (grande jihâd) oppure nei riguardi dell’infedele, la guerra esterna (piccola jihâd), fondamento stesso del proselitismo islamico. Da questo punto di vista ogni credente che si trovi in terra non islamica (dar-el-Harb) è un missionario su cui incombe il grave dovere di diffondere l’Islam.

[9] V. ad esempio: Sura V, vers. 37; Sura. VIII, vers. 17 e vers. 67; Sura IX, vers. 29 e segg.; Sura XLVII, vers. 4, che recita: “Quando incontrerete quelli che non credono, uccideteli fino a che ne abbiate fatta strage; allora rafforzate i ceppi dei rimanenti”.

[10] An-Nawawi “Minhâdj at-Talibîn” (La guida dei credenti zelanti, manuale di giurisprudenza musulmana secondo il rito shafi’î), testo arabo con traduzione francese e annotazioni a cura di L.W.C. Vandenberg, Batavia, Tipografia del Governo, 1883, III, pagg. 261-264, cit., da Alexandre Del Valle nel suo libro “Islamisme et États-Unis – Une alliance contre l’Europe”, ed. L’Age de l’Homme, Losanna, 1999, pag. 93.

 

 

 

[11] Cfr. “liMes”, numero 1/2000, pag. 83.

[12] Cfr. Piero Tacchi Venturi “Storia delle religioni”, Torino, 1971, ed. UTET, Vol. V, pagg. 33 e 157.

[13] Le relazioni individuali tra musulmani e dhimmi sono regolate dal Corano, che alla Sura V, versetto 56, vieta di stringere amicizia coi politeisti, gli ebrei e i cristiani, ritenuti intrinsecamente iniqui. Scrive l’islamista moderno pakistano Mawdudi “ciascun organo del suo corpo – il suo stesso cervello, i suoi occhi, il suo naso, le sue mani, i suoi piedi – si lamentano dell’ingiustizia e della crudeltà loro imposta. Ciascuna parte del suo essere lo denuncerà davanti a Dio che, essendo la sorgente della giustizia, lo ricompenserà con le più grandi sofferenze che esso merita. Questa è la condizione miserabile del kufr (l’infedele, N.d.A.)”. L’ayatollâh (= segno miracoloso di Dio, grado della gerarchia politico-religiosa sciita simile all’imam arabo) Ruhollah Khomeini insegnava invece: “Undici cose sono impure, l’urina, gli escrementi, lo sperma, le ossa, il sangue, il cane, il maiale, l’uomo e la donna non musulmani, il vino, la birra, il sudore del cammello che mangia immondizia […] Tutto il corpo di un individuo non musulmano è impuro, finanche i capelli, i peli, le unghie e ogni secrezione del suo corpo (evidenz. del riduttore)”. Citazioni tratte dal libro di Alexandre Del Valle “Islamisme et États-Unis – Une alliance contre l’Europe”, cit., pag. 72. Sulla considerazione che il Corano, e quindi i musulmani, riservano ai cristiani si veda l’illuminante articolo di Carlo Alberto Agnoli “Il bacio di Giovanni Paolo II al Corano. Breve e istruttiva antologia coranica sui rapporti fra Islamismo e Cristianesimo. Fatti e riflessioni su tale argomento”, pubblicato su “La Tradizione Cattolica”, Rimini, n. 1/2000.

[14]  E dimora di guerra è stato anche il Kosovo, dove, in realtà i musulmani slavi e albanesi non hanno mai accettato la partenza dei loro protettori ottomani, né il potere “empio” ortodosso, suscitando un irredentismo islamico mai sopito in quelle popolazioni e tenuto vivo soprattutto dalla Turchia, che mai ha rinunciato alla ricostituzione di una confederazione neo-ottomana. La questione del Kosovo ha creato un precedente di portata internazionale che sarà probabilmente seguito anche da altri paesi della zona, come la Tracia, dove già da tempo i predicatori islamici esortano alla disobbedienza civile contro il “colonialismo” greco. Tutto questo indipendentemente dall’accanimento americano contro Belgrado volto a distruggere la ex Jugoslavia e dividere il mondo ortodosso dall’Europa, con il fine inconfessato di togliere di mezzo un grosso ostacolo all’estensione della NATO, e quindi all’influenza americana nei Balcani.

 

 

 

[15] Di qui la lotta senza quartiere contro Israele, la cui costituzione nel 1947 ha costituito un affronto insopportabile per i musulmani in quanto ricostituzione di uno spazio giuridico-politico non musulmano nel cuore del dar-el-Islam.

[16] Le stime in proposito parlano di più di un migliaio in Gran Bretagna, controllate all’80% da due grandi organizzazioni pakistane, circa mille in Francia, quasi duemila in Germania, di cui, nel 1995, 42 solo a Berlino (v. anche “Avvenire” 14.10.1999).

[17] V. Seyyed Hossein Nasr “Ideali e realtà dell’Islam”, Milano, 1989, ed. Rusconi, pag. 93.

[18] Sulle modalità dell’iniziazione v. il mio “I giovani e le rovine di Evola”, in: Atti del 7° Convegno di Studi Cattolici, Rimini, 1999, disponibili presso la Fraternità Sacerdotale S. Pio X.

[19] Cfr. Seyyed Hossein Nasr “Ideali…”, cit., pagg. 174-199.

[20][…] Ci vorrà molto tempo, ma ora finalmente è possibile un diverso approccio critico ai nostri testi, che sfugga all’interpretazione letterale degli ortodossi di Al-Ahzar (la più antica e famosa Università dell’orbe islamico, N.d.A.). Il Corano va ricollocato nella sua dimensione storica, per disgiungere i suoi tratti contingenti da quelli permanenti”, dichiara un influente intellettuale egiziano di nome Ashmawi (v. la Repubblica, 1 febbraio 1992).

[21] Bernard Lazare “L’Antisémitisme son histoire et ses causes”, Paris, 1985, Éditions de la Vieille Taupe, pag. 51.

 

 

 

[22] Hanna Zakarias “L’Islam, entreprise juive – De Moïse a Mohammed”, Tolosa, 1955, Tomo II, libro III, pag. 30.

[23] Lo stesso si deve concludere per il giuramento fatto per il Corano ebraico (il Pentateuco) scritto su un rotolo di pergamena (Sura LII, versetti 1-3).

[24] V. Isaia 44, 6.

[25] Consiste in un’analisi accurata e sottile del testo biblico operata dai rabbini talmudisti, al fine di ricavarne i significati più reconditi a completamento dell’interpretazione della Legge. Con lo stesso termine si definiscono anche i libri nei quali viene esposto tale metodo di studio.

[26] Si veda, fra le altre, le Sure XXIII, v. 59-63; XXV, v. 70-74; XVII, v. 33-40; XXVII, v. 3-4; XXXII, v. 15-16; XVI, v. 92-99; XXX, v. 37-38; XXXI, v. 3-4; XLII, v. 34-41; XLVI, v. 14; VI, v. 54.

[27] Hanna Zakarias, op. cit., Tomo I, libro II, pag. 270.

[28] Cfr. A. Cohen “Il Talmud”, Bologna, 1979, Arnaldo Forni Editore, pagg. 454-456.

[29] Ibidem.

[30] Hanna Zakarias, op. cit., Tomo II, libro IV, pag. 311.

[31] Cfr. al-Kindî “Apologia del Cristianesimo”, traduzione dall’arabo a cura di Laura Bottini, Milano, 1998, ed. Jaca Book, pag. 21. Il Corano stesso nega la possibilità dei miracoli (Sura XVII, v. 61) adducendone la ragione al rischio che Maometto avrebbe corso di vedersi opporre lo stesso rifiuto già degli antichi ad accettare i miracoli che Dio aveva per loro operato. Commenta al-Kindî: “chi ha spirito critico e chi conosce le regole della logica non può accettare una simile risposta!(op. cit., pag. 131).

 

 

 

[32] al-Kindî, op. cit., pag. 158.

[33] San Giovani Damasceno “De Haeresibus”, cap. 101, 764A, cfr. Daniel J. Sahas “John of Damascus on Islam”, Leiden, 1972, ed. E.J. Brill, pagg. 73 e 132. Si tratta della più antica testimonianza cristiana che ci sia pervenuta in lingua greca sulla conoscenza dell’Islam.

[34]De Haeresibus”, cap. 101, 765A, v. op. cit., pagg. 59 e 132.

[35] Cfr. Piero Tacchi Venturi “Storia delle religioni”, cit., pag. 25-26.

[36] al-Kindî, op. cit., pagg. 160-161.

[37] Ivi, pag. 158.

[38] Ivi, pag. 166, nota 281.

[39] Ibidem.

[40] Ivi, pagg. 255, 256.

[41] Ivi, pagg. 177-178.

[42] Ivi, pagg. 113-116; 118-122.

[43] Toby Lester “What Is the Koran?”, in “The Atlantic Monthly”, January 1999, Volume 283, n. 1, pagg. 43-56. Si tratta di una rivista che costituisce un riferimento fisso del mondo culturale americano da più di 140 anni. Uno studio più specialistico dei frammenti è stato pubblicato su “Magazin Forschung”, n. 1/1999 dell’Università dello Saarland a cura di Gerd Rüdiger Puin, Hans-Caspar von Bothmer e Karl-Heinz Ohlig.

[44] ‘Uthman fu il creatore della prima flotta musulmana e quindi colui che inaugurò le scorrerie verso le isole greche di Cipro (648), Rodi (653), Creta e le Cicladi. Venne assassinato come il suo predecessore Umar (634-644).

[45] Cfr. Piero Tacchi Venturi “Storia delle religioni”, Torino, 1971, ed. UTET, Vol. V, pagg. 26, 76, 124.

[46] Per il vero la ragione umana fu ammessa come fonte di diritto in quanto sforzo di interpretazione dei testi sacri. Come rapporta il Del Valle: “[…] però, eventualmente, per il mondo arabo-musulmano è stato convenuto che a partire dal V secolo dell’Egira le porte dell’Idjtihad (e cioè di tale fonte di diritto, N.d.A.) sarebbero state definitivamente chiuse” (“A. Del Valle, “Islamisme…”,, cit., pagg. 42-43).

[47]Voi formate la migliore comunità suscitata fra gli uomini; voi ordinate ciò che è conveniente, vietate ciò che è deplorevole” (Sura III, v. 110). “Non fate la pace se avete la superiorità” (Sura XLII, v. 35).

[48] Cfr. Sura IX, versetti 29, 30; Sura XXXI, v. 12; Sura IV, v. 48; Sura XV, v. 94.

[49] Scuola teologica musulmana sorta nel 718, aperta a differenti idee filosofiche tramite anche l’eredità greca. Come principio metodico stabilì la legittimità del raziocinio filosofico nella spiegazione dei dogmi religiosi rivelati. Il gruppo più numeroso dei teologi dell’Islam ha invece sempre sostenuto che il Corano va preso alla lettera, come al-Ashari e il persiano al-Ghazali (1058-1111) autore di una condanna senza appello di Aristotele e di coloro che pretendono di avvicinarsi criticamente al Corano. Si tratta di correnti rigoriste di pensiero il cui prolungamento è giunto fino a Mohammed ibn’Abd El Wahhâb (1703-1787), e quindi al fondatore dei “Fratelli musulmani” Hassan el Banna (1906-1949) approdando infine alla monarchia saudita di oggi, appunto “wahhâbita”, costante riferimento e sostegno su scala mondiale dei musulmani ultraortodossi.

[50] Cfr. Rabbi Solomon Ganzfried “Code of Jewish Law – Kitzur Shulhan Arukh”, Hebrew Publishing Company, New York, 1963.

 

 

 

[51]Voi siete la miglior nazione che sia stata prodotta agli uomini; voi ordinate ciò che è lodevole, e proibite ciò che è riprovevole, e credete in Dio.” (Sura III, v. 106).

 

 

 

[52] Per il vero anche il cristianesimo, praticamente fino a Pio XII, ha sempre sostenuto che la legge viene da Dio e non dai parlamenti e dalle maggioranze umane. Il Sacro Romano Impero fu l’espressione storica di questa visione della Città dell’uomo edificata ad imitazione di quella di Dio, mentre democrazia e dittatura vantano invece entrambe origini agnostiche e laiciste. Un Impero che fu la rappresentazione dell’orbe cattolico per dieci secoli, nonostante la grave scissura della Riforma, fino al 1805, quando Napoleone, all’indomani di Austerlitz, dichiarò nella pace di Presburgo di disconoscerlo anche nominalmente. Francesco II d’Asburgo rinunciò tosto alla millenaria corona mutando il nome da Sacro Romano Impero in quello, solo geograficamente significativo, di Impero Austro-ungarico.

[53] V. “La Stampa”, 8.8.1994.

[54][…] Quelli che non credettero, d’infra la gente del Libro e i politeisti, andranno nel fuoco della gehenna, per rimanervi in eterno; di tutti gli esseri creati, quelli sono i peggiori” (Sura XCVIII, vers. 5). “Chi […] avrà disubbidito a Dio e al suo apostolo e avrà trasgredito i suoi precetti, Dio lo introdurrà in un fuoco, nel quale rimarrà in eterno e avrà un castigo ignominioso” (Sura IV, vers. 19, v. anche: Sura VIII, vers. 37). Sono queste tutte legittimazioni della jihâd, la guerra contro gli infedeli e gli apostati.

[55] Luigi Bonelli “Il Corano”, ed. Hoepli, Milano, 1969, pag. 532. Accusa alla quale aveva già risposto al-Kindî nella sua “Apologia del Cristianesimo”, cit., pagg. 238-239.

[56] V. Sura LII, v. 19-24 e Sura LVI, v. 15-39. Il primo piacere sarà di mangiare, di bere vino “che non farà mal di testa”, servito da efebi eternamente giovani […], deflorare su morbidi letti fanciulle, le hûri “dai grandi occhi” (v. Sura LV, v. 72, 74). Cosa rimane allora del paradiso musulmano se si tolgono i banchetti e le hûri?

[57] Sunnah e Talmud rifiutano allo stesso modo e categoricamente la testimonianza dei bambini, delle donne sole, degli schiavi, dei minori, dei sordi, dei muti, dei dissoluti, degli allevatori di piccioni, colpevoli del ruolo assunto in storie di amori illeciti… Cfr. Alexandre Del Valle “Islamisme et États-Unis – Une alliance contre l’Europe”, cit., pag. 63.

 

 

 

[58] Fu questa l’epopea eroica e sconosciuta di “donne che Comboni aveva voluto per sé per rigenerare l’Africa”, narrata in libri come “Donne fra fedeltà e violenza”, di Lorenzo Gaiga, Editrice Missionaria Italiana (E.M.I.) Bologna, 1993, o “Tutti sapevano che ero stata suora”, scritto dalla stessa Teresa Grigolini Cocorempas che descrive la sua terribile esperienza di un matrimonio imposto dalla persecuzione musulmana, E.M.I., Bologna, 1996.

[59] V. “Panorama”, 3.9.1998.

[60] V. su “Avvenire” del 20.9.2000 l’articolo: “Tratta dei neri in Sudan è storia d’oggi”.

[61] Cfr. sito Internet: www.csi-int.ch/csi-whatdoes.htm

[62] Christian Jacq “Barrage sur le Nil”, Paris, 1994, ed. Laffont, pagg. 55-57, cit. in Alexandre Del Valle “Islamisme et États-Unis – Une alliance contre l’Europe”, cit., pag. 71. I libri di storia scolastici magnificano l’apporto della cultura araba fra l’VIII e il XIII secolo nello salvare e trasmettere fino a noi i classici dell’antichità, trascurando tuttavia di osservare che essi poterono evidentemente trasmettere solo ciò che i “Cavalieri di Allah” non avevano distrutto, come la grande biblioteca ellenistica di Siracusa, incenerita nella distruzione della città dell’878.

[63] V. ad es. Roberto Lopez “La nascita dell’Europa”, Torino, 1966, ed. Einaudi, pag. 86, e più tardi Franco Cardini “Quella antica festa crudele”, ed. Mondadori, Milano, 1995, pag. 15.

[64] Oggi Garde-Freinet, borgo della Camargue sulla costa fra Marsiglia e Nizza.

[65] Marc Bloch “La società feudale”, ed. Einaudi, Torino, 1987, pag. 18.

[66] Da “Türk”, che significa “forza”, un ceppo etnico provenienti dalle montagne dell’Altai, una regione cuscinetto tra il Kazakistan e la Mongolia. Oggi i Turcofoni popolano una zona che va dalla Siberia alla penisola balcanica.

[67] I Turchi avrebbero presto acquistato autorità e potere all’interno delle gerarchie abbàsidi. Stabiliti in Egitto fra il IX e il X secolo i Turchi formarono fino al XVI secolo una casta militare col nome di Mamelucchi. Verso la fine dell’XI secolo la disgregazione del califfato abbaside fu temporaneamente arrestata dall’avvento al potere di una forte dinastia di sultani, quella dei turchi Selgiuchidi, che regnarono in nome degli Abbasidi.

[68] L’Impero dei Khazari si estendeva da Kiev al Volga. Essi si dissolsero come entità politica nel XIII secolo sotto la spinta delle orde mongole di Gengis Khan e, pare, se ne persero le tracce. Di queste vicende tratta il libro di Arthur Koestler, un famoso scrittore israelita ungherese, “La tredicesima tribù – L’impero dei Cazari e la sua eredità”, Edizioni di Comunità, Milano, 1980. Interessante l’informazione di pagina 257, dove Koestler annota che “la maggioranza degli ebrei dell’Europa orientale – e dunque degli ebrei del mondo – è di origine turco-cazara piuttosto che semitica”.

[69] Henri Pirenne “Storia d’Europa. Dalle invasioni al XVI secolo”, ed. Sansoni, Firenze, 1978, p. 20.

[70] Michelangelo Guidi in: Piero Tacchi Venturi “Storia delle religioni”, cit., pag. 23.

[71] Basti pensare all’accurata distruzione di ogni vestigio dell’antico splendore cattolico di Buda, in Ungheria, operata dai Turchi nei 145 anni della loro occupazione, durata dal 1541 al 1686.

[72] Bat Yé Or “Juifs et Chrétiens sous l’Islam, les Dhimmis face au défi integriste”, ed. Berg international, Paris, 1994, cit. da Alexandre Del Valle nel suo “Islamisme et États-Unis…”, cit. pag. 60.

 

 

 

[73] Cfr. Andrea Pacini, esperto di questioni islamiche della Fondazione Agnelli, “Chi sono i cristiani orientali”, in: liMes, 1997/1 “Le divisioni dell’Islam”.

[74] R. Panetta “I Saraceni in Italia”, cit., p. 98 e nota 1.

[75] Cfr. “Enciclopedia Cattolica”, ed. Sansoni, Città del Vaticano, 1949, voce “Cartagine”. Il donatismo fu uno scisma della Chiesa cristiana d’Africa che iniziato verso il 300 si protrasse per 350 anni prendendo il nome da Donato, vescovo di Cartagine. Origine dello scisma fu il dissenso sull’operato del clero durante la persecuzione di Diocleziano. Il Primate d’Africa, Mansurio, inquisito dalle autorità romane aveva consegnato loro dei libri religiosi, attirandosi in tal modo le censure di parte del clero che definì lui e i suoi sostenitori traditores e pretendendo la loro deposizione. I donatisti sostenevano che la Chiesa era riservata solo ai giusti e che i peccatori dovevano esserne esclusi.

[76] Henri Pirenne “Storia d’Europa…”, cit., p. 21.

[77] In realtà il nome di Saraceni nei primi secoli dell’Islam era riservato a popolazioni arabe stanziate nella zona di Akaba, nel sud del Sinai. Già san Giovanni Damasceno (morto nel 749) chiamava i seguaci dell’Islam con questo nome.

[78] Queste e altre interessanti notizie sulla persecuzione degli ebrei da parte degli arabi si trovano in “Pensare la storia”, di Vittorio Messori, Milano, 1992, ed. Paoline, pag. 626 e passim.

[79] Termine col quale nel medioevo si indicavano gli abitanti della Mauritania, chiamati Mauri, contratto poi in Mori. Non, quindi, per il colore nero della pelle (cfr. Rinaldo Panetta “I Saraceni in Italia”, cit., p. 70, nota 1).

[80] Ibn Khaldun Abddar Rahman (Tunisi 1332 – Cairo 1406) è annoverato fra le grandi figure della cultura araba a fianco di Averroè e di Avicenna. Fu autore di una storia universale considerata imprescindibile da ogni studioso di storiografia arabo-musulmana.

[81] Cfr. Henri Pirenne “Maometto e Carlomagno”, ed. Laterza, Bari, 1976, pagg. 174-175.

[82] Halil ibn Ishaqm Il Muhtasâr, sommario del diritto malechita, tomo I, pp. 388 e 395, traduzione dall’arabo di Ignazio Guidi, Miano, 1919. La nota è presa pari pari dal citato libro del Panetta “ I Saraceni in Italia”, pag. 251.

[83] Ed. Mursia, Milano, 1981.

[84] Significative descrizioni di testimoni oculari in: F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., pagg. 36-38.

[85] C. Manfroni “Storia della marina italiana”, Livorno, 1899, vol. III, pag. 23.

[86] F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., Tomo I, pag. 133, dove non mancano testimonianze coeve.

[87] Ivi, pag. 190.

[88] In realtà sporadiche incursioni saracene su quelle coste, anzi fino in Inghilterra, si ebbero anche nei secoli precedenti, ma sempre a carattere episodico.

[89] “Non passava giorno che non ne appiccasse qualcuno; impalava questo, tagliava gli orecchi a quello. E tutto ciò per così piccoli motivi, e anche senza motivo, che i turchi stessi riconoscevano che egli lo faceva proprio soltanto per farlo, e perché il suo carattere lo chiamava a essere un assassino del genere umano”, Miguel de Cervantes “Don Chisciotte della Mancia”, a cura di Ferdinando Carlesi, Milano, 1964, vol. I, pagg. 309-10.

[90] In realtà la figura di Andrea Doria non fu sempre gloriosa per le armi cattoliche: basti ricordare l’episodio della cattura di uno dei più grossi predoni barbareschi, il Dragût, una minaccia permanente per la Cristianità, con una lista di innumerevoli delitti che gli avrebbe meritato subito la forca, e che il Doria rimise misteriosamente in libertà dietro pagamento di un riscatto assai modesto, a fronte di una promessa di benevolenza da parte del pirata, in realtà per precise convenienze politiche. Come era da attendersi, il predone si rimise naturalmente tosto in mare con una squadra di fuste e, animato da spirito di vendetta, scatenò terrore e devastazioni ancora maggiori di prima. In altre occasioni il Doria impedì di fatto che le leghe navali contro i Turchi potessero raggiungere gli scopi prefissi, tergiversando a lungo per guadagnare tempo onde non far prevalere Venezia o la Francia sulla Spagna.

[91] R. Panetta, “Pirati e corsari turchi e barbareschi…”, cit., capitolo undicesimo.

[92] Ivi, pag. 79.

[93] Verrà ridistrutta nel 1552 e poi ancora nel 1594 dal cosiddetto barone Cicala, catturato da giovane nel 1561 da Dragût, che ne fece dono al Sultano. Abbracciato l’Islam col nome di Sinâm, divenne ben presto un capo pirata e quindi ammiraglio della flotta turca. Nel 1594 a capo di 70 galere ridusse a un cumulo di macerie calcinate Reggio e le coste siciliane (R. Panetta “Pirati e corsari turchi e barbareschi…”, cit., pagg. 263-264). Famosa la sua visita – avvenuta al largo di Messina a sua richiesta il 21 settembre 1598 – alla madre e ai fratelli, che rimasero suoi ospiti a bordo della nave ammiraglia fino all’indomani.

[94] Già Ordine degli Ospedalieri della Terrasanta o Cavalieri di San Giovanni, detti anche di Rodi, dal nome dell’isola dove si erano attestati (1308) dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1187) e una breve permanenza a Cipro (1291).  Vi furono scacciati nel gennaio del 1523 dai Turchi e dovettero trasferirsi prima a Civitavecchia, indi a Viterbo e a Nizza. Per parecchi anni combatterono la pirateria di concerto con le galere pontificie, per approdare definitivamente a Malta, della quale Carlo V aveva deciso nel 1530 di far loro donazione. Da allora presero il nome di Cavalieri di Malta, isola che fortificarono e governarono fino al 1798, anno in cui il Bonaparte se ne impadronì sulla via dell’Egitto. Vi trasferirono un ospedale militare, attivo ancor oggi nell’antico spirito dell’Ordine, apportatore di civiltà, cultura e carità cristiane.

[95] Id., pag. 161.

 

 

 

[96] Id., pag. 156.

 

 

 

[97] Flavio Russo “La difesa costiera dello Stato Pontificio dal XVI al XIX secolo”, Roma, 1999, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, pag. 45.

[98] P. Dan “Histoire de barbarie et de ses corsaires”, Paris, 1649, pag. 165.

 

 

 

[99] Flavio Russo “La difesa costiera dello Stato Pontificio…”, cit., pag. 138, nota 11.

[100] In quel momento l’Impero ottomano si estendeva dalla Polonia all’Adriatico, dal mar Nero a tutta la Balcania, Grecia inclusa, che venne liberata solo nel 1821.

[101] R. Panetta “Pirati e corsari turchi e barbareschi…”, cit., pag. 231.

[102]Avvenire”, 11 ottobre 2000.

[103] Una testimonianza del tempo sul carattere dei giannizzeri in: F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., Tomo I, pagg. 32-33; per una descrizione della loro struttura di potere v. il capitolo dedicato a pag. 395 della stessa opera, Tomo II.

[104] Si veda Rinaldo Panetta “Il tramonto della Mezzaluna – Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum XVII, XVIII, XIX secolo”, cit..

[105] Abate Renato Rohrbacher “Storia universale della Chiesa cattolica”, Torino-Roma, 1904, Marietti editore, vol. XIV, pagg. 430.

[106] Maria Héyret “Padre Marco d’Aviano”, Padova, 1999, Edizioni Messaggero Padova, pag. 254.

[107] F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., Tomo II, pag. 429.

[108] Cfr. F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., Tomo II, pag. 401 e segg..

[109] R. Panetta “I Saraceni in Italia”, cit., pag. 258. Per un paragone fra le condizioni dei cristiani nei “bagni” della Barberia e i pirati catturati dalle milizie di difesa cristiane si vedano gli stralci dei documenti dei cronisti del tempo, che il Panetta fedelmente trascrive con dovizia di particolari (citando uno storico insuperato della pirateria, il Guglielmotti) in un altro suo libro dal titolo “Il tramonto della Mezzaluna – Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum – XVII, XVIII, XIX secolo”, ed. Mursia, Milano, 1984, pagg. 165-166.

[110] Cfr. F. Russo “Guerra di corsa…”, cit., Tomo II, pag. 443, dove si menziona anche la sorte di uno schiavo inglese rimasto incatenato per 28 anni ad un altro schiavo sulle montagne dell’Atlante algerino, “spessissimo attaccato all’aratro come una bestia da soma per lavorare la terra. La sua condizione durò in tutto 34 anni” (pag. 444).

[111] B. Forteguerri “Proposta di campagna marittima per i Bastimenti della Marina da Guerra di S.M. il Re delle Sicilie nell’anno 1798”, Palermo, 1798, Reale Stamperia, pagg. 9-31, riportato in: R. Panetta, “Il tramonto della Mezzaluna…”, cit., pagg. 212-214.

[112] Avvenire, “Le centrali di Maometto”, 17.10.1999.

[113] Padre Samir Khalil Samir è direttore del “Gruppo di ricerca arabo-cristiana” che cura traduzioni in italiano di opere di arabi cristiani. Di p. Samir è l’articolo pubblicato su “Avvenire” dell’8 dicembre 2000: “Cosa si cela sotto la moschea”, qui citato. Ricordiamo che nel corso della rivoluzione islamica di Khomeini del 1979 nelle moschee veniva lanciato ogni venerdì un appello «all’espulsione, all’islamizzazione forzata e anche allo sterminio dei “residenti stranieri indesiderabili”» (da: “Pro Deo et fratribus”, Roma, febbraio 1990).

[114] L’ex presidente della repubblica turca Süleyman Demirel così giustificava nel 1976 la presenza della Turchia nell’ “Organizzazione della Conferenza Islamica”: “[…] solo lo Stato è laicista, ma non la nazione, e l’Islam è il comune denominatore della politica estera, sia turca che islamica” (in: Neue Zürcher Zeitung, 27-28.5.1976); del resto, assai contraddittoriamente con la laicità proclamata dallo Stato kemalista, l’articolo 2 della Costituzione del 1924 recitava: “La religione dello Stato turco è l’Islam”.

[115] Cfr. Autori vari “La libera muratoria”, Milano, 1978, Sugarco Edizioni, pag. 318.

[116] Società segreta sul modello della “Giovane Europa” e delle varie “Giovani Italie”, “Giovani Germanie” e via dicendo, che suscitò un movimento politico con l’intento di conciliare la civiltà occidentale con la realtà islamica. Gran parte dei “Giovani Turchi” erano ebrei “provenienti da una setta giudaica (i Dumneh) che professavano esternamente l’Islam, ma mantenevano i culti ebraici nel segreto delle loro case” (Maurizio Blondet “Gli Adelphi della dissoluzione”, Milano, 1994, ed. Ares, pag. 50). Lo stesso Kemal Atatürk, nativo di Tessalonica in Grecia, era opinione comune fosse di origine dumneh (una setta di ebrei cabalisti che si rifaceva segretamente agli insegnamenti di un cabalista del XVII secolo, Shabbetai Zevi, che si spacciava per il Messia) e perciò legato al grande centro ebraico di Salonicco, dove operava una loggia del B’nai B’rith internazionale (cfr. Gershom Scholem “La Cabala”, ed. Mediterranee, Roma, 1992, pagg. 331-32 e 248-49. Di passata segnaliamo anche la significativa notizia, riportata a pagina 304 dello stesso libro, secondo la quale un seguace della setta sabbatea, Yacob Frank, andava predicendo fra il 1775 e il 1780 una prossima: “rivoluzione generale che avrebbe travolto molti regni e in particolare la Chiesa cattolica”).

Editore del giornale dei Giovani Turchi fu un ebreo di Odessa, Vladimir Jabotinski (1880-1940), fondatore dell’Irgun, l’organizzazione terroristica ebraica operante in Palestina sotto protettorato britannico, e successivamente del Likud israeliano. Fautore di un sionismo “armato e razzista… finì per aderire al fascismo e simpatizzò apertamente per il Terzo Reich” (in: M. Blondet “I fanatici dell’Apocalisse”, Rimini, 1992, ed. Il Cerchio, pag. 26; dello stesso autore v. anche in argomento “Complotti II”, Milano, 1996, ed. il Minotauro, pagg. 98-103).

[117] Cfr. ITC dossier: “Stermini del Novecento”, a cura di Giovanni Carpinelli, Trento, dicembre 1999, ed. Istituto Trentino di Cultura, con apprezzabile bibliografia.

[118] Nel corso della seconda guerra mondiale Bernard Lewis lavorò come agente dei servizi segreti britannici per il Foreign Office. Sotto l’amministrazione Carter Lewis elaborò, assieme a Zbigniew Brzezinski, la tesi – pubblicata nel 1992 sulla rivista del CFR, Foreign Affairs – secondo cui l’URSS andava “cinturata” di musulmani fondamentalisti per destabilizzarla. Una tesi divenuta di grande attualità soprattutto dopo l’artificiosa “caduta” del comunismo (cfr. “Executive Intelligence Review”, Washington, numero del 9 giugno 1995, pag. 10, e nella parte seconda di questo studio il capitolo “L’esperimento ceceno”).

[119] Cfr. Marco Impagliazzo “Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916)”, Milano, 2000, ed. Guerini e Associati, pag. 17 e passim.

 

I Rothschild erano schiavisti.

Quest’anno è l’anniversario della nascita di Giovanni Calvino. Dall’epoca del famoso libro di Max Weber, sulle origini del capitalismo, si sente insistente il ritornello secondo cui il calvinismo sarebbe alle origini del capitalismo.

Si tratta di uno dei tanti luoghi comuni, smentito dal bellissimo La vittoria della ragione di Rodney Stark. A meno che per capitalismo non si intenda il culto del denaro sino al disprezzo degli uomini. In tal caso è vero: il calvinismo e in generale il distacco da Roma da parte del mondo anglossassone, è stato all’origine del capitalismo selvaggio, aggressivo e spesso disumano.

Il capitalismo, per intenderci, che si è affermato con il triangolo comerciale, basato sugli schiavi, vero motore della rivoluzione industriale, con le guerre dell’oppio, e con un certo tipo di colonialismo, inteso come conquista di mercati e di materie prime.

Recenti rivelazioni ci ricordano come i pionieri della City, cui in tanti ancor oggi guardano come al tempio del progresso e della "libertà calvinista", contrapposta alla "schiavitù romana", sono ingrassati in buona parte proprio grazie allo schiavismo e alla violazione dei diritti umani. Sono considerazioni interessanti al tempo di Maddoff e della nuova enciclica sociale di Benedetto XVI.

 

"Gli «antischiavisti» erano degli schiavisti. Centinaia di documenti con il marchio «T71», conservati negli Archivi di Stato, mettono con le spalle al muro due fra i nomi che hanno scritto la storia della City e della grande finanza.

Natham Mayer Rothschild e James William Freshfield, vissuti nella prima metà dell’Ottocento, hanno avuto per quasi due secoli il profilo di bravi precursori del capitalismo illuminato, fermi oppositori della brutalità schiavista. Oggi le loro biografie sono da rivedere sotto lenti ben diverse. Questo cambiamento lo si deve a Nick Draper che ha lavorato alla banca d’affari «JP Morgan» per venticinque anni ma che, una volta abbandonata la scrivania del prestigioso istituto per dedicarsi ai suoi interessi di storico dell’economia all’University College di Londra, ha cominciato a indagare sui rapporti fra la City e il traffico di uomini e donne deportati dalle colonie.

Un tema che viene affrontato con molta cautela negli ambienti dell’alta finanza londinese, perché, dietro ad alcuni dei bei nomi delle famiglie che hanno trasformato il «Miglio Quadrato» sulla sponda nord del Tamigi nel crocevia del business mondiale, vi possono essere imbarazzanti percorsi di arricchimento e che inconfessabili relazioni intrattenute con chi fece fortuna mettendo i ceppi alle caviglie e ai polsi di milioni di africani. Gli eredi e i successori, in molti casi, hanno riparato con fondi a sostegno delle popolazioni nere povere e riconoscendo le colpe dei fondatori. In altri casi, quelle vergogne sono rimaste sepolte e blindate. I Rothschild, ad esempio, dinastia di banchieri che ha cominciato ad operare in Inghilterra nel 1808, e i Freshfields, dinastia di illustri e potenti avvocati che conosce i segreti della City e che vanta una ragnatela di 2600 legali associati oltre a una infinità di studi sparsi in ogni angolo del mondo (Europa, America, Arabia Saudita, Vietnam, Cina e Giappone) si trovano improvvisamente sotto la luce dei riflettori a rispondere delle macchie del passato. Proprio Nick Draper ha scovato infatti, negli archivi di Kew Garden, i dossier su Natham Mayer Rothschild, figlio di Meyer Aemchel Rothschild che avviò la carriera a Francoforte, e James William Freshfield dai quali risulta che entrambi beneficiarono dello schiavismo.

Il Financial Times, la bibbia della City, ieri vi ha dedicato il titolo di apertura del giornale, sei colonne in prima pagina: i documenti rivelano i legami dei fondatori di Rothschild e Freshfields con la schiavitù. Per quanto riguarda il banchiere vi è un dossier che contiene gli originali di una richiesta di compensazione, avanzata da Natham Mayer Rothschild e dal fratello il barone James, a copertura di una garanzia di 3 mila sterline concessa a Lord James O’Bryen. Tale compensazione, nel 1830, fu rivendicata all’indomani dell’atto di abolizione della schiavitù nel Regno Unito. Che cosa era accaduto? Un tale Lord James O’Bryen aveva chiesto un credito ai fratelli Rothschild i quali, in cambio, avevano sollecitato e ottenuto «un’ipoteca» sulla proprietà del debitore, ad Antigua, comprensiva degli 88 schiavi che lì erano sfruttati. Lord James finì insolvente e i Rothschild pretesero l’adempimento dell’impegno. Nel frattempo però la schiavitù fu dichiarata illegale. Per rientrare di quell’impegno, i banchieri si rivolsero al governo di Sua Maestà, presentando gli atti del loro business, e alla fine ebbero le loro 3 mila sterline.

È la dimostrazione che i Rothschild intrattennero stretti rapporti d’affari con i proprietari terrieri e con l’aristocrazia schiavista. E che, nonostante le dichiarate posizioni contrarie alla tratta, non abbandonarono mai l’idea di vendersi ripagare il prestito con 88 schiavi. Più compromettente è il coinvolgimento dell’avvocato James William Freshfield e del figlio, titolare dello studio legale più importante della City: per conto di alcuni clienti operarono con mandato di fiduciari e amministratori nel trasferimento di proprietà, anche in questo caso, «comprensive » di decine di schiavi.

E’ evidente che dagli accordi conclusi, dunque, che dal traffico di schiavi trassero buone parcelle. Notizie e rivelazioni che ribaltano l’immagine del vecchio James William Freshfield a quei tempi, membro attivo della Church Missionary Society. Sconcertate le reazioni in casa Rothschild e da parte dello studio Freshfields. La responsabile degli archivi Rothschild ha ammesso che la documentazione è nuova e che non era a conoscenza di questi legami compromettenti dei due fratelli Natham e James. Mentre lo studio legale, «orgoglioso della sua lunga tradizione a supporto dei diritti umani» promette una «investigazione» attenta sulle circostanze che sono emerse: quel volto della City che chissà come è rimasto segreto per quasi due secoli. Fabio Cavalera 28 giugno 2009

La rivoluzione francese: letture critiche dell’alba della modernità.

 

La Bastiglia aprì la via al Gulag

 

 

Fa discutere il volume sulla Francia giacobina. Culla della moderna democrazia o feroce strage? Gli autori: la politica della ghigliottina è l’antenata del comunismo.

 

«Il governo rivoluzionario è debitore, nei confronti dei buoni cittadini, di tutto l’appoggio della nazione, mentre ai nemici del popolo deve nient’altro che la morte». Così Robespierre difese il Terrore il 25 dicembre 1793, davanti alla Convenzione nazionale. Cosa fu il Terrore: necessaria difesa della Repubblica o macchina di morte manovrata da una élite sanguinaria? Deviazione dai princìpi del 1789 che ispirarono la "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino" o loro figlio legittimo?

Un libro appena uscito in Francia riapre la discussione. "Le livre noir de la Révolution francaise" (Editions du Cerf, pp. 882, euro 44) richiama ovviamente quel "Libro nero del comunismo" che una decina d’anni fa fu accolto con fastidio dall’intellighenzia progressista europea. Non a caso uno dei 47 studiosi che ha dato vita a questa monumentale opera collettiva è Stéphan Courtois, curatore di quell’atto d’accusa al totalitarismo "rosso".

Questa volta si tratta di rimettere in prospettiva il fenomeno storico, pressati da una domanda: perché una Rivoluzione che si pretendeva figlia dei Lumi e di Voltaire (quello che diceva «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire») finì per celebrare le virtù della ghigliottina?

Per rispondere all’interrogativo, i contributi dei vari autori smontano pezzo per pezzo il puzzle costruito dalla mitologia républicaine. I massacri della Vandea, anzitutto. I contadini di questa regione insorsero, nel marzo 1793, contro la decisione della Convenzione di arruolare a forza 300 mila uomini da gettare nella guerra contro Austria e Prussia. Un rapporto della Convenzione diceva a chiare lettere che «non c’è alcun mezzo di riportare la calma in quella regione che facendone uscire quelli che non sono colpevoli, sterminandone il resto, e rimpiazzandolo con dei repubblicani che difenderanno il loro Paese».

Perfino Bertrand Barère, il membro "ondeggiante" del Comitato di Salute pubblica, perde il suo proverbiale sangue freddo e intima: «Distruggete la Vandea!». Il generale in capo dell’Armata dell’Est, Turreau, conferma gelido: «La Vandea deve diventare un cimitero nazionale». Il giacobino Jean-Baptiste Carrier esplode quasi esasperato: «Che non ci si venga più a parlare di umanità verso questi feroci vandeani: devono essere tutti sterminati!». E sterminio fu. Si portano in giro le teste mozzate.

 Jean Tulard, docente alla Sorbona e all’Istituto di Studi politici di Parigi, fra gli autori del "Livre noir", ha spiegato in un’intervista alla rivista AF2000: «Il Terrore è irriducibile agli "eccessi". Dal 14 luglio, quando la folla porta a spasso la testa di Launay (governatore della Bastiglia, ndr), ha il solo scopo di azzerare le resistenze. Quando si conducono i condannati dentro una carretta per chilometri prima di arrivare al patibolo, noi abbiamo già a che fare con un sistema terrorista».

Anche gli annegamenti degli oppositori a Nantes (circa 3 mila persone), pianificati dallo stesso Carrier che inneggiava al macello in Vandea, furono "dissuasivi": «Quando i pescatori seduti sulle rive della Loira hanno visto passare i cadaveri a pelo d’acqua hanno dovuto temperare i loro sentimenti contro-rivoluzionari».

C’è naturalmente la persecuzione contro la Chiesa. Migliaia di teste cadute all’interno del clero "refrattario", quello cioè che non aveva prestato il giuramento di fedeltà al documento di "Costituzione civile del clero" approvato dall’Assemblea Costituente nel 1790. 

 In parallelo, la furia rivoluzionaria si accanì anche contro il patrimonio artistico francese, colpevole di rinviare troppo all’Ancien Régime. A Parigi ne fecero le spese la chiesa des Bernardins, la biblioteca di Saint-Germaindes-Prés, le statue dei re sulla facciata di Notre Dame. Le ceneri di molti grandi uomini furono gettate nella Senna o nelle fogne. Anche quelle di Montesquieu, non a caso teorico dello Stato liberale basato sull’"equilibrio" dei poteri.

Altro tasto su cui battono gli autori del "Livre noir": le analogie con i totalitarismi del Novecento, il nazismo ma soprattutto il comunismo di stampo sovietico. Sistematizzazione della politica del Terrore, omicidi delle famiglie regnanti, attacchi contro i religiosi, utilizzo della guerra per militarizzare e purgare la società, sacralizzazione della violenza.

Tutte arti in cui i bolscevichi andranno oltre, ma fu Lenin a richiamare il precedente come esempio da superare: «La ghigliottina non era che uno spauracchio che spezzava la resistenza attiva. Questo non basta. Noi non dobbiamo solo spaventare i capitalisti, cioè far loro dimenticare l’idea di una resistenza attiva contro di esso. Noi dobbiamo spezzare anche la loro resistenza passiva». Dalla ghigliottina al Gulag.

Ovvio che tesi del genere abbiano scatenato un polverone Oltralpe. Dove la retorica repubblicana è bipartisan. Anche Le Figaro, giornale della destra francese, ha stroncato le "Livre noir", chiedendosi: «Lo spirito totalitario non è morto. Bisogna prendersi il rischio di risvegliarne il cadavere rianimando un dibattito che era stato vinto (una volta tanto) dal campo liberale e chiarito?». La risposta alle polemiche Il radical-chic Le Nouvel Observateur ha invece attaccato frontalmente il libro, con lo sferzante titolo "Non, Danton n’est pas Hitler!" (No, Danton non è Hitler), pur ammettendo che c’è un fondo di verità.

Alle critiche ha risposto tra gli altri lo storico Jean Sévillia, autore di uno dei contributi al testo: «L’iconografia ufficiale, quella dei manuali scolastici, quella della televisione, mostra gli avvenimenti del 1789 e degli anni seguenti come il momento fondatore della nostra società, cancellandone tutto ciò che vogliono occultare: il Terrore, la persecuzione religiosa, la dittatura di una minoranza, il vandalismo artistico».

Da cui l’idea-base del "Livre noir": «Mostrare l’altra faccia della realtà e ricordare che c’è sempre stata un’opposizione alla Rivoluzione francese, ma senza tradire la Storia».

La Storia, per inciso, dice che dal caos rivoluzionario scaturì il primo dittatore moderno, Napoleone Bonaparte. (Da: Libero del 9 marzo 2008)

 

2 La verità sulla presa della Bastiglia.

 Quattro falsificatori di moneta che se la diedero subito a gambe. Due pazzi pericolosi che, scambiati per «filosofi» e, dunque acclamati sulle prime come «vittime della repressione», furono rinchiusi, chiarito l’equivoco, in un manicomio. Un maniaco sessuale: un giovane depravato allievo del marchese de Sade, messo dietro le sbarre per richiesta della sua stessa famiglia. Sette detenuti che sarebbe difficile definire «politici». Sette «perseguitati» assai improbabili.

Eppure, è sulle loro miserevoli spalle che, da due secoli, grava il mito della presa della Bastiglia da parte del popolo parigino, con conseguente liberazione di prigionieri che sarebbero stati tragico simbolo dell’assolutismo monarchico. In realtà, i quattro falsari, i due matti e il depravato erano i soli ospiti della fortezza-prigione quando fu assalita, nella tarda mattinata del 14 luglio 1789. La storiografia da manuale scolastico data ancora da quel giorno l’inizio del "mondo nuovo".

A duecento anni di distanza un grandioso corteo, con rappresentanze di tutto il mondo, sfila a Parigi, per ricordare il giorno glorioso, davanti a François Mitterrand (che della "Grande Révolution" si considera figlio diretto e legittimo). Sarà dunque bene vaccinarsi, una volta per tutte, con quei vigorosi antidoti alla retorica che sono ironia e senso critico, del tutto legittimi davanti al mix di ridicolo e di orrore che fu la vera «presa della Bastiglia». Si sa che ogni rivoluzione ha bisogno vitale di un «mito di fondazione» che, di solito, viene identificato in una «presa»: la «presa della Bastiglia», ma anche la «presa» di Roma per il Risorgimento, la «presa del Palazzo d’inverno» per il regime marx-leninista in Russia.

Quanto alla Pietroburgo del 1917, chi un poco frequenti la storia sa bene che non ci fu alcuna «presa» e che la residenza della corte, abbandonata da mesi dallo Zar, fu occupata da un piccolo gruppo di bolscevichi praticamente senza colpo ferire. Realtà, naturalmente, ben diversa dai manifesti, dai film, dalle cronache magniloquenti dei successivi settant’anni.

Quanto a Roma nel settembre del 1870, è noto che, ai suoi meno che quindicimila uomini, Pio IX aveva dato l’ordine di «sottrarsi al contatto con l’invasore, concentrandosi nella capitale». Così il papa al suo comandante, generale Kanzler. Quando, a partire dal 18 settembre, Roma fu assediata, l’ordine pontificio fu: «Il minimo di resistenza, possibilmente senza alcuno spargimento di sangue, solo per significare al mondo che si cede alla violenza. Appena aperta la breccia, alzare bandiera bianca e inviare una delegazione per la resa». In effetti, in due giorni e due notti di "assedio" non fu sparata che qualche fucilata casuale, con due morti e qualche ferito. Aperta a Porta Pia la breccia, il 34° reggimento bersaglieri si arrampicò sulle macerie. Vi fu un solo morto, il maggiore Pagliari che era alla testa, per un colpo partito a un franco tiratore che aveva disobbedito agli ordini, mentre i battaglioni pontifici si concentravano, con le armi al piede, in piazza San Pietro.

In dieci giorni di "guerra", i 60.000 soldati italiani di Raffaele Cadorna avevano perduto 32 uomini, morti per incidenti vari compresi: una percentuale di 0,5 caduti ogni mille soldati. Si sa che, in un qualunque week-end di oggi, i deceduti per incidenti stradali sono proporzionalmente assai di più.

La «presa» della Bastiglia, al ridicolo aggiunse anche la crudeltà che, purtroppo, in futuro avrebbe dato il suo frutto avvelenato. Ridicolo, il fatto che in quel «simbolo dell’oppressione» non ci fossero che prigionieri che elencavamo. Ma, ridicolo, anche il fatto che l’Assemblea Nazionale rivoluzionaria manifestasse il suo solenne sdegno, quando le furono mostrate «le orribili e sconosciute macchine da tortura» trovate all’interno della fortezza. Fu esibito quello che il relatore, Dussault, presentò come «un corsetto di ferro per stritolare le articolazioni». Nessuno osò dire che si trattava di un’armatura medievale conservata nel museo di armi antiche che proprio alla Bastiglia aveva sede. Si esibì anche «una macchina non meno infernale e distruttiva», ma così segreta che non si riuscì a spiegare in che modo torturasse. Saltò poi fuori che era una pressa sequestrata tre anni prima a un tipografo che stampava pubblicazioni oscene.

Si proposero allo sdegno del popolo anche «le ossa degli sventurati, giustiziati in segreto nelle celle». Pure qui, solo anni dopo qualcuno ebbe il coraggio di ricordare che gli scheletri erano quelli dei suicidi parigini che, non potendo essere sepolti in terra consacrata, erano deposti in un cortiletto interno della fortezza. Fu infine compilata una lista ufficiale dei "vincitori della Bastiglia": risultarono 954 nomi che, oltre a una pensione vitalizia, ricevettero il diritto di portare una divisa con l’insegna di una corona di gloria.

Solo molto dopo un’inchiesta rigorosa stabilì che, poiché agli eroi era stato permesso di testimoniare l’uno per l’altro, senza alcun’altra prova, più della metà dei valorosi non aveva partecipato al fatto. Il ridicolo, certo: ma anche l’orrore per il seme di sangue che fu deposto quel giorno e che dovrebbe rendere ancora più perplessi sull’opportunità delle celebrazioni. Il governatore della Bastiglia de Launay, invitati a pranzo i capi degli assalitori (e anche questo invito a mensa dà il clima dell’"epica giornata"…), aveva ricevuto da essi la parola d’onore che, arrendendosi senza difesa, avrebbe salvato la vita sua e degli "invalidi", i vecchi soldati ai suoi ordini. Fu, invece, massacrato a tradimento. Si chiese l’intervento di un garzone di macellaio (perché, dicono le fonti, «sapeva lavorare le carni») per staccarne la testa dal busto e portarla in processione infilzata su una picca.

Altra macabra picca per la testa di Flesselles, sindaco di Parigi, che era sopraggiunto per invitare alla calma. Massacrati anche gli altri ufficiali della guarnigione, due invalidi impiccati alle sbarre delle celle; altri torturati in vari modi tra cui il taglio delle mani. Così, proprio in quel 14 luglio dell’anno primo della Rivoluzione, si apriva la diga degli orrori inenarrabili che sarebbero seguiti. Fu il primo sangue dell’onda che avrebbe travolto la Francia e poi l’Europa.

 Al mondo d’oggi che non tralascia occasione per gridare la sua avversione a ogni violenza, per proclamare la necessità della pacifica tolleranza, c’è da chiedere se è davvero il caso di fare così solenne festa per l’anniversario dell’inizio di ciò che avrebbe portato al Terrore e al genocidio vandeano e poi all’Europa spopolata dal "fils de la Révolution" per eccellenza, il Bonaparte. ( da: Vittorio Mesori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 310-313, citato in www.storialibera.it).

 

3 Intervista a Pierre Chaunu, docente di storia alla Sorbona.

C’è un un libro in particolare che ha fatto scalpore e ha suscitato violente reazioni: gli è stato rimproverato di usare il termine genocidio a proposito di quelle che non sarebbero state altro che «scaramucce politiche di un periodo sanguinoso». Si dà il caso che questo libro l’abbia introdotto proprio lei e se non sbaglio è suo anche il titolo: «Vandea, un genocidio franco-francese?».

Pierre Chaunu: Sì, la parola genocidio ha scioccato quando la usammo all’inizio, ma ora, prove alla mano, non può non essere riconosciuto come tale. Davanti al montare della marea disinformativa che le ho prima descritto, io ed i miei collaboratori ci siamo detti che bisognava intervenire. È stato così che storici di valore come Raymond Secher hanno lavorato sotto la mia direzione per riprendere in maniera scientifica un certo numero di dossier storici. Si trattava di documenti scottanti, che parlavano di sconvolgenti massacri di cattolici in Francia particolarmente nell’Ovest e in Vandea. Fu quest’ultimo un massacro talmente evidente, talmente premeditato, atroce e sistemantico —fu impartito l’ordine di liquidare le donne perché non potessero procreare, trucidare i bambini perché non divenissero i futuri «briganti»— che non capisco come si possa evitare di parlare di genocidio. La Vandea fu qualcosa di più che un orrendo massacro, fu il tentativo di sterminare definitivamente una popolazione. Vennero date alle fiamme oltre il 40% delle abitazioni e delle coltivazioni: i morti furono centinaia di migliaia su 600.000 abitanti.

Nei libri recentemente apparsi sulla storia della Rivoluzione come quello di Secher o di Frèdèric Bluche («Settembre 1792, logica di un massacro»), quali nuove acquisizioni storiche sono riferite?

Pierre CHAUNU: Alcuni argomenti nella storia della Rivoluzione francese, sono stati più che abbondantemente studiati. Si perdono tempo e soldi a riprendere costantemente gli stessi documenti. Ce ne sono altri invece che sono stati sistematicamente dissimulati, e su essi hanno indagato gli studiosi da lei citati che hanno mostrato l’ampiezza straordinaria dei massacri compiuti sotto la Rivoluzione. E ci sono altri aspetti che vengono abitualmente taciuti. Come il fatto che la Rivoluzione francese ha dichiarato guerra all’insieme dell’Europa e che sono stati i rivoluzionari, non i prìncipi, a volerla. Se si sommano le perdite della guerra e le perdite anteriori, si arriva per un Paese di 27 milioni di abitanti qual’era allora la Francia ad un totale che è nell’ordine di milioni: due milioni e cinquantamila, secondo i primi calcoli a che abbiamo fatto. Sono perdite notevolissime ancora maggiori di quella le subite della Francia nella Prima Guerra Mondiale. Naturalmente tutto questo non ha contribuito alla ricchezza della nazione, senza parlare del fatto che una gran parte delle élites del Paese —e non solo loro— sono state costrette ad emigrare. Per tutte queste ragioni, il bilancio della Rivoluzione è largamente negativo. Personalmente ritengo che si dia troppo spazio ad un avvenimento storico che è durato solo quattro, cinque anni, ma se si vuole a tutti i costi parlarne, allora bisogna dire anche queste cose.

La storiografia in questi due secoli ha posto l’accento soprattutto sulle conquiste della rivoluzione. Secondo quanto lei dice, si tratterebbe di un clamoroso sbaglio: dovuto a malafede, ad errori storiografici, o cosa altro?

Pierre CHAUNU: La storia è stata scritta da vincitori o comunque, in larga misura, da ricercatori con spiccate simpatie per l’ideologia rivoluzionaria, studiosi convinti che la storia avanzi a forza di rivoluzioni e rotture. Ma questa è una concezione insana. La storia è un «continuum», non è fatta di istanti senza rapporto fra loro. Non ho stima per chi pensa di far avanzare le cose distruggendo le radici, le fondamenta. Le rotture sono delle «asinerie ideologiche» che fanno regredire un popolo. La rivoluzione è stata, in tutti i campi, una regressione della nazione.

E l’insieme della cristianità in Francia come è stata trattata dal regime rivoluzionario?

Pierre CHAUNU: Nel modo più oltraggioso e atroce. La persecuzione religiosa subita dai francesi cattolici durante questo periodo non ha equivalenti nella storia se non le grandi persecuzioni del XX secolo. Di tutte la Rivoluzione è stata il modello. La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi ma una rivolta contro il cristianesimo con il preciso intento di decristinizzare la nazione. La maggioranza dei preti è stata assassinata od espulsa, tutte le chiese sono state chiuse per un anno e mezzo ed il loro patrimonio requisito ed incamerato, 250 mila vandeani sono stati massacrati perché volevano andare alla messa e restare fedeli a Roma. Le scuole, gli ospedali, tutte le opere sociali della Chiesa vennero soppresse e non furono rimpiazzate che sulla carta. In Vandea tutte le famiglie, tutte le persone presso le quali si trovasse una cappella un crocifisso o altro furono fucilate, le loro case incendiate. Certo i cattolici francesi hanno avuto a riguardo della modernità e dell’illuminismo un atteggiamento negativo davvero eccessivo, ma è comprensibile: perseguitare un popolo non favorisce la comprensione e la tolleranza.

Quello che non capisco è perché i cattolici francesi di oggi non siano a fianco dei cattolici perseguitati nella storia e soprattutto sotto la Rivoluzione francese. Il perdono non implica l’oblio e nemmeno la collaborazione con i criminali. Non capisco proprio perché e in nome di cosa si neghi la realtà: in Francia ci sono stati centinaia e migliaia di morti, vittime delle loro convinzioni religiose. Hanno lottato, si sono organizzati, ma sono stati massacrati nella maniera più indegna. Quello contro cui io protesto è questo tradimento dei principi di libertà e tolleranza, principi positivi che erano all’origine della Rivoluzione francese ma che hanno avuto un risultato catastrofico.

Perché dei principi nobili si sono ribaltati nel loro contrario? In altre parole, il Terrore era evitabile o è inseparabile dal primo periodo rivoluzionario?

Pierre CHAUNU: I due periodi sono difficilmente separabili. Molto rapidamente il processo ideologico precipita nella dittatura e nella violenza ma praticamente il bicchiere era rotto fin dall’inizio. Certo si resta tolleranti fino al 1790 ma non lo si è più a partire dalla Costituzione civile del clero; dalla fine dell’inverno 1790 il regime è tirannico. Per la prima volta possiamo osservare in azione una strategia di presa del potere da parte di una infima minoranza ideologica che diverrà il modello di gli analoghi fenomeni del XIX e XX secolo, tra cui la rivoluzione russa.

(da:Pierre Chaunu, «Quante idiozie su quegli anni bui!», tratto da: 30 Giorni, anno V, gennaio 1987, p. 14-19).

 

Le radici illuministe del razzismo

Il sonno della ragione, si dice, genera mostri, ma i sogni della ragione sono certamente peggio. Il razzismo “scientifico”, infatti, per comune convinzione dei grandi storici che lo hanno studiato, da Leon Poliakov (Il mito ariano) a George Mosse (Il razzismo in Europa), passando per l’ottimo lavoro di Marco Marsilio, “Razzismo, un’origine illuminata” (Vallecchi), è integralmente una creazione moderna, per la precisione un parto dell’illuminismo. Si tratta, secondo la definizione di Mosse, di una “religione laica”: “culla del razzismo moderno è stata l’Europa del XVIII secolo, le cui principali correnti culturali hanno avuto un’enorme influenza sulle fondamenta stesse del pensiero razzista. Questo fu il secolo dell’illuminismo, durante il quale un’elitè intellettuale tentò di sostituire alle ‘vecchie superstizioni del passato’ la valorizzazione della ragione e delle virtù innate dell’uomo”.

Così, nel tentativo di elevare l’uomo, si creò, paradossalmente, il razzismo, e si giustificarono colonialismo, schiavismo, antisemitismo. Il primo fondamento filosofico del razzismo è la negazione del monogenismo biblico, risalente già a Giordano Bruno e poi a David Hume e Voltaire: l’origine degli uomini, per costoro, non può essere la medesima. Adamo ed Eva sarebbero quindi una superstizione biblica, a cui contrapporre il poligenismo, cioè l’origine diversa delle varie famiglie, o razze, umane. Secondo questa idea le donne nere si accoppierebbero talora a degli scimpanzé, “dando vita a creature mostruose fortunatamente sterili”. Nello stesso periodo non mancano gli zoologi e gli scienziati che ritengono l’uomo europeo una scimmia evoluta o che scorgono nei primati e nei negri degli uomini degenerati per i più svariati motivi. La concezione razzista si diffonde così rapidamente che ne possiamo trovare tracce macroscopiche anche in Diderot e Montesquieu. Accanto al poligenismo, un altro concetto gravido di conseguenze in questo senso è “il mito potente della catena dell’essere”, cioè l’idea che debba esistere un “anello mancante” che unisca “l’uomo agli animali in un’interrotta catena della vita”, senza soluzione di continuità. Questa idea di stampo panteista, che non vede nessuna differenza qualitativa tra l’animale e l’animale-uomo, sfocia nella convinzione secondo cui l’animale posto più in alto, cioè la scimmia, è collegato con l’uomo posto più in basso, cioè il negro, costituendo quest’ultimo quel famoso “anello mancante” di cui si è continuato a lungo a favoleggiare. Siamo, si badi bene, ben prima di Darwin, ma l’ idea poligenista e la catena dell’essere vengono abbracciate con grande entusiasmo dai membri delle Accademie delle scienze, da antropologi, zoologi, psicologi, medici…E’ sempre in questa atmosfera dei cosiddetti lumi, che sorgono una quantità di pseudoscienze volte a dare una dignità teorica al razzismo.

Ecco così J. Kasper Lavater, inventore della fisiognomica, per la quale il volto è pieno rivelatore dell’animus del suo possessore. Siamo in un’ottica materialista meccanicista che raggiunge il suo apice con la nascita, negli stessi anni, della frenologia, ad opera di Franz Joseph Gall (1758-1828), convinto che “il carattere di un individuo potesse essere determinato sulla base della configurazione della testa”. Di qui l’appassionato studio dei bernoccoli, delle forme dei crani, della loro ampiezza, e l’idea che il cervello delle persone riveli la loro natura, determinata a priori, di criminali, sacerdoti, filosofi… La ragione umana e la scienza sperimentale, rifiutato Dio e il Mistero, pensano di avere gli strumenti sufficienti per sondare e catalogare l’animo dell’uomo, negandogli la libertà, e cioè la vita spirituale stessa. Prosperano così personaggi come Samuel George Merton (1799-1851) che possiede una collezione di oltre mille crani e che in base alla grandezza del cervello stabilisce le gerarchie razziali. “Morton, scrive Marsilio, si dedicò a riempire i suoi crani con pallini di piombo per effettuare misurazioni accurate” sulla grandezza dei cervelli. “Ne uscirono tre tabelle dove le razze erano gerarchicamente ordinate secondo la grandezza media dei cervelli, tenendo come valido il corollario che l’intelligenza di una razza fosse proporzionale alla grandezza del cervello”.

Se Merton è considerato un grande scienziato in America, in Francia l’esperto craniologo è nientemeno che il fondatore della Società antropologica francese, Paul Broca. Di quest’ultimo, che crede di poter dimostrare che con il progredire della civiltà cresce la massa del cervello, si può ricordare la delusione nell’apprendere che il teschio di Anatole France e quello di Fran Joseph Gall erano più piccoli di quello di un nero! Non ho qui lo spazio per ricordare l’apporto che al razzismo diedero personaggi come James Hunt, fondatore della Società antropologica di Londra – convinto che il primo ostacolo alla conoscenza fosse costituito “dai pregiudizi anti-scientifici e anti-razionali della religione, dei diritti umani e dell’eguaglianza”-, i darwinisti Thomas Huxley e Ernst Haeckel, uno zoologo panteista e razzista che considerava Cristo un semplice uomo, per quanto ariano, e i Vangeli apocrifi i veri Vangeli. Basti, per concludere, ricordare con Mosse che il nazismo avrebbe fuso poligenismo, Lavater, Gall, e compagnia cantante, per provare che “la natura ha scritto sulla nostra faccia il nostro destino e la nostra personalità”. Oggi non è più la faccia, ma sono i geni ad entusiasmare alcuni neoilluministi: la genetocrazia è il nuovo volto del razzismo scientista. (Il Foglio, 18/12/2008)

Thomas Jefferson: lo schiavista che proclamò il diritto alla libertà

Thomas Jefferson (1743-1826) è stato definito l’americano qualunque. Uno dei suoi primi biografi, James Parton, scrisse nel 1847: “Se Jefferson ha torto, l’America ha torto. Se l’America ha ragione, Jefferson ha ragione”. Parton era sulla pista giusta. Una recente visita alla sua villa, Monticello, sopra Charlottesville, in Virginia, ha confermato questo giudizio. Il saggio di Monticello conosceva i conflitti interni che hanno afflitto l’America e definiscono la modernità. Le loro origini culturali discendono dalle contraddizioni fra l’Illuminismo enciclopedico e il principio di analogia di san Tommaso. Alcuni suggeriscono come ponte fra i due la “laicità cristiana”.
Jefferson non era un filosofo sistematico. Si descriveva come un “materialista, non come uno spiritualista”. Anche Karl Marx, il suo contemporaneo molto più giovane, era un materialista, un cosiddetto hegeliano di sinistra. A partire dal suo sedicesimo anno Jefferson aderì al razionalismo di Francesco Bacone, John Locke e Isaac Newton. I loro ritratti sono appesi nel salone di Monticello. Jefferson li nominò “la mia trinità, composta dai più grandi uomini che il mondo abbia mai prodotto (…) che hanno gettato le fondamenta delle scienze fisiche e morali”. Jefferson applicò il loro metodo scientifico all’indagine religiosa. Da un certo punto di vista è giustificato perché il ragionamento scientifico e quello religioso sono piuttosto simili: entrambi si concentrano sulla realtà. Tuttavia, il rigoroso metodo di indagine sostenuto da Bacone nella sua opera Novum organum e adottato da Jefferson, è inapplicabile persino per la scienza perché, come insisteva John Henry Newman, sia il teologo sia lo scienziato naturalista devono impiegare metodi di ricerca che si occupino della presenza di fenomeni improbabili, ossia di quelle scoperte fattuali senza precedenti in matematica. Nell’applicazione universale di Bacon, Jefferson era più rigido di quanto perfino gli standard scientifici lo autorizzassero a essere. Jefferson era anche un impegnato utilitarista. Questa etica era condivisa dai liberali laici e da molti marxisti, fra cui Trotsky. Il difetto più grave di Jefferson fu il suo rifiuto di un’etica teologica. Ciò conferma il giudizio che fa di lui “un uomo incostante nelle sue idee e nel suo approccio”. L’utilitarismo giudica la giustezza di un’azione dal contributo che essa apporta all’aumento della felicità umana o alla diminuzione della miseria umana. Nulla sovrasta questo assioma morale, né la legge di Dio, né la legge naturale, né il “sentimento morale”. L’unica equazione presa in considerazione riguarda le conseguenze remote e immediate di certi tipi di azione. I suoi principi permisero a Jefferson di approvare o disapprovare un’azione basandosi esclusivamente sul suo aumentare o diminuire la felicità dei cittadini dell'”impero della libertà”. Questa visione imperiale oscurò agli occhi degli americani la luminosità del buono e del vero nel loro continente un tempo incorrotto. Lo sventramento delle Montagne Rocciose durante la corsa all’oro nel Colorado nel 1858 e oltre, mi ricordò con durezza l’utilitarismo fallimentare del Destino Manifesto, le cui origini furono duplici: l’acquisto di Jefferson nel 1803 del territorio della Louisiana dalla Francia napoleonica e la missione affidata a Lewis e a Clarke di esplorare l’ovest oltre il fiume Mississippi. Jefferson definì quella vendita un’espansione dell'”impero della libertà”, intendendo con ciò un impero di proprietari terrieri anglosassoni stanziatisi nel nuovo territorio. Il suo “impero” permise una vasta espansione sia della schiavitù africana sia dello sterminio culturale dei nativi americani. Anthony F. C. Wallace, un antropologo, ritiene che le contraddizioni ideologiche e politiche di Jefferson siano osservabili soprattutto nei suoi atteggiamenti verso gli indiani americani. “Riguardo ai nativi americani, Jefferson appare sia come un estimatore dotto del carattere, dell’archeologia e della lingua indiani sia come l’autore del loro genocidio culturale, l’architetto della politica di rimozione, l’ispettore della Pista delle Lacrime”. Contrariamente a quanto si è pensato in passato, l’atteggiamento distruttivamente aggressivo del governo degli Stati Uniti verso i primi popoli americani iniziò nell’era di Jefferson e non in quella di Jackson. Nella sua Dichiarazione del 1776 Jefferson delineò il profilo della nuova nazione definendo gli indiani americani “spietati selvaggi”. Non sorprende dunque che Wallace affermi che “questo apostolo della libertà americana aveva un temperamento profondamente tendente al controllo”. Quale presidente utilitarista, Jefferson aveva un’idea della giustizia che derivava dall’interno della tradizione liberale. A causa dei suoi timori per la vita della neonata repubblica americana e del suo desiderio di ottenere terre indiane a quasi qualsiasi costo, era sfavorevole al “progetto di civilizzazione” per gli indiani. Wallace conclude così il suo ironico ritratto di Jefferson: “Se Jefferson è stato colpevole di insincerità, doppiezza, ipocrisia nelle questioni relative agli indiani, va detto che la sua disonestà e la sua spietatezza politica hanno costituito un’arma nella sua lotta per garantire la sopravvivenza degli Stati Uniti come repubblica governata da proprietari terrieri anglosassoni”. Jefferson condivideva anche l’ottimismo illuministico nella capacità illimitata della “ragione pura”, che egli considerava “al di sopra della storia”. La sua adesione alla ragione fu così assoluta che non si rese conto della crisi che si profilava nella filosofia occidentale, l’aspetto temporale dell’essere o il mistero della cosa nel tempo. La crisi fu figlia naturale dell’illuminismo. Ignaro della mediazione della storia nel pensiero e confidando soltanto su un razionalismo miope e arrogante, nel 1804 cominciò nel tempo libero a censurare il Nuovo Testamento, arrivando fino a pubblicare la notoria Bibbia di Jefferson, un testo pieno di omissioni. Chiese che sulla sua lapide venisse ricordata la sua paternità della Dichiarazione di Indipendenza, dello Statuto della Virginia per la libertà religiosa e dell’Università della Virginia. A questi atti effettivamente storici ne andrebbe aggiunto un altro: la sua riconciliazione con John Adams iniziata e conclusa mediante la loro corrispondenza finale dal 1812 al 1826. Esaminerò il primo di questi atti in questo articolo e gli altri tre in seguito. Jefferson fu autore del documento fondante della Repubblica americana, la Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Scrisse: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. Inoltre, nel giustificare l’assunzione per gli Stati Uniti dello status di nazione indipendente, Jefferson fece riferimento alle “leggi della natura e al Dio della natura”. Questa visione politica è il pilastro dell’identità americana. Qual è la risposta cattolica a questa dichiarazione?
Per i cristiani il suo appello al “Dio della creazione” è teologicamente sconclusionato. Antitrinitario inflessibile Jefferson non confrontò mai il suo credere nel “Creatore” che chiamò “Dio della natura”, con l’alto assioma medievale secondo cui la possibilità di una libera creazione esiste solo nella realtà della Trinità. Un Dio non trinitario non potrebbe essere il Creatore. L’uomo non potrebbe percepire se stesso come dono che viene offerto. San Tommaso D’Aquino e san Bonaventura affermarono che la libertà, divina o umana che sia, non esisterebbe senza il mistero della Trinità. L’amore intratrinitario di Dio è così completo in sé che Dio non ha bisogno di un essere extra-divino da amare. San Tommaso scrive: “Dio, il Padre, attua la creazione mediante il suo Verbo, che è il Figlio, e mediante il suo amore, che è lo Spirito Santo. E così le processioni delle persone sono i modelli (rationes) della produzione di creature in quanto includono gli attributi essenziali, conoscenza e volontà”. Altrove scrive: “La processione delle persone è anche, in un certo qual modo, la causa e il modello (ratio) della creazione”. La creazione del Padre si può ottenere liberamente soltanto per la gloria del Suo Verbo e per la gloria dello Spirito Santo che è il vincolo di amore nel Dio Uno e Trino. Su cosa si basa l’idea di libertà di Jefferson? Lo storico Richard Hofstadter ha scritto che il folclore moderno “presume che la democrazia e la libertà siano tutt’altro che identiche e quando gli scrittori democratici si prendono il disturbo di fare delle distinzioni, generalmente presumono che la democrazia sia necessaria alla libertà. Tuttavia, i Padri Fondatori pensavano che la libertà alla quale erano più interessati fosse minacciata dalla democrazia. Nella loro mente la libertà non era legata alla democrazia, ma alla proprietà”. Infatti, Hofstadter sostiene che la feroce rivalità fra i grandi partiti politici abbia camuffato una realtà fondamentale: la loro base comune nella “proprietà e nell’impresa”. Quanto è lontana l’analisi di Hofstadter della simbiosi fondamentale fra democrazia e proprietà secolari americane dal seguente scritto dei neo-marxisti Antonio Negri e Michael Hardt? “Marx ed Engels rappresentavano lo stato come il comitato esecutivo che amministra gli interessi dei capitalisti. Con questa espressione intendevano dire che, malgrado l’azione dello stato potesse occasionalmente ostacolare gli interessi più immediati dei singoli capitalisti, nel lungo periodo esso avrebbe sempre preso le parti del capitalista collettivo, ossia del soggetto collettivo del capitale sociale considerato nel suo complesso”. Entrambi i punti di vista gettano la luce della verità sui recenti interventi del Federal Reserve Board of the United States nella crisi dei derivati di credito. Secondo Peter S. Ornuf, uno storico, Patrick Henry, George Washington e Benjamin Franklin fecero delle speculazioni sul territorio occidentale. Thomas Jefferson, speculatore più cauto, possedette interessi in trentacinquemila acri di territorio occidentale. Queste speculazioni svolsero un ruolo significativo nelle politiche statunitensi rivolte agli indiani. Un fatto significativo su Jefferson è che la grande retorica della Dichiarazione e la concretizzazione della stessa furono contraddittorie. Divenire consapevoli di questa contraddizione è doloroso, doloroso in maniera insopportabile. La sua pratica della schiavitù contraddisse senza alcuna speranza la sua visione politica. Non smise mai di conciliare i suoi principi morali con il suo possesso di centinaia di uomini, donne e bambini schiavi. I vasti e incantevoli giardini e parchi di Monticello erano manutenuti da schiavi africani. Sebbene sostenesse eloquentemente i “diritti inalienabili” di ogni uomo alla vita e alla libertà, una forma di distorto ottimismo gli impedì di riconoscere il male mostruoso del suo possesso di schiavi e di pentirsene. La ragione, il suo “arbitro di verità”, lo aveva abbandonato. La sua “nuova fede”, fondata su un meccanismo universale, scientificamente determinato, lubrificato dall’olio lenitivo del progresso storico, era un sentimento squallido e volgare che lo rese incapace di affrontare la cultura schiavista. Quando ho visitato la sua piantagione, sono passato davanti alla spartana stanza sotterranea in cui Sally Hemings, una schiava, viveva come capo-cuoca. Era sorellastra di Martha Jefferson, la moglie del presidente. Gli storici concordano in generale sul fatto che, dopo la morte della moglie, divenne padre di uno o più figli di Sally. Al di là della casa padronale a Mulberry Row, ci si imbatte in ciò che resta di piccole baracche composte da un solo locale dal pavimento lercio con ciminiere di legno. Questi ripari ospitarono le famiglie schiave di Jefferson fino al 1827 quando vennero vendute in un’asta pubblica insieme al mobilio della villa per pagare i debiti che lasciò alla sua morte. Un giorno freddo e ventoso in cima alla montagna della Virginia improvvisamente rese grottesco quel monumento storico nazionale. Qualcosa non andava. I mattoni della villa, le sue cornici toscane intagliate e la sommità ornamentale dell’edificio di traformarono da espressioni di bellezza in accuse. La deturpazione morale del loro proprietario assunse un aspetto fisico. La sua villa di trentacinque stanze, circondata dalle montagne, con le sue armonie palladiane divenne una trappola. Mentre ci si bea della simmetria architettonica, dell’ordine, dell’equilibrio e dello spazio della villa, affiora un ricordo terribile: alla morte di Jefferson più di 100 schiavi, uomini, donne e bambini, alcuni di quali si dichiaravano suoi figli naturali, furono messi in vendita sul mercato degli schiavi. Nel corso della sua vita vendette centoventi “schiavi preziosi” e concesse la libertà solo a sette. Con il testamento non liberò gli altri. L’utilitarismo di Jefferson gli permise di organizzare il proprio “mondo” in un modo disumano. ? irrefutabile: fu un alienato. Come può aver sostenuto questa disaffezione interiore? Esistono vari e ulteriori motivi. La sua identità “epicurea” era una specie di narcotico intellettuale e morale. Modellò la sua lista di diritti umani, “vita e libertà” sulla falsariga di quella di John Locke di vita, libertà e proprietà. Tuttavia, Jefferson sostituì la “ricerca della felicità” con la “proprietà”. Si definì “un epicureo” aggiungendo eccentricamente di essere “un autentico (…) e vero discepolo del nostro maestro Epicuro”. In seguito, fece anche riferimento al Syntagma di Gassendi, che secondo Charles B. Sanford riscattò “l’idea di Epicuro dalle errate interpretazioni libertine sottolineando che, sebbene la felicità fosse lo scopo della vita, essa si poteva ottenere solo mediante l’auto-disciplina e uno stile di vita nobile, non certo mediante l’autoindulgenza”. Il suo esagerato numero di schiavi non si adatta a questo tentativo di revisionismo. Sebbene numerosi edifici siano stati ricostruiti e/o ristrutturati, nessuno dei ricoveri per gli schiavi è stato ricostruito perché un atto del genere da parte della Thomas Jefferson Foundation sarebbe un esempio di educazione alla diseguaglianza. Nella scissione fra pensiero e pratica disumana Jefferson incarnò le forze e le debolezza dell’illuminismo americano. John Quincy Adams ha colto correttamente il carattere del terzo presidente americano: “il signor Jefferson non possedeva spirito di martirio”. Nel 1814 respinse sdegnosamente la richiesta di un più giovane vicino della Virginia di dare il suo sostegno pubblico alla causa antischiavista. Nella sua assoluta devozione alla ricerca della ragione Jefferson perse fatalmente il “si prende nell’essere presi” di sant’Agostino. Jefferson e altri fondatori americani rifiutaro
no volontariamente di impegnarsi nella lotta contro la schiavitù. La dominazione oppressiva di una mathesis universale (scienza assoluta) infuse nei responsabili politici della nuova Repubblica una cultura di morte che ha portato molti americani oggi a “vivere in una fucina di morte”. La visita a Monticello mi ha lasciato disorientato per l’inutilità del vasto spazio sotto la fastosa cupola e mi ha indignato per l’ingresso decorato curiosamente con uno sconcertante osso fossile, un orrendo e incombente orologio a muro, terribili corna ramificate, drappi di pelli di animali, una statua di marmo chinata davanti a un caminetto e altre cose del genere. La stanza sembra più una caverna dall’alto soffitto in cui “il vento spazza via tutto in una sola volta” che l’accogliente ingresso di una casa. Questa villa sulla cima della montagna non sembra essere stata concepita come un luogo di “luce”, ma come un posto di guardia da cui controllare e sfruttare gli schiavi. Il suo padiglione ricostruito vicino a Mulberry Row, che domina giardini terrazzati, suggerisce questa interpretazione. L’architettura concentrica e il disegno di Monticello sono forme di controllo sociale. Manca l’indifferenza essenziale della bellezza. Una delle grandi ironie della storia americana è che la ragione assoluta ha incatenato Jefferson. Il movimento abolizionista contro la schiavitù emerse nel 1803 dal Secondo Grande Risveglio del Cristianesimo e non da quanti proclamavano con Jefferson che “la ragione di ognuno deve essere il suo oracolo”. I cristiani evangelici dovettero rendere il popolo americano consapevole del male della “libera” autonomia inconsistente di Jefferson. Nel lungo periodo la “cultura” americana immaginata dalla Dichiarazione di Indipendenza di Jefferson si rivelò individualistica, volontaristica e libertaria. Essa racchiuse la libertà americana nella proprietà e nell’autoaffermazione. Di conseguenza, negli anni Trenta del 1800 emerse l’individualismo politico-culturale della democrazia jacksoniana e negli anni Settanta dello stesso secolo apparve il potente individualismo economico dell’Età dell’Oro. In particolare, nel 1787 la libertà proclamata nella Dichiarazione si rivelò inefficace nel proteggere dalla disumanizzazione i membri più vulnerabili della società americana, gli africani. Nel 1808, la libertà della Dichiarazione dovette confrontarsi con il regolare commercio degli schiavi americani. Quello stesso anno Jefferson con la sua firma trasformò in legge un progetto che proibiva quel traffico. Perché allora non si celebra il bicentenario della firma del presidente? La risposta è ovvia: la legge si rivelò totalmente inefficace e Jefferson sapeva che lo sarebbe stata quando la firmò. Nel 1820, con il compromesso del Missouri, la libertà della dichiarazione si dimostrò nuovamente inefficace nel difendere l’umanità non solo degli afro-americani, ma anche dei nativi americani. Ciò che Robert Frost celebrò come “Il dono totale” in occasione della cerimonia di insediamento di John F. Kennedy nel 1961, fu un eufemismo poetico per il “destino manifesto” di un “popolo” autoconsacratosi “predestinato” per giustificare la sua occupazione del continente americano, “la patria che verso occidente si andava formando”. Frost disse giustamente che “prova del dono furono molte guerre” culminanti nell’espropriazione coatta delle tribù native. Per le società dei nativi americani le politiche di Jefferson condussero alla “pista di lacrime” di Jackson che in generale si è dimostrata disastrosa. Infine, con la scellerata decisione sull’aborto del 1973 la libertà di Jefferson è stata svergognata da un altro poeta che lotta contro l’indicibile: “qualcuno che sarebbe potuto nascere è morto”.
(?L’Osservatore Romano – 25 aprile 2008 di James Francis StaffordCardinale arcivescovo emerito di DenverPenitenziere Maggiore ; di )

Enrico VIII e la nascita del capitalismo selvaggio anglosassone

Dopo la guerra dei cento anni, l’Inghilterra vive una guerra civile, detta delle due Rose, tra la famiglia dei Lancaster, che ha come simbolo una rosa rossa, e quella degli York, che ha come simbolo una rosa bianca; un quarto della popolazione perisce. Enrico Tudor, discendente dei Lancaster, la spunta e concilia le due famiglie sposando una York, Elisabetta. Diviene Enrico VII, che darà fiducia ad un navigatore italiano, Giovanni Caboto, che nel 1497 sbarcherà in Canada.

 Cuore del regno è Londra, con 100.000 abitanti circa, scalo di mercanti di ogni paese. Caterina D’Aragona, figlia di Ferdinando e Isabella, re di Spagna, viene destinata, ancora piccola, a lasciare la sua terra per andare nell’"isola delle nebbie" e sposare Arturo, primogenito di Enrico VII. Controvoglia Caterina obbedisce ma Arturo muore dopo soli cinque mesi di matrimonio. Enrico, secondogenito, diviene erede al trono: dopo la morte del padre diviene Enrico VIII. Enrico VIII è l’opposto del padre: spendaccione, ama i divertimenti , la caccia, i gioielli, i tessuti, i grandi banchetti…; è alto, forte, possente, prima di diventare grasso e lardoso…nel 1509 sposa Caterina D’Aragona, precocemente invecchiata e intristita, che non riesce a dargli un figlio maschio: gli muoiono 5 figli, nasce solo una femmina, Maria.

Enrico VIII è affiancato da Wolsey, un astuto popolano, figlio di un macellaio, che si dimostra disposto ad ogni bassezza: in cambio viene nominato Cancelliere e il re gli ottiene anche un alto ruolo ecclesiastico. Infatti Enrico VIII vuole controllare anche la Chiesa, nominando lui, al posto del papa, i vescovi, gli abati dei monasteri…Ciononostante si dichiara avversario di Lutero e scrive addirittura un saggio contro di lui. Lutero allora gli invia una lettera, in cui cerca di lusingarlo: l’ex monaco agostiniano ha bisogno di principi e di re per combattere Roma. In Germania ha ottenuto l’appoggio di alcuni feudatari che avevano visto nell’adesione al protestantesimo il modo per staccarsi dall’Imperatore, Carlo V, che era cattolico, e per entrare in possesso dei beni della Chiesa cattolica, espropriandoli. Ma Enrico VIII non ha ancora deciso il suo futuro religioso: per ora si scaglia nuovamente contro Lutero, deplorando il suo matrimonio con l’ex monaca Caterina von Bora. Sul fronte amoroso, intanto, è inquieto: ha parecchie amanti, tra cui Maria e Anna Bolena.

Di quest’ultima decide di diventare lo sposo: per questo richiede, inutilmente, al papa che dichiari nullo il suo matrimonio precedente. Intanto Wolsey, dopo aver fedelmente servito, viene tolto dai piedi e sostituito con Tommaso Moro, un uomo conosciuto da tutti per la sua integrità di giudice. Ma è Cromwell, un ex usuraio, la nuova anima nera del re: lo consiglia di proseguire nella sua volontà di ripudiare Caterina e lo spinge sulla strada dello scisma. Così, gli dice, potrai sposare Anna Bolena, poi diventare capo della nuova chiesa inglese, la chiesa anglicana, ed esproprierai i beni della Chiesa di Roma, vescovadi, abazie, monasteri…Il popolo inglese è in buona parte contrario a questi progetti: Anna è odiata e considerata una prostituta e una strega, tanto che in una occasione 5-6000 donne assaltano il palazzo dove la Bolena è rinchiusa per ucciderla. Ma l’opposizione viene domata; Fisher e Moro vengono condannati a morte per non aver pubblicamente riconosciuto la giustezza dell’operato del re; frati e monaci vengono impiccati, affogati e poi squartati: le loro membra vengono messe agli angoli delle strade di Londra; la testa di Moro, appesa su una picca, viene esposta sul ponte di Londra ma presto tolta per evitare le processioni di ammiratori. Intanto nel 1533 Anna, che si è sposata col re sancendo la rottura con Roma, partorisce una bimba: Elisabetta.

 Nel 1534 il Parlamento proclama l’Atto di supremazia: nasce ufficialmente la chiesa anglicana, guidata dal re. E’ una chiesa nazionale di Stato, "l’Inghilterra che celebra se stessa": è fortemente nazionalista, in quanto i confini della fede coincidono con quelli dello stato e il capo della chiesa coincide col capo dello stato; profondamente antipapista, in quanto riprende la polemica luterana contro il papa considerato l’anticristo, e, di conseguenza, profondamente avversa ai due paesi cattolici per eccellenza, la Spagna e l’Italia. Nasce così l’Inghilterra moderna, quella che si espanderà schiacciando sempre di più, senza alcuna pietà, l’Irlanda cattolica, in parte sottomessa già dal XII secolo, e la Scozia, le sue colonie "domestiche", e poi creando a poco a poco l’"Impero su cui non tramonta mai il sole", dall’Australia, all’India all’America; nasce l’Inghilterra patria del capitalismo più spregiudicato, della pirateria che assale i galeoni spagnoli e portoghesi, con la compiacenza dei sovrani; dei trafficanti di schiavi che elimineranno i pellerossa e riempiranno il Nord America di neri schiavizzati, per poi privarli di ogni diritto, persino di quello di sedere sull’autobus, insieme ai bianchi, fino a Novecento inoltrato; dei venditori di oppio, che faranno i loro affari in Cina devastando la popolazione locale…

Di questa nuova mentalità, in cui l’uomo viene sacrificato al denaro in nome della "libertà", in cui il lavoro, esattamente come avverrà poi nell’ideologia marxista, diviene l’unico valore assoluto, sono protagoniste la nobiltà e la borghesia anglicana, che hanno abbracciato il nuovo credo, e che Enrico VIII ha ricompensato e legato a sé elargendo i beni e le terre della Chiesa cattolica: sono costoro che, divenuti più ricchi, potranno lanciarsi nelle speculazioni economiche, nelle monoculture, nelle recinzioni, nella privatizzazione delle terre comuni, spingendo molti contadini che vi vivevano, al vagabondaggio o all’alcolismo, nelle colonizzazioni e nei commerci…senza più l’ingombro della noiosa Chiesa cattolica, sempre pronta a richiamare, e a difendere i diritti umani dei più deboli (in Inghilterra, per secoli i cattolici saranno esclusi per legge dalla possibilità di accedere a cariche pubbliche). Questi nuovi adoratori del denaro, trasformano il vecchio mondo in direzione capitalista, ottenendo dal re e dal Parlamento continui benefici, ad esempio l’abolizione di festività cattoliche, che permette di sfruttare maggiormente i lavoratori subalterni; oppure l’Atto contro il vagabondaggio: la chiusura di opere assistenziali della Chiesa cattolica (ospizi, ospedali, orfanatrofi ecc., tutti passati ai fedeli del Tudor), insieme alle prime recinzioni, ha determinato l’esplodere della povertà, del vagabondaggio e del furto.

Enrico VIII e i suoi, che non vogliono essere frenati nella loro corsa all’arricchimento, usano il pugno duro, semplicemente eliminando poveri e vagabondi: 72.000 ne vengono impiccati durante pochi anni. Per secoli l’Inghilterra sarà famosa per la durezza delle pene nei confronti del furto: "dal 1688 al 1820 i reati che comportano la pena di morte passano da 50 a 200-250, e si tratta quasi sempre di reati contro la proprietà". Hegel denuncerà la severità "draconiana" con cui "in Inghilterra viene impiccato ogni ladro": la pena di morte, l’internamento in case di lavoro, i figli strappati alle famiglie povere già dai tre anni, per spingerli al lavoro, saranno l’unica soluzione dello Stato liberale di fronte al problema dei poveri, sino alla teorizzazione dell’eugenetica prenazista, cioè della loro eliminazione per via politica. Malthus sarà solo uno dei tanti a proporre una politica che ritardi i matrimoni dei poveri e la procreazione tra classi popolari, mentre Franklin, su suolo americano, si scaglierà contro i medici che salvano "metà delle vite che non sono degne di essere salvate". Preludio, evidentemente, alla teorie così in voga negli Usa a partire da fine Ottocento, sulla sterilizzazione degli "inferiori", tra i quali, soprattutto, immigrati, anche europei, e poveri.

Accanto a tutto ciò, convivono nell’Inghilterra che si considera liberale, varie forme di servitù: Adam Smith racconta che ai suoi tempi i lavoratori nelle miniere e nelle saline erano come i servi della gleba, potevano essere venduti o comperati insieme al luogo di lavoro, e portavano un collare con scritto il nome del loro padrone. I pensatori inglesi posteriori a Enrico VIII, seguaci idolatri del liberalismo, giustificheranno la schiavitù dei neri, l’eliminazione dei "serpenti papisti", lo sfruttamento intensivo delle colonie, dei vagabondi e dei bambini. Il maestro del liberalismo, Locke, avrebbe scritto: "il bambino può dimostravi che il negro non è un uomo" (Marco Marsilio, Razzismo, un’origine illuminata", Vallecchi).

Su questo assunto di base convaliderà e giustificherà la pratica dello schiavismo di massa. Riguardo agli irlandesi, nel suo "Trattato sulla tolleranza", affermerà: i papisti sono "come i serpenti, non si otterrà mai con un trattamento cortese che mettano da parte il loro veleno". Riguardo ai bambini poveri, che saranno insieme alle donne le prime vittime della furia capitalista nell’epoca dell’industrializzazione, sosterrà, insieme a Bentham, la necessità di "toglierli dalle mani dei genitori", ancora piccolissimi, per farne dei buoni lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere (Domenico Losurdo, "Controstoria del liberalismo", Laterza).

Ma torniamo ad Enrico VIII, vero padre di quanto si è brevemente raccontato: la Bolena abortisce altre due o tre volte; Enrico inizia a pensare ad una maledizione e decide di far decapitare Anna (nel frattempo Caterina è morta eroicamente, qualcuno dice per avvelenamento, ma non è certo); disfattosi della Bolena sposa Jane Seymour, una giovane bruttina, zoppa, leggermente strabica e col doppio mento: Jane partorisce Edoardo e dopo 12 giorno, forse per mancanza di assistenza, muore. Subito il buon Cromwell procura al suo re un nuovo partito, Anna Claves, brutta, sgraziata, ma figlia di un duca tedesco protestante: un’alleanza contro Roma che può servire. Ma Enrico VIII, quando Anna giunge in Inghilterra, non accetta la sua bruttezza e Cromwell, che aveva combinato tutto, finisce decapitato; Anna viene allontanata e tenuta buona con grandi doni. Enrico non ama neppure il luteranesimo, al punto che minaccia di morte quei vescovi , sacerdoti e frati che hanno preso al volo lo scisma per procurarsi mogli e concubine.

Litigando con la prima moglie, Enrico VIII ha creato una nuova religione; ma non vuole che sia nuovo proprio tutto. Può ora sposare Caterina Howard, che verrà decapitata solo due anni dopo, nel 1542. In questi anni il re prosegue nel suo disegno di assoggettare la Scozia, come sua seconda colonia: attacca violentemente Giacomo V Stuart, re di Scozia e suo cugino, fa incendiare chiese, villaggi e cerca di legare a sé alcuni feudatari scozzesi; in particolare può giocare sui protestanti scozzesi, pronti a fare il gioco di un re straniero pur di contrastare la dinastia Stuart, ancora fortemente cattolica. Giacomo V muore di dolore, lasciando come erede la figlia, Maria Stuart, di sei anni. Enrico VIII muore nel 1547; il suo sepolcro, oggi, è vuoto, forse perché le sue spoglie vennero bruciate e disperse dalla figlia Maria. In conclusione si può dire che se non si mettono a fuoco queste vicende, non si può capire il grande successo del comunismo marxista, che nacque come un tumore in un corpo malato, conservando però lo stesso peccato originale del liberalismo: l’essenza materialista ed economicista.