Il papista borbonico

di Rino Cammilleri

Se da noi la guerra Nord-Sud fosse un pacifico ricordo storico, come negli Usa, il personaggio di cui andiamo a parlare avrebbe il suo bel monumento (come gli eroi sudisti li hanno negli Usa). Se ne è ricordato Maurizio Lupo nel suo diario risorgimentale (La Stampa 6 settembre 2011) e nel sito delle Edizioni del Giglio è ampiamente commemorato. Si tratta del conte alsaziano Emile Théodule De Christen.

Colonnello dell’esercito francese già a venticinque anni, nel 1860 si congedò per dare manforte al papa. Quando Francesco II si accinse all’estrema difesa a Gaeta, si mise a sua disposizione. Posto al comando di un corpo di volontari, combatté i piemontesi in Abruzzo e in Terra di Lavoro, poi raggiunse il re a Gaeta. Caduta la fortezza, il De Christen si portò a Napoli per organizzare l’insurrezione contro l’occupante. Si finse inglese e operò in clandestinità ma la manovra fu scoperta a causa di un delatore e il De Christen venne arrestato. Lo tennero in carcere un anno intero prima di processarlo. In tribunale, un testimone “oculare” indicò non lui ma quello seduto accanto. Tuttavia, il giudice ammise la testimonianza e, addirittura, permise che questa venisse modificata ben quattro volte nel corso del processo. Come da copione, De Christen venne condannato a dieci anni, da scontarsi in galera a Napoli e poi a Gavi in Piemonte.

In cella, i detenuti politici erano mischiati a quelli comuni e incatenati due a due, mani e piedi. Il cibo malsano e le pessime condizioni igieniche erano causa di continue malattie. Le ferite da percosse e torture non venivano curate. Non era permesso mettersi in contatto con i familiari o con le rispettive ambasciate. Per giunta, a dirigere le carceri napoletane, dopo l’epurazione che colpì anche la magistratura, erano stati messi fior di camorristi. Per il De Christen intervennero pressioni internazionali che costrinsero il governo piemontese ad amnistiarlo dopo due anni. Il conte francese pubblicò a Parigi il suo diario del carcere, Journal de ma captivité, che divenne un bestseller. Tornato a Roma, combatté a difesa del papa a Mentana nel 1867 e a Porta Pia nel 1870. Ammalatosi gravemente, morì a Roma a soli trentacinque anni.

da www.labussolaquotidina.it

08-10-2011

Roma 20 settembre 1870

In occasione del 20 settembre, sarà opportuno affrontare un altro tema: la “liberazione” di Roma.

La lotta per sottrarre Roma al papato iniziò dopo la Rivoluzione francese. “A Roma, scrive Giulio Andreotti nella sua “Piccola storia di Roma”, la prima reazione alla Rivoluzione Francese fu di sostanziale indifferenza. Tuttavia, dopo la proclamazione della Costituzione Civile del clero, nel 1791, non solo Pio VI espresse la sua condanna, ma anche tra la popolazione si venne diffondendo un sentimento di ostilità nei confronti della Francia“, che culminò nel 1793 con il linciaggio dell’ambasciatore francese Hugou de Basville. Nel gennaio 1798 il generale francese L. Alexandre Berthier “occupò la città, dopo aver inutilmente sperato che il popolo insorgesse infiammato agli ideali di libertà“.

Questa tattica, tentare di far insorgere il popolo romano contro il papa, per poi intervenire presentandosi come “liberatori”, sarebbe stata riproposta, ancora senza successo, anche dai Savoia dopo il 1861. La lettura che se ne può dare è molteplice, ma il fatto è uno solo: i romani non volevano essere liberati, né nel 1798 né nel 1870.

Torniamo al 1798: Pio VI venne esiliato, il potere passò nelle mani dei francesi, e in breve “il popolo, esasperato dal gravame delle imposte” si sollevò al grido di “Viva Maria, viva Pio VI”.

Nel 1808 ci fu una nuova occupazione di Roma da parte di Napoleone, con arresto ed esilio di Pio VII, “tuttavia il popolo romano rimase sostanzialmente antifrancese. Le imposte, il regime militare, l’abolizione pressoché totale dell’articolato sistema assistenziale erano fonte di continuo malcontento, mentre le campagne erano infestate dai briganti, a cui molti si aggregavano per sottrarsi all’arruolamento nelle truppe imperiali“, perché i romani, che conoscevano la pace da svariati secoli, non si sentivano così pronti a morire per le manie di grandezza del piccolo corso[1].

Nella sua monumentale “Roma nell’Ottocento” F. Bartoccini ci dà altri dati interessanti: dichiara non più di 500-700 i presenti, molti solo per curiosità, alla proclamazione della Repubblica del 1798; ricorda che circa 15.000 persone lasciarono Roma dopo l’arresto di Pio VI; rammenta i saccheggi dei francesi a danno di chiese, confraternite, parrocchie, “la mancanza di cibo, l’aumento dei prezzi, la carenza di denaro”…[2]

Il francese Lamartine, a Roma in questi anni, notava che la città era divenuta “ben triste e deserta“, perché “Bonaparte aveva spazzato via tutti“.

Alla caduta del “liberatore” Napoleone, Pio VII rientrò, “entusiasticamente accolto” dai romani.

E’ un fatto risaputo che i moti del 1820-1821 sfiorarono appena la città del papa, e non furono romani, per lo più, ma forestieri, i carbonari e i liberali che tramarono contro il governo.

Anche la Repubblica Romana del 1849 fu una parentesi poco apprezzata dai romani. Il poeta Giuseppe Gioachino Belli, noto per le sue precedenti poesie anticlericali, non esitò a denunciare “quanto di fellonesco, di barbaro e di abbietto avesse saputo osare la depravata coscienza dell’uomo” al tempo della tanto decantata Repubblica. Aggiungeva che la plebe veniva aggirata “con mille arti da astuti cospiratori, che accorsi a sciami d’ogni contrada d’Europa assumevano in Roma voce, simulacro e diritti di popolo” e che “la peggior feccia degli agitatori, con a capo il famoso condottiero delle bande rosse, il Garibaldi, si scaricò…negli Stati ecclesiastici e in Roma, divenuta in quei tempi scolatoio di ogni immondizia[3].

Lo storico Viglione, nel suo “1861. Le due Italie” (Ares, 2011), ricorda che nel 1867, quando il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo dopo la sconfitta di Garibaldi, i locali lo accolsero come un liberatore, perché “erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati”.

Intanto si era consumato l’attentato terroristico, da parte dei carbonari Tognetti e Monti, alla caserma Serristori: una bomba aveva dilaniato 22 zuavi pontifici e alcuni passanti, tra cui una bimba di sei anni. Lo scopo era far insorgere i romani e facilitare il contemporaneo attacco, dall’esterno, dei garibaldini. Fu l’ennesimo flop, cui seguirono la conversione religiosa e il pentimento dell’operaio Monti, e, più tardi, la trasfigurazione risorgimentale dei due terroristi, divenuti, su lapidi e libri patriottici, veri e propri “martiri”[4].

Eccoci ormai alle soglie del 20 settembre 1870. I governi italiani vogliono Roma: pagano cospiratori, spie, finanziano rivolte “spontanee”. Invano. I romani non insorgono. Pio IX decide di cedere, dopo una resistenza solo simbolica, ad un’ aggressione ingiustificata. Prima che la nuova Roma diventi “ladrona” per milioni di italiani, dal nord al sud, imponendo tasse e servizio militare obbligatorio, sono i romani i primi a deprecare i nuovi arrivati. Li chiamano “barbari” o “buzzurri“, con distacco e disprezzo, e in molti, anche tra coloro che lo avevano criticato, rimpiangono il papa[5].



[1] Giulio Andreotti, “Piccola storia di Roma”, Mondadori, Milano, 2000, pp. 109-119.

[2] F. Barroccini, Roma nell’Ottocento, Storia di Roma, vol. XVI, Istituto nazionale di studi romani, Cappelli, Bologna, 1985, pp.14-23. Analoga la narrazione di Giorgio ciucci, nella sua “Roma moderna”, Laterza, Bari, 2002. Parlando della Repubblica romana del 1798 per esempi, scrive: ” Roma, e con essa gli Stati pontifici, divenne una città occupata, sfruttata finanziariamente, saccheggiata nel suo patrimonio artistico, conventuale, religioso, mentre le venivano imposti strumenti di governo totalmente estranei alla sua cultura…”.

[3] Citato in Giovanni Orioli, “Memorie romane dell’Ottocento”, Cappelli, Bologna, 1963, p. 16.

[4] Fulvio Izzo, “L’attentato del fermano Giuseppe Monti alla caserma Serristori”, Maroni, Ascoli Piceno, 1994.

[5] Si vedano le opere citate: Barroccini, p.459-466; Andreotti, p.121; Orioli, p.23. Scrive il Barroccini che dopo il 1870 l’opposizione al nuovo governo fu generale: “Non si tratta di uno sparuto manipolo di gente, di clericali faziosi: l’opposizione, nei primi anni dopo la Breccia, si allargò a macchia d’olio coinvolgendo anche molti entusiasti filoitaliani della prima ora” (p.455), convinti che si fosse fatto “scempio della nostra Roma”. Andreotti ricorda invece la “gravità delle imposizioni fiscali” del nuovo governo; la “moltitudine di poveretti in cerca di fortuna” che arrivò dal Meridione nell’urbe; l'”esplosione edilizia incontrollata” che favorì una “cospicua speculazione”; l’esplodere della “disoccupazione” e delle “opere non compiute”…

La roma papale e la libertà d’Italia

In questo centocinquantesimo dell’unificazione d’Italia in tutte le regioni si è rivendicata una storia patria antecedente al cosiddetto Risorgimento. Al nord la presenza delle istanze federaliste ha reso più semplice il ricordo delle glorie passate, pre-1861; al sud il libro di Pino Aprile, “Terroni”, il peggiore nel suo genere, ha però svelato al grande pubblico le immense colpe della classe dirigente risorgimentale nei confronti del Meridione. Solo una città è rimasta “irredenta”, sul piano della revisione storica: Roma.

E’ vero che è uscito, per dirne una, il libro di Lucio Martino, “L’11 settembre nella Chiesa”, in cui vengono svelate nefandezze, crudeltà ed inganni compiuti dal Regno Sardo a danno dello Stato Pontificio nel 1860, ma anche in quest’opera la Roma papalina è sbrigativamente calunniata, secondo gli slogan, poco credibili, di coloro che la vollero abbattere.

Due i motivi principali: anzitutto l’immensa trasformazione della capitale, insieme alla massiccia immigrazione di altri italiani, durante il periodo post unitario, ha cancellato il ricordo stesso del passato. In secondo luogo troppo capillare è stata, nei secoli, la propaganda anti-romana di Machiavelli e dei suoi epigoni; del rapinatore Napoleone; dei risorgimentali; dell’Europa protestante e papofoba e, in verità, anche dell’Italia fascista, impegnatissima a cancellare la Roma dei papi per riproporsi come la riedizione della Roma dei Cesari. In troppi non hanno potuto e non possono perdonare alla Città eterna di essere la capitale della Cristianità, per cui, come direbbe Dante, anche “Cristo è romano”.

E’ dunque opportuno, a mio parere, rimettere a posto alcuni fatti, a partire dall’accusa più conosciuta, quella formulata da Machiavelli e poi ripresa nei secoli: la Roma papale avrebbe impedito l’unificazione del paese, essendo troppo debole per portare a compimento l’unificazione, e troppo forte per lasciarsi conquistare da altri stati italiani. La verità storica è all’opposto.

E’ la Chiesa di Roma, infatti, ad aver permesso la nascita dei regni romano-barbarici, cioè ad aver promosso una graduale, seppur difficile, unificazione tra romani sconfitti e barbari vincitori. Come la Grecia, con la sua cultura, aveva “vinto” la sua conquistatrice, la Roma pagana, così la Roma cristiana, depositaria sia della cultura pagana latina, sia della nuova forza del cristianesimo, latinizzò via via i barbari Longobardi, Franchi, Vichinghi….

Clodoveo e Carlo Magno, insomma, non sarebbero mai esistiti, senza Roma, che fu dunque promotrice di una unità culturale e religiosa, non dell’Italia, ma dell’Europa intera. Roma, infatti, divenne e rimase per secoli ben più che la capitale di uno Stato nazionale: fu caput mundi, cuore e faro della Cristianità intera. Quanto all’Italia, fu un papa, Leone I, a preservare Roma dal sacco di Attila e degli Unni nel V secolo; fu sempre lui a mitigare gli effetti dell’ invasione di Genserico, nel 455, salvando la popolazione dalla strage e la città dall’incendio, e fu grazie alle ricchezze della Chiesa e alla sua carità che la città ritornò alla normalità. Con la calata dei Longobardi, Roma fu, effettivamente, l’ostacolo all’unificazione perseguita da quel popolo.

Ma questo fu la fortuna del nostro paese che, altrimenti, sarebbe finito sotto una delle più barbariche, rozze, violente ed ignoranti delle popolazioni germaniche, divenendo così un deserto senza futuro. Fu papa Gregorio Magno, in quegli anni, ad opporsi con la sua diplomazia ed intelligenza alle brame straniere, di bizantini e longobardi, perseguendo la libertà di Roma e del paese intero.

Fu sempre Gregorio Magno a promuovere, attraverso la conversione della regina Teodolinda, il passaggio dei Longobardi al cattolicesimo e, quindi, alla latinità, che solo i monasteri e le scuole ecclesiastiche avevano permesso di conservare.

Fu ancora Roma, che aveva impedito la devastazione bizantina e longobarda, a scongiurare che l’Italia venisse unificata, sì, forse, ma dai saraceni musulmani. Leone IV, per fare un solo esempio, nell’849 promosse una lega tra le città marinare del Sud, Amalfi, Gaeta e Napoli, e così impedì l’ennesima invasione saracena. Vari suoi successori furono alla guida delle coalizioni che impedirono all’Europa di divenire terra islamica, per conquista.

Scriveva Leone XIII: “Difatti l’Italia deve alla Chiesa…se non soggiacque ai ripetuti assalti dei barbari, se respinse invitta le aggressioni enormi dei turchi, e in molte cose conservò una legittima libertà ed arricchì le sue città di tanti monumenti immortali di arti e di scienze” ( Etsi nos).

Del resto lo stesso Machiavelli ammetteva di essere isolato nella sua accusa contro Roma. Nei Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, infatti, affermava: “E perché molti sono d’opinione che il benessere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere…”.

Riassume lo storico Massimo de Leonardis: “In realtà, come già osservato da Ludovico Antonio Muratori, la presenza del papato (lungi dall’impedire una splendida e precoce unità politica, ndr) preservò l’Italia da un destino ben peggiore…: la spaccatura tra un Settentrione provincia tedesca… ed un Meridione preda musulmana”. Il Foglio, 8/9/2011, continua

Risorgimento e fascismo

Il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia (1861) e l’attuale guerra in Libia (2011), colonia italiana a partire dal 1911, inducono ad un interrogativo per lo più volutamente eluso: che rapporto esiste tra Risorgimento, da una parte, e nazionalismo, imperialismo, I guerra mondiale e fascismo, dall’altra?

La storia, si sa, è una catena di eventi in cui vi è spesso una certa continuità tra un fatto importante e il seguente. Chi oggi si ri-mette in testa l’elmo di Scipio, non può ignorare che proprio il nazionalismo fu il motore del Risorgimento, e portò alla creazione di una vera e propria religione laica della patria. Si insegnò al popolo, sin dalla scuola, a venerare la Nazione e i suoi “martiri”, a frequentare le sue cerimonie sacrali, a sacrificare ben tre anni della propria vita nel compimento del servizio militare per la potenza del paese. E il nazionalismo non poteva che degenerare nell’ imperialismo.

Scriveva Mazzini: “Come il Marocco spetta alla penisola Iberica e l’Algeria alla Francia, Tunisi chiave del Mediterraneo centrale spetta visibilmente all’Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte…di quella zona Africana che appartiene veramente fino all’Atlante al sistema Europeo. E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma, quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l’adocchiano e l’avranno tra non molto se noi non l’abbiamo”.

Giustamente Domenico Settembrini, commentando queste righe, notava un legame tra il nazionalismo imperialista di Mazzini e il “nazionalfascismo dell’età contemporanea”. Del resto il richiamo all’antica Roma, quella dei Cesari, contrapposta alla Roma dei papi, “imbelle” ed universalistica, era un tema tipico di molti Risorgimentali, caro anche al regime di Mussolini.

Nazionalismo risorgimentale, imperialismo e fascismo: quale trait d’union più evidente di Francesco Crispi, l’uomo che fu al fianco di Garibaldi, in Sicilia, e che tentò poi, una volta al governo, di realizzare una svolta autoritaria e l’imperialismo auspicato da Mazzini? L’espansionismo di Crispi, scrive Francesco Maria Feltri, “nacque solo all’insegna del prestigio, della convinzione che il regno d’Italia, dopo aver sottomesso un vasto stato africano come l’Etiopia, avrebbe potuto trattare al pari con le altre potenze europee”. Ma la sconfitta ad Adua, nel 1896, segnò l’interruzione di un sogno che sarebbe stato rilanciato dal partito nazionalista, con l’attacco alla Libia, nel 1911, e con Mussolini, che avrebbe appunto completato la conquista della Libia e realizzato il sogno crispino di conquistare l’Etiopia.

Sempre il Feltri nota che dopo Adua, “restò comunque nell’opinione pubblica una fortissima volontà di rivincita, su cui avrebbe fatto leva il fascismo quarant’anni dopo…”. Quanto al colonialismo italiano, conclude: “sotto questo profilo tra lo Stato liberale e il fascismo non ci fu alcuna soluzione di continuità”.

Le guerre di Crispi furono dunque figlie anche di una sanguinaria ideologia patriottarda. Dichiarava Crispi stesso nel 1864: “Fino al 1860 guerre veramente italiane non ce ne sono state…Ora…l’Italia ha bisogno di un battesimo di sangue: lo deve a se stessa affinché le grandi nazioni d’Europa sappiano che anch’essa è una grande nazione, e che è abbastanza forte per farsi rispettare nel mondo”.

Occorreva dunque, forgiare gli italiani, il nuovo Stato, per mezzo di un avvenimento grandioso come la guerra. In fondo, nota Sergio Romano, anche la I guerra fu fatta per “fare gli italiani”; per “cementare la Nazione come può fare soltanto la guerra” (Giovanni Gentile), perché “la patria non era ancora compiuta” e “bisognava compierla” (G. De Ruggiero).

Anche la campagna di Libia, dopo quella d’Etiopia di Crispi e prima di quella d’Etiopia di Mussolini, fu figlia legittima del nazionalismo risorgimentale. Si pensi al discorso di Giovanni Pascoli, “La grande proletaria si è mossa”, dove è ben chiaro che anche certo socialismo di allora era intriso di retorica mazziniana. Pascoli, cantore ufficiale dell’Unità, da un lato si richiamava, come Mameli e Mazzini, alla Roma pagana, di cui la Libia avrebbe rivisto “le legioni romane”; dall’altra presentava la guerra come naturale sbocco del Risorgimento: “Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni che ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e all’incivilimento dei popoli…”.

Difficile allora – dopo aver ricordato l’educazione risorgimentale di Mussolini, il fatto che egli portò a termine le imprese coloniali iniziate proprio in quegli anni, che si forgiò nell’odio, anch’esso tipicamente risorgimentale, verso l’Austria e, soprattutto, nella Grande Guerra, presentata e vissuta come compimento del Risorgimento-, negare la stretta parentela tra nazionalismo risorgimentale e ideologia fascista dell’Impero, della Roma antica e della guerra. Ha scritto Montanelli, riguardo a Garibaldi: “i volontari, gli arditi, i marciatori su Fiume e su Roma, sono tutti figli suoi”. E di Mazzini, di Crispi e del pagano “elmo di Scipio”. Il Foglio, 31/3/2011

 

p.s Nota: la I guerra modniale costò all’Italia 680.000 morti, un milione di feriti e mezzo milione di invalidi permanenti

Terroni e polentoni

Nel suo discorso sul Risorgimento del 17 marzo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di uno “storico balzo in avanti che la nascita del nostro stato nazionale rappresentò per l’insieme degli italiani, per le popolazioni di ogni parte, Nord e Sud…”.

Capiamo bene che questa affermazione può essere “necessaria”, in tempo di rievocazioni retoriche, ma non è storicamente vera. Sappiamo per esempio, quanto al Nord, che il Lombardo Veneto non doveva affatto risorgere, essendo uno stato avanzato sotto tutti i punti di vista. Basti qui citare l’ultima fatica di Lorenzo Del Boca, “Polentoni. Come e perché il Nord è stato tradito”, in cui viene messo in luce quanto le regioni del nord abbiano pagato anch’esse l’unificazione savoiarda.

 Al libro di Del Boca, si può affiancare l’ultima fatica di Massimo Viglione, “1861. Le due Italie”, che con grandissima competenza illustra non solo la divisione post risorgimentale tra settentrione e meridione, ma anche quella tra cattolici e Chiesa da una parte e nuovo Stato sabaudo dall’altra. Anche chi conoscesse ben poco la storia di quegli anni, però, non può non chiedersi: possibile che il Sud, viste le sue attuali condizioni, abbia davvero fatto uno “storico balzo in avanti”?

 A questa domanda risponderebbero sicuramente in modo negativo coloro che anche quest’anno si troveranno a Civitella del Tronto, il 15 e 16 aprile: gli esponenti delle associazioni Controrivoluzione, di Pucci Cipriani, dell’Editoriale il Giglio e del Movimento Neoborbonico (con la presenza, tra gli altri, del senatore Fabrizio Di Stefano, del vignettista Alfio Krancic, degli storici Massimo de Leonardis, Roberto de Mattei e Luciano Garibaldi). E’ dal 1968 che in questa piccola città, l’ultima del Regno delle due Sicilie a capitolare sotto l’assedio dei soldati piemontesi, studiosi e appassionati di storia si ritrovano da ogni parte d’Italia per riflettere sulla “malaunità” e la “rivoluzione”.

Che malaunità sia stata, in verità, è assodato. Sono i letterati meridionali i primi a raccontarlo. Luigi Pirandello nel suo “I vecchi e i giovani” (1899), mette in testa a Donna Caterina Laurentano, moglie di un garibaldino morto a Milazzo e madre di Roberto, anch’egli al seguito di Garibaldi nel 1862 e nel 1866, questi pensieri: “E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa la rivolta. Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire!”. Dopo l’unità: “liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia…; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi”. E dopo la Destra, la Sinistra: “usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico…”.

 Analoga la posizione di Federico De Roberto, che nel suo “I Viceré” (1894) fa dire al duca d’Aragua, il quale magnifica il nuovo regno italiano, che gli ha permesso di arricchirsi comperando le terre della Chiesa (espropriate con la scusa che sarebbero servite per “far divenire tutti proprietari”, ma finite in realtà in bocca alla “gente più ricca”): “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”. Analoghi, ancora, i fatti raccontati da altri due grandi scrittori siciliani, Tommasi di Lampedusa, ne “Il Gattopardo” (1958) e Carlo Alianello, ne “La conquista del sud” (1972).

Anche uno storico come Gaetano Salvemini (nella foto), citato proprio da Napolitano nel discorso suddetto, nei suoi “Scritti sulla questione meridionale” (1955), sosteneva che “l’unità d’Italia è stata per il Mezzogiorno un vero disastro”.

Salvemini elencava tre malattie dell’Meridionale: la struttura sociale semifeudale, l’unico male precedente all’Unità; la politica dello Stato sabaudo, “accentratore, divoratore, distruttore”, che “spende i nove decimi delle sue entrate per pagare gli interessi dei suoi debiti e mantenere gli impegni derivanti da una politica estera dissennata”, retto da “maggioranze corrotte e fittizie, rappresentanti solo una parte minima della popolazione”; ed infine, l’oppressione economica del Nord ai danni del Sud. Riguardo a questa Salvemini scriveva che la “spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria. Il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti quando entrarono a far parte dell’Italia una”.

Come concludere? Evitando la retorica patriottarda, che, non avendo fondamento, non rende conto del malcontento odierno, al nord ed al sud. Evitando, altresì, le contrapposizioni tra nord e sud del paese, che, oltre a non servire a nulla, ignorano anch’esse la realtà dei fatti: a fare, male, l’unità, furono Cavour, Garibaldi e i Savoia, cioè uomini del nord, ma spalleggiati da meridionali come Francesco Crispi, Giuseppe La Farina, Bertrando e Silvio Spaventa, e moltissimi altri che con le loro opere legittimarono “la conquista del Sud”. Il Risorgimento fu dunque opera di una minoranza rivoluzionaria, di cui vanno stigmatizzate, a mio avviso, le idee, di matrice illuminista e giacobina, non la terra d’origine. Il Foglio, 24/3/2011

Un brano tratto da “La conquista del Sud”, di Alianello

Quando ancora Garibaldi, dittatore perpetuo, occupava la reggia di Caserta, e pare che ci stesse comodo; ebbe una chiamata urgente dalla terra dei Sanniti. Brutta gente s’aggirava in quei paraggi, amici del Borbone, nientedimeno, ostili all’Unità.

Subito; armi e bagagli e in marcia. Sarà cosa da ridere; qualche scappellotto bene assestato; qualche donnina acchiappata dentro una fratta o stesa su un prato. Eppoi, dicono, nel Sannio s’allevano pecore saporite e grassi maiali: proprio quello che ci vuole per ridare un po’ di buon umore ai suoi uomini. Buona cosa è che le migliori leccornie se le becchino loro prima che arrivi quel birichin di Vittorio, ché di comodi ce n’ha anche troppi e ragazzotte e iosa da accontentare.

 Detto, fatto. Così il reggimento garibaldino, condotto dal "famoso" Francesco Nullo, il Baiardo garibaldino, come veniva chiamato, e dal non meno famoso Alberto Mario, se ne veniva su bel bello, un po’ affaticato da quegli strapiombi e dall’erte salite; voglioso solo d’un buon rancio e di qualche po’ di riposo.

È vero che qualcuno aveva messo in giro una voce perlomeno buffa: che, qualche giorno prima, a Isernia (1) più di mille garibaldini ci avevano rimesso la pelle, e ora le loro teste mozzate, col berrettuccio rosso, servivano d’ornamento alle antiche mura della città… Ma dovrebbero essere storie; contro le camicie scarlatte, chi ce la può fare? In ogni modo, bene o male, verità o bugia, c’eran lì loro e vendicare l’onta. Però nessuno o pochi ci credevano. E intanto andavano. Qualcuno, più saputo, indicando la cerchia delle montagne che s’ergevan ripide ai loro fianchi, annunciò ch’eran nei pressi delle Forche Caudine, proprio dove i Romani antichi avevan preso quella famosa batosta. "Bojate!", ridacchiò uno del gruppo: "E poi chi erano questi Romani? Razza di preti, scommetto! Se si pensa che han dovuto fare tre guerre per vincere i Cartaginesi, mentre a noi è bastato un mese o poco più per sconfiggere il Borbone! Tu li chiami soldati, quelli?".

E andavano, strascinando un po’ i piedi. A un tratto, da una fratta nella boscaglia e subito dopo, tra due scaglioni di roccia, risuonò uno sparo, due. Nuvolette bianche di fumo si levarono subito fra ramo e ramo, scoglio e scoglio. "Tromba, suona l’allarme!", comandò Nullo, e risalì sul cavallo da cui era smontato per sgranchire un po’ le gambe. Ma dove? Contro chi? Nessuno si vedeva né si udiva una voce. Poi il suono d’un corno, lungo, cupo, vibrante. E subito tintinnò una campana; ma da lontano questa. Pareva chiamasse un gregge smarrito, gregge d’uomini, di donne, all’appello.

Alla Benedizione forse, o ai Vespri. "Mischinu!", disse un siciliano ch’era venuto lassù sin da Canicattì. "Meschino chi?". "Nuantri", borbottò l’isolano. Forse sera ricordato dei Vespri siciliani. O forse un istinto più antico, il senso quasi irreale d’un pericolo che. gli soprastava. "Una pattuglia in avanscoperta!", ordinò il capo. Sei uomini e un caporale, si staccarono dal grosso e presero salire, quasi di corsa, verso una selletta dove la strada s’incurvava tra le pendici di due colli. Si fermarono lassù e si guardarono attorno. Nessuno, nulla. Sentivano solo alle loro spalle il faticoso cadenzare della colonna in marcia, lo scalpitare dei cavalli e l’ansito rauco del plotone di testa che li seguiva da presso. Forse un fruscio leggero tra le fronde che ne fian cheggiavano i margini? Ma è il vento, no? S’era infatti levata una brezza leggera, fresca, e le prime foglie d’autunno già cadevano gialle sulle zolle. Ma chi poteva aver sparato un istante prima, dal bosco? "Forse", azzardò un caporale, "qualche cacciatore alla posta…". "O un paio di gendarmi borbonici, sperduti dopo la sconfitta?".

Caricarono le armi. Intanto era giunto il grosso della truppa. "Serrare le file!". Sta bene; ma contro chi? Qualcuno, che aveva persino messo a terra lo zaino, s’accomodò beato su una lista d’erbetta fresca che orlava la strada. D’un tratto tutti balzarono in piedi. S’era udito l’ulular d’un cane e subito un guaito lamentoso; qualcuno di certo stava a spiarli forse con un cane e non voleva che la bestia lo rivelasse abbaiando? Di lì l’ululo e il guaiolio… "Il solito cacciatore", disse quello che aveva parlato per primo. "Avanti!", urlò ancora una volta il comandante del reggimento, e la schiera si mosse. La strada piegava, scendeva, tornava e contorcersi in salita. Ed ecco che dal pendio del monte che leggero costeggiava la via sassosa, apparve in alto, ma non lontano, un paese. Case, casette, qualche palazzotto, capanne sparse e una chiesa. "Quello", disse un ragazzotto del luogo che faceva da guida, insaccato anche lui nella camicia rossa, "quello è Carpinone". "È lontano?". "No; sta qua". Infatti dal paese scendeva e valle, quasi una mostra di tinte diverse, secondo le coltivazioni delle balze degradanti, una manciatella di capanne, stazzi e pagliai, ruzzolati qua e la e d’improvviso immoti. Avanti alla chiesa una piazza, anzi un piazzale, deserto però di uomini e di cose. Allora la campana riprese a suonare. Un batter violento, furibondo quasi, a stormo, a martello, come quando d’inverno s’aggira tra gli ovili un branco di lupi. E subito altri bronzi risposero tocco su tocco, vicini e lontani. E sul piazzale sgorgò d’impeto dalla chiesa una folla strana e vedersi nei suoi diversi colori. Il bianco, il verde, l’azzurro, il porpora, il nero…

"Una processione", disse chi stava a capo del plotone. Infatti cantavano, voci acute, voci gravi, voci pesanti. Di uomini, perché di donne non se ne vedeva nessuna. La folla si raccolse, s’ordinò, venne avanti; ore le voci si udivano non più confuse ma quasi distinte, con le parole. "Che diavolo berciano?", chiese un toscano. L’altro che gli era vicino non rispose, ma sputò in terra. C’era tra le camicie rosse un chierico, scappato appena dal seminario, per seguire il redentor novello, che di queste cose se ne intendeva: "Toh!", disse, "son le litanie per le Rogazioni… ma non è il tempo, questo. Le Rogazioni si cantano quando già matura la semente…". "Per farne che?". Parlava il signorino, quello ch’era venuto con Garibaldi per liberarsi d’un colpo solo da un’amante attaccaticcia e dai creditori, asfissianti. "Il grano, no?", gli aveva risposto un uomo atticciato col viso brunito dal sole; uno che di semine se ne intendeva. "Kyrie eleison! Christe eleison!". "E non è il tempo giusto questo?". "Il suo tempo è quando il sole comincia e bruciare e il seme mette la sue veste verde e la prima spiga…".

 Altra gente frattanto accorreva da ogni anfratto dei monti, sui pendii, tra rupe e rupe, tra bosco e prato… "Quanti saranno?" , chiese sbalordito un garibaldino. "Di che ti spaventi?", tuonò un ufficiale. "Son contadini… baciapile, figli di preti… e noi siamo di più. Siamo armati, noi". E intanto già un altro aveva alzato la voce: "Baionetta in canna! Se si avvicinano troppo, sparare". "Ab omni peccato", cantarono gli uomini, già ammassati sul limitare del bosco grande, "libera nos Domine!". "Stai fresco!", sghignazzò un garibaldino. Ma il primo aveva ripreso il discorso con l’ex seminarista: "Questo allora non è il tempo giusto …?". "È il tempo della maggese", intervenne quello che aveva l’atto e l’aspetto del contadino. "Sarebbe a dire?". "Ora si scavano i solchi nei campi per sotterrarci la semenza…". "E chi ancora?". Gli uomini della montagna cantarono: "Ut fructus terrae dare et conservare digneris…". Il ragazzo già tremava: "Perché questa carnevalata?". "Non hai capito?". E il chierico si segnò col segno della Croce: "D’ottobre, il seme si sotterra e muore". "Chi deve morire?", ridacchiò il bellimbusto. "Noi". "Noi? E perché noi?". "Te rogamus, audi nos…", cantò il coro.

E fu il segnale. Le file della processione s’aprirono e ogni uomo che aveva il suo fucile, la sua vecchia pistola da cavalleria, sparò dritto il suo colpo già meditato. Gli altri, quelli che non avevano armi da fuoco, si gettarono giù per il pendio urlando e facendo brillare i loro arnesi d’acciaio all’ultimo sole. Da ogni parte uscivano uomini laceri, convulsi, urlanti. "A peste, fame et bello", cantavano gli uomini, e premevano sul grilletto del loro archibuso, forse del padre o dell’avo, che aveva già sparato contro i giacobini e gli eretici; e le donne, torme di donne sbucate e un tratto dalle grotte, dagli anfratti, dalle capanne, brandendo scuri, forconi e spiedi, rispondevano con un acuto selvaggio: "Libera nos Domine!".

Sembrava che quel canto non dovesse finir mai. Dall’alto, sui fianchi, da ogni lato delta viuzza scoscesa, gruppi dei congregati delle confraternite, fratelloni erano, ruggivano: "Ut inimicos Sanctae Ecclesiae humiliare digneris…". E un coro, come un vento furioso, rispondeva dalle gole d’ogni montagna: "Te rogamus…". Un canto, un rimbombo, una voce. Qualcuno dei garibaldini sparò; molti erano già caduti, quando era scoppiata fulminea la prima scarica; altri gemevan stramazzati per terra. I più, atterriti, fuggirono. Mentre le rosse camicie ch’eran venute a mettere ogni cosa a ferro e fuoco, a fucilar soprattutto gli odiosi reazionari, quelli che non vogliono essere fottuti dalle parole nuove, il che non sarebbe gran cosa, ma soprattutto dai banditi che di quelle come armi nascoste si servono, mentre i garibaldini, dico, si nascondevano lungo i muretti dei campi, e già il sole era calato, e ogni cosa restava in ombra, nell’oscurità delle straduzze le donne e i ragazzi li afferravano, gli toglievan l’inutile arma e li costringevano e inginocchiarsi e a chieder pietà. Quando gli veniva accordata, era generosità grande. Le vecchie, fuori dal cavo dei focolari spenti, impugnavano il fuso e lo schidione, maledicendo con strida e gemiti dalle bocche sdentate l’invasore. E il grido era uno solo: "Uccidete l’Anticristo!" .

Nullo e Alberto Mario, volte in fuga le loro bestie, cavalcarono tutta la notte tra fratte, scogli e boscaglie, per non cadere, attraversando strade e passi noti, nelle mani degli insorti, pallidi e angosciati d’ira e di terrore. Più che a una battaglia erano scampati a una strage. Così narra il Battaglini, e a modo suo naturalmente, l’intera vicenda: "Fin dalla fine di settembre del l860 il Re [Francesco II ] fece inviare ad Isernia il maggiore di gendarmeria De Liguoro con una colonna ad occuparla, scacciandone i liberali e alimentando la reazione, aizzata in quella regione dalla propaganda viva e indefessa del vescovo della diocesi, monsignor Saladino, animoso borboniano, insieme con funzionari regi, spodestati dal nuovo governo, propaganda di odio e di falsità, fatta con ogni mezzo tra quelle popolazioni rurali, in gran parte superstiziose e ignoranti, da frati, preti e signorotti che prospettavano in mala fede Garibaldi e Vittorio Emanuele, nonché tutto il partito liberale, e soprattutto italiano come nemici della religione, della famiglia, della proprietà. Indarno il partito locale liberale cercò fronteggiare l’incendio, fra stragi e saccheggi reazionari, che dilagava nel Sannio, nell’Abruzzo e nei paesi limitrofi. Purtuttavia i garibaldini inviati a spizzico e in tutta fretta da Garibaldi, in seguito alle insistenti e disparate richieste dei liberali locali, riuscirono ad occupare Isernia, scacciandovi i gendarmi borbonici.

Allora il maggiore De Liguoro rimasto assediato, mosse da Venafro su Isernia con la sua colonna composta da circa quattrocento gendarmi, rinforzato con un battaglione delle Guardia Reale con due cannoni e un plotone di cavalleria, inviatogli in quei giorni dal Ritucci per ordine dal Re. Il combattimento fu violento; i garibaldini si difesero strenuamente finché furono sbaragliati, lasciando oltre cento morti e cinquanta prigionieri, e perdendo la bandiera. "Pochi scamparono alla caccia spietata, data loro dalla marmaglia inferocita. "Il paese rimase in balìa della reazione sfrenata, con tutti i suoi eccessi.

"Intanto Garibaldi, in seguito a ulteriori urgenti richieste di rinforzi, aveva mandato Francesco Nullo, il Baiardo garibaldino, come veniva ritenuto, con circa cinquecento volontari che, uniti a quelli della regione, marciò su Isernia, tratto in inganno da informazioni false di partigiani borbonici, inviatigli incontro, che assicuravano essere sgombro di truppe regie il paese. "Il maggiore De Liguoro, informato di tutto, gli andò incontro con oltre mille uomini, tra soldati, gendarmi e reazionari volontari, attaccando il l7 ottobre irruentemente nei pressi di Carpinone. "Ben presto il Nullo con i suoi fu circondato e, più che un combattimento, fu una strage di garibaldini, dei quali pochi si salvarono dalla ferocia di quella masnada reazionaria, composta di contadinaglia, i cosiddetti cafoni, fra cui vi erano anche donne armate di spiedi. Il Nullo, con pochi suoi, tra i quali il Mario, il Zasio, e il Caldesi, riuscì per miracolo a salvarsi, rifugiandosi a Boiano e Campobasso…". Caddero nelle mani dei borbonici, come narra il Delli Franci, circa 140 prigionieri, con due bandiere garibaldine, con cavalli e salmerie. [da Carlo Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Il Cerchio, Rimini, 2010)

Perchè gli italiani sono poco patriottici?

L’Italia esiste da molti secoli, non come entità statuale, ma come popolo, come nazione. Con tante differenze, ma con caratteristiche comuni. Dante è esempio evidente di questa italianità: amante del suo campanile, Firenze, viaggiatore e ospite di vari signori, da Verona a Rimini, fautore dell’unità imperiale e padre della nostra lingua volgare.

 Dante definisce così l’Italia: “il paese dove ‘l sì suona”; il paese, potremmo dire, noto anche come il “Belpaese” per eccellenza. La storia d’Italia è storia di fede, di arte, di cultura, persino di cucina (con una varietà di piatti unica al mondo).

 La Magna Grecia e Archimede; Roma repubblicana ed imperiale; Roma patria dei papi e del cattolicesimo mondiale. E’ in Italia, soprattutto guardando a Roma, che i barbari germanici apprendono la civiltà. Italiano era Benedetto, patrono dell’Europa, che con i suoi monaci salvò la nostra civiltà dallo sfacelo delle invasioni barbariche. L’Italia è stata la culla della medicina e dell’istituzione ospedaliera; della cultura (qui è nata la prima università del mondo, a Bologna) e del diritto. Italiano fu il più grande filosofo del medioevo, Tommaso; italiano il più grande riformatore religioso, Francesco: “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”.

Qui è fiorita la scienza, dal momento che la gran parte dei padri del pensiero medico e scientifico sono stati italiani, oppure stranieri, che però studiarono in Italia (Copernico, Vesalio, Harvey…). Anche gli studi anatomici e poi quelli fisiologici sono nati qui, nel Medioevo e nel Cinquecento. Per secoli l’italiano, come ricorda A.J. Gurevic, fu la lingua internazionale dei commerci, come lo fu, a lungo, della cultura: ancora nel Settecento, alla corte di Vienna i poeti cesarei si chiamavano Apostolo Zeno e Metastasio. In Italia nacquero la commedia all’improvviso, il melodramma, la gran parte del patrimonio artistico mondiale: Giotto, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Bernini…

Anche nel Seicento e Settecento l’Italia diede moltissimo: nella scienza Marcello Malpighi, Lorenzo Bellini, Gian Alfonso Borelli, Francesco Redi, Giorgio Baglivi, Giovanni Battista Morgagni, don Lazzaro Spallanzani, Luigi Galvani, Alessandro Volta…

Si potrebbe continuare a lungo, ma è chiaro che amare l’Italia è più che doveroso.

Allora, perché siamo un popolo così poco fiero della nostra storia e della nostra cultura? Un popolo così poco patriottico? Ci sono vari motivi.

Anzitutto uno storico: c’era una nazione senza Stato, e si volle fare, con il Risorgimento, uno Stato, ma senza nazione. L’Italia risorgimentale fu infatti costruita dai pochi contro i molti; dalle elite contro i popoli; dai Savoia contro le altre dinastie; dalla borghesia massonica e liberale contro la Chiesa. Dove c’erano grandi varietà e specificità, si volle creare uno Stato centralista, soffocando nel sangue i recalcitranti. Difficile, per molti, a nord e a sud, amare uno stato sorto così.

Ma c’è dell’altro. Il tradizionale disfattismo italiano è legato anche alla calunnia secolare di coloro che identificano, non senza fondamento storico, italiano con cattolico. Sono stati i protestanti e gli anglicani i primi a dannarci come “papisti”, “succubi” dell’ “Anticristo”.

Insieme a costoro tutti quegli italiani che hanno in odio il cuore cristiano della nostra storia. Penso a Niccolò Machiavelli, che nei “Discorsi sulla prima decade” di Tito Livio scriveva: “E perché molti (si badi bene, ndr) sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia (allora senza dubbio le più ricche d’arte e di cultura del mondo, ndr) nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere…due potentissime ragioni”. E continuava sostenendo che la Chiesa e la fede cristiana hanno tenuto gli italiani in uno stato di minorità, rendendoci vili, “sanza religione e cattivi”.

L’argomento di Machiavelli è quello che hanno usato molti padri del Risorgimento, quello di non pochi sedicenti intellettuali odierni, specie a sinistra, per i quali l’Italia è sempre “indietro”, “perché c’è il Vaticano”, cioè i cattolici. Affermava infatti recentemente Adriano Prosperi, dopo aver esaltato l’autore de “Il principe”, che la Chiesa, con le sue devozioni, ha “fatto degli italiani un popolo ignorante e superstizioso” (Il Foglio, 18/5/2010)!

Analogamente Ermanno Rea, entusiasta del PCI e della Resistenza in versione mitologica, nel suo “La fabbrica dell’obbedienza” esprime sommo disprezzo per l’Italia: patria di servi, ruffiani, sudditi privi di coscienza critica… perché cattolica!

 In questa visione negativa della storia italiana, si colloca a pieno titolo la tradizione della sinistra atea e comunista, antipatriottica per definizione. Palmiro Togliatti al XVI congresso del PCUS, prima di scegliere ipocritamente Garibaldi come simbolo del Fronte popolare (filo-sovietico), affermava: “E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana… mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo unito a Mosca agli ordini del compagno Stalin…come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volte più del migliore cittadino italiano”. Il Foglio, 17 marzo

Nella foto: il presidente Napolitano col dittatore rumeno Ceaucescu

Chi fu veramente Giuseppe Garibaldi

Chi fu Garibaldi? Un negriero, un grande nemico del Meridione,della Chiesa, dell’Italia.

Quando si parla di Risorgimento, di unità politica dell’Italia, l’eroe che viene alla mente è senza dubbio Giuseppe Garibaldi. Per decenni la sua figura è stata celebrata, osannata, sino a farne una sorta di santo laico, da porre sull’altare della patria, a cui dedicare poesie, strade, pazze e statue equestri: al fine di dare, ad un paese che aveva voluto tagliare i conti, in quattro e quattr’otto, col passato, un mito fondativo sufficientemente romantico e affascinante.

Di Garibaldi, il poeta vate Giosue Carducci, cantore dell’Italia mazziniana, e poi di quella crispina e coloniale, scriveva: “Nacque da un antico dio della patria, mescolatosi in amore con una fata del settentrione…”.

In verità il Risorgimento, come notò Gobetti, è stato un tempo senza eroi. “Troppo fumoso e cerebrale Mazzini– scrive Luca Marcolivio, nel suo piacevole “Contro Garibaldi” (Vallecchi)-, troppo machiavellico Cavour, troppo legato alla cattiva fama di casa Savoia Vittorio Emanuele II“. L’unico che “seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire che non a delle vere qualità di capo”, fu, secondo Indro Montanelli, Giuseppe Garibaldi..

Chi fu veramente Garibaldi? Fino al 1848 la sua vita è poco chiara, perché avvolta nella leggenda. “Da giovane – scrive lo storico Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita” (Ares)- dopo aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione del Regno di Sardegna, Garibaldi si mise dapprima a fare il pirata al seguito del bey di Tunisi e poi fu costretto a fuggire in Sudamerica per non finire impiccato. Quindi si coinvolse prima nel furto di cavalli in Perù (dove gli vennero tagliati i padiglioni degli orecchi), e poi praticò la pirateria per il commercio degli schiavi asiatici“.

Un pirata, dunque? La notizia, negata da Phillip K. Cowie, con argomenti piuttosto fragili, è invece confermata da altri storici, come L. Leoni, O. Calabrese, A. Pellicciari, e persino da un agiografo di Garibaldi come Giovanni Spadolini che però, ne “Gli uomini che fecero l’Italia“, vi accenna fuggevolmente senza addentrarsi nelle sue “leggendarie e piratesche imprese in Sud America”.

Più esplicito lo storico del Risorgimento Giorgio Candeloro, che, intervistato su “La Repubblica” del 20/1/1982, fornisce dettagli maggiori: “Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù, e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo“.

Negriero, avventuriero, personaggio da romanzo…sino all’impresa dei Mille, che ne fece, appunto, un mito inarrivabile. Ed è quindi giusto, finalmente, rivedere questa storia di “mille eroi” senza macchia e senza paura, e senza soldi, ma armati solo del loro coraggio e di chissà quali ideali, che piegarono da soli il più grande stato italiano, il Regno delle due Sicilie: una favola che non può più essere raccontata. Occorre un po’ di serietà. Da tempo sappiamo bene che Garibaldi non fu affatto il conquistatore straordinario di cui si è a lungo parlato e che il mito della sua invincibilità fu creato ad arte ancora prima che egli ritornasse, dall’America, in Italia. Nella sua spedizione al sud, Garibaldi contò anzitutto sull’appoggio inglese, senza il quale non avrebbe potuto far nulla.

Nel suo “La strana unità” (il Cerchio), Gilberto Oneto ricorda che la flotta da guerra dell’ammiraglio George Rodney Mundy seguì la spedizione garibaldina passo passo. I Mille neppure sarebbero riusciti a sbarcare, senza di essa. Oltre alla flotta che accompagnava tutti i momenti più delicati, a fianco di Garibaldi vi fu una legione di “volontari” inglesi, anch’essi determinanti. Infine, è da considerare l’importanza dei grandi finanziamenti ottenuti da Garibaldi dall’Inghilterra, che gli servirono certamente a pagare gli ufficiali dell’esercito borbonico che, a differenza dei loro soldati, abbandonarono in massa la difesa del regno.

Pier Giusto Jaeger, nel suo “L’Ultimo re di Napoli” (Mondadori), ricorda che Garibaldi non affrontò una sola battaglia di consistenza vera, sino a quella del Volturno, dove ebbe l’appoggio, oltre che degli inglesi, anche dei piemontesi guidati dall’ammiraglio Persano, scesi dal nord più per evitare che le incerte e traballanti conquiste di Garibaldi sfumassero, che per impedire la sua marcia su Roma. E’ proprio Persano, nel suo “Diario”, a fornirci ulteriori testimonianze sulla corruzione e il tradimento come i mezzi principali con cui il Nizzardo ottenne la vittoria. Persano era stato inviato da Cavour in Meridione, come ricorda Angela Pellicciari nell’introdurre il Diario dell’ammiraglio, proprio con lo scopo di “proteggere-tallonare-controllare Garibaldi, organizzare l’invio di uomini e armi che affianchino i Mille, corrompere i quadri della marina e dell’esercito borbonici” (“I panni sporchi dei Mille“, Liberal).

Corruzione e tradimenti: le migliori armi in mano ad un presunto eroe che da solo, con i suoi Mille, non avrebbe fatto assolutamente nulla. Che non dovette neppure affrontare una vera resistenza, dal momento che il re Francesco II, cugino del sovrano sabaudo, era stato convinto a lasciare il paese, rinunciando quindi ad una strenua difesa, anche su consiglio del suo ministro dell’Interno, il traditore Liborio Romano, al fine di evitare lo spargimento del sangue dei suoi sudditi. Si può infine aggiungere che la vittoria di Garibaldi fu ottenuta anche grazie ai suoi proclami, in cui prometteva libertà e terre. Sappiamo bene cosa ne ebbe il Meridione.

Ce lo hanno raccontato, prima degli storici, Giovanni Verga, già garibaldino, nella novella “Libertà“, in cui descrive le stragi indiscriminate del luogotenente garibaldino Nino Bixio, e Luigi Pirandello, anch’egli di famiglia antiborbonica e risorgimentale, che però nella sua novella “L’altro figlio“, fa dire ad una protagonista che Garibaldi asseriva sì di portare “la libertà”, ma si limitò a liberare dalle carceri tutti i delinquenti e i criminali, per destabilizzare il regno dei Borboni. Afferma la protagonista della novella di Pirandello: “…vossignoria deve sapere che questo Cunebardo (storpiatura popolare di Garibaldi, ndr) diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne. I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…”.

Scriverà qualche decennio più tardi un altro scrittore siciliano, Carlo Alianello, nel suo “La conquista del sud” (Il cerchio): “Lo stesso giorno 20 ottobre (1860) il Dittatore, il quale esiliava vescovi, arcivescovi e cardinali, fece grazia a tutti i condannati all’ergastolo e alla galera per delitti comuni. Garibaldi sbarazzava le carceri di quei malfattori, per mettervi ufficiali, magistrati, aristocratici, preti e frati. E così si faceva l’Italia“.

Quanto alle terre promesse dal Nizzardo ai meno abbienti, esse finirono non certo nelle mani dei contadini, verso cui dimostrava disprezzo (li considerava “servi dei preti”, perché non si associavano alle sue scalmanate camice rosse), ma dello Stato piemontese, dell’ aristocrazia e della borghesia fondiaria meridionale, che capirono subito, come ci dice Tommasi di Lampedusa nel suo “Il gattopardo”, che si poteva benissimo cambiare tutto, anche mettendo la camicia rossa, senza cambiare nulla, o forse, guadagnandoci ancora di più (Tommasi di Lampedusa accenna infatti allo spartizione, da parte dei nuovi vincitori, delle terre comuni e di quelle della Chiesa, che sino ad allora servivano invece, molto spesso, al sostentamento delle classi più povere).

Non è un caso che dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi abbia trovato più amici a Torino e a Londra che in Meridione. Qui infatti il mito di Garibaldi, già di per sé circoscritto, era durato poco più dello spazio di un mattino. Infatti, come testimonia Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour nella organizzazione della spedizione dei Mille, le cui lettere sono state pubblicate sempre da Angela Pellicciari nel testo citato, Garibaldi e i suoi avventurieri si erano subito rivelati per quello che erano: saccheggiatori di ogni ricchezza, pubblica e privata, nelle orge e nel dispotismo.

Lo stesso Garibaldi, nelle sue “Memorie” (Bur), affermava: “Si cominciò a parlare di dittatura, ch’io accettai senza replica, poiché l’ho sempre creduta la tavola di salvezza nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli“.

Dittatore, dunque, in un paese di cui non conosceva nulla, neppure il dialetto, senza il sostegno della popolazione, deciso, per di più, ad imporre ovunque la legislazione piemontese e la leva militare obbligatoria, dai 17 ai 50 anni, ad un popolo che non la conosceva, e che non aveva nessuna intenzione di arruolarsi in massa per guerre che non condivideva e non capiva.

Questo è tanto vero che subito dopo il 1860 il mito risorgimentale fu già, dalle plebi meridionali, dimenticato: al suo posto l’emigrazione di massa, fenomeno prima pressoché inesistente, la leva militare obbligatoria imposta ai meridionali, le rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi come quello di Palermo (1866) repressi nel sangue dai prefetti e dall’esercito piemontesi.

Come nota lo storico Mario Isnenghi, infatti, proprio l’opposizione alla unificazione del Meridione al Regno di Sardegna, che cominciò già nel 1860 e che va sotto il nome di “brigantaggio”, “può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata, di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento“.

Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Inoltre, nel suo “Poema autobiografico” del 1862, non esitò a biasimare in più passaggi quei fatti che vanno sotto il nome di “Risorgimento”, e di cui lui era stato uno dei principali protagonisti: “E l’Italia? E’ fatta cloaca, ai piedi/ del più schifoso de’ tiranni”, cioè quello stesso Vittorio Emanuele, a cui lui stesso aveva consegnato il Regno borbonico, e che viene ora descritto come un uomo “con libertade sulle labbra e…in cuore del coccodrillo la verace sete/ dell’isterminio! A dar battaglia ei viene/ a chi del Mondo la prima corona/pose a’ suoi piedi. Ingrata volpe!…”.

E ancora, proponendo un bilancio passivo dell’unificazione italiana, ormai avvenuta: “Tutto è menzogna e privilegio. Un vano/ di libertade simulacro illude le moltitudini ingannate…”.

Ma nonostante cercasse spesso di prendere le distanze dalla nuova Italia, di cui era stato artefice principale, almeno in teoria, insieme al Cavour, la popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza), che molto presto per la storia dei Mille, narrata da Nizzardo stesso, “è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore”. Allora “l’Eroe pensa all’Inghilterra ma la traduzione non trova promotori…Per assicurarne la vendita scende in capo la Massoneria. Secondo le consuetudini dell’epoca, nel 1874 Timoteo Riboldi diffonde 12.640 schede di prenotazione tra gli amici e gli estimatori del Generale”.

Negli ultimi vent’anni della sua vita Garibaldi, che era personaggio piuttosto vanesio, si diede dunque alla scrittura, raccontò la sua vita e le sue imprese, per mantenere vivo il suo mito ed anche per guadagnare dei soldi, di cui era sempre alla ricerca, nonostante gli giungessero spesso graditi doni da ammiratori stranieri: da alcuni inglesi ricevette per esempio nel 1869 un panfilo, il Princess Olga, mentre un tale John Anderson gli versò una cambiale di 5000 lire in oro.

Ma il versamento più cospicuo fu quello che ottenne nel 1875: un dono governativo, “di gratitudine nazionale”, di 2.000.000 di lire offertogli dal governo De Pretis, che gli valse il soprannome di “eroe dei due milioni” da parte della “Civiltà cattolica”, e di “pensionato della monarchia” da parte dei mazziniani.

Un fatto è certo: la fama, al di fuori dell’ufficialità, ormai scoloriva sempre più, ma Garibaldi forse sbagliò nel cercare di mantenerla, e di guadagnare ancora, scrivendo romanzi e memorie. E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro “traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il “carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche antigovernative e le prediche anticlericali” (Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito“), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura.

Da essi infatti traspare l’immagine di un avventuriero inquieto, senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma fanatico, ripetitivo ed intollerante; di un personaggio amante della guerra per la guerra, dell’avventura fine a stessa, che amava ripetere sovente, a suggello di un discorso o di una lettera, frasi inquietanti come la seguente, “La guerra es la verdadera vida del hombre!”, salvo scrivere, due righe oltre, di essere un ardente “pacifista”; di un presunto eroe-pensatore che, secondo una definizione di The Times di quegli anni, “ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolavano nel suo cervello“.

Traspare, inoltre, l’immagine di un uomo che strapazzò allegramente donne e figli – infatti ebbe “tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli”, più o meno conosciuti, come nota Gilberto Oneto; mentre Alfonso Scirocco allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo “L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.

Infine, dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evincono altre due caratteristiche dell’eroe, spesso piuttosto silenziate: il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica e la sua assoluta incapacità di un pensiero politico minimamente coerente e fondato (il che lo renderà utile e obbediente di volta in volta agli interessi di Londra, delle logge massoniche, di Cavour e di Vittorio Emanuele).

Basterebbero alcune righe poste da lui stesso a prefazione delle sue “Memorie”:In ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba… Amanti della pace, del diritto, della giustizia- è forza nonostante concludere con l’assioma di un generale americano: ‘La guerra es la verdadera vida del ombre!‘”.

Oppure si possono leggere le sue lettere, in una delle quali definiva Pio IX “quel metro cubo di letame“, invitava a rompere i confessionali, “resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente“, e a schiacciare il “verme sacerdotale”.

Nel suo “I Mille”, scritto intorno al 1870, Garibaldi esalta le imprese delle camice rosse e le pone in contrasto con “la nauseante realtà della società odierna“, a cui il Nizzardo metterebbe fine, come gli sembra possa avvenire in sogno, con la creazione di un dittatore temporaneo, capace di amministrare la giustizia in piazza, in uno stato finalmente senza leggi scritte, senza polizia, senza “sgherri” e senza “preti”, in cui si ode “la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto“, tranne, naturalmente, “per i lupi, le vipere e i preti“!

Analoghi concetti si possono trovare in “Clelia, o il governo dei preti“, un altro romanzo del Nizzardo, scritta nel 1869, che Mario Isnenghi considera il modello del romanzo anticlericale di Mussolini, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”.

Scriveva l’eroe dei due milioni, in conclusione di quest’opera – dopo aver deprecato i veneti che non si erano affatto ribellati agli austriaci nel 1866 e avevano accolto con pieno disinteresse alcuni candidati al Parlamento da lui personalmente sostenuti, nel 1867, una volta “liberati”-, descrivendo se stesso: “Odia i preti come istituzione menzognera e nociva…Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri, assassini e considera i preti quali assassini dell’anima peggiori degli altri. Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato ovunque i diritti. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso…Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere dittatoriale, cioè di un uomo solo” (come mai a scuola è sempre presentato come “repubblicano”?)

Nel suo testamento, infine, Garibaldi, che sempre più spesso, come si è detto, lanciava improperi contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche, più volte, parlamentare ultra-assenteista, chiese di essere bruciato, in ossequio al suo panteismo e invitò i suoi cari a tener lontano “il prete”, che “considero atroce nemico del genere umano“, asservitore degli uomini, e, soprattutto, come aveva scritto altrove, delle donne (le più credulone…).

All’ultimo punto, con la solita lucidità con cui era passato dalla fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento, ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinchè la Nazione sia più educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano“.

Questo era l’uomo, che molti italiani, in verità, non amarono. Non lo amarono i contadini, che Garibaldi infatti criticava per la loro inattività rivoluzionaria, né i cattolici, che detestarono la sua avversione violenta alla loro fede, e il suo spirito rivoluzionario, né la gran parte dei meridionali, di cui non fu il liberatore, ma l’affossatore. Ne riconobbero la pochezza, anche molti altri. Scriveva di lui Proudhon: “Gran cuore, ma niente cervello“, mentre Costantino Nigra lamentava: “Questo Garibaldi è buono solo a distruggere“. Persino uno dei suoi collaboratori più stretti, Francesco Crispi, sosteneva: “La piccolezza della sua mente è una sventura. Grande, omerico sul campo di battaglia, si eclissa nei giorni di pace“.

I suoi libri, non le agiografie ufficiali, sono ancora oggi la testimonianza più vera di quest’ultima affermazione.

1861: le due Italie

di Paolo Mieli

Per questo motivo – al di là delle obiezioni che si possono muovere e che faremo anche in questa sede – va salutata con favore la pubblicazione di 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile di Massimo Viglione, che le edizioni Ares si accingono a mandare in libreria tra qualche giorno. Sono vent’anni che Viglione si occupa di questi temi dedicandosi – con un’ottica da cattolico tradizionalista – da principio a La Rivoluzione francese nella storiografia italiana dal 1790 al 1870 (Coletti) e in seguito alle “insorgenze”, cioè alle rivolte antinapoleoniche negli anni 1796-1815 (Rivolte dimenticate, recita il titolo di un suo testo pubblicato nel 1999 da Città Nuova). Stavolta il libro di Viglione è un utile manuale delle contestazioni al Risorgimento e ai primi decenni dell’Italia unita. Contestazioni non nuove, ripetute anche nel recente volumetto del cardinale (in pensione) Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861-2011 (Cantagalli). Il testo di Viglione è pieno, però, di riconoscimenti a storici di formazione molto diversa dalla sua. Il che si segnala come un gesto inedito e cavalleresco, atto a favorire un confronto civile.

Punto di partenza del libro è che “mai l’Italia fu amministrativamente e politicamente unita dalla preistoria al 1861 (anche nei secoli romani non si può parlare di “unità” nel senso moderno del concetto), ma sempre fu unita nella sua universalità”. Ancora a metà del XIX secolo, quello che oggi è il nostro territorio nazionale “era sempre stato abitato non da un popolo etnicamente unitario, ma da un insieme di popolazioni, unite tra loro esclusivamente dall’elemento religioso e dalla memoria – più o meno pregnante – dell’eredità di Roma imperiale e della sua civiltà”. Per mille e cinquecento anni, dalla fine dell’Impero Romano, aveva scritto Aldo Schiavone (Italiani senza Italia, Einaudi), la Chiesa “si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi alle diverse epoche, le torri e i campanili d’Italia”. L’istituzione religiosa ebbe dunque “la ventura di rimanere l’unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana… Finì con l’assumere perciò un ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale – o almeno di velo – contro l’invadenza straniera”. E, prosegue Viglione, “visto che la religione e la Chiesa cattoliche erano di fatto non solo l’anima dell’italianità, ma anche l’unico concreto elemento unificatore delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale e statuale di tali popolazioni”. E invece…

Invece le cose andarono alla maniera per la quale Viglione riprende la definizione “Rivoluzione italiana”. Nel senso che tra l’altro “l’unificazione avvenne non solo non rispettando, ma andando contro il diritto vigente dei vari legittimi Stati preunitari, che furono infatti conquistati con la violenza e con l’inganno”. E una volta fatta l’Italia ad opera di élites minoritarie, si dovette procedere a “fare gli italiani” come disse Massimo d’Azeglio. Gli uomini del nostro Risorgimento, scriveva Adolfo Omodeo, “operarono essi per il popolo; si adattarono ad essere loro la nazione”. ? vero: da noi, come ha notato Ernesto Galli della Loggia (L’identità italiana, Il Mulino), si è fatta storia alla rovescia; prima si è costituito uno Stato, poi si è dovuto pensare a creare una nazione. E, per giunta, contro la Chiesa. L’Italia, ha scritto ancora Galli della Loggia, si trova ad essere “l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale… L’incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale”.

Ippolito Nievo richiamò la necessità di avvicinare il basso clero alla causa patriottica il che ha provocato, fin dal principio della nostra storia, problemi evidenti. Poco prima di morire, non ancora trentenne, nel misterioso naufragio del piroscafo “Ercole” il 4 marzo del 1861 (dopo aver partecipato all’impresa dei Mille), Ippolito Nievo scrisse alcune riflessioni sulla società italiana, un “frammento sulla rivoluzione nazionale”, che contengono notazioni dalle quali si desume che i problemi connessi al tema trattato in questa sede erano già ben individuabili anche agli albori del nostro Stato unitario. “? tempo di dire la verità e di dirla intera”, scriveva Nievo; “Sì! Questa inerte opposizione o questa muta indifferenza agli sforzi della nostra intelligenza per conquistare i diritti di libertà cova ed opera sordamente nelle nostre plebi. Se ne togliete le poche popolazioni industriali (che sono eccezioni in Italia), la grande maggioranza della nazione illetterata, il volgo campagnolo segue svogliato il progresso delle menti elevate. ? più di peso che aiuto al rimorchio; e, lasciato appena, ricade contento nella propria quiete”. Per cambiare la situazione, a detta di Nievo, sarebbe stato necessario conquistare i preti “funzionari indispensabili nella società attuale, soli rappresentanti della intelligenza” del volgo. Gli artefici dell’Unità avrebbero dovuto quantomeno rivolgersi al clero delle campagne e “tirarlo dalla loro per guerreggiare l’influenza vescovile e papalina”.
Parole che dimostrano, anche in uno scrittore tutt’altro che clericale, una precoce consapevolezza dello stato preoccupantemente minoritario della “rivoluzione italiana”.

Anno d’inizio di questa vicenda è il 1796, quando Napoleone entra in Italia (che non è ancora tale, mancano 65 anni alla proclamazione dello Stato unitario) ed esplode la prima delle guerre civili che caratterizzeranno la storia del nostro Paese.
Da una parte le repubbliche giacobine e democratiche nate sulla scia dell’invasione napoleonica, dall’altra le insorgenze controrivoluzionarie. Il cuore dell’autore batte, ad ogni evidenza, per le insorgenze. Viglione accusa il “giacobinismo” di aver introdotto nella Penisola “non solo lo spirito repubblicano, ma anche l’impronta laicista e anticattolica nonché la tendenza al totalitarismo”, finendo per far venire alla luce “lo spirito antimoderno e tradizionalista di estesi ambienti del mondo cattolico”. Gli italiani che affluirono nelle file dei rivoluzionari, divenendo giacobini, vengono definiti “collaborazionisti dell’invasore” (in effetti lo furono). Li si accusa di essere stati una esigua minoranza a fronte delle masse che si mobilitarono contro l’armata napoleonica (ed è vero che a contrastare qualche migliaio di “giacobini” scesero in campo trecentomila “insorgenti” lasciando sul terreno non meno di centomila morti). Ed è altresì innegabile che in particolare nel 1799, l’anno in cui la “rivoluzione napoletana” fu travolta sotto i colpi dell’Armata della Santa Fede del cardinale Ruffo, fu rovesciata la Repubblica Romana e i “Viva Maria” riconquistarono il Granducato di Toscana restituendolo ai Lorena, la rivolta degli insorgenti “assunse i caratteri di una grande insurrezione generale del popolo italiano contro l’invasore napoleonico e il giacobinismo”. Tema trascurato per decenni, anche se Viglione dà atto all’Istituto Gramsci di aver pubblicato nel 1998 un numero monografico della rivista “Studi Storici” interamente dedicato alla questione, in cui – pur tra molte cautele
– si riepilogano i fatti per come andarono realmente.

A Giuseppe Mazzini viene rimproverato l'”unitarismo accentratore”, di essere stato il “grande ispiratore del totalitarismo italiano” e, riprendendo un giudizio di Sergio Romano, il “cinismo messianico” che lo indusse a (mal)congegnare una serie di complotti di cui, sempre secondo Romano, “troveremo tracce nella storia d’Italia fino ai giorni nostri”. A Vincenzo Gioberti, che pure propose la soluzione neoguelfa – il Pontefice romano a guida di una confederazione degli Stati preunitari – che Viglione considera sarebbe stata la più adatta al nostro Paese, si rinfacciano pagine “di velenosissima critica contro l’odiata Compagnia di Gesù” e lo si accusa di aver ingannato lo stesso Pio IX.

Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878) divenne Papa nel 1846 con il nome di Pio IX.
Si riconosce nel libro che, prima ancora dell’impresa dei Mille, “una certa partecipazione popolare” si ebbe nella prima guerra di indipendenza sia a Milano nelle Cinque giornate, sia nel volontarismo contro l’Austria. Ma la si attribuisce al consenso che papa Mastai, nei primi due anni di pontificato (1846-48), manifestò alla causa risorgimentale. In seguito, dal momento in cui Pio IX ritirò le truppe pontificie dalla guerra contro l’Austria e andò a monte il progetto neoguelfo, dal quale “sarebbe nata un’Italia confederativa cattolica e monarchica, decentrata e tradizionalista che avrebbe senz’altro riscosso il consenso massiccio delle popolazioni italiane legate ai loro legittimi sovrani”, da quel momento tutto andò per il peggio. In questo frangente, scrive l’autore, si produce la “leggenda nera” che descrive gli Stati italiani preunitari come delle mostruosità intollerabili.
Viglione contesta questa descrizione: dà atto a Giuseppe Galasso e alla sua scuola di aver “iniziato a rendere giustizia alla realtà civile del Meridione sotto il Vicereame spagnolo, specie per quel che riguarda il XVII secolo”. Sostiene che, con l’ascesa al trono di Napoli e Palermo, nel 1734, di Carlo di Borbone iniziò una stagione di riformismo illuminato contrassegnata dai nomi di Giannone, Genovesi, Filangieri e Pagano. Vede un degno successore di Carlo in Ferdinando IV, che poi prese il nome di Ferdinando I (1759-1825). Loda anche la modernizzazione dello Stato promossa da Ferdinando II (1830-1859). E riconosce allo studioso Angelo Antonio Spagnoletti, di scuola storiografica diversa dalla sua, di aver scritto nella Storia del Regno delle Due Sicilie (Il Mulino) cose molto sensate.

Viglione enfatizza il ruolo avuto dall’Inghilterra protestante (e sottostima quello della Francia cattolica) nell’aiuto dato a Cavour al momento decisivo, tra il 1859 e il 1860, della costruzione del nostro Stato unitario. ? vero che nella prima metà dell’Ottocento Londra offrì ospitalità a numerosi cospiratori, primo tra tutti Mazzini. ? vero che Palmerston, Russel e Gladstone (il quale in una celebre lettera a Lord Aberdeen il 17 luglio del 1851 si spinse a definire il Regno delle Due Sicilie “la negazione di Dio”) diedero una mano alla causa italiana. ? vero che fu lo stesso Garibaldi a ringraziare, nel 1864 al Crystal Place, gli inglesi per l’aiuto offerto all’impresa dei Mille. ? vero che quando i piemontesi nel 1860 invasero lo Stato pontificio, l’unico Paese che lasciò il proprio ambasciatore a Torino fu la Gran Bretagna e a Londra ci fu chi paragonò Vittorio Emanuele II a Guglielmo d’Orange. Ma che tutto ciò facesse capo a un disegno di “protestantizzazione dell’Italia” è tutt’altro che dimostrato. Gli inglesi, tra l’altro, furono i primi a segnalare quel che non andava in Italia negli anni successivi all’unificazione. Nel 1863 – è ben raccontato nel libro La Rivoluzione italiana di Patrick Keyes O’Clery, pubblicato anch’esso da Ares – il console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle carceri partenopee ancor più atroci dopo l’arrivo dei piemontesi. E, dopo un dibattito parlamentare, l’Inghilterra spedì nell’Italia del Sud Lord Seymour e Sir Winston Barron che confermarono i termini della denuncia. In quello stesso anno, sempre nel Parlamento inglese, Disraeli disse: “Desidero sapere in base a quale principio ci occupiamo delle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. ? vero che in un Paese gli insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho appreso da questo dibattito nessun’altra differenza”. E, quando nel 1867 il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di Mentana e la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che gli abitanti lo avevano accolto come “un liberatore” anche perché “erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati”. Ugualmente sovradimensionato nel libro è il ruolo che nel Risorgimento ebbero i protestanti. Ruolo che pure ci fu e che è stato efficacemente descritto da Giorgio Spini. Così come esagerata appare la rappresentazione degli influssi sul Risorgimento (anche questi, certo, ben presenti) della massoneria.
Particolarmente energico è, invece, il paragrafo del libro dedicato alla farsa dei plebisciti che, con percentuali del 98 per cento, consacrarono l’italianità dei territori annessi. Viglione mette in rilievo come il voto che contestualmente fece diventare francesi Nizza e la Savoia ebbe le stesse caratteristiche. In Savoia i favorevoli all’annessione furono 130.533 contro 235, nonostante una petizione che avversava l’annessione della Savoia stessa alla Francia avesse raccolto ben 13 mila firme.

Efficace è altresì la parte che descrive la conquista del Sud, l’aiuto dato a tale conquista dalla malavita organizzata, la corruzione che si diffuse negli anni immediatamente successivi all’unità, la brutalità della repressione del “brigantaggio” ad opera del generale Cialdini: il computo dei morti non offre cifre sicure e definitive; è certo, però, che il loro ammontare fu superiore, e di molto, a quello dei caduti in tutti, proprio tutti, i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870. E dire che tutto era chiaro già da allora come si desume dalla denuncia al Parlamento italiano (novembre 1862) di Giuseppe Ferrari: “Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli… ? possibile, come il governo vuol far credere che millecinquecento uomini comandati da due o tre vagabondi possano tenere testa a un intero regno, sorretto da un esercito di centoventimila regolari? Perché questi millecinquecento devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di cinquemila abitanti (Pontelandolfo, ndr) completamente distrutta! Da chi? Non dai briganti”.

Altrettanto forte è la parte del libro dedicata alla “guerra legislativa” contro la Chiesa. Sono cose abbastanza conosciute (se ne è molto occupata negli ultimi anni Angela Pellicciari) ma fa una certa impressione ripercorrere la lunga storia di leggi d’esproprio, istituti di assistenza soppressi, ordini religiosi aboliti, seminari, conventi, monasteri chiusi da un giorno all’altro, preti, vescovi e cardinali costretti all’esilio o messi in carcere. La gazzarra nel luglio del 1881 per gettare nel Tevere la salma (“la carogna”, puntualizzò il giornale repubblicano “La Lega della Democrazia”) di Pio IX appena defunto. La destituzione del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che il 30 dicembre del 1887 era andato in Vaticano a presentare gli auguri della cittadinanza a Leone XIII.

Il problema del rapporto tra Chiesa cattolica e moto nazionale italiano venne posto da Vincenzo Gioberti (nella foto) con la proposta di creare nella penisola una confederazione presiedu
ta dal Pontefice Ancora da approfondire il rapporto tra la storia del Risorgimento e quella del fascismo su cui pure Emilio Gentile (nei confronti del quale Viglione ha parole di grande elogio) ha dedicato pagine molto acute ne La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel XX secolo (Mondadori). Viglione scrive di non voler affermare che la dittatura fascista sia “l’inevitabile conseguenza del Risorgimento, anche perché il determinismo non appartiene alla nostra concezione storica e religiosa”. Ma, aggiunge, “certamente non è più possibile continuare a ritenere che il fascismo sia stato qualcosa di estraneo – o addirittura di opposto – al Risorgimento”. E sono pagine destinate a far discutere…

Corriere della Sera, 8 marzo 2011

L’Unità d’Italia, l’americanata

Partiamo da una premessa: l’Unità d’Italia storicamente è stata, ad esser buoni, una schifezza. Non lo dicono anime secessioniste né storici “revisionisti”, bensì coloro che, quell’unità, hanno contribuito in prima a persona a farla. Giuseppe Garibaldi, per esempio, ad Italia unita ammise che «gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali» furono «incommensurabili» e specificò che, se gli fosse stato chiesto di replicare le sue imprese, avrebbe rifiutato «temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».

Come mai Garibaldi, l’Eroe dei due mondi, era colto da simili timori? La risposta ce la offre, in una lettera inviata a Vittorio Emanuele II nel 1861, Napoleone III: «I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno». Suggestioni francesi? Nient’affatto. Anche Antonio Gramsci definì lo Stato italiano «una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infangare col marchio di briganti». Più chiaro di così. E pure Montanelli, che non fu mai troppo duro nel giudicare il Risorgimento, riconobbe che il Risorgimento «assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola». Basti ricordare, su tutti, un dato eloquente: nel 1861, solo il 2,5% degli abitanti della nostra penisola – 600mila persone, di cui 400mila toscani – parlava italiano e la lingua ufficiale della Corte sabauda era il francese.

E dire che recentemente Roberto Benigni – pagato 5.000 euro al minuto – ha sostenuto che l’unità d’Italia sarebbe stato un processo popolare, nato “dal basso”. Si certo, come no. Forse ha letto un libro di favole, perché sono molti coloro che hanno visto nell’Italia unita ben altro che un glorioso processo popolare. Scrisse Fëdor Dostoevskij: «È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale». Ma la cosa più interessante – e meno nota ai più – dell’Unità d’Italia è che fu un’americanata. Ma sì, avete letto bene: senza la manina a stelle e strisce l’unificazione del nostro Paese non sarebbe stata la stessa.

La prima incursione attiva degli yankees in Italia fu a ridosso del 1848, quando gli americani coprirono la fuga di Mazzini da Roma fino a concedendogli un passaporto americano. Non male, anche se il vero capolavoro americano si realizza grazie alla politica liberista di Cavour, in conseguenza della quale l’esportazione monetaria a stelle e strisce in Piemonte cresce dai 300.000 dollari del 1851 ai 3.000.000 del 1859. Una decuplicazione resa possibile dal sostegno delle varie lobbies, dalla Massoneria, dai banchieri e dalla Young America, una influente associazione di impronta mazziniana. Tutte realtà, insomma, che con gli italiani di allora c’entravano assai poco, per non dire nulla.

Ulteriori tracce dell’interesse americano per l’Unità d’Italia sono rinvenibili nelle notevoli “donazioni” che la città di New York elargì alla causa garibaldina attraverso l’invio di armi, provviste e denaro per circa centomila dollari. Lo stesso Samuel Colt rifornì l’Eroe dei due mondi con le sue preziose armi. Un legame, quello con Garibaldi, che gli americani non hanno mai rinnegato, al punto che il 23 luglio 2007 l’Amministrazione delle Poste statunitensi, in occasione del bicentenario della nascita dell’Eroe dei due mondi, impresse l’immagine di Giuseppe Garibaldi, con la sua tradizionale giubba rossa, su un valore bollato da 41 centesimi. A questo punto non ci sono dubbi: l’Unità d’Italia, per com’è stata fatta (e finanziata), fu davvero un’americanata. Anche se la maggior parte degli italiani e di americani ne fu (e ne é) all’oscuro.