Contro Gheddafi per difendere cosa?

Dall’esilio di Gaeta dove è costretto a vivere perché a Roma c’è una repubblica anticristiana, Pio IX ricorda i meriti senza numero che la fede cattolica ha regalato all’Italia. Non ultimo fra i privilegi derivanti alla nostra nazione dall’adesione al Vangelo, il papa ricorda l’abbandono della cupidigia imperiale dell’antica Roma, trasformato in attenzione alla giustizia, alla carità, alla misericordia.

Leggiamo le parole del papa: la sapienza cristiana ha difeso gli “Italiani da quella luce passeggera di gloria, che i lor maggiori, soprastando essi nelle armi, avevano riposto nell’incessante tumulto delle guerre, nell’oppressione degli stranieri, e nell’assoggettare a durissimo servaggio quel maggior numero di uomini che per loro si potesse” (Nostis et nobiscum, 8 dicembre 1849).

Dall’unità d’Italia fino alla seconda guerra mondiale i governi italiani, allontanatisi dal Vangelo, sono tornati a vagheggiare l’impero mettendo in atto il tentativo di “assoggettare” quanti più “uomini si potesse”. Ultimamente il nostro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha chiesto pubblicamente perdono ai libici per le sofferenze che abbiamo loro inflitto durante l’occupazione coloniale ( “Ho chiesto perdono alla Libia per ciò che gli italiani avevano fatto verso il popolo libico“) .

Da questa posizione di verità sono derivati a Berlusconi, e a noi italiani, molti vantaggi: contratti estremamente favorevoli, soldi, lavoro, petrolio e un prezioso argine all’immigrazione proveniente dal nord Africa. Fino a qui le cose sono abbastanza chiare.

Dall’inizio del 2011, però, tutto sembra farsi oscuro e cupo. Niente è più sicuro. Di chiaro, definito e comprensibile, non c’è quasi più nulla. Tutti i paesi arabi del nord Africa più quelli del medio oriente sono scossi da rivolte “democratiche”: i presidenti di Egitto e Tunisia sono cacciati, in Siria una repressione brutale ha (fino al momento in cui scrivo, a inizio giugno) mietuto migliaia di vittime senza incontrare una seria opposizione internazionale, mentre una rivolta scoppiata in Libia a Bengasi ha visto tutto l’Occidente schierato in battaglia.

Tante sono le cose che restano inspiegate: perché contro Gheddafi si è scatenato il finimondo, mentre contro Assad no? Che senso ha bombardare per difendere i civili? Perché si è voluto ascoltare il cosiddetto “grido di dolore” dei libici (così si è espresso Napolitano, ma parlava allo stesso modo anche Vittorio Emanuele II per giustificare la brutale invasione del Regno delle Due Sicilie) e, per farlo, pur avendolo negato, si è cercato ripetutamente di uccidere Gheddafi e i suoi familiari? Perché si è dato credito alla televisione araba Al Jazeera che ha parlato, mentendo spudoratamente, di diecimila morti e perché il vescovo di Tripoli è rimasto il solo a ricordare che le bombe umanitarie uccidono in modo poco umanitario?

Prima di provare a capire le ragioni di un Occidente schizofrenico, ricordiamo qualche fatto: Gheddafi ha sempre combattuto il radicalismo islamico, che ha in Bengasi la sua capitale libica; la rivolta è stata guidata dal ministro della giustizia di Gheddafi, un personaggio che, prima di far scattare la rivoluzione, ha preso accordi col governo francese. Possiamo dar credito alla favola che questa persona sia di una pasta migliore, più democratica, più civile, più leale, di quella di Gheddafi? L’unica cosa certa in un mare tanto oscuro è che la Libia, fin qui il paese più ricco e meglio organizzato dell’Africa settentrionale, si sta trasformando in un cumulo di rovine.

Per di più sulle nostre coste sbarcano migliaia di disperati e non possiamo escludere che la primavera araba si trasformi in un inverno di radicalismo islamico. Per ora l’Egitto liberato da Mubarak è in mano ad una giunta militare e i Fratelli Musulmani, tenuti alle porte da Mubarak, occupano uno spazio sempre maggiore. Tanto per intenderci i Fratelli Musulmani sono coloro che ritengono la sharia il miglior sistema di governo per tutti, musulmani e non. E Israele? La fine del regime di Mubarak, che garantiva il confine sud-occidentale, e l’inizio di imponenti manifestazioni nelle vicinanze del Golan, favorite da una Siria in grave difficoltà, non fanno presagire nulla di buono. Chi ha soffiato sul fuoco di una simile polveriera? E’ stato scritto che l’iniziativa francese serve a contrastare la capillare penetrazione cinese nel continente africano. E’ stato anche ipotizzato che L’Arabia Saudita stia cercando di esportare nel nord Africa l’islamismo wahabita, nel tentativo di creare un nuovo califfato. Ipotesi avveniristica per ipotesi avveniristica, ricordando le disavventure in cui è incorso Benedetto XVI all’epoca del suo viaggio in Camerum, ne avanzo una terza. Sull’aereo che lo portava in Africa, il papa si è permesso di fare un’osservazione banale: la diffusione dell’aids non si ferma con l’uso del preservativo.

Apriti cielo: le anime belle di tutta Europa (Italia esclusa) hanno gridato all’attentato contro i diritti umani. Come si permette il papa di mettere in dubbio l’efficacia del preservativo? Governi e parlamenti, singoli ministri, giornali ed intellettuali, hanno strillato all’unisono pretendendo dal pontefice la rettifica e le scuse. Come mai una reazione tanto scomposta? Una reazione, per di più, contraria all’evidenza scientifica, da tutti invocata come probante? E’ azzardato ipotizzare che il papa abbia toccato un nervo scoperto e si sia inoltrato in un terreno minato in cui non doveva assolutamente mettere piede? Da decenni il mondo che conta, le istituzioni internazionali, la finanza, gli uomini di governo illuminati, combattono un’aperta battaglia contro la vita: la popolazione mondiale cresce troppo. Cresce in modo allarmante. Bisogna fermarla, pena la catastrofe. Tutti i continenti si sono uniformati a queste convinzioni.

Tutti, meno l’Africa. Gli africani, nonostante le campagne umanitarie, nonostante la propaganda contro la vita, hanno continuato imperterriti a mettere al mondo figli. Tanto per fare un esempio le previsioni delle Nazioni Unite affermano che, di qui a poco, la sola Nigeria avrà 730 milioni di abitanti! Per la vecchia e sazia Europa i dati sulla crescita esponenziale delle popolazioni africane sono un vero e proprio incubo. Chi sa che l’intervento in Libia non corrisponda, anche, al desiderio di controllare in modo ferreo i governi del nord Africa per formare una muraglia umana in difesa dei nostri interessi? Sia come sia gli apprendisti stregoni della Nato stanno giocando col fuoco.

Peccato che Berlusconi abbia ceduto alle sirene della santa alleanza occidentale; peccato si sia allontanato dalla tradizione cattolica cui pure, con la richiesta di perdono, si era indirettamente ispirato. Peccato perché, alla lunga, nonostante effimeri guadagni momentanei, la verità e la giustizia pagano sempre. Il Timone, luglio-agosto 2011

I 150 anni dell’Unità d’Italia

Un lungo dibattito estivo è stato suscitato dagli interventi di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere a proposito dell’inadeguata celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia.

Galli della Loggia accusa la classe politica, di destra come di sinistra, di ignorare l’importanza culturale, civile, morale, dell’unificazione italiana, e, pertanto, di limitarsi ad interventi celebrativi in molti casi ridicoli. Galli della Loggia è persona che leggo con attenzione e che stimo e conosco da molti anni. Nella risposta che ha dato ad uno studente leghista sul Corriere di ieri, ci sono però affermazioni che faccio fatica a ricondurre all’autore di un testo come La morte della patria e alle garbatissime osservazioni rivolte all’allora presidente della Repubblica Ciampi che quell’analisi combatteva.

“Il Risorgimento –scrive il professore- volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere liberamente”. A mio modo di vedere la tesi andrebbe corretta così: il Risorgimento è stato l’epoca in cui tutti i liberali ed i massoni (esiguissima minoranza della popolazione) potevano dire tutto quello che volevano mentre la stragrande maggioranza delle popolazione, cattolica, no. Basti dire che il liberale Cavour impediva la diffusione nel Regno di Sardegna delle encicliche del papa, nonostante l’articolo primo dello Statuto definisse la chiesa cattolica unica religione di stato e nonostante l’articolo 28 difendesse la libertà di stampa! Per restare all’oggi, non ho ancora trovato un editore disposto a ristampare un testo fondamentale dell’Ottocento italiano come le Memorie per la storia dei nostri tempi di don Giacomo Margotti, testo che, caso veramente curioso, è scomparso da tutte le biblioteche nazionali…

Galli della Loggia celebra la scomparsa del processo “settario” nel tanto magnificato Lombardo-Veneto. Il Risorgimento avrebbe messo fine ad un processo in base al quale “si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato”. Beh, qui la cosa diventa quasi imbarazzante. Sì, perché dall’unità d’Italia in poi la legge marziale è stata ripetutamente introdotta in tutto il Meridione, con conseguenze drammatiche per tutta la popolazione. Un piccolo, insignificante, esempio della violenza bruta (altro che avvocato difensore) che accompagna la conquista sabauda. Il Regno d’Italia introduce la leva obbligatoria sconosciuta alle popolazioni italiane e la nuova abitudine va imposta per le spicce. Ecco cosa scrive il quotidiano torinese L’Armonia il 5 luglio 1861: “A Baranello un Francesco Pantano, capitolato di Gaeta, per sottrarsi al servizio militare, cui era richiamato, riparò in un suo podere, ed ivi sorpreso mentre dormiva, invece di essere arrestato, fu ucciso a colpi di baionette”. Ancora: nei 150 anni di storia italiana abbiamo visto “un intero popolo smettere di morire di fame, non abitare più in tuguri, non morire più come mosche”. La rivoluzione industriale che in Inghilterra (come Marx descrive in modo inappuntabile nella IV sezione del primo libro del Capitale) riduce la popolazione in miseria, in Italia, grazie alla capillare presenza cattolica, non aveva provocato gli stessi guasti. Tanto che da noi, a detta delle tante testimonianze lette, nessuno moriva di fame, mentre all’estero sì. A provocare la miseria generalizzata della popolazione viceversa è stato proprio il Risorgimento grazie al quale gli italiani, ridotti sul lastrico, sono stati forzati ad un’emigrazione di massa, sconosciuta nei millenni precedenti.

“A morire come mosche” poi gli italiani sono stati costretti da quella guerra immorale, infame, spaventosa, che è stata la prima guerra mondiale. Guerra voluta dall’élite risorgimentale e massonica per liberare gli italiani dal pacifismo cattolico e forgiare un nuovo popolo di eroi guerrieri. Si sa come è andata a finire. Gli italiani sono stati liberati sì dalla miseria, ma solo grazie al “miracolo economico” creato dalla classe dirigente al potere dopo la seconda guerra mondiale, di estrazione cattolica.

La Democrazia Cristiana però, ha avuto a mio parere un enorme difetto culturale: non ha contrastato la vulgata filorisorgimentale e, quindi, antitaliana. Il vero “disastro educativo” della scuola italiana è sì, a mio parere, l’aver adottato in massa, a livello di insegnati come di libri di testo, “una storia del nostro Paese inverosimile e grottesca”, ma non nel senso indicato da Galli della Loggia. Il disastro va piuttosto individuato nell’approccio ai 1.500 anni di tradizione cattolica. Questi vengono vituperati in ogni modo perché vituperato, sconosciuto ed irriso è il pensiero cattolico. Producendo così l’assurdità che la nazione che ha prodotto e possiede, da sola, più del 50% dei beni artistici e culturali del pianeta, disprezza sé stessa e non capisce più l’origine di quel surplus di bellezza che la caratterizza. Celebriamo l’Italia, ma assumiamo tutta la sua grande storia, non solo i miseri cento anni dopo la sua unità politica.

Ettore Bernabei: l’uomo di fiducia.

“Io sono un uomo molto curioso”: comincia più o meno così un libro-intervista di Ettore Bernabei (direttore generale Rai dal 1961 al 1974) dal titolo L’uomo di fiducia. Non si tratta di un testo appena uscito, si tratta però di un libro che, oggi più di ieri, permette di capire. “I retroscena del potere raccontati da un testimone rimasto dietro le quinte per cinquant’anni”, recita il sottotitolo. Seguiamo Bernabei nel suo tentativo di capire. Di capire come stanno le cose.

Tanto per cominciare dobbiamo dare per scontato che il ‘teatrino della politica’ non lascia intravedere che l’apparenza. Sicché, se ci si limita a leggere i giornali e a seguire le vicende partitiche, si rischia di non capire proprio nulla. Perché dietro la facciata della politica c’è dell’altro e molto spesso questo ‘altro’ è determinante per capire. E allora: come fanno i comuni mortali a sapere qualcosa di ciò che sta dietro e che nessuno racconta? Seguendo qualcuno -ammesso che lo trovino- che sa e che abbia voglia di raccontare.

Nel nostro caso seguiamo Bernabei. Tanto per cominciare: “Sui giornali escono le verità che si vogliono e si possono fare uscire”. Per continuare: “la stessa rappresentazione della politica come lotta tra i partiti e basta è manchevole e fuorviante. Il potere è fatto di tanti pezzi diversi: i partiti, ma soprattutto i boss della finanza, i capi delle industrie, le lobby affaristiche, i magistrati, i sindacati, gli stessi giornalisti. Senza una consapevolezza delle autentiche forze in campo si può credere, magari, che sia in atto uno scontro quando c’è un incontro o viceversa”…

Continua Bernabei: “Subito dopo la guerra De Gasperi e Mattioli si misero d’accordo proprio su questo punto: i cattolici avrebbero tenuto le fila della politica, e cioè avrebbero guidato il governo e il Parlamento, mentre i laici avrebbero curato i loro interessi nella finanza, nell’industria e nell’editoria giornalistica”. E chi era Mattioli che gestiva come un plenipotenziario questioni che, all’apparenza, non avrebbero dovuto interessarlo? “Raffaele Mattioli -scrive Bernabei- amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, capo indiscusso della finanza italiana e uomo di fiducia della finanza occidentale, andò a Washington tra la fine del ’45 e i primi del ’46 e spiegò agli americani che tipo di spartizione delle competenze era stato concordato in Italia. Gli americani capirono e approvarono”.

Per continuare: quella di tangentopoli non è stata certo la prima delle vicende che hanno visto la magistratura impiegata come arma politica. L’utilizzazione della magistratura come arma politica, però, si può fare solo ad una condizione: di avere la stampa come cassa di risonanza. “Quando si adoperano i giudici nella battaglia politica, bisogna sempre affiancargli i giornali, la cosiddetta grande stampa. E’ come una cavalleria che deve dare man forte ai fanti ed esaltarne le capacità di sfondamento”.

Bernabei descrive le vicende degli anni cinquanta e sessanta, ma le cose sono andate diversamente all’epoca del Tonino nazionale e della grande telenovela di mani pulite? E’ forse comprensibile il ruolo esorbitante svolto dalla magistratura milanese senza il decisivo concorso e la forza d’urto dei mezzi di comunicazione di massa? Dopo aver ricordato qualche esempio di guerra politica combattuta grazie all’accoppiata magistratura-stampa, Bernabei conclude: “I grandi giornali padronali, cioè ‘Corriere’, ‘La Stampa’, ‘Il Messaggero’ eccetera, sono sempre stati, al fondo, antidemocristiani”.

E perché? La risposta è davvero interessante: “stavano con le destre laiche, i repubblicani, i liberali e i circoli finanziari internazionali che li sostengono e che non amano per niente la Chiesa cattolica e il suo scarso interesse per i profitti e per i padroni”. Dai giornali alla Fiat il passo è breve. E così Bernabei parla del ruolo e degli interessi della Fiat: “La Fiat è sempre stata e sempre sarà governativa”. D’altronde, soggiunge, “nessuna azienda italiana aveva ricevuto dallo Stato aiuti neanche lontanamente paragonabili a quelli che aveva ricevuto la Fiat”.

A cominciare dal 1946 quando Einaudi attraverso l’Imi “prestò alla Fiat somme enormi per centinaia di miliardi, al tasso d’interesse dell’1%! Cento miliardi di quella volta saranno diecimila miliardi di adesso. La Fiat ha finito di restituirli all’inizio degli anni Ottanta, trentacinque anni dopo. Significa che, avendo avuto una stanza piena d’oro, ha dato indietro un carrettino di carta”. Ciononostante, continua Bernabei, la Fiat non amava né Eianudi e i liberali né i democristiani. E infatti fu la Fiat ad adoperarsi perché “dalle ceneri del Partito d’azione sorgesse un’altra forza laica, cioè i repubblicani”.

Così ci sono stati “periodi in cui Ugo La Malfa e i suoi avevano più soldi della DC”. Se l’ostilità al partito dei cattolici può essere comprensibile, come si giustifica la lontananza della Fiat dai liberali? Perché, spiega Bernabei, “Einaudi voleva abbattere tutte le barriere doganali, cioè dare impulso alla libera concorrenza. Questo alla Fiat non è mai piaciuto”. Anche dalla Fiat ai repubblicani il passo è breve. E anche a questo riguardo Bernabei ha qualche notiziola di estremo interesse. Il merito della nazionalizzazione dell’energia elettrica, sostiene, -chi lo avrebbe detto?- spetta per intero ai superfinanziati repubblicani. Non i democristiani -che con Fanfani ne volevano l’irizzazione-, ma i rappresentanti del grande capitale hanno voluto la creazione della Montedison. Con quale conseguenza? Che “si vide un capannone d’alta montagna valutato, ai fini dell’indennizzo, come un grande albergo del centro di una città di un milione di abitanti”.

Torniamo al ruolo dei giornali perché con la grande stampa Bernabei non è tenero. Tutti omologati, tutti qualunquisti, tutti funzionali ai disegni del grande capitale internazionale, spesso impegnato in un testardo e ricorrente tentativo di destabilizzare l’Italia. In questo contesto, secondo Bernabei, rientra anche la questione del terrorismo.

Mai condannato dai giornali per quello che era. Sempre scusato, sempre in certa maniera nobilitato: “i giornali davano risalto enorme ad azioni che erano di puro teppismo. Certa stampa fu alleata del terrorismo nel senso che per anni e anni gli fece da cassa di risonanza, ingigantendone le gesta, trasformando in eroi quei poveretti. I sindacalisti dell’Alfa Romeo gli andavano a piscia’ sui tavoli, ai dirigenti di fabbrica, e un giornale serio che avrebbe dovuto scrivere? E che scrivevano o facevano capire, invece? Che era un atto grave, sì, però anche rivoluzionario, non privo d’una sua bellezza, d’una sua giustificazione”.

Insieme al terrorismo le forze occulte del potere internazionale hanno promosso contro l’Italia anche un altro attacco, molto più silenzioso e subdolo: l’invasione della penisola ad opera di un’immigrazione indiscriminata, molto ben indirizzata. Bernabei spiega in questo contesto la vicenda dei profughi albanesi. E infatti: i profughi albanesi “continuano ad arrivare in Italia anche grazie a un’eccezionale organizzazione che li spedisce, per mare, in Puglia, e che ancora una volta ha lo scopo di far nascere in Italia chissà quale pandemonio”. Quando finisce il terrorismo? si domanda Bernabei. Quando “quelli che lo avevano organizzato e finanziato capirono che non c’era niente da fare, che il paese non si faceva destabilizzare. Allora diedero l’ordine: ‘Rompete le righe!’ E siccome un modo pulito per rompere le righe andava trovato, misero in piedi tutta una serie di sceneggiate, tra cui quella dei pentiti”. Gli stessi che inventarono i pentiti ordinarono la liquidazione degli irriducibili. Quanti non volevano saperne di farla finita con la lotta armata, “quelli, zac, li fecero fuori tutti. Sa quanti morti ammazzati, che passano per vittime di regolamenti di conti tra camorristi, sono in realtà ex terroristi che non volevano smetterla? Ci fosse un giornale che una volta almeno andasse a vedere cosa c’è dietro quei morti ammazzati nei cosiddetti regolamenti di conti”.

A questo punto la domanda davvero interessante è: perché “forze economiche, politiche, lobby affaristiche che muovono le loro pedine sulla scacchiera dell’intero pianeta” hanno cercato con tanta determinazione di destabilizzare l’Italia? La risposta di Bernabei è ancora una volta netta: in primo luogo perché da noi “c’è la Chiesa cattolica”. C’è una linea precisa -scrive- che da Lutero ed Enrico VIII passa per la Rivoluzione francese ed il Risorgimento, “nato e cresciuto con l’appoggio inglese contro la Chiesa cattolica”.

Le società segrete che perseguono questa iniziativa incarnano “un’etica che si esaurisce nel guadagno e nel successo, un settarismo che ignora la pietà ed è pronto a schiacciare l’umanità intera in nome di un preteso Bene Assoluto e che trova la incarnazione più duratura nei riti delle società segrete programmaticamente anticlericali”. E d’altronde, si chiede Bernabei, qual è il vero significato dell’espressione globalizzazione? Globalizzare “significa conquista di tutto il pianeta attraverso l’omologazione di una logica. Quale logica? Quella del profitto”. Parlando di lobby affaristiche, Bernabei ne individua una particolarmente dedita ad interessarsi alle vicende italiane, con grande attenzione viceversa al mondo della sinistra: “il capitalismo anglo-olandese ha sempre avuto un occhio di riguardo per l’Internazionale socialista”, scrive l’Uomo di fiducia. Il discorso di Bernabei continua in tanti illuminanti rivoli. Noi ci fermiamo qui.

Un ebreo di nome Zolli

Gli attacchi a Pio XII e alla chiesa cattolica accusati di filonazismo vanno avanti da decenni. Il film Amen del regista Costa Gavras è solo uno degli innumerevoli esempi di denigrazione basata sul vuoto della calunnia ai danni di papa Pacelli. Per pubblicizzare il film il ‘creativo’ Oliviero Toscani è arrivato ad immaginare un manifesto in cui la croce uncinata nazista scaturisce dalla croce cristiana. In questo contesto di squallore quotidiano brilla una coraggiosa iniziativa editoriale. Si tratta della biografia di Israel Zoller (Judith Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, ed. San Paolo), rabbino capo della comunità ebraica di Roma ai tempi del fascismo e dell’occupazione nazista. Zoller, costretto ad italianizzare il nome, dopo essere diventato Italo Zolli sceglie ancora una volta -in questo caso di sua spontanea volontà- di mutare nome. Convertitosi al cristianesimo, Italo Zolli diventa Eugenio Zolli: alla fine della guerra, al momento del battesimo, “in omaggio e per riconoscenza a papa Pio XII [Eugenio Pacelli] per quello che aveva fatto per gli ebrei durante la guerra”, fa proprio il nome del papa. Ecco cosa scrive Zolli nell’opera Antisemitismo composta nel 1945: “L’ebraismo ha un grande debito di riconoscenza nei confronti di Sua Santità Pio XII per i suoi appelli, pressanti e ripetuti, formulati in suo favore. E anche se si rivelarono spesso senza effetto, possiamo dire che egli meriti sempre la nostra profonda gratitudine per le sue proteste contro le leggi razziali ed i processi iniqui. E questo debito riguarda soprattutto gli ebrei di Roma perché, essendo più vicini al Vaticano, furono oggetto di sollecitudini particolari”. Ancora: “L’opera straordinaria della Chiesa per gli ebrei di Roma è soltanto un esempio dell’immenso aiuto svolto sotto gli auspici di Pio XII e dei cattolici di tutto il mondo, con uno spirito di umanità e di carità cristiana impareggiabili. La descrizione di quest’opera in tutta la sua vastità costituirà una delle pagine più fulgide della storia umana, un vero trionfo della luce che emana da Gesù Cristo”.

Un rabbino capo di Roma che si converte al cattolicesimo alla fine della seconda guerra mondiale? Basterebbe questo solo fatto a smentire nel modo più categorico le accuse di antisemitismo reiteratamente rivolte contro Pio XII e la chiesa da lui diretta. Peccato che dell’esistenza del rabbino Zolli nessuno sappia niente. La memoria dell’insigne uomo di cultura e di pietà religiosa è infatti stata cancellata. A cominciare, lo mette giustamente in rilievo Messori nella prefazione al libro della Cabaud, da De Felice che -spesso accusato di perdersi nei dettagli e nelle minuzie-, nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo dimentica addirittura di citare il ruolo e la storia del rabbino capo della comunità romana: De Felice -scrive Messori- ignora “del tutto” il nome di Zolli “che compare solo in una nota bibliografica”. A riportare d’attualità l’incredibile storia della miracolosa conversione di Zolli è ora un’ebrea, anch’essa convertita. Judith Cabaud, madre di nove figli, è venuta a conoscenza della storia del rabbino grazie al figlio primogenito, seminarista a Roma. Da quel momento, nonostante il caso fosse tutt’altro che “politicamente corretto”, Judith ha scelto di compromettere il proprio buon nome -si fa per dire- e di riportare in vita la memoria di Zolli. Non a caso la Cabaud paragona il caso del rabbino a quello di un altro ebreo famoso, il filosofo Henri Bergson. Entrambi capiscono che “il cattolicesimo è la continuazione dell’ebraismo e che le due religioni si completano alla perfezione”. Entrambi attendono per il gran passo della conversione che il loro gesto non possa in alcun modo essere equivocato e scambiato per opportunismo. Bergson evita addirittura di ricevere il battesimo. Il perché lo spiega nel Testamento autografo: “Le mie riflessioni mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo, nel quale vedo la realizzazione completa del giudaismo. Mi sarei convertito se non avessi visto prepararsi da anni (in gran parte, ahimè!, per colpa di un certo numero di ebrei interamente sprovvisti di senso morale) la formidabile ondata di antisemitismo che sta per scatenarsi nel mondo. Ho voluto restare tra coloro che saranno domani dei perseguitati. Ma spero che un prete cattolico vorrà, se il cardinale arcivescovo di Parigi lo autorizza, venire a dire delle preghiere sulle mie esequie”. Quanto a Zolli “non volle entrare nella chiesa in piena persecuzione contro gli ebrei, come se volesse sfuggire alla sorte che li aspettava”. Il drammatico Testamento di Bergson ci riporta all’indegna calunnia che ha circondato e circonda l’operato di Pio XII. Ecco cosa scrive Cabaud citando un testo recentemente comparso in difesa di papa Pacelli, composto dal gesuita padre Blet che ha avuto ampio accesso agli Archivi Vaticani: “Nel dicembre del 1942, papa Pio XII estende il suo messaggio di Natale ‘alle centinaia di migliaia di persone che, senza alcuna loro colpa, e talvolta per il solo fatto della loro appartenenza o della loro razza, sono state condannate alla morte o a un progressivo sterminio’. Sei mesi dopo, nel giugno del 1943, nell’allocuzione al Collegio dei Cardinali, Pio XII ricorda ancora le ingiustizie perpetrate contro gli ebrei e i cattolici diventati ostaggio del nazismo e spiega la sua prudenza: ‘Tutte le nostre parole rivolte a questo riguardo alle autorità competenti, come tutte le nostre dichiarazioni pubbliche, devono essere seriamente da Noi soppesate e misurate nell’interesse delle vittime, per non rendere contro le nostre intenzioni, più pesante e insopportabile la loro situazione”.

A cosa si riferisce il papa? All’esperienza della Chiesa olandese i cui vescovi hanno pubblicamente condannato le atrocità naziste. Chi accusa il pontefice di silenzio, scrive la Cabaud citando Anthony Rhodes, scorda volutamente il precedente dell’Olanda: “C’erano nei Paesi Bassi più ebrei battezzati cattolici che in tutto il resto d’Europa. Mentre venivano radunati e deportati in Polonia gli israeliti olandesi, gli ebrei battezzati non venivano importunati dalle forze di occupazione nazista. Nel luglio del 1942, la chiesa cattolica, insieme alla chiesa riformata d’Olanda, in un telegramma al Reichskommissar tedesco, protestò contro la deportazione degli ebrei olandesi e minacciò di renderla di pubblico dominio se non fosse cessata”. Per tutta risposata, commenta Cabaud, “i nazisti fecero sapere che se le chiese cessavano le loro proteste, essi avrebbero continuato a chiudere gli occhi a proposito degli ebrei battezzati, assimilati fino a quel momento ai cristiani. La chiesa riformata diede il suo assenso, mentre l’arcivescovo cattolico di Utrecht rifiutò e condannò apertamente e ufficialmente la persecuzione. La risposta fu immediata: tutti gli ebrei, anche quelli battezzati nella chiesa cattolica (ed Edith Stein, carmelitana, ed ora elevata agli altari, era tra di loro) furono deportati ad Auschwitz. Mentre gli ebrei battezzati nella chiesa protestante non furono toccati”. Cabaud ricorda anche le parole di Pio XII a don Pirro Scavizzi. Lo fa in modo incompleto e noi preferiamo ricorrere alla citazione integrale riportata da Mario Cervi nella prefazione a Pio XII. Il papa degli ebrei di Andrea Tornielli. Nel 1942, dunque, Scavizzi, “un cappellano italiano che percorreva l’Europa raccogliendo notizie sulle persecuzioni, viene ricevuto in udienza dal Papa e gli descrive la terribile situazione sia dei cattolici sia degli ebrei in Polonia. Il Papa si confidò con lui: ‘Dica che, più volte, avevo pensato a fulminare con scomunica il nazismo, a denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei… Ci sono giunte gravissime raccomandazioni, per diversi tramiti, perché la Santa Sede non assumesse un atteggiamento drastico. Dopo molte lacrime e molte preghiere, ho giudicato che la mia protesta non solo non avrebbe giovato a nessuno ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà perché sono indifesi. Forse la mia protesta avrebbe procurato a me una lode nel mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono”. Lasciamo per un momento la lettura de Il rabbino che si arrese a Cristo per qualche ulteriore puntualizzazione, possibile grazie alla recente pubblicazione degli archivi dell’Oss (l’ufficio dei servizi strategici americani) studiati per più di due anni dallo storico Richard Breitman. Dall’analisi delle carte risulta in modo inconfutabile che americani ed inglesi sapevano “della politica di sterminio” applicata dal Terzo Reich fin dal 1941. Churchill e Roosevelt sapevano; eppure tacquero e non fecero nulla. L’Occidente non fece nulla quando Hitler, prima della soluzione finale, aveva previsto la deportazione degli ebrei in Madagascar. Inglesi ed americani impedirono anche il trasferimento in massa degli ebrei in America, in Inghilterra e in Palestina. Per non parlare del ruolo di rilievo avuto dal capitale ebraico nel finanziamento della campagna hitleriana per la conquista del potere. Si riferisce anche a questo Henry Bergson quando, nel Testamento, allude ad un “certo numero di ebrei interamente sprovvisti di senso morale”?

Scrive Vitaliano Mattioli in Gli ebrei e la chiesa citando il Sunday Times: “Churchill non solo bloccò il piano [di esodo verso la Palestina] ma per non irritare la popolazione araba di Palestina (‘l’immigrazione ebrea avrebbe preoccupato gli Stati arabi”), allora amministrata dalla Gran Bretagna (lo Stato d’Israele fu fondato solo nel 1948), promulgò una legge nella quale vietava agli ebrei di emigrare in Medio Oriente. Fu per questo che agli inizi del 1943 a 70.000 ebrei rumeni non fu permesso di espatriare in Palestina, destinandoli praticamente a morte sicura”. Dal 1939 la Gran Bretagna “aveva limitato a 75.000 il numero degli immigrati ebrei per i prossimi 5 anni”. Goebbels, il famigerato ministro della propaganda nazista, non ha torto quando nel 1943 scrive: “Quale sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno stato ebraico in qualche parte del mondo? E’ interessante notare che i paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli Ebrei, rifiutano costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono i geni della filosofia e della creazione artistica ma quando si chiede loro di accettare questi geni, chiudono le frontiere e dicono che non sanno che farsene. E’ un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa propria dei geni”. Per quanto riguarda Roma e l’Italia, dopo aver analizzato i documenti dell’Oss, Breitman racconta: “gli USA e l’Inghilterra seppero con qualche giorno di anticipo che l’Olocausto stava per colpire l’Italia. Se avessero informato la comunità ebraica di Roma, ne avrebbero evitato lo sterminio. Ma non lo fecero”. Ancora: alla fine del 1943 i bombardieri alleati stanziati in Puglia avrebbero potuto colpire le linee ferroviarie che portavano ai campi di concentramento polacchi. Fecero invece una diversa scelta ‘strategica’: preferirono concentrarsi sul bombardamento delle fabbriche di armi. Davvero appropriata è la domanda dello storico Emile Puolat: “Questo silenzio che il papa non avrebbe rotto, chi mai l’ha rotto? Quali sono i politici ‘democratici’ che allora protestarono? Quali sono le frontiere che si sono aperte per accogliere i perseguitati?”. La risposta oggi è nota: nessuno. E non per ignoranza. Tutti sapevano e tutti evitarono accuratamente di fare alcunché. Papa Pacelli agì: “Pinchas Lapide, ex console d’Israele in Italia, afferma: ‘Durante la guerra la Chiesa cattolica salvò più vite di ebrei di tutte le altre chiese, istituzioni religiose e organizzazioni benefiche messe insieme’. Esaminando le statistiche, Lapide mette in luce il divario considerevole tra il numero degli ebrei salvati dalla chiesa e tutte le realizzazioni della Croce Rossa Internazionale e delle democrazie occidentali. ‘La S. Sede, i nunzi e la chiesa cattolica nel suo insieme salvarono circa 400.000 ebrei da morte certa”. Anche Zolli sapeva, e bene, come stavano le cose. Ecco cosa testimonia: al momento dell’arresto degli ebrei di Roma e d’Italia “il Santo Padre mandò una lettera che doveva essere consegnata personalmente ai vescovi e con la quale disponeva di sospendere la clausura in vigore all’interno delle case religiose per metterle in condizioni di diventare un rifugio per gli ebrei. Conosco un convento dove le suore dormivano in cantina per lasciare ai rifugiati ebrei i loro letti”. Per salvare gli ebrei nessuno fece nulla. Eppure si continua a gettare la croce della colpevolezza sulle spalle di papa Pacelli. Sull’unico che fece tanto. Ci piace chiudere questo lungo articolo con una citazione dell’ex rabbino capo Zolli, ormai divenuto cristiano, risalente al 1948: “Sono convinto che dopo questa guerra, l’unico modo per resistere alle forze di distruzione e per intraprendere la ricostruzione dell’Europa sarà la diffusione del cristianesimo, cioè dell’idea di Dio e della fraternità umana come fu predicata da Cristo e non di una fraternità basata sulla razza dei superuomini; infatti, ‘non c’è più greco né giudeo, né schiavo né libero; siamo tutti uno in Cristo Gesù”.

La conversione di Leonardo Mondadori.

Un uomo prestigioso, ricco, noto, che si converte al cattolicesimo? Improbabile di questi tempi. Eppure è ciò che è successo a Leonardo Mondadori. Conversione: questo il titolo di un libro di Vittorio Messori che racconta la vita, le convinzioni, la realtà di un uomo che ha mutato pelle. Un tempo chi si convertiva al cristianesimo cambiava nome. Non è la stessa cosa essere cristiani o non esserlo. Leonardo Mondadori, battezzato da bambino, non ha mutato nome. Ma modo di stare al mondo sì. E questo incuriosisce e interroga.

Perché il libertino Leonardo, anche se Messori non lo dice, sembra diventato un vecchio bacchettone. Il punto è -ed il libro è bello anche per questo- che le antiche verità della morale cattolica, apparentemente retrograde ed assurde, brillano in realtà di luce propria: la luce della verità. E, quindi, della felicità. Della speranza. E così il bell’uomo che ha avuto due mogli e tante buone conoscenze femminili, diventato cristiano, vive -per grazia di Dio- castamente: “Parlo per me: e a me, come credente, non riconosco il diritto di ‘rifarmi una vita’, come si dice con un’espressione stereotipata”; “Proprio perché ho combinato tutti i pasticci che ho confessato e confesso e di cui mi rammarico, ho diritto di dirlo: stiamoci attenti, l’infelicità aumenta proprio quando ci si illude di trovare la felicità a spese della fedeltà”. Il Leonardo della piena maturità che santifica la realtà del proprio matrimonio indissolubile, cosa pensa della sessualità nella forza prorompente della giovinezza? Cosa pensa dei rapporti cosiddetti prematrimoniali, diventarti oggi un’assoluta ovvietà? “Il solo mettere in discussione un argomento come questo -commenta- in una società che fa della prestazione sessuale la misura della valutazione di un individuo, significa tirarsi addosso l’etichetta di oscurantista. Perché basta accennare a un discorso sulla castità prematrimoniale per suscitare reazioni ironiche? Perché parlare di un gesto di donazione totale e reciproca da parte dell’uomo e della donna provoca una reazione di ilarità, se non di scherno?”. “Senza la misteriosa prospettiva della fede, la morale cristiana appare incomprensibile, se non crudele e dannosa”, scrive Mondadori. E questo è il punto. Per vivere castamente bisogna aver trovato la perla di cui parla il Vangelo. Bisogna essere pieni, sazi. Bisogna aver trovato un senso alla propria vita. Bisogna aver trovato IL senso della propria vita. Bisogna aver incontrato l’onnipotenza misericordiosa della tenerezza divina. E questo incontro Leonardo lo ha fatto. “L’amore -scrive- consiste anche nel non consegnare il corpo ai capricci dell’eros ma nel donarlo alla persona con cui si dividerà la vita”. I molti crescenti guai -sintetizza Messori- del tribolato rapporto fra maschio e femmina vengono dalla dissociazione tra sesso e amore. Che vita può fare, con simili convinzioni, uno che continua a frequentare i salotti bene?

La vita del testimone: “Forse stenterai a crederlo, ma tra le cose che faccio più volentieri, anzi, che più mi piacciono, c’è quella di dare un po’ di testimonianza in certi salotti o in certi ambienti professionali che sembrano antitetici alle mie prospettive attuali”. E continua: “C’è un laicismo disinformato -lo incontro di continuo- che dà del cristianesimo un’immagine caricaturale. E’ quello che sostiene che questa religione sarebbe la nemica implacabile della sessualità e dell’eros. Bè, io dico che basterebbe leggere, nell’Antico Testamento, il Cantico dei cantici, o alle molte riflessioni che Giovanni Paolo II ha dedicato all’amore, pure a quello umano per rendersi conto di che cosa sia la fede vera, anche in materia sessuale”. Un piccolo saggio delle opinioni-conversazioni di un convertito salottiero: “Perché la Chiesa nega l’eucaristia ai divorziati che si sono risposati? Non è, questa, una prova di mancanza di carità e di perdono? Credo che, per rispondere alla domanda, dobbiamo tenere presenti i due concetti cardine del cristianesimo: la carità, certo, ma anche la verità. Ebbene la verità cristiana insegna che, nel disegno di Dio, il matrimonio è perenne e indissolubile. La Chiesa lo ha sempre considerato come un’istituzione divina che risale alla creazione stessa dell’uomo e della donna. I termini del progetto divino non possono cambiare”.

Perché la chiesa afferma che l’aborto è un crimine? “La scienza genetica ha dimostrato in modo inequivocabile che nell’uovo fecondato c’è l’intero codice del futuro uomo, dal colore degli occhi alla forma delle labbra: dunque, il mistero della vita ha inizio sin dalla fecondazione. Ecco allora spiegato anche razionalmente il no fermo della Chiesa all’interruzione della gravidanza. Sono anche convinto che è da respingere ogni tentativo di giustificare la soppressione di futuri nati perché malati o handicappati. Non possiamo essere noi a decidere chi è adatto a vivere eliminando chi, a nostro parere, non lo sarebbe. La Chiesa ha ragione nel ricordare che non solo la fede ma, innanzitutto, la ragione sta dalla parte della difesa della vita”. Ecco allora la conclusione: “C’è da aspettarsi che, prima o poi, si finisca con lo scoprire che il presunto ‘oscurantismo’ della Chiesa su questi temi etici era in realtà una difesa preveggente, anzi profetica, del vero bene dell’uomo. Del resto, non sarebbe la prima volta”. Complimenti, Leonardo.

Garibaldi, un romantico negriero.

Un uomo dalla fantasia fervidissima: questo era Giuseppe Garibaldi. Per sincerarsene basta dare uno sguardo alla sua dimenticata produzione letteraria. Si tratta di romanzi in cui eroine e manigoldi vengono a confronto per la sconfitta dei secondi e la vittoria dei primi. Chi sono i manigoldi? Una domanda così ingenua può venire in mente solo ai nostri giorni. Ovvio che malfattori, violentatori, incestuosi, bugiardi siano i preti in generale, i gesuiti in particolare. Il credo di Garibaldi è infatti il seguente: il prete è “il vero rappresentante della malizia e della vergogna, più atto assai a la corruzione e al tradimento dello schifoso e strisciante abitatore delle paludi”; il gesuita è “il sublimato del prete”: “quando sparirà -si domanda- dalla faccia della terra questa tetra, scellerata, abominevole setta, che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’esser umano?”.

Tanto è lo schifo che Garibaldi nutre per tutto quanto ricorda santa romana chiesa ed i suoi rappresentanti, che per i preti arriva ad immaginare un rimedio attuato circa un secolo dopo nei confronti degli odiati “borghesi” dalla fantasia malata di un altro grande della storia: Mao Tse-Tung. Come Mao ha inventato per gli intellettuali un rimedio sicuro (mandarli nelle campagne ad imparare come si vive dai contadini), così Garibaldi ha ideato per i preti la bonifica delle paludi pontine: “i preti alla vanga” diranno i suoi seguaci. Ardente benefattore dell’Umanità (con la U rigorosamente maiuscola come i massoni -di cui Garibaldi è autorevolissimo esponente- scrivono), liberatore degli italiani dalla schiavitù del cattolicesimo, Garibaldi è uomo che non si tira indietro di fronte al commercio di carne umana.

Mentre combatte per la liberazione dei popoli latino-americani, l’eroe dei due mondi tira a campare come può: col furto di cavalli si procura il taglio dei padiglioni auricolari, ma col commercio marittimo le cose gli vanno meglio. Il 10 gennaio del 1852 Garibaldi, comandante della Carmen di proprietà dell’armatore ligure Pietro Denegri, salpa dal Callao, in Perù, diretto verso Canton; la nave trasporta guano, preziosa qualità di letame. Giustamente convinto di vivere una vita memorabile, il generale è molto preciso nel racconto delle proprie gesta che descrive in dettaglio nelle Memorie. Del viaggio Callao-Canton-Lima sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca solo un particolare: non viene specificato con che tipo di merce Garibaldi, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano, faccia ritorno in Perù. A questa dimenticanza provvede fortunatamente l’armatore Denegri che, per encomiare le qualità umane del generale, racconta all’amico e biografo Vecchj il dettaglio mancante: Garibaldi ?m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie?. Romanziere e negriero, Garibaldi ha un cuore tenero. E’ pieno di compassione per l’amara sorte capitata agli animali che vivono in un paese cattolico. I figli di santa romana chiesa si ostinano a non credere all’inconfutabile verità della loro discendenza dalla bestie ed è per questo che le tormentano in ogni modo senza nessuno scrupolo. Non sto scherzando: i liberali sono assolutamente certi della verità di questo assunto.

Da sempre tenero con le donne, il cuore del generale è attratto dall’amara sorte toccata agli animali italiani da una nobildonna inglese che, in viaggio per l’Italia, constata di persona i gravi maltrattamenti inflitti dai superstiziosi e ignoranti cattolici alle bestiole. E’ sull’onda dello sdegno che Garibaldi fonda nel 1871 la Società per la Protezione degli Animali. Forse che i cattolici del secolo scorso sono davvero così spietati nei confronti delle bestie? A leggere i documenti dell’epoca non si direbbe. Sembra anzi il contrario. Proprio i cattolici si fanno paladini degli animali caduti sotto il bisturi positivista di provetti scienziati umanitari. Un gruppo di scienziati stranieri ha iniziato a Firenze la pratica della vivisezione “per sorprendere i misteri della vita nei suoi recessi” ma una campagna stampa sostenuta dal “partito cattolico” impedisce che simili sperimentazioni continuino in Italia. Gli scienziati positivisti sono costretti ad emigrare a Ginevra, patria del calvinismo progressista. Protettore degli animali, romanziere e negriero? Garibaldi non è passato alla storia con questo clichet. Tutti lo conosciamo come impavido eroe dei due mondi, libertador, disinteressato condottiero, esule volontario, uomo puro e scevro da compromessi. Garibaldi con questa immagine è conosciuto e rispettato in tutto il mondo. Basti dire che nella centralissima piazza George Washington di New York, nuova capitale mondiale, la statua di Garibaldi è una delle due che accompagna, con minor magnificenza e con dimensioni molto più ridotte è vero, ma nondimeno con grande valore simbolico, la statua a cavallo del generale Washington, padre della patria americana.

I veri briganti

Per quali buone ragioni i Mille invadono il Regno delle Due Sicilie? I pareri a questo riguardo sono unanimi: a causa della barbarie del governo borbonico. Citiamo come esempio l’opinione del Venerabile Filippo Delpino, autorevole esponente della massoneria sarda. Nella solenne inaugurazione della loggia Ausonia di Torino, il 10 maggio 1860, questi compiange la sorte di quei milioni di italiani che gemono ancora sotto una dinastia maledetta da tutti per le sue fosche gesta, per la ferocia del suo assolutismo e per i suoi spergiuri?. Vittorio Emanuele II, per giustificare la conquista dell’Italia meridionale, utilizza alla lettera le stesse parole. Eppure c’è qualcosa che non torna.

Esprime bene queste perplessità Massino D’Azeglio in una lettera del 29 settembre 1860 al nipote Emanuele: Quando si vede un regno di sei milioni ed un’armata di 100 mila uomini, vinte colla perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuol capire, capisca. Chi vuol capire: per fare ciò D’Azeglio consiglia conviene leggere i Diari dell’ammiraglio Carlo Persano, pubblicati in un momento di gravissima difficoltà. Persano è incriminato dopo la vergognosa sconfitta di Lissa nel 1866 durante la terza guerra di indipendenza. Trovandosi alle strette non trova di meglio che raccontare per filo e per segno la spregiudicata condotta del conte di Cavour durante l’invasione del regno delle Due Sicilie. All’epoca Persano svolge mansioni delicate e super segrete: deve gestire la corruzione dei quadri dell’esercito borbonico; deve organizzare il rifornimento di uomini ed armi e deve marcare stretto -insieme a La Farina- Garibaldi sorvegliandone da vicino le mosse. Tutto ciò è raccontato nei minimi dettagli dal meticoloso diario. La corruzione sistematica che rende possibile la spedizione garibaldina è provata con cristallina evidenza. Nel diario si legge, per esempio, quanto Persano scrive a Cavour nell’agosto 1860: Ho dovuto, Eccellenza, somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, giusta invito del marchese di Villamarina, e quattromila al comitato. Mi toccò contrastare col Devincenzi, presente il marchese di Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; ed io non volevo neanche dargliene tanti. Cavour -racconta Persano- gli “aveva data facoltà di assicurare gradi e condizioni vantaggiose a coloro che promuovessero un pronunciamento della squadra borbonica in favore della causa italiana e, in casi particolari, aveva autorizzato a spendervi qualche somma. Il conte fa di tutto per incoraggiare il tradimento dell’ufficialità borbonica: Mandi a Genova – scrive a Persano – quegli fra gli ufficiali di marina napoletani che hanno dato le loro dimissioni regolarmente. Non potrò forse dar loro subito un impiego, ma li rassicurerò sulle loro sorti.

L’ammiraglio è un perfetto esecutore delle consegne ricevute, tanto che così scrive a Cavour: possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana. Come sul fronte della corruzione, anche su quello dell’invio di armi tutto fila liscio: noi continuiamo, con la massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane. Persano è perplesso su un solo punto: sulla qualità degli uomini che arrivano dal continente. Converrebbe tener gli occhi ben aperti – scrive a Cavour – sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per qui, e veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido. Il risultato di questa sistematica infiltrazione in tutti i gangli vitali della nazione napoletana è il miracolo che stupisce il patriota Ippolito Nievo. Il romanziere veneto così scrive alla sua Bice: Che miracolo! Ti giuro, Bice! Noi l’abbiamo veduto e ancora esitiamo quasi a credere. Succede l’incredibile: i picciotti fuggivano d’ogni banda; Palermo pareva una città di morti; non altra rivoluzione che sul tardi qualche scampanìo. E noi soli 800 al più, sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati senz’ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?), alla conquista d’una città contro 25 mila uomini di truppa regolare, bella, ben montata, che farebbe la delizia del ministro La Marmora! Figurati che sorpresa per noi straccioni!.

Che brutta sorte quella dell’illustre garibaldino: Nievo finisce in fondo al mare con la sua nave, carico di tutti i documenti e le ricevute dell’enorme flusso di denaro che accompagna la calata dei Mille in Italia meridionale. Corruzione e tradimento rendono possibile il miracolo citato da Nievo. Quando la popolazione si rende conto di quello che è successo tenta inutilmente quanto eroicamente di ribellarsi. Briganti, si dirà.

Rossa puttana di Babilonia

Da Lutero in poi una valanga di accuse e calunnie è violentemente scagliata contro la chiesa di Roma, definita dall’ex monaco agostiniano “rossa puttana di Babilonia”. Particolarmente infamante, e ricorrente, è l’accusa di ridurre i fedeli ad un miserevole stato di semischiavitù costret

ti come sono ad una cieca obbedienza al dettato del Magistero. Quello della supposta obbedienza cieca -e quindi schiava- dei cattolici è un cavallo di battaglia particolarmente efficace che trova il suo vertice nelle accuse lanciate da Kant in Che cos’è l’Illuminismo. Il Regno di Sardegna condivide la valutazione protestante. I deputati del parlamento subalpino si producono reiteratamente in una serie di violenti attacchi contro i voti religiosi: povertà, castità ed obbedienza sono pubblicamente irrisi ed additati al pubblico disprezzo. Di gran lunga il più bersagliato dei tre è il voto dell’obbedienza. A ben guardare non è un caso: fino a che i cattolici restano ancorati all’obbedienza al papa, per i liberali non c’è speranza di far breccia nelle loro coscienze. Qualche esempio mostra con chiarezza quanto la vulgata protestante abbia fatto breccia nel cuore dei “cattolici” parlamentari sardi: “Quando si entra per sempre in un convento – afferma il deputato Chenal -, disponendo irrevocabilmente del proprio avvenire, si vende la propria libertà a favore del superiore del monastero; e questo è un atto contrario alla moralità divina e umana”.

L’ex prete Giuseppe Robecchi rincara la dose: “Ritornare all’ubbidienza passiva, alla subordinazione incondizionata, all’associazione obbligatoria, votiva, perpetua, oggi? Oh no! è idea questa che non può venire in mente a nessuno che sia sano di mente”. I liberali che condannano l’obbedienza cattolica con parole di fuoco, ammettono come normale, anzi dovuta, l’obbedienza all’interno delle conventicole massoniche di cui fanno parte. Due pesi, due misure. Per rendercene conto citiamo un testo del Venerabile Jean Marie Ragon la cui testimonianza è particolarmente autorevole essendo espressione ufficiale del Grande Oriente di Francia. Nel Corso filosofico scritto nel 1853 Ragon cita il Dodecalogo massonico: “Bisogna obbedire al capo […] Che l’uomo, nel suo proprio stato, sappia lavorare, obbedire e rispondere”. Perché si deve obbedienza al capo? Perché il capo -scrive Ragon- è colui che sa. Colui che ha la luce. Colui che conosce la “quadratura del cerchio”, come recita il catechismo del maestro perfetto. Tutta l’organizzazione massonica d’altronde ruota intorno alla mistica dell’obbedienza al capo. I “fratelli” ritengono che solo l’ordine possieda per intero la verità e che questa sia perfettamente conosciuta solo da chi lo guida: affinché i principi massonici trionfino e riescano a permeare, illuminandola, l’opacità delle masse, è assolutamente necessaria una perfetta obbedienza ai capi. ? quanto chiaramente esprime il manifesto della Gran Loggia di Germania pubblicato nel 1794.

Nel testo si legge: “Il mondo non è ancora abbastanza forte per sopportare la rivelazione del segreto massonico”. Da questa constatazione la Gran Loggia ricava una paterna esortazione alla sottomissione filiale: “Figli, permetteteci di trattarvi come figli; come genitori prudenti che si guardano dal comunicare alcuni segreti ai figli cui hanno dato la vita, così noi ci comportiamo con voi”. All’interno della Massoneria l’obbedienza è strettamente collegata al segreto cui è rigidamente vincolato, con giuramento solenne, ogni membro dell’ordine “sotto pena d’aver tagliata la gola, strappata la lingua, il mio corpo fatto cadavere in pezzi indi bruciato e le ceneri sparse al vento”. Quale la differenza con l’obbedienza cattolica? Ragon pensa che i cattolici obbediscano ciecamente, mentre i massoni volontariamente: “La libertà dei massoni è l’obbedienza ragionata opposta all’obbedienza passiva, segno di schiavitù”.

Il parere della “Civiltà Cattolica” è diverso. Nel 1852 la rivista dei gesuiti scrive: si parla molto “contro l’ubbidienza cieca dei religiosi. Ma codesta ubbidienza nella sua cecità è piena d’intendimento e di luce. I Religiosi conoscono appieno il fine del proprio Istituto, ne conoscono i mezzi, conoscono le persone tutte da cui dipendono. L’annegazione del proprio giudizio, che si trova nella loro obbedienza, riguarda solo ciò ch’è meramente individuale […] Niente di tutto ciò si avvera nell’obbedienza cieca prescritta al settario”. L’affiliato ad una società segreta “appartiene a una corporazione di cui non conosce né i capi né i membri; il fine o gli è ignoto o gli è proposto in maniera vaga e indeterminata; si obbliga a seguire ed accettare qualunque sorta di mezzi che gli vengano imposti dal potere misterioso che lo governa; tutto dee riputare come santo e legittimo, anche l’omicidio, e tenersi pronto a tutto ciò che l’associazione richiede da lui. Insomma la sua cecità è perfetta. Egli ha chiusi gli occhi della ragione interamente alla luce del vero e del bene obbiettivo, per farsi muovere e manodurre qual inerte strumento da un’altra ragione individuale che imperi a nome proprio”.

La farsa dei plebisciti.

Per avere l’appoggio delle potenze liberali la conquista sabauda della penisola italiana deve salvare le apparenze. Deve cioè sembrare frutto della giustizia e del diritto. E’ letteralmente quello che scrive lo storico massone Giuseppe La Farina a Filippo Bartolomeo: “? necessario che l’opera sia cominciata dai popoli: il Piemonte verrà, chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si tirerebbe addosso una coalizione europea”. Il re Vittorio Emanuele – scrive La Farina – dice: “io non posso stendere la mia dittatura su popoli, che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno”.

A cose fatte, a conquista ultimata, per rafforzare la propaganda della legittimità dell’intervento i liberali ricorrono all’invenzione napoleonica dei plebisciti. Tutta la popolazione è chiamata a scegliere liberamente se essere annessa o meno al Piemonte. Colossale truffa quella dei plebisciti. Per rendersene conto basta ricorrere a due fonti autorevoli appartenenti per di più ai due opposti schieramenti: quello liberale e quello cattolico. Mi riferisco al Memoriale di Filippo Curletti -stretto collaboratore di Cavour e capo della polizia politica- e alla prestigiosa rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica. Oltre che funzionario di polizia Curletti è complice e mandante di una banda torinese di malviventi. Rifugiatosi in Svizzera da dove apprende la condanna in contumacia, Curletti si vendica pubblicando le proprie memorie. Ecco come il poliziotto rievoca lo svolgimento dei plebisciti a Modena: “Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.

Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo”. Il capo della polizia politica prosegue: “In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti, – chiamavamo ciò completare la votazione, – si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti”. Le cose vanno diversamente nelle altre regioni? A parere di Curletti no: “Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze”. La Civiltà Cattolica segue l’evento plebiscitario con corrispondenze da tutte le capitali italiane. Scegliamo il resoconto relativo alla Toscana perché è un buon esempio di spensierata e divertente goliardia. In Toscana, dunque, una pressante campagna di stampa dichiara “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione.

Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse”. E dire che Salvemini accuserà Giolitti di essere il “ministro della malavita”. Non bisogna aspettare Giolitti perché le elezioni in Italia siano truccate: ciò succede dall’inizio. La propaganda di regime racconta la favola buonista del re democratico e disinteressato che rispetta la volontà dei popoli. Immediatamente prima dello svolgimento dei plebisciti Vittorio Emanuele II indirizza ai Popoli dell’Italia meridionale il seguente proclama: “Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna”. Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre 1860 il Re dichiara: “Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano”. Questa leggenda dura ancora oggi.

Un santo profeta: Giovanni Bosco.

Il cattolico Piemonte assiste costernato al montare della persecuzione anticattolica. Cavour va dicendo che la legge contro i conventi gode del pieno sostegno dell’opinione pubblica, ma in Senato il cattolico maresciallo Vittorio Della Torre lo smentisce platealmente: “Quando passate davanti a una chiesa stracolma di gente, cercate di entrarvi e chiedete che cosa si sta facendo; tutti quelli che interrogherete vi risponderanno che si sta pregando per il progetto di legge. Questo succede a Torino, ed è ancora più vistoso nelle province e soprattutto a Genova e in Savoia, ovunque l’opinione pubblica è contraria alla legge che discutiamo”.
Cavour può affermare che il provvedimento anticattolico del governo è pienamente condiviso dall’opinione pubblica perché ritiene che l’opinione dei cattolici non vada nemmeno presa in considerazione. Per sincerarsene basta leggere cosa rispondere a Della Torre: “L’onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate”. Quando Cavour sostiene che l’opinione pubblica è tutta col governo, Cavour ha ragione: l’1% della popolazione, di fede liberale, appoggia con convinzione i provvedimenti anticattolici. L’opinione del 99% della popolazione, di fede cattolica, non conta. Le masse devono limitarsi ad obbedire alle decisioni dei “governi illuminati”. Quando si dice “opinione pubblica” ci si riferisce, per definizione, a quella dei liberali.
Ci si può chiedere come mai i cattolici piemontesi non si siano mobilitati contro la politica anticattolica del proprio governo. Perché, oltre a pregare, non hanno organizzato pubbliche proteste? La risposta è chiara: perché non è abitudine della chiesa comportarsi in questo modo. Meno che mai è abitudine della chiesa di Pio IX. Prova ne sia il manifesto che il papa vuole sia affisso nelle strade di Roma mentre sta per fuggire alla volta di Gaeta, all’epoca della Repubblica Romana. Scrive Pio IX: “Comandiamo ai nostri buoni e fedeli sudditi di non resistere, per non moltiplicare quegli odi civili, ad estinguere i quali daremmo volentieri la vita in olocausto. Quando a Dio piaccia, ben potrà Egli senz’alcuna forza umana riedificare mediante l’amore dei popoli questo temporale dominio della Santa Sede, che dall’amore dei popoli ebbe origine”.
Nel Parlamento subalpino l’atteggiamento della chiesa è ribadito dal cattolico Clemente Solaro della Margarita, per ben 11 anni ministro degli esteri di Carlo Alberto. La Chiesa, dice Solaro, “non discende colle schiere in campo in difesa dei suoi diritti, non minaccia incendi e stragi, facile è resistere a lei, fossero anche pusillanimi, deboli i suoi avversari. Inerme ho detto la Chiesa, e lo è; soffre e non si vendica”. Sulla docilità dei cattolici piemontesi fa pieno affidamento il presidente del Consiglio Cavour: “da alcuni oratori -afferma- viene additata come conseguenza necessaria, inevitabile di questo progetto di legge una grande agitazione nel paese, da taluno con parole minacciose”. Il conte così continua: “Io nutro fiducia, ed una fiducia ferma, che quando la legge avrà ricevuto la sanzione del parlamento e del Re, questa agitazione scomparirà all’istante”.
L’eccezione conferma la regola. A dire le cose come stanno in Piemonte c’è un cattolico di tutto rispetto che combatte una dura battaglia contro la politica governativa. Si tratta di don Giovanni Bosco. Personaggio d’eccezione, Bosco è noto per un legame confidenziale col Padreterno che gli permette di leggere nel futuro. Per dissuadere il re dalla firma della legge eversiva il prete di Valdocco racconta a Vittorio Emanuele II i sogni che fa. Non si tratta di sogni rassicuranti e Bosco è noto per essere profeta. Ecco i sogni: un valletto in uniforme rossa grida: “Annunzia: gran funerale in Corte!”. Cinque giorni dopo il sogno si ripete con una variante significativa. Il valletto grida: “Annunzia: non gran funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte!”. Cavour vince le comprensibili perplessità del re, terrorizzato, facendo intervenire i preti favorevoli alla politica liberale. I teologi governativi tranquillizzano Vittorio Emanuele con queste considerazioni: “Maestà, non si spaventi di ciò che ha scritto D. Bosco. Il tempo delle rivelazioni è passato”.
Come sia come non sia, mentre la legge contro i conventi è in discussione al Parlamento la Corona sarda è colpita da lutti gravissimi. Il 12 gennaio muore a 54 anni la regina madre Maria Teresa; il 20 a 33 anni la regina Maria Adelaide; il 10 febbraio a 33 anni Ferdinando duca di Genova, fratello del re; il 17 maggio a 4 mesi Vittorio Emanuele duca del Genevese, ultimogenito del re.
Bosco non si ferma qui. Immediatamente prima della firma del provvedimento ricorda a Vittorio Emanuele: “La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione! Se V. S. segna quel decreto segnerà la fine dei reali di Savoia”. Come sia come non sia, i Savoia re d’Italia non sono arrivati alla quarta generazione.