In mostra gli orrori della rivoluzione culturale di Mao

di Massimo Introvigne

Trentacinque anni dopo la sua fine, la rivoluzione culturale in Cina (1966-1976) è rievocata a Vienna in una grande mostra al Museum für Völkerkunde, che resta aperta fino al 19 settembre. La mostra non fa sconti alla sinistra radicale europea, di cui si documenta la lunga complicità con la propaganda di Mao Tse-tung (1893-1976), continuata anche quando era ormai ovvio che il comunismo cinese aveva fatto più morti di ogni altro regime della storia.
È nell’agosto 1966 che comincia in Cina la rivoluzione culturale, cioè la distruzione sistematica della cultura cinese. Almeno settecentomila membri di gruppi sociali "sospetti" – ma altri conti parlano di tre milioni -sono uccisi, e cento milioni di cinesi incarcerati o deportati. Basta avere in casa un libro non marxista per rischiare la deportazione o peggio. Il clima è rievocato nella mostra viennese con fotografie e rarissime filmati d’epoca che documentano la distruzione di opere d’arte, templi palazzi e – in modo agghiacciante – i processi e le esecuzioni, talora veri linciaggi a pugni e bastonate, di "contro-rivoluzionari" che sono spesso dignitari comunisti, ma della fazione che sta perdendo quella che è in effetti una guerra civile, e tra cui si contano anche monaci buddhisti e inermi suore cattoliche.
Il terrore è documentato come l’altra faccia di un culto della personalità ossessivo, dove il volto di Mao è riprodotto all’infinito su migliaia di oggetti di uso comune e immagini sacre di una nuova religione perversa, in una versione insieme caricaturale e terribile di quello che era stato il realismo socialista sovietico.
Perché Mao scatenò la rivoluzione culturale? Il lettore italiano può leggere il capitolo sul tema della mirabile biografia Mao la storia sconosciuta (Longanesi, Milano 2006) della grande scrittrice cinese Jung Chang, scritta in collaborazione con Jon Halliday – una lettura obbligatoria nonostante la mole (960 pagine) per chiunque voglia capire il comunismo cinese -, cui chi legge l’inglese potrà affiancare la summa di Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals Mao’s Last Revolution (Harvard University Press, Cambridge [Massachusetts] 2006). Se ne ricaverà che Mao scatenò la rivoluzione culturale per far tacere le critiche, che rischiavano di travolgerlo, dopo il fallimento del "Grande balzo in avanti", un criminale tentativo di riforma economica che costò alla Cina almeno quarantacinque milioni di morti, come ha documentato il bel libro dello storico inglese Frank Dikötter "Mao’s Great Famine. The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-1962" (Walker, New York 2010). La rivoluzione culturale fu un orrore destinato a coprirne un altro: chi criticava il "Grande balzo in avanti" finiva ammazzato a bastonate.
Dopo la morte di Mao, senza troppa pubblicità, alcune commissioni d’inchiesta indagarono sulle atrocità della rivoluzione culturale. Deng Xiao Ping (1904-1997), che al tempo della rivoluzione culturale era stato estromesso dalla dirigenza del partito, malmenato e mandato a lavorare in una fabbrica di trattori di provincia, dove era sfuggito per miracolo a un tentativo di assassinio, era diventato il padrone della Cina e aveva interesse sia a screditare la "banda dei quattro" che aveva promosso gli eventi del 1966, sia a far filtrare qualche cauta critica allo stesso Mao, che non lo aveva certamente protetto.
Regnante Deng Xiao Ping, s’indaga così sugli eccessi della rivoluzione culturale, e migliaia di militanti che si sono resi colpevoli di atrocità sono incriminati. Il lavoro dei tribunali sembra serio, e molti vedono una franca indagine su questo orribile passato come il preludio all’inevitabile democratizzazione. Ma la classe dirigente del Partito Comunista Cinese e lo stesso Deng la pensano diversamente. La repressione del movimento degli studenti in Piazza Tiananmen nel 1989 segna la fine della breve primavera di speranze democratiche in Cina.
Dopo Tiananmen, il regime si chiude su se stesso. Su Mao, responsabile secondo Jung Chang di settanta milioni di morti, si applica la "regola delle dieci dita", che sembra usata ancora oggi anche dai suoi ammiratori europei: nove dita, insegnano i libri di scuola cinesi, lavoravano per il bene del popolo, una sfuggiva al controllo e deviava.
Anche in Cina – lo mostra bene la mostra viennese – è in corso un "revival di Mao" che porta i nuovi ricchi cinesi a collezionare oggetti dell’epoca della rivoluzione culturale – che per molti di loro è comunque l’epoca della giovinezza -, a finanziare musei maoisti e a pranzare in costosi ristoranti a tema che rievocano gli anni 1960, cui le vere Guardie Rosse dell’epoca non avrebbero mancato di dare fuoco come paradossali esempi di decadentismo borghese.
La domanda di souvenir della rivoluzione culturale è tale che una curiosa sezione della mostra si Vienna documenta come ne siano venduti oggi migliaia che sono falsi, un nuovo filone della fiorente industria della contraffazione cinese. Un orrore come la rivoluzione culturale è ridotto a mito romantico, non a caso in coincidenza con rinnovati attacchi alla Chiesa Cattolica, che delle Guardie Rosse fu un obiettivo non secondario. Il capitalismo e i McDonald di Pechino non ingannino. Finché non farà i conti con le tragedie del suo passato, la Cina non diventerà capace di costruire un futuro senza oppressione.

Da www.labussolaquotidiana.it

Prepararsi alle nuove guerre: dalle minacce terroristiche alle emergenze climatiche

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un succedersi guerre giustificate di volta in volta da differenti necessità: quella di eliminare i terroristi nei loro “santuari”; quella di dare la caccia a inesistenti “armi di distruzione di massa” (rivelatesi poi drammaticamente inesistenti); quella di “esportare la democrazia”. Ma adesso che Osama Bin Laden e Al Quaeda non costituiscono più una valida ragione per gli interventi militari, e che sempre in meno credono alla favola dell’esportazione della democrazia, una nuova motivazione si profila all’orizzonte.
 Qualche giorno dopo la proposta di istituire i “Caschi Verdi” dell’ONU per fronteggiare le emergenze climatiche, un articolo di Pietro Greco apparso sull’Unità il 28 luglio 2011 dal titolo “Caschi Verdi, il mondo non può aspettare”, esprime una forte pressione a favore della loro istituzione.
Nell’articolo apparso sull’Unità possiamo leggere affermazioni come le seguenti:
«dei “Caschi Verdi” – o comunque li si voglia chiamare – sentiremo parlare nel prossimo futuro. Per il semplice motivo che ce ne sarà sempre più bisogno. Per “Caschi Verdi” intendiamo una forza delle Nazioni Unite in grado di intervenire in caso di gravi emergenze ambientali (anche) per prevenire conflitti.»

Chi in questi tempi ha seguito l’avventura militare in Libia non può non diffidare di notizie come quella dell’istituzione di una forza militare sovranazionale che possa intervenire in ogni regione del mondo. Il timore è che, dopo aver difeso sulla punta delle baionette la causa della democrazia, adesso si insinui il modo per intervenire in tutti quei casi in cui la motivazione “democrazia” non era stata sufficiente. Basterà dunque un ciclone o una siccità per occupare militarmente interi territori? Sarà richiesto il consenso alle autorità dello stato in cui si andrà ad intervenire, basterà una risoluzione ONU o si potrà fare a meno anche di quella? E una volta terminata l’emergenza sarà restituita la sovranità ai governi locali?

Incomincia adesso ad emergere uno scenario preoccupante dietro alla campagna mediatica sviluppata intorno al “Global Warming”, il Riscaldamento Globale, quel fenomeno poi, più prudentemente (e furbescamente), rinominato “Cambiamenti Climatici”.
Lo scenario a base di catastrofi naturali che viene prospettato è del resto così preoccupante che sarà difficile che futuri governi, o Presidenti della Repubblica, non convincano l’opinione pubblica della necessità degli interventi militari, a tal fine potrebbero venire usati argomenti come quelli riportati nello stesso articolo:
"Il previsto aumento della temperatura media del pianeta – che secondo l’IPCC, il gruppo di scienziati che lavorano per l’ONU, potrebbe progressivamente arrivare fino a 6 °C entro il 2100 – determinerà non solo drastici mutamenti ambientali. Ma anche sconquassi sociali. Il sistema agricolo sarà ridisegnato, il regime delle acque potabili sconvolto, ampi territori costieri diventeranno inabitabili, si verificherà in specifiche zone un deciso aumento della frequenza di eventi meteorologici indesiderati. Decine, forse milioni di persone saranno costrette ad abbandonare le loro case e diventeranno “environmental refugees”, profughi ambientali."

Come già detto lo scenario è davvero apocalittico, il potenziale persuasivo di tali argomenti è ben superiore a quello che può avere il ricorso a principi quali la difesa della democrazia o il “grido di dolore” dei ribelli libici.

 Bisogna fare molta attenzione perchè, anche da parte di giornalisti seri e in buona fede, anziché parlare dei fatti reali, ci vengono proposti dei “tariler” di film apocalittici. La conferma a queste preoccupazioni ci viene infine da un successivo passaggio:
«È per questo che sia David King, già consigliere scientifico del governo inglese, sia gli analisti della CIA, i servizi di intelligence americani, da una decina di anni definiscono i cambiamenti climatici «la più grave minaccia per la sicurezza» che l’umanità si troverà ad affrontare in questo XXI secolo. Superiore, persino, alla minaccia del terrorismo di Al Qaeda o al rischio di una guerra nucleare.»

Se qualcuno fra noi si fida dei consiglieri del governo britannico, degli analisti della CIA, e degli altri servizi di intelligence, allora potrà riporre la sua fiducia nell’istituzione dei “Caschi Verdi”. Per tutti gli altri resta la preoccupazione di vedere moltiplicato in modo imprevedibile quanto già visto riguardo alla minaccia di Al Qaeda.

Infine un’ultima considerazione sulla costituzione degli ipotizzati “Caschi Verdi”:
“Ed è per questo che, quattro anni fa, la Germania ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di iniziare a discutere il tema. Magari pensando ad allestire un corpo – i “Caschi Verdi” – in grado di intervenire in caso di emergenza. La Russia, come abbiamo detto, non ne vuol sentire parlare. Non vuole che venga accostato in un documento ufficiale il tema della pace globale al tema dell’ambiente globale.”

Se paesi come la Russia non vorranno sentir parlare di questa iniziativa, forse dovremo ipotizzare che i Caschi Verdi dell’ONU, inevitabilmente, finiranno per non essere altro che i Caschi Verdi della NATO.

Per chi fosse interessato, un sito di riferimento per chi ha dubbi sui “cambiamenti climatici” segnaliamo CLIMATE MONITOR

(Altri articoli di Enzo Pennetta sull’argomento sono disponibili su CRITICA SCIENTIFICA)

L’Angelo degli ebrei

Più che coraggio ci vuole fantasia, molta fantasia, per insistere – per di più alla vigilia di una fiction che andrà in onda su Raiuno domani e lunedì – con la leggenda nera di Eugenio Pacelli quale “Papa di Hitler“. E non solo perché Pio XII è stato effettivamente un eroe – “un grande servitore della pace” per dirla con Golda Meir, premier d’Israele – salvando svariate migliaia di ebrei da morte certa, ma anche perché non tacque affatto, come qualcuno seguita, per pura passione polemica, a sostenere. Infatti non solo parlò e non stette con le mani in mano, ma lo fece pure per tempo, senza cioè attendere il precipitare degli eventi. Lo documenta chiaramente un Dispaccio ufficiale del 4 aprile 1933 – e cioè prima che il Terzo Reich emanasse le leggi razziali e tre giorni dopo la “giornata del boicottaggio” nazista contro negozi e attività ebraiche – col quale l’allora cardinale Pacelli, senza mezzi termini, chiedeva al nunzio a Berlino di attivarsi in favore degli ebrei per adempiere l’ “universale missione di pace e di carità verso tutti gli uomini, a qualsiasi condizione sociale o religione appartengano“. Più chiaro di così!

C’è comunque dell’altro: nel ’38 – un mese prima di diventare Papa, per la precisione – Pacelli intervenne personalmente presso la nunziatura di Varsavia per denunciare l’ingiustizia d’una legge che proibiva la macellazione rituale dei capi di bestiame secondo l’usanza ebraica, giudicandola oltretutto persecutoria. E questo sarebbe stato un antisemita? Ma non scherziamo. Pacelli, dicevamo, agì e parlò in favore degli ebrei. Senza tentennamenti e a partire dal 1940, quando la Guerra Mondiale era appena iniziata e Hitler pareva invincibile. Pio XII, se fosse stato quel calcolatore vigliacco che qualcuno dice, avrebbe taciuto e sarebbe stato alla finestra. Invece lanciò un messaggio inequivocabile a tutti i cattolici proprio in riferimento alla persecuzione contro gli ebrei: “? di conforto per noi l’essere stati in grado di consolare, con l’assistenza morale e spirituale dei nostri rappresentanti e con l’obolo dei nostri sussidi, ingente numero di profughi, di espatriati, di emigrati, anche fra quelli di stirpe semitica“.

Parole che verosimilmente non piacquero a Hitler, che infatti considerava Pacelli un suo “nemico personale“, e che nel luglio 1943, colloquiando col generale Alfred Jodl, ebbe a dire: “Crede che il Vaticano mi preoccupi? Ce ne impadroniremo subito: là dentro vi è tutto il corpo diplomatico…quelle canaglie! Tirerò fuori di là quel branco di porci“. Pare fondata addirittura l’ipotesi che Hitler volesse far rapire Papa Pacelli e ne avesse apertamente parlato con un generale delle SS, Karl Wolff, salvo poi rivedere le proprie intenzioni alla luce delle perplessità sollevate da quest’ultimo, che credeva che una simile operazione, a livello d’immagine, avrebbe arrecato alla Germania più danni che benefici. Detto ciò, potremmo continuare a lungo, con l’elenco delle azioni meritorie di Pio XII, ma preferiamo, per tagliare corto, ricordare solo due episodi significativi.

Il primo. Già nel ’45, quando tutti i reduci dell’Olocausto erano in vita e dunque in grado di valutare lucidamente chi avesse o meno prestato loro soccorso, il Congresso ebraico mondiale donò la bellezza di 20.000 dollari alla Santa Sede “in riconoscimento dell’opera svolta per salvare gli ebrei dalle persecuzioni fascista e nazista“. Il secondo. La Comunità Israelitica di Roma – si era, addirittura, nel ’44 – relazionò all’Unione delle Comunità Israelitiche italiane manifestando gratitudine “quanto mai grande e sentita verso la Chiesa cattolica e verso il suo augusto capo, Sua Santità Pio XII” (“Bollettino Ebraico d’informazioni” n. 15, 20/10/1944). Delle due l’una: o gli ebrei romani, proprio quando avrebbero dovuto attaccare Pio XII, impazzirono tutti quanti, oppure, ad impazzire, sono stati altri.

Un uomo

Ha il volto buono e intelligente è elegante, di un’eleganza sobria e discreta. Quando parla avverti una leggera inflessione del sud, ma la lingua è trasparente, precisa, nobilmente forbita.
E’ un uomo semplice e innamorato del proprio lavoro, un sorta di monaco che ha giurato fedeltà alla verità, consacrando l’esistenza al faticoso lavoro di giudice.
Nel chiuso di uno studio, perennemente sorvegliato e protetto, analizzando le carte processuali Giovanni Scopelliti rivela di sentirsi realizzato; scavando nella miniera dai mille anfratti di un processo, il giudice, spera di appurare responsabilità e omissioni.
Per lui, il colpevole resta comunque un uomo, seppure responsabile di un atroce delitto. Un uomo nel cui petto, solo lo si sappia cogliere, arde un frammento di verità e di bontà. Quella verità che il giudice cerca. Il giudice non “giudica la persona” è troppo grande il mistero, troppo profondo il fondo dell’umana vicenda; egli si limita ad applicare la giustizia per recuperare la piena dignità del colpevole.
Non ha grandi traguardi, soddisfazioni, non ama la vetrina il giudice. Si accontenta di svolgere secondo umanità il suo lavoro e per questo si affida alla corretta applicazione della legge. Si accontenta a volte di incontrare un ex detenuto uscito di galera, e di scoprire che questi non porta rancore, anzi si avvicina per ringraziare e salutare il giudice che un giorno lo ha condannato.
Anche questa è una soddisfazione, forse la pena ha veramente restituito il giudicato alla propria condizione di uomo a pieno titolo.
Tutto questo per Scopelliti è fonte di gioia, la più grande. Perché quello fra giudice e imputato dovrebbe pur sempre essere un rapporto fra esseri umani nel quale il reo “chiede” una pena che gli restituisca la “libertà perduta”, quella della propria coscienza.
Più o meno questo ho visto in una puntata di Bontà loro, un programma datato 1978. Il giudice che rispondeva alle domande di Maurizio Costanzo tratteggiava forse inconsapevolmente il profilo di un uomo giusto. Semplicemente onesto.
Tutto questo, tanto più mi ferisce quando scopro che nell’estate del 1992, il giudice, durante una vacanza in Calabria viene trucidato con alcuni colpi di pistola da un’azione congiunta di mafia e camorra.
Così ripenso al garbo, agli occhi, alla parola misurata di un uomo, di un giusto che svolgeva i proprio lavoro con la speranza di recuperare ogni essere umano.
Per uccidere una persona di questo tipo era necessario, non conoscerla, o meglio, farne un simbolo negativo di persecuzione. Con la stessa noncurante spietatezza manifestata innumerevoli volte dai terroristi quando colpivano un “nemico del popolo.”
Per uccidere è necessario cancellare il volto di un uomo prima di tutto simbolicamente, non guardarlo negli occhi, non ascoltarlo, non capire che egli è un altro noi, oltre ogni divisa e ogni ruolo.

L’affondamento del Titanic, tra ipotesi e misteri


Non l’eccessiva velocità, come si ripete da decenni, ma una manovra errata del timoniere sarebbe stata all’origine della sciagura del Titanic, costata la vita ad oltre 1500 passeggeri. Dopo la teoria, sostenuta da Robin Gardiner, secondo cui dietro l’affondamento del transatlantico vi sarebbe stata addirittura una frode assicurativa, e dopo le voci che vogliono la nave della White Star Line silurata dal missile d’un sommergibile, ecco un’altra verità alternativa alla versione ufficiale. A parlare questa volta è Lady Louise Patten, nipote di Charles Lightoller, secondo ufficiale del Titanic sopravvissuto alla sciagura, il quale avrebbe raccontato apertamente, tra le mura domestiche, una storia un po’ diversa da quella del gigantesco iceberg sbucato da nulla e impossibile da evitare per una nave di 270 metri ma provvista d’un timone, com’è stato accertato, troppo piccolo e inefficiente.

Secondo Lady Patten il Titanic sarebbe affondato perché Hitchins, il timoniere, quando il primo ufficiale William Murdoch avvistò l’iceberg e diede l’ordine di virare, preso totalmente dal panico girò la nave dalla parte sbagliata. Una versione, questa, che sarebbe stata tenuta volutamente nascosta fino ad oggi per ragioni, manco a dirlo, economiche: se resa nota a ridosso del disastro avrebbe infatti mandato sul lastrico la compagnia White Star Line, proprietaria della nave. Anche perché in prima classe, a bordo del transatlantico in quel fatidico aprile 1912, i potenti non mancavano: c’erano il milionario John Jacob Astor e consorte, la contessa di Rothes, il colonnello Archibald Gracie, l’attrice Dorothy Gibson, il ricchissimo Benjamin Guggenheim, la stilista Lady Lucile Duff Gordon, i coniugi Strauss, proprietari dei magazzini Macy’s. La crème de la crème, insomma. La tesi dell’errore umano, dunque, appare credibile. A differenza di tutta una serie di leggende che, per quanto curiose, rimangono tali e del tutto prive di riscontri probatori.

La più assurda tra queste vuole che non solo l’affondamento, ma pure la stessa costruzione del Titanic sia stata oggetto di un complotto. Dietro al quale ci sarebbero stati i Gesuiti, interessati, con la complicità di Edward Smith, Capitano della nave a sua volta affiliato alla setta assassina, a togliere di mezzo i già citati potenti Astor, Guggenheim e Strauss, tutti scomodi oppositori della Federal Reserve System, che sarebbe stato istituito di lì a poco, nel dicembre 1913. E che avrebbe aiutato finanziariamente i Gesuiti, guarda un po’, ad accendere la miccia della Prima Guerra Mondiale. Ora, non occorre esser estimatori dei gesuiti per capire quanto queste siano fandonie galattiche, che nemmeno il più ispirato Dan Brown avrebbe potuto inventare.

Tuttavia, se non dei misteri veri e propri, quanto meno delle ombre e delle coincidenze curiose, nella tragedia del Titanic, ci sono. Il primo dei misteri riguarda una nave fantasma che numerosi naufragi del transatlantico videro all’orizzonte la notte dell’affondamento senza che questa, inspiegabilmente, accorresse a prestare loro soccorso. E dire che pareva vicina, molto vicina. Tanto che gli ufficiali Boxhall e Rowe tentarono di inviare segnali dapprima col faro e poi coi razzi. Tutto inutile: la misteriosa imbarcazione rimase lontana e indifferente. Gli storici son convinti che si trattasse della nave Californian, che in quelle ore notturne pare sostasse nei paraggi a macchine ferme per timore dei ghiacci. E le ragioni per cui quella nave non si mosse verso il Titanic sarebbero due: l’oggettiva impossibilità di stabilire contatti, dovuta al sonno dell’operatore radio della Californian, stremato dalle dodici ore lavorative quotidiane, e il mancato riconoscimento delle segnalazioni lanciate anche via razzo dal transatlantico in difficoltà.

Dal momento però che i razzi partiti dal Titanic avrebbero dovuto essere assolutamente visibili, la mancata risposta della Californian si può spiegare solo in due modi: o, come qualcuno suppone ricordando come i razzi in questione fossero colorati e non bianchi, l’allarme lanciato dalla nave della White Star Line è stato scambiato per un’esibizione pirotecnica, oppure la nave misteriosa era un’altra. Pare, a questo proposito, che nel corso degli anni molte persone si siano fatte avanti dichiarando d’essere state, quella notte, a bordo della misteriosa nave, il Samson, un veliero norvegese che pare stesse navigando illegalmente nell’area. Ma la verità sulla nave misteriosa, di fatto, pare ormai irraggiungibile.

Quanto alle coincidenze, la più impressionante riguarda una premonizione del disastro scritta con quattordici di anticipo; nel 1898 uscì un romanzo dal titolo Futility, or the Wreck of the Titan, nel quale l’autore, Morgan Robertson, descrisse la storia di un transatlantico, il Titan, considerato inaffondabile, che nel mese di aprile finì in rotta di collisione con un iceberg nel Nord Atlantico per poi affondare in poche ore nottetempo. Le coincidenze non finiscono qui: Robertson descrisse il Titan come una nave di 45.000 tonnellate (quelle del Titanic erano 46.328), provvista di 3 eliche (come quelle del Titanic), in grado di navigare a 25 nodi (il Titanic raggiungeva i 24) e penalizzata (come il Titanic) da un numero insufficiente di scialuppe. Impressionante, vero?

Ma la verità sull’affondamento del Titanic, sulla quale circolano, oltre a quelle ricordate, altre affascinanti leggende, è un’altra, ed è quella raccontata Lady Louise Patten. Almeno in parte. Perché l’errore umano più grande non è stato commesso né dal timoniere Hitchins, né da Lightoller o da altri marinai del transatlantico. Il vero errore è stato un altro. E cioè costruire un colosso d’acciaio lungo come tre campi da calcio e crederlo inaffondabile. La presunzione umana, è stata questa la prima ragione per cui quell’incredibile imbarcazione, ancora prima di salpare da Southampton, aveva in qualche modo il destino già segnato. Quel giorno, alla partenza dalla costa inglese, un marinaio della nave disse alla signora Caldwell, una passeggera:”Nemmeno Dio potrebbe fare affondare questa nave”. Quattro giorni dopo, quel marinaio, cambiò idea

La Corea del nord: una feroce dittatura atea

Non ne abbiano a male gli amici dello UAAR (atei e agnostici razionalisti), ma ancora una volta l’ateismo, quando va al potere si rivela devastante e disumano. Per questo, in un momento in cui un paese comunista, la Corea del Nord, minaccia la pace nel mondo, non è inopportuno parlare di cosa avviene in esso.

 . SEUL. Han, un funzionario del partito comunista della Corea del Nord, si accorse di essere in pericolo mentre tornava a casa dal lavoro. Si era procurato una radiolina in Cina durante un viaggio ufficiale. L’aveva ascoltata in tarda notte, con le cuffie, con le tendine abbassate, per sentire quella musica che gli dava un attimo di respiro portandolo via dagli orrori della sua giornata. Qualcuno deve averla trovata, o semplicemente deve averne parlato.

 "Potrebbero essere stati i miei bambini a dirlo in giro. Potrebbe essere stato un amico, un conoscente", ci ha detto Han, 39 anni, a condizione che non venga identificato col cognome. "Se un contadino o un operaio avesse una radio, poteva magari essere liberato", dice Han. "Ma io sono un ufficiale. Nel mio caso c’è la tortura e una condanna a vita nei campi dei prigionieri politici".

 In quel momento ha scelto, ha scelto come tante altre migliaia di persone che scappano dalla Corea del Nord: ha lasciato la sua famiglia per salvare la sua stessa vita. Andò al confine cinese in quel giorno di luglio del 1997 e ha guadato il fiume, abbandonando sua moglie e i suoi figli, allora di quattro e due anni, ed ha passato tre anni in Cina, finche’ non è stato aiutato da dei missionari a raggiungere Seul.

Da quando ha lasciato la Corea del Nord, non ha più avuto contatti con la moglie e i figli. "Penso a loro ogni giorno", ha detto di recente a Seul. "Ho provato a dimenticarli", dice lentamente, "ma quella è la mia famiglia". I fuggitivi hanno aperto gradualmente una finestra dettagliata e spaventosa sulle brutali condizioni di sopravvivenza per 22 milioni di persone in Corea del Nord.

Per molti anni, le storie dei relativamente pochi fuggiaschi erano sospettate di essere strumenti di propaganda del governo sudcoreano. I racconti delle loro luride storie di vita in Corea del Nord venivano considerati esagerazioni, per compiacere i nuovi nemici. Ma oggi i fuggiaschi della Corea del Nord ammontano a decine, forse centinaia di migliaia – la dimensione complessiva dell’esodo non è ancora chiara. In fuga attraverso il fiume al confine con la Cina, dove vivono da rifugiati, o in fuga attraverso i deserti e le giungle della Mongolia, Birmania o Tailandia.

Le loro storie hanno guadagnato la credibilità solo a causa del loro numero e della loro consistenza, e per la conferma dei pochi stranieri che hanno lavorato in Corea del Nord. Nelle dozzine di interviste a Seul in due anni, i fuggiaschi hanno tratteggiato un’immagine di crudeltà, difficoltà, repressione, che li ha convinti alla fuga come unica via d’uscita, non importa a quale costo. Sono spesso scappati portandosi sulla coscienza l’aver di fatto condannato i loro amati.

 Lasciare illegalmente la Corea del Nord è considerato un grave crimine; andare in Corea del Sud è considerato tradimento. Le famiglie -e perfino i parenti più lontani- di quelli che lo hanno fatto, vengono proscritte, private del lavoro, imprigionate o uccise. Molti si rendono conto che la loro libertà è più complicata di quanto avessero immaginato, ed il loro presente è continuamente minacciato dal loro passato.

"I membri delle famiglie dei traditori perdono il diritto perfino alle razioni di cibo. Condannati a morte per fame", dice la moglie di Soon Yong Bum, un capitano di peschereccio. La coppia salpò per il Mar Giallo e andò verso il porto sudcoreano di Inchon lo scorso agosto. Hanno dovuto lasciarsi dietro le loro famiglie, compreso il fratello di lei, un funzionario di governo che certo verrà punito severamente. "Lei per questo piange ogni notte", dice Soon, "ed anch’io mi sento colpevole".

 Il "tributo" della carestia.

Decine di migliaia di morti nell’ultima carestia (1995-1997). Lee, che chiede che non sia fatto il suo vero nome, era un’impiegata del servizio governativo per il conteggio dei morti nella sua città. Una giovane donna di 29 anni, con capelli ricci fino alle spalle e una pelle liscia e perfetta, ed ha difficoltà a raccontare. "Abbiamo visto scene di cannibalismo", ricorda, "ma forse non potete capire".

 "Quando uno è molto affamato, può diventare pazzo. Una donna della mia città ha ucciso il suo figlio di sette mesi e lo ha mangiato assieme ad un’altra donna. Ma il figlio di quest’ultima le ha denunciate alle autorità". "Non riesco a condannare il cannibalismo. Non che io abbia mai desiderato di mangiare carne umana… ma erano così affamate! Era normale che la gente andasse su una tomba interrata da poco e ne scavasse fuori il cadavere per mangiarne le carni. Ho conosciuto una donna che ha praticato cannibalismo. Mi diceva che il sapore era buono".

 Il massiccio aiuto alimentare internazionale ha gradualmente combattuto gli effetti della carestia, ma resta un numero di morti stimabile tra i 300.000 e i due milioni. Esistenza disumana. Lee Soon Ok, 56 anni, è stata un membro del partito dei più alti ranghi. L’anno scorso ai comitati congressuali a Washington ha detto che nel 1987 fu imprigionata come capro espiatorio della diminuzione delle razioni alimentari governative. Fu arrestata improvvisamente mentre lavorava, picchiata, e messa in una fredda cella sotterranea di un metro e mezzo per un metro e mezzo, per quattordici mesi. Ha detto di essere stata regolarmente torturata, le è stato negato il sonno, veniva torturata con l’acqua e fatta inginocchiare nuda sul ghiaccio. Sapeva già di dover morire. La sua prigionia "non era un’esistenza umana", ha detto in un’intervista a Seoul. "Alla fine fui condannata a morte e messa nel braccio della morte. Quella fu la parte più difficile. Uno resta lì per un mese, conoscendo esattamente il giorno della sua morte. Poi, e tuttora non so per quale motivo, hanno deciso di mandarmi in un campo per prigionieri politici".

Al campo, ha detto, ebbe mansioni di segreteria in un ufficio dove sentiva parlare i ricercatori di armi chimiche e biologiche da sperimentare sui prigionieri. I gruppi dei prigionieri furono portati dietro una collina, ha detto, e le fu detto di compilarne una lista perchè i loro nomi venissero stralciati dall’elenco delle razioni di cibo della prigione. Ha saputo che suo marito e suo figlio, allora allievo dell’università d’elite del partito, erano stati imprigionati a causa sua e che suo marito vi era morto. "Finalmente mi portarono mio figlio", dice. "Non aveva scarpe. I suoi piedi erano avvolti nella paglia. I suoi vestiti erano così malmessi che pensavo fosse un mendicante".

Nel 1995 lei e suo figlio sono scappati dal campo, scalando una montagna di 600 metri in pieno inverno. Hanno attraversato il fiume al confine, raggiunto la Cina, poi Hong Kong e finalmente la Corea del Sud. Suo figlio ora è iscritto ad un’università sudcoreana. Lei è tranquilla ma i suoi occhi restano duri e prudenti. "Quei sette anni in prigione continuano a torturarmi", dice. "Ho visto tanti modi diversi di uccidere e torturare persone… e li sogno ancora di notte".

Dalla fame alla schiavitù.

La fuga dalla Corea del Nord non è l’unica prova per i fuggiaschi. I confini sudcoreani e russi sono molto controllati, per cui la maggior parte scappano attraverso i fiumi lunghi ma poco profondi di Yalu e di Tumen in Cina, dove qualche grande comunità coreana possa offrire aiuto. Purtroppo la Cina ha stretto un accordo con l’alleato comunista per il rimpatrio dei fuggiaschi. Questi vengono presi in periodiche retate e rispediti in corea, dove vengono messi in campi di lavoro per periodi che vanno dai due mesi alla vita intera.

Quelli che restano in Cina sono soggetti a sfruttamento sessuale, fisico ed economico. Sung Ae, 31 anni, la metà spesi in Cina, talora nelle mani di mercanti di schiavi che comprano e vendono donne per degli uomini cinesi. "Ho visto tante atrocità nel mio viaggio, che non so da dove cominciare", ci ha detto nell’agosto del 2001. E’ una donna col volto tondo e occhi a mandorla e sopracciglia curate. Ci ha raccontato di esser saltata giù da un treno in corsa pur di sfuggire ai mercanti cinesi di schiavi.

I coreani in Cina l’avevano tradita e lei era perennemente in movimento per evitare di essere presa. "In Corea del Nord soffrivo la fame. In Cina sono stato sempre perseguitata", ci disse. Ha passato 16 giorni su una nave di contrabbandieri con 64 operai cinesi illegali pur di arrivare in Corea del Sud nel dicembre 2000. Lee, l’ex impiegata, ci ha detto che si era illusa di poter vivere bene in Cina. "Un giorno un uomo della mia città venne a vedermi. Cercava una donna nordcoreana di bell’aspetto da portare in Cina. Più carina fosse stata, meglio era. Allora decisi di andare". "Ovviamente mi aveva illusa. Diceva che voleva farmi conoscere un buon uomo, un laureato che voleva sposarsi. Ma capii poi che le donne nordcoreane venivano vendute a prezzi economici a contadini cinesi".

In Cina è andata alla deriva, di famiglia in famiglia, lavorando in condizioni di schiavitù, finchè non è stata arrestata dalle autorità cinesi. E’ stata picchiata e restituita alla Corea del Nord nel 1998, dove è stata mandata in un campo di lavoro, ridotta alla fame, lavorando duramente e subendo molestie sessuali. Finalmente rilasciata, venne ripresa di nuovo dai mercanti di schiavi, che la rispedirono in Cina in uno scatolone. Solo verso la fine del 2000 dei missionari cristiani l’hanno fatta arrivare in Corea del Sud attraverso uno stato di cui non vuole fare il nome. "In Cina ti vendono e ti rivendono", ci dice. "Le giovani sono vendute ai bar, e le donne ai contadini, e quindi ulteriormente rivendute". "Trattati come forestieri" Solo una piccola percentuale di quelli che attraversano il confine con la Cina arrivano poi in Corea del Sud, con l’aiuto di gruppi missionari cristiani oppure contrabbandieri di professione. Il numero dei fuggiaschi raddoppia di anno in anno fin dal 1998, raggiungendo i 1.141 l’anno scorso, stando al governo sudcoreano.

I nordcoreani riescono ad ottenere un piccolo appartamento, aiuto sociale e lavorativo, un bonus equivalente a 25.000 dollari, ed un sussidio mensile di circa 500 dollari. Anche con quell’aiuto, restano però alieni in uno stato che è fermo agli anni cinquanta. Arrivano infatti in una società competitiva, e a dispetto dei clichè sui sentimenti fraterni dei sudcoreani nei confronti dei nordcoreani, i fuggiaschi dicono sempre di essere discriminati, il che li tenta a pensare di non aver fatto la scelta giusta. Per cinque anni devono informare le autorità di tutte le loro attività.

 "Per noi non è facile vivere qui", dice Han, scappato quando fu trovata la sua radio. "I sudcoreani non capiscono le nostre difficoltà. Non se ne danno peso, e non capiscono. Siamo trattati come forestieri. Perciò molti scappano verso il Canada o negli Stati Uniti".
I nordcoreani sono riconosciuti dal loro accento. Alcuni sono qualificati per lavorare nella società high-tech sudcoreana, ma molti fuggiaschi sono impreparati al metodo capitalista che premia l’iniziativa e il lavoro duro". "Siamo talmente abituati a vivere con quanto ci viene dato e fatto quanto ci viene chiesto, che non abbiamo il concetto di responsabilità nel lavoro", ci dice Byung, 40 anni, a condizione di non rivelare il suo cognome. E’ giunto a Seul a dicembre, dopo aver attraversato le acque del confine con la Cina per scappare con sua moglie, sua madre, e i suoi figli di 7 e 9 anni.

"Davvero non avevo idea di questa società", aggiunge Byung, che ora frequenta una scuola industriale, sta prendendo la patente e sta imparando ad usare il computer. "La sorpresa più grande è che qui chiunque è libero di dirti quel che gli pare. Io pensavo che tutti sarebbero stati ricchi e senza problemi. Ma ora vedo che c’è gente che non ha un lavoro".

Il fardello della colpa.

Pak Do Ik, 38 anni, è un esempio di successo della fuga e del peso che ogni fuggiasco si porta. Era un membro d’elite del partito a Pyongyang, uno scrittore di propaganda e autore di opere teatrali di encomio al regime, che si trovò nei guai perchè era divenuto creativo. Il suo primo lavoro "offensivo", una commedia, lo portò per un mese in un campo di lavoro di una miniera. Oggi ne conclude che la commedia era un "pessimo genere" per una dittatura senza humour. Una volta tornato, nel 1999, scrisse un ossequioso dramma che mostrava la madre di Kim Jong-Il dare a quest’ultimo un revolver con sette proiettili ed uno scopo per ognuno di questi: "Il primo proiettile è per distruggere gli Stati Uniti! Il secondo è per il successo della nostra rivoluzione…".

 "La platea applaudì ogni proiettile", dice Pak. "Ma l’Agenzia di Sicurezza Nazionale disse che non era realistico. Disse che era una «inadempienza quanto agli obiettivi rivoluzionari». Quel giorno scappai sulle montagne". Dopo essersi nascosto per mesi, discese una scogliera del fiume Tumen e arrivò in Cina con i suoi risparmi (ottanta dollari USA). La sua conoscenza della gerarchia del regime interessò gli agenti dell’intelligence sudcoreana in Cina, e dopo averlo interrogato per mesi, lo aiutarono a scappare. A Seul trovò che poteva guadagnare velocemente. Cominciando come fattorino di una compagnia di liquori due anni fa, ora è a capo di un grosso business (due aziende, un totale di 78 impiegati) nella vendita di cosmetici e nell’entertainment.

Sta per ottenere i diritti per una serie televisiva, promuove artisti pop, ed ha intenzione di realizzare un parco tematico "Training alla guerriglia nordcoreana" per far rivivere ai turisti l’esperienza dell’esercito stalinista e – per amore di realismo – negar loro il cibo per parecchi pasti. Pak indossa polsini con diamanti e ottimi abiti, gioca a golf in un costoso club il fine settimana, e le foto in cui è in compagnia di belle attrici che lavorano per lui sono sui muri del suo ufficio. Ma Pak dice di non essere felice. "Tra la gente che è scappata, io credo di essere il più ricco. Guido una BMW serie 700. Ma quando ho comprato quella macchina, ho pianto. Mi mancano i miei fratelli, e mia sorella, e mio padre", ci dice. "Mi chiedevo cosa sto facendo qui, mentre i miei parenti stanno soffrendo. Non penso che uno può essere felice quando si sente colpevole".
Doug STRUCK – Joohee CHO Una finestra aperta sugli orrori della Corea del nord tratto da: Washington Post, 4.10.2003 (Traduzione: Alfonso Martone)

L’anticomunismo in Polonia

Ci scrive un amico dalla Polonia: “Negli ultimi mesi diverse notizie riguardanti alcuni paesi dell’Europa centro – orientale, in special modo la Polonia, hanno avuto più o meno risalto sulle nostre testate giornalistiche. Mi riferisco alle prese di posizione molto forti che alcuni di questi stati hanno manifestato in contrasto all’ideologia comunista, ai suoi sostenitori, ai suoi simboli ed ai suoi ex esponenti.

Tra novembre e dicembre infatti vi è stata una prima polemica in sede di Unione Europea, protagonista l’ambasciatore polacco presso l’Ue Jan Tombinski, contario alla candidatura di Massimo D’Alema come ministro degli Affari Esteri comunitari in quanto il “baffetto” nostrano è stato e forse è tutt’ora, acceso sostenitore nonché esponente del partito comunista italiano.

Sempre in Polonia è in atto in queste settimane l’approvazione di una legge tesa a vietare e bandire ogni simbolo, slogan o manifestazione inerente il comunismo. Bandiere rosse, falci e martelli, rivoluzionari sud americani stampati come marchi di multinazionali su t-shirt non così rivoluzionarie, rappresenterebbero in definitiva per il governo polacco una sorta di “apologia del comunismo” da equiparare al ben più pubblicizzato reato di apologia del fascismo-nazismo. Quello che sembrerebbe un provvedimento legittimo se non addirittura auspicabile in tutta Europa, ha invece provocato reazioni indignate soprattutto in Francia ed Italia.

I motivi sembrano ovvi, nel nostro paese ancora non si è riusciti ad equiparare errori ideologici, figli della stessa madre rivoluzionaria d’oltralpe, quali nazismo, comunismo e fascismo (inutile ricordare l’alleanza e il convergere di molti aspetti dei regimi hitleriani e staliniani); si tende piuttosto a creare una classifica degli orrori totalitaristici del ‘900, graduatoria che vede l’ideologia comunista non così colpevole ma anzi, mossa in fondo da buoni propositi, valori giusti ecc….(quante volte il sovietismo è presentato come “errata intepretazione” dell’ideologia marxista..??)

Una versione questa molto semplice da sostenere in paesi occidentali quali il nostro dove in fondo di comunismo vero si sa ben poco e dove soprattutto la messa in pratica di tale ideologia è sempre stata fortunatamente scongiurata. Sorridevo parlando con alcuni amici polacchi lo scorso novembre durante le celebrazioni per il ventennale della caduta del muro di Berlino, per molti di loro le trasmissioni che trattavano l’argomento presentavano il tutto come una “favola” a lieto fine, in questo modo, mi dicevano, si perde il senso di cosa ci sia stato prima del suo abbattimento ad est del muro.

L’ideologia comunista si è rivelata ai loro occhi per quello che era, fallimentare ed oppressiva delle libertà individuali. I regimi filo sovietici sono stati una forma, un’incarnazione di tale ideologia, non l’interpretazione errata di un’idea giusta. Colpevolizzare soltanto la Russia sovietica tralasciando l’ideologia fondante quel mondo è un errore che l’occidente tende a commettere, specie in paesi in cui i vari Pc sono stati per molti anni al centro della vita politica di democrazie quali la nostra. Per i polacchi quell’idea era male, per molti di loro ha significato povertà e sofferenze, paure e privazioni. I racconti di chi ricorda i negozi vuoti, le file lunghe intere giornate di fronte agli empori per comprare pane, latte o altri prodotti che giungevano al commercio soltanto una o due volte la settimana lasciano ancor oggi basiti.

Le paure della gente comune d’incappare in delatori o di esser sospettati dalla polizia politica dei più svariati e spesso inventati crimini contro lo stato o contro l’idea. I tentativi di “uniformare” la vita e lo spirito stesso delle persone sono purtroppo ancor oggi ben visibili, la squallida architettura urbana sovietica ne è una esempio, gli enormi blocchi grigi simili ad alveari che accerchiano i centri delle città sono prove che resteranno incancellabili ancora per molti anni. L’opposizione a quel mondo ed ai valori fondanti quell’ideologia è in paese come la Polonia quasi unanime e non potrebbe essere altrimenti.

La nazione è rimasta salda e forte durante gli anni dell’oppressione in opposizione a quel sistema, fondamentale in questo il lavoro della Chiesa Cattolica che ha saputo tenere viva la speranza ed una libertà (quella religiosa) che pochi paesi comunisti potevano vantare. Presentare oggi come ancora attuale quell’ideologia è forse la beffa più grande che un abitante dell’Europa centro orientale possa subire, le loro reazioni per questo comprensibili e spesso condivisibili” (Marco Ceschi)

Einstein al Time.

Albert Einstein, 1940, al “Time” : ” Solo la Chiesa ha fatto quadrato sul percorso della campagna di Hitler per la soppressione della verità. Non ho mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza per difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Mi trovo quindi costretto a confessare: ciò che io un tempo d.isprezzavo, ora io lodo senza riserve”( M. Burleigh, In nome di Dio, p. 249, Rizzoli, Milano, 2007)

Andreas Hofer, eroe tirolese.

 

 

Viste le continue polemiche sollevate da sinistra e da personaggi come Igino Rogger contro le decisioni del PATT e dell’assessore trentino Panizza di ricordare l’anniversario di Andreas Hofer, riteniamo opportuno ripubblicare la storia di un uomo che si spese per nobili ideali, con senso della patria, ma nessuna velleità nazionalista. Un uomo di fronte a cui l’ambiguo Cesare Battisti , socialista, ferocemente anticlericale, grande amico di Mussolini, sostenitore indefesso dell’entrata dell’ Italia nella I guerra mondiale, contro il parere dei trentini e degli italiani, fa una povera figura. Nonostante gli sforzi, iniqui, di una certa storiografia ideologica, di esaltarlo, e , nel contempo, di dimenticare i veri eroi della nostra terra.

1796, 1799, 1806, 1809, date che segnano i momenti esplosivi della resistenza delle popolazioni italiane all’invasione delle armate francesi, repubblicane prima, imperiali poi, e al tentativo di impianto e diffusione del sistema politico e sociale uscito dalla rivoluzione francese, sentito come estraneo e, quindi, avversato, tanto nella originaria versione giacobina, rappresentata in Italia dal Bonaparte generale del Direttorio, quanto in quella, in apparenza moderata e addirittura antirivoluzionaria, che ha il suo campione sempre nel Bonaparte, divenuto intanto Primo Console e Imperatore.

Grazie a questa nuova apparenza Napoleone, se da una parte si aliena le simpatie dei repubblicani duri e puri, dall’altra conquista il consenso di un buon numero di esponenti dei ceti dominanti che al momento della prima invasione nel 1796 si erano mostrati avversi alle idee rivoluzionarie. Si tratta però di ambienti ristretti, nobiliari e borghesi, particolarmente sensibili agli allettamenti del denaro, degli onori, del potere. Il popolo si mantiene radicalmente avverso e ogniqualvolta si apre uno spiraglio di speranza passa dalla resistenza passiva a quella armata. Se nel 1796 e nel 1799 le insorgenze popolari accompagnano passo passo le tappe dell’occupazione francese fino ad investire, nel ’99, in un’unica fiammata l’intera penisola, nel 1806 la resistenza, condizionata dalla diversità di eventi e situazioni, si localizza. Prendono così le armi a sostegno dei loro sovrani legittimi (legittimi in quanto garantiscono la religione, l’appartenenza, i costumi) a nord gli abitanti del Ducato di Parma e Piacenza, a sud le popolazioni del Regno di Napoli, sottoposte, dopo quella effimera del 1799, ad una nuova e più durevole invasione. Questa volta si tratta non di instaurare una utopica repubblica giacobina, ma, in apparenza, solo di sostituire un nuovo sovrano all’antico. Tuttavia i popoli non si lasciano ingannare e intuiscono non esservi differenza di sostanza fra la repubblica partenopea degli intellettuali utopisti e feroci e la impennacchiata monarchia murattiana.

Questa consapevolezza è comune agli abitanti del Tirolo, che, a cavalcioni delle Alpi, unisce popolazioni di lingua tedesca ed italiana. Fra la fine del 1805 e l’inizio del 1806 i tirolesi debbono, come i napoletani, subire un mutamento di governo. La pace di Presburgo (26 novembre 1805) sancisce la vittoria di Napoleone sull’Austria e assegna, il Tirolo ad un alleato della Francia, il re Massimiliano di Baviera, il cui governo, guidato da un affiliato alla setta degli Illuminati, il conte Maximilian-Joseph von Montgelas, si è fatto strumento della rivoluzione. In realtà i tirolesi, gente di pace, non si sottraggono, attraverso i loro rappresentanti, al giuramento di fedeltà al nuovo sovrano, richiesto dai costumi dell’epoca. Pretendono però l’impegno a rispettare i loro ordinamenti civili e religiosi. Tuttavia le promesse del re bavarese si rivelano ben presto di gamba corta.. Già all’inizio della primavera 1806 il Montgelas, attraverso l’opera del conte Carlo d’Arco, nominato governatore della nuova provincia (ribattezzata Baviera del Sud), dà inizio alla politica di ostilità alla Chiesa cattolica auspicata da una setta che intende estirpare il cristianesimo dalla faccia della terra.

Primo obiettivo il controllo della gerarchia ecclesiastica e delle manifestazioni religiose tanto radicate nel costume popolare tirolese. Il programma perseguito è efficacemente sintetizzato dal segretario del conte d’Arco in questa breve formula: “La separazione dei due poteri che reggono la società non è più neppure concepibile e invece tutto esige la più completa centralizzazione dell’autorità”. Dal momento che viene messa a rischio la religione il governo bavarese perde ogni legittimità agli occhi dei tirolesi, che se ne sentono confermati nella loro tradizionale fedeltà agli Asburgo. L’antica casa regnante qualche anno prima, di fronte ai primi segni dell’irritazione popolare, aveva avuto l’abilità di comprendere il mortale pericolo annidato nelle idee dei philosophes di Francia e di Germania, dalle quali quasi tutte le case regnanti europee si erano lasciate contagiare, e di rinunciare alla politica ecclesiastica, anche questa di ispirazione illuministica, degli imperatori Giuseppe II e, soprattutto nella fase iniziale del suo regno, Leopoldo II. Qui la radice del Tirol’s Erhebung, la sollevazione del Tirolo, nella quale assume un ruolo dapprima relativamente modesto, poi via via di sempre maggiore importanza Andreas Hofer, titolare di una avviata osteria a Sand in Passiria, che ne riassume le ragioni nel motto “per Dio, l’Imperatore, la Patria” e nell’invito ai compaesani a prendere le armi per “ciò che a ciascuno è caro”. Scrive Lorenzo Dal Ponte, discendente di uno dei comandanti degli “sizzeri” (versione trentina del tedesco schutzen), che “protagonista della storia è il popolo”, affermazione che trova proprio nelle insorgenze la miglior conferma.

 Il popolo ha però necessità di simboli intorno ai quali riunirsi, e di uomini ai quali concedere la propria fiducia, facendone i rappresentanti degli ideali e delle passioni per i quali in quel momento tutti sono disposti a combattere e a morire. Sta negli autori e nella ragione della scelta la radicale differenza di questi capi usciti dalle fila del popolo, nel quale quasi sempre rientrano non appena passata la necessità che li ha evocati, rispetto agli Alessandro, ai Cesare, ai Napoleone. Tuttavia ciò non significa che la loro presenza, il loro carattere, le loro personali convinzioni siano prive di effetti sullo svolgersi degli avvenimenti e, in bene e in male, sul modo di operare degli uomini che ne riconoscono l’ autorità.

Nel caso dei tirolesi la scelta, inspirata dalla loro profonda e tenace fede cattolica , fu particolarmente felice. Andreas Hofer, al pari della grande maggioranza degli altri capi delle insorgenze antirivoluzionarie di tutta Europa, pur godendo del rispetto e dell’ammirazione di quanti lo seguono e obbediscono, non è stimato per le sue qualità di grand’uomo o, ancor meno, di grande generale. Al contrario di quanto avviene in quegli stessi anni per Napoleone, nessuno dei suoi montanari si batte per lui, perché trascinato da un suo particolare carisma, da una di quelle forme di fascinazione che talvolta emanano anche dai personaggi più oscuri della storia (o forse soprattutto da loro). E’ ragionevole credere che Hofer non sarebbe stato scelto quale comandante prima dei volontari della sua Passiria, poi di tutti gli insorti e infine insediato per comune consenso a Innsbrck nel breve momento del trionfo quale “Comandante Superiore del Tirolo”, se fosse stato diverso da quello che era, ma è altrettanto certo che solo perché Hofer era Hofer e perché l’orgoglio, l’ambizione e, nonostante tutto, nemmeno lo spirito di vendetta, non avevano presa su di lui che l’insorgenza tirolese conservò le caratteristiche di una guerra conforme alla definizione cristiana di guerra giusta1, combattuta senza odio per un nemico che per quanto feroce e crudele restava pur sempre figlio dello stesso Dio. Hofer, che alla volontà divina riporta vittorie e sconfitte, non perde, difatti, occasione per sottolineare le ragioni essenzialmente religiose della sollevazione ai suoi montanari, ai quali in un momento drammatico, quando lo sconforto invade gli animi, ricorda che “si tratta di religione e di Cristianesimo”.

Senza dubbio Hofer, che già nel 1796 aveva preso parte alla difesa del passo del Tonale in occasione della prima invasione francese, possedeva virtù militari e capacità di comando. Ne dà prova fin dall’inizio della sollevazione, nell’aprile 1809, partecipando, alla testa dei reparti della Passiria e del Sarentino, alla prima liberazione di Innsbruck e, alla fine dello stesso mese, a fianco delle truppe austriache del generale Chasteler, a quella di Rovereto, che determina l’abbandono di tutto il Trentino da parte dei franco-bavaresi (in questa circostanza sono con lui anche i montanari delle valli di Sole e di Non e delle Giudicarie). Ricaduta Innsbruk nelle mani dei francesi a seguito della sconfitta patita dagli austriaci a Eckmuhl, Hofer è alla testa dei montanari nelle due battaglie dell’Iselberg (25 e 29 maggio), che consentono il recupero della capitale del Land. Tuttavia il successo è di breve durata. L’Austria, sconfitta a Wagram, è costretta ad accettare la tregua di Zuaim (12 luglio), preludio alla pace di Vienna (14 ottobre), che sembrerà sancire il dominio napoleonico sull’intera Europa continentale. Il maresciallo François-Joseph Lefebvre, duca di Danzica, entrato in Tirolo alla testa di 40.000 uomini (francesi, bavaresi e sassoni), il 31 luglio rioccupa Innsbruck.

Tuttavia i tirolesi, rimasti soli a fronteggiare la super-potenza francese, non si rassegnano. Il 4 agosto un gruppo di montanari, al comando di un altro celebre insorgente, l’oste Peter Mayr, attacca e volge in fuga un forte reparto di sassoni in marcia su Bressanone. Appresa la notizia Hofer, ritiratosi nella sua Passiria in attesa di riunirsi ai compaesani se questi “si riuniranno e diranno: combattiamo per Dio la Religione e la Patria”, come si legge in un suo proclama, raggiunge i combattenti. Alla loro testa il giorno 7 infligge a Mauls una cocente sconfitta all’orgoglioso maresciallo, che, indignato per la fuga dei sassoni davanti a “contadini”, è uscito in forze da Innsbruck per punire i ribelli. Inseguendo i francesi in ritirata, il 12 agosto Hofer è, alla testa di 18.000 insorti, nuovamente sotto le mura della città due volte presa e due volte perduta. Il mattino del 13, dopo che tutti hanno devotamente assistito alla Messa celebrata dal padre cappuccino Gioacchino Haspinger e si sono comunicati, ha inizio la terza battaglia del monte Isel, la più sanguinosa, perché il duca di Danzica non è disposto ad accettare una nuova umiliazione. Tuttavia, dopo un altro giorno di scontri, il francese, consapevole che la battaglia è perduta, ma anche che la causa tirolese è, dopo la sconfitta dell’Austria, disperata, nella notte fra il 14 e il 15 abbandona la città.

Se sul campo ha dato buona prova di sé è nel breve intervallo di pace seguito alla terza vittoria dell’Isel che Hofer, Oberkommandant del Tirolo, esplica in pieno le pacifiche virtù dell’ autentico cristiano. La sua attività di governatore civile è anzitutto indirizzata alle necessità fisiche e morali di una popolazione duramente provata prima dalle prevaricazioni della oppressiva e odiosa occupazione bavarese, poi dalle difficoltà di quattro intensissimi mesi di guerra con continui ribaltamenti di fronte. Si tratta di provvedere ai bisogni dei corpi in una situazione di mancati raccolti e di continue requisizioni militari, ma anche di evitare o, quanto meno, ridurre, le conseguenze negative della guerra sulla religione e sui costumi, ciò che gli sta sommamente a cuore, perché Hofer è prima di tutto e in sommo grado un uomo religioso. Sono significativi al riguardo i suoi provvedimenti che vietano il ballo e ordinano la chiusura delle osterie in occasione delle feste e delle cerimonie religiose. Altri, ancora più penetranti, mirano a sostenere le famiglie e a rimettere ordine in quelle sconvolte dalla guerra e dal continuo passaggio di truppe straniere e ad imporre ai padri di bambini nati da relazioni illegittime di prendersi cura dei figli e delle madri. Si tratta di una breve parentesi. Napoleone padrone d’Europa non può tollerare l’eccezione tirolese adesso che ha tutte le truppe a disposizione per cancellarla. Già alla fine di settembre il Tirolo è aggredito dal Salisburghese, dalla Carinzia e dal Trentino, che per primo è preso d’assalto dalle truppe del Viceré Eugenio. Ai primi di novembre tutto sembra finito e Hofer offre la resa, pregando di “trattare il popolo con bontà e riguardo” e assicurando che “in tal caso nessun individuo delle truppe proverà il minimo fastidio”.

Al contrario la repressione è terribile e quando due colonne francesi invadono la Val Passsiria, movendo una da Merano l’altra da Vipiteno, i valligiani condotti da Hofer le sconfiggono entrambe. E’ l’ultima fiammata. In dicembre Andreas, che ha rifiutato salvacondotti per riparare in Austria, si è ritirato in una baita del Riffel (boscosa montagna nei pressi di San Martino in Passiria). Qui trascorre il Natale 1809 in compagnia della moglie e del figlio Giovanni. Qui, tradito per denaro da un certo Raffl (passerà alla storia col nome di “Giuda del Tirolo”), viene arrestato il 27 gennaio 1810. Condotto a Mantova vi è sottoposto ad un processo farsa, il cui esito è già stato fissato da Napoleone, che ha ordinato al Viceré Eugenio Beauharnais di “giudicarlo e fucilarlo sul posto dove arriverà il vostro ordine. Che tutto venga conchiuso in ventiquattro ore”. Inutilmente i mantovani si tassano per pagare un avvocato che gli garantisca una effettiva difesa. Andreas Hofer viene condannato e fucilato il 20 febbraio.

Sono queste eroiche virtù cristiane ad imporre a contemporanei e posteri rispetto e ammirazione per la figura di Hofer, campione della fede. Fra i contemporanei Carlo Botta, che pure militava dall’altra parte della barricata, avendo partecipato nel 1799 come medico dell’armata francese alla prima invasione del Regno di Napoli, scrive di lui: “Andrea… era uomo di retta mente e di incorrotta virtù. Vissuto sempre nella solitudine dei tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti… non era in lui ambizione, comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissimo non fu mai veduto né nella guerra sdegnato né nella pace increscioso… Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto d’Andrea, lui non che intrepido, quieto in quell’estrema fine. Ostò ad Andrea l’età perversa; fu chiamato brigante, fu chiamato assassino. Certo se le lodi sono stimolo alla virtù, lacrimevole e disperabil cosa è il pensare al destino d’Andrea”.

Centocinquant’anni più tardi Albino Luciani, allora Patriarca di Venezia, gli indirizza una delle sue splendide lettere agli “Illustrissimi” che meriterebbe di essere riportata per intero. Vi si legge fra l’altro: “Voi, l’albergatore di S. Leonardo in Val Passiria, avete combattuto due sorta di battaglie: prima siete stato soldato regolare nella guerra contro i francesi nel 1796 e nel 1805; partigiano, siete poi stato il capo e l’anima dell’insurrezione popolare tirolese contro i bavaresi e i francesi del 1809. Ed è la conduzione incredibilmente abile e coraggiosa di questa guerriglia, che ha strappato ammirazione agli stessi generali napoleonici e vi ha fatto entrare per sempre come eroe nel cuore del popolo tirolese “. E ancora: “A Mantova prima del supplizio, benediceste, come un patriarca, i compagni inginocchiati intorno a Voi e, ricusata la benda degli occhi, attendeste in piedi la scarica". Sulla spianata dell’Iselberg, presso Innsbruck, vi hanno eretto una statua. Sul piedistallo è scritto: “Per Dio, per l’Imperatore, per la Patria”. Francesco Mario Agnoli

I 150 anni dell’Unità d’Italia

Un lungo dibattito estivo è stato suscitato dagli interventi di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere a proposito dell’inadeguata celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia.

Galli della Loggia accusa la classe politica, di destra come di sinistra, di ignorare l’importanza culturale, civile, morale, dell’unificazione italiana, e, pertanto, di limitarsi ad interventi celebrativi in molti casi ridicoli. Galli della Loggia è persona che leggo con attenzione e che stimo e conosco da molti anni. Nella risposta che ha dato ad uno studente leghista sul Corriere di ieri, ci sono però affermazioni che faccio fatica a ricondurre all’autore di un testo come La morte della patria e alle garbatissime osservazioni rivolte all’allora presidente della Repubblica Ciampi che quell’analisi combatteva.

“Il Risorgimento –scrive il professore- volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere liberamente”. A mio modo di vedere la tesi andrebbe corretta così: il Risorgimento è stato l’epoca in cui tutti i liberali ed i massoni (esiguissima minoranza della popolazione) potevano dire tutto quello che volevano mentre la stragrande maggioranza delle popolazione, cattolica, no. Basti dire che il liberale Cavour impediva la diffusione nel Regno di Sardegna delle encicliche del papa, nonostante l’articolo primo dello Statuto definisse la chiesa cattolica unica religione di stato e nonostante l’articolo 28 difendesse la libertà di stampa! Per restare all’oggi, non ho ancora trovato un editore disposto a ristampare un testo fondamentale dell’Ottocento italiano come le Memorie per la storia dei nostri tempi di don Giacomo Margotti, testo che, caso veramente curioso, è scomparso da tutte le biblioteche nazionali…

Galli della Loggia celebra la scomparsa del processo “settario” nel tanto magnificato Lombardo-Veneto. Il Risorgimento avrebbe messo fine ad un processo in base al quale “si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato”. Beh, qui la cosa diventa quasi imbarazzante. Sì, perché dall’unità d’Italia in poi la legge marziale è stata ripetutamente introdotta in tutto il Meridione, con conseguenze drammatiche per tutta la popolazione. Un piccolo, insignificante, esempio della violenza bruta (altro che avvocato difensore) che accompagna la conquista sabauda. Il Regno d’Italia introduce la leva obbligatoria sconosciuta alle popolazioni italiane e la nuova abitudine va imposta per le spicce. Ecco cosa scrive il quotidiano torinese L’Armonia il 5 luglio 1861: “A Baranello un Francesco Pantano, capitolato di Gaeta, per sottrarsi al servizio militare, cui era richiamato, riparò in un suo podere, ed ivi sorpreso mentre dormiva, invece di essere arrestato, fu ucciso a colpi di baionette”. Ancora: nei 150 anni di storia italiana abbiamo visto “un intero popolo smettere di morire di fame, non abitare più in tuguri, non morire più come mosche”. La rivoluzione industriale che in Inghilterra (come Marx descrive in modo inappuntabile nella IV sezione del primo libro del Capitale) riduce la popolazione in miseria, in Italia, grazie alla capillare presenza cattolica, non aveva provocato gli stessi guasti. Tanto che da noi, a detta delle tante testimonianze lette, nessuno moriva di fame, mentre all’estero sì. A provocare la miseria generalizzata della popolazione viceversa è stato proprio il Risorgimento grazie al quale gli italiani, ridotti sul lastrico, sono stati forzati ad un’emigrazione di massa, sconosciuta nei millenni precedenti.

“A morire come mosche” poi gli italiani sono stati costretti da quella guerra immorale, infame, spaventosa, che è stata la prima guerra mondiale. Guerra voluta dall’élite risorgimentale e massonica per liberare gli italiani dal pacifismo cattolico e forgiare un nuovo popolo di eroi guerrieri. Si sa come è andata a finire. Gli italiani sono stati liberati sì dalla miseria, ma solo grazie al “miracolo economico” creato dalla classe dirigente al potere dopo la seconda guerra mondiale, di estrazione cattolica.

La Democrazia Cristiana però, ha avuto a mio parere un enorme difetto culturale: non ha contrastato la vulgata filorisorgimentale e, quindi, antitaliana. Il vero “disastro educativo” della scuola italiana è sì, a mio parere, l’aver adottato in massa, a livello di insegnati come di libri di testo, “una storia del nostro Paese inverosimile e grottesca”, ma non nel senso indicato da Galli della Loggia. Il disastro va piuttosto individuato nell’approccio ai 1.500 anni di tradizione cattolica. Questi vengono vituperati in ogni modo perché vituperato, sconosciuto ed irriso è il pensiero cattolico. Producendo così l’assurdità che la nazione che ha prodotto e possiede, da sola, più del 50% dei beni artistici e culturali del pianeta, disprezza sé stessa e non capisce più l’origine di quel surplus di bellezza che la caratterizza. Celebriamo l’Italia, ma assumiamo tutta la sua grande storia, non solo i miseri cento anni dopo la sua unità politica.