Protestanti all’attacco

“Quanti sono in Torino, o nell’Italia in genere, tra il 1849 e il 1860, a domandarsi se proprio quel problema della riforma religiosa non stia diventando il problema capitale della situazione italiana?”: a scrivere così è lo storico protestante Giorgio Spini in Risorgimento e protestanti. Spini ha pienamente ragione nel mettere in evidenza la grande aspettativa che accompagna in tutto il mondo protestante il risorgimento delle sorti italiane. Anglicani, luterani, calvinisti, tutti sperano che la Riforma rigidamente fermata al di là delle Alpi possa finalmente valicare la catena montuosa: “l’Italia è già circondata da una sorta di assedio protestante -scrive Spini-, stesole attorno dall’episcopato anglicano, dal presbiterianismo scozzese e dall’evangelismo “libero” di Ginevra e Losanna, con un appoggio anche dal protestantesimo americano”. Non è un caso che la breccia di Porta Pia nel 1870 sia varcata per prima da un carretto di Bibbie protestanti trainato da un cane dal nome eloquente: Pio IX.

La pubblicistica protestante ha sempre rivolto alla chiesa cattolica accuse infamanti: intollerante, oscurantista, corrotta, fideista, superstiziosamente attacca al culto di Maria e dei santi. Last but not least persecutrice dei protestanti e conculcatrice dei loro diritti. E allora raccontiamo un episodio che va controcorrente. E che documenta non la persecuzione dei protestanti ma quella dei cattolici. Per farlo ricorriamo a L’Armonia, il coraggioso quotidiano subalpino fondato e diretto dal battagliero sacerdote Giacomo Margotti. L’11 dicembre 1855 l’Armonia sferra un violentissimo e circostanziato attacco alla politica filo-protestante del governo Cavour che ha appena deciso un’ingiusta soppressione della congrua di 928.412 lire, dovuta al clero in parziale risarcimento delle spoliazioni perpetrate da Napoleone. In quella somma sono comprese 6.462 lire destinate da Napoleone alla sovvenzione del culto valdese. Per evitare che i valdesi restino senza sovvenzioni al loro culto, il 17 novembre 1855 Cavour propone alla Camera l’istituzione di una nuova voce di spesa (la 22 ter) “per ripristinare in bilancio la spesa di L. 6.462 30, già iscritta nel bilancio del 1854, e precedenti, per l’assegnamento dovuto ai valdesi, onde provvedere alle loro spese di culto. Questo debito era compreso nella somma di L. 928,412 30 per ispese ecclesiastiche, eliminate dal bilancio a partire dal 1855”. I valdesi del Regno di Sardegna sono circa ventimila a fronte di una popolazione cattolica di quattro milioni e mezzo: invece di sopprimere, contestualmente a quella cattolica, anche la sovvenzione ai valdesi -come logica avrebbe voluto- Cavour vuole che i cattolici, privati di ogni pur dovuto contributo statale, mantengano con le loro tasse i valdesi e il loro culto. ? quanto afferma L’Armonia e non sarà facile darle torto.

Don Margotti così commenta il comportamento del governo: “L’usanza è ricavata dall’Inghilterra, dove i cattolici debbono pagare pel culto protestante”. Qualche giorno dopo il teologo torinese torna alla carica per smascherare “coloro che gridano alla tirannia, all’intolleranza dell’assolutismo. Dove sono dunque que’ clericali intolleranti, che governavano sotto Vittorio Emanuele I, Carlo Felice e Carlo Alberto?”. I sovrani assoluti hanno dato all’esigua minoranza valdese una sovvenzione che la maggioranza di governo vuole ora togliere alla quasi totalità della popolazione cattolica, pur garantita dal primo articolo della costituzione. Da che parte sta l’intolleranza? “Il soccorso tolto ai cattolici, e dato ai valdesi”, continua don Margotti, indica persecuzione del cattolicesimo. Indica un’intolleranza verso i cattolici “da cui andò immune il governo assoluto” riguardo ai valdesi; “indica un’opposizione ai principii medesimi professati dal governo intorno alla libertà dei culti e all’eguaglianza civile e religiosa dei cittadini. Indica un’ingiustizia inaudita”. Per completare il quadro L’Armonia pubblica, “senza tanti commenti”, un manifesto comparso il 7 dicembre nel comune di Verrès (nella zona di Aosta) sottoscritto dal sindaco.

Nell’Avviso al pubblico si legge: “Si sa che la classe ecclesiastica desidera solennizzare l’anniversario della festa che si chiama dell’Immacolata, colla massima pompa possibile, sia con illuminazione, sia con fuochi di gioia. Attesoché quest’illuminazione, e queste dimostrazioni potrebbero dar luogo a vie di fatto contro coloro che non volessero disporsi ad illuminare le loro finestre: Il sottoscritto, d’ordine dell’autorità superiore, affine di prevenire qualunque turbamento, che potesse risultare da queste dimostrazioni, invitando il pubblico ad astenersene, notifica che è rigorosamente proibito a chiunque di fare fuochi di gioia, e di fare dei colpi, sia coi mortaretti od altrimenti”. Pena l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 732 del codice penale. I governanti sabaudi pubblicizzano il Piemonte come stato liberale e costituzionale: come regno del diritto e dell’uguaglianza non c’è male davvero.

La morale progressista di Cavour.

Camillo Cavour è il protagonista indiscusso del nostro Risorgimento. Senza di lui, senza la sua genialità sregolata, senza il suo opportunismo, il suo cinismo e la sua assoluta mancanza di scrupoli, molto probabilmente la storia avrebbe preso un altro corso. Vediamo allora quali sono le convinzioni profonde, morali ed ideali, del nostro primo presidente del Consiglio. Per farlo cominciamo ad esaminare un saggio che scrive nel 1846 riguardante la situazione delle ferrovie in Italia.

Cavour è convinto che puntare sulle ferrovie sia la strada migliore per garantire lo sviluppo morale ed intellettuale della popolazione. Ecco cosa scrive: “La vita intellettuale delle masse ruota intorno ad un numero di idee molto ristretto. Fra le idee che sono in grado di acquisire, le più nobili ed elevate sono fuor di dubbio, dopo quelle religiose, le idee di patria e di nazionalità. Se al momento attuale le circostanze politiche del paese impediscono a queste idee di manifestarsi oppure imprimono loro una direzione funesta, le masse resteranno sprofondate in un deplorevole stato di inferiorità. Ma non è tutto: presso un popolo che non può andare fiero della propria nazionalità, il sentimento della dignità personale non esisterà che eccezionalmente presso alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili nella sfera sociale, per acquisire la coscienza della propria dignità, hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale. Se desideriamo con tanto ardore l’emancipazione dell’Italia, è non solo per vedere la nostra patria gloriosa e potente, ma soprattutto perché possa elevarsi nella scala dell’intelligenza e dello sviluppo morale fino al livello delle nazioni più civilizzate”. Ritenendo che moralità ed intelligenza dei cittadini siano direttamente proporzionali alla potenza dello Stato in cui vivono, Cavour auspica una radicale inversione di rotta rispetto alla storia nazionale. Stato forte e potente: tradotto in parole povere è questo che vogliono i liberali.

In polemica ed in contrasto con la storia dell’Italia cattolica profondamente segnata dalla presenza dello Stato della Chiesa che (grazie alla totale assenza di obiettivi di potere e di conquista e grazie al prestigio internazionale di cui gode) garantisce ai suoi abitanti più di mille anni di pace, questo significa in concreto prendere parte alla corsa alle colonie che occupa tanta parte della storia dell’ottocento. Il pensiero liberale è fin dall’inizio indirizzato all’espansionismo e il primo frutto di quell’espansionismo è proprio la realizzazione dell’unificazione della penisola sotto il Piemonte. L’avventura di Crispi in Africa, il nazionalismo d’inizio secolo, il desiderio di potenza che porta il paese al dramma della prima guerra mondiale, la politica mussoliniana, sono da questo punto di vista in perfetta sintonia con le posizioni espresse dal nostro primo presidente del Consiglio. Sempre interessato al miglioramento della morale popolare, il conte si preoccupa anche di come la gente comune spenda il proprio tempo libero.

Il moralista Cavour è convinto che al popolo lavoratore faccia bene lavorare. E non pensare troppo perché fa male. Con la concretezza che lo contraddistingue si domanda cosa la povera faccia nei giorni di festa: siamo sicuri che nei giorni di riposo i poveracci vivano la loro festa cristianamente? Non saranno troppe le tante feste del calendario cattolico? “Io penso -sostiene alla Camera il 9 marzo 1850- che un soverchio numero di feste torni fuor misura nocevole alle classi operanti perché siffatte feste straordinarie non si dedicano per lo più al riposo, ma si spendono in quella vece in sollazzi e mali altri usi”. Quale il rimedio? Perché la morale trionfi bisogna diminuire il numero delle feste. Detto fatto.

Torino: la nuova capitale morale.

Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova ed impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento.

Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa la nuova capitale religiosa d’Italia. Diventa, anzi, la capitale religiosa per antonomasia: Torino diventa Gerusalemme. Il paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: “Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande – bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano il corredo di nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme”.

A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Ma?on, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai “fratelli” italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla “carissima amica” Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. “Arrivati appena a Torino – scrive – stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre finestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni di affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re”.

L’accoglienza “regale” offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali -protestanti e massoni di tutto il mondo- che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene. I Savoia per amore di regno e quindi per furto -come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi- diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola. L’anima massonica del regno sardo, ed in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluriscomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di Stato.

L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la “fraternità” quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità. Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi -osserva il deputato- sono nati in Italia dove esistono da “più di 12 secoli”. Bisogna dedurne che “necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)”.

La rivoluzione romana del 1848.

Ci è stato insegnato che nel 1849 la popolazione romana oppressa dal millenario giogo pontificio risorge a nuova gloria sotto la guida di un triumvirato (Mazzini, Saffi, Armellini) che le ridona la libertà. Quello che è certo è che gli uomini che hanno liberato la città eterna erano tutti, o quasi, rigorosamente stranieri. Il fatto è strano.

Come si fa a ritenere che il genovese Mazzini, il nizzardo Garibaldi, il genovese ministro della guerra Avezzana, il friulano Dall’Ongaro direttore del giornale ufficiale “Monitore Romano”, il napoletano Saliceti redattore della Costituzione (l’elenco è lungo) e tutti i rivoluzionari che da ogni dove calano a Roma, possano occuparsi delle città eterna con più lungimiranza del papa e dei romani? Questo paradosso si spiega tenendo presente che Roma rappresentava (e per molti ancora oggi rappresenta) non una città con la sua concreta realtà ma una Idea, un ideale universale. Mazzini lo dice a chiare lettere: a chi dice “Roma è dei Romani”, bisogna rispondere: “No; Roma non è dei Romani: Roma è dell’Italia: Roma è nostra perché noi siamo suoi. Roma è del Dovere, della Missione, dell’Avvenire”.

E quelli che non sono d’accordo? quelli che sono e vogliono restare cattolici, cioè quasi tutti? “I Romani che non lo intendono non sono degni del nome”. Nello scritto redatto Per la proclamazione della Repubblica Romana Mazzini proclama: “Roma, la Santa, l’Eterna Roma, ha parlato”. Cosa ha detto Roma per bocca di Mazzini, suo profeta? Che è ora che il potere non spetti più ai papi ma appartenga per intero ai migliori: “Noi vogliamo porre a capo del nostro edifizio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù”. Va da sé che Mazzini ritiene sé stesso il migliore dei migliori. E infatti: “Mazzini era tutto, regolava tutto. Egli era in trono; papa, re, negoziatore, legislatore, cospiratore supremo, e tutto e tutti ai suoi ordini obbedivano”, racconta lo storico romano contemporaneo Paolo Mencacci. I rivoluzionari dell’Ottocento sono assolutamente certi, proprio come i loro successori del XX secolo, di avere ragione. Scrivendo nel lontano 1832 Mazzini esprime bene questa convinzione: “LE RIVOLUZIONI, generalmente parlando, NON SI DIFENDONO CHE ASSALENDO […] se non è guerra d’eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e vilmente!”. Dalle parole ai fatti. Pio IX, da Gaeta dove è fuggito, descrive la situazione romana in termini drammatici. I rivoluzionari, ricorda, sbandierano ai quattro venti di volere la libertà per tutti ed in particolare per la chiesa.

Ebbene, commenta, questi sono i fatti: è impedita al pontefice ogni tipo di comunicazione vuoi col clero, vuoi con i vescovi, vuoi con i fedeli di Roma; la città si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo pieni di odio nei confronti della Chiesa; i liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati. Questa la libertà che viene realizzata. Le società segrete, prosegue Pio IX, non si limitano a perseguitare la Chiesa, mettono in pericolo l’ordine e la prosperità della società civile: l’erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo. Il papa mette in guardia i cattolici: il vero fine delle società segrete (che non esitano ad utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) è la totale distruzione della Chiesa cattolica. I rivoluzionari accorsi a Roma da ogni dove, duramente condannati dal papa, godono dell’appoggio della popolazione? A leggere quanto scrive Luigi Carlo Farini, personaggio di primo piano del mondo liberale e futuro presidente del Consiglio, sembrerebbe proprio di no.

Ne Lo stato romano dall’anno 1814 al 1850 Farini scrive: “Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie”. La situazione nel contado è diversa, più favorevole ai repubblicani? A giudicare dalle Memorie di Garibaldi sembra proprio di no. Scappando da Roma dopo l’intervento delle truppe francesi che riportano Pio IX in città, il generale così descrive l’accoglienza della popolazione: “mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte[…] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma”. Cosa fanno, poi, i rivoluzionari che disertano? “I gruppi di disertori si scioglievan sfrenati per la campagne e commettevano violenze d’ogni specie”. Bisogna dirlo: la libertà che trionfa nella Roma del 1849 è la libertà di quanti non vogliono più che la Rivelazione -e la chiesa che la interpreta- mettano freni o limiti alla volontà di potenza di quanti si ritengono “illuminati”.

Stato federale o stato centralizzato?

Stato federale o stato centralizzato? Un dibattito che ha appassionato per più di un secolo la nostra storiografia nazionale, potrebbe avere un contributo decisivo dall’analisi delle discussioni del parlamento subalpino relative alla soppressione delle Dame del Sacro Cuore di Gesù.

Andiamo con ordine. La lotta contro gli ordini religiosi cominciata coi gesuiti segue il suo corso naturale. Se i gesuiti sono appestati e quindi contagiosi, è inevitabile che si ammalino di peste anche quanti vengono a contatto con loro. Nelle intenzioni degli illuminati liberali il piano è coerente: con la scusa del contagio tutti gli ordini religiosi della chiesa cattolica (pur definita dallo Statuto unica religione di stato) possono venire aboliti uno dopo l’altro come in un domino inarrestabile. In questo contesto un rilievo tutto particolare -anche per l’importanza della discussione che occupa il parlamento per tre mesi di fila- assume il caso delle Dame del Sacro Cuore di Gesù, definite “gesuitesse”.

Si tratta di una ventina di suore che a Chambéry reggono una scuola prestigiosa, accusate di “affiliazione gesuitica”. Per farsi un’idea della serietà delle imputazioni addotte contro le suore basti citare un brano dell’intervento del loro principale accusatore, l’avvocato Cesare Dalmazzi. “E’ noto -afferma Dalmazzi- che queste Dame, giustamente chiamate gesuitesse, sono dirette dallo stesso principio [dei gesuiti] che ne sono totalmente dipendenti, e che per loro mezzi s’infondono nel cuore delle alunne sentimenti politici e pratiche religiose che non vanno d’accordo con quelli che debbono dominare in un generoso sistema di educazione. La tolleranza loro non è cosa che debba essere approvata dalla Camera. Se si lascia la male sequenza gesuitica in un luogo dello Stato, essa si spanderà presto come la gramigna nel rimanente del paese”. Nel 1848 un capo d’accusa come questo equivale alla sicura emissione di una condanna a morte. E infatti i parlamentari votano per la soppressione dell’ordine incriminato. Se non che le suore di Chambéry hanno dalla loro tutta la popolazione -liberali compresi- e i deputati savoiardi difendono in parlamento la presenza delle suore a casa loro con argomenti che paiono incontrovertibili. Come si può sostenere di volere la libertà mentre la si nega ad “una ventina di suore”? Afferma Jacquemoud. Vogliamo forse la libertà solo per noi stessi e per le nostre idee senza rispettare quelle degli altri? Si domanda Costa de Beauregard.

E soprattutto, continua, “Perché rifiutare alla Savoia la capacità di apprezzare quello che le conviene?”; “i savoiardi sono convinti di avere abbastanza discernimento per decidere cosa convenga loro”, osserva Jacquemoud. Esasperati dalla sordità della maggioranza alle ragioni della regione che rappresentano, i deputati savoiardi invocano una consultazione popolare. La proposta sembra ineccepibile ma non viene nemmeno presa in considerazione. Perché? perché, come ricorda il Ministro della pubblica istruzione Carlo Boncompagni, “dalle informazioni che ci mandano le autorità preposte all’insegnamento in Savoia consta che veramente queste corporazioni hanno per sé l’opinione pubblica; abbiamo su questo informazioni di persone di diverse opinioni”. Con quali motivazioni la maggioranza piemontese può ignorare le sacrosante proteste (suffragate fra l’altro da petizioni sottoscritte da moltissime persone, comprese tutte quelle che contano) di un’intera regione che difende un bene primario come l’istruzione? I deputati sostengono che si tratta di una questione di principio, tale quindi da non poter transigere al riguardo. La questione di principio -che la popolazione della Savoia non capisce ma che è perfettamente chiara all’1% della popolazione di fede liberale- è che i gesuiti, e quindi le Dame, debbono essere soppressi perché altrimenti non è possibile che si sviluppino i “principi liberali”. Qualche anno dopo sarà sempre la stessa motivazione ad imporre la costituzione di uno stato centralizzato. Lasciati a sé stessi gli italiani non avrebbero capito la pericolosità degli ordini religiosi della chiesa cattolica. Lasciati a sé stessi e alle proprie superstizioni gli italiani avrebbero continuato ad essere cattolici. Si trattava di convincere la popolazione a cambiare cultura, tradizioni e religione. L’immane compito che la classe liberale si attribuiva non poteva essere conseguito senza la ferrea imposizione di uno stato rigidamente centralizzato.

In nome della libertà, morte ai Gesuiti

Con la proclamazione dello Statuto albertino il 4 marzo 1848 comincia, in Piemonte, il regno dell’uguaglianza, del diritto e della libertà.

Fatto sta che mentre il primo articolo dello Statuto definisce la “Chiesa cattolica apostolica e romana la sola religione di stato”, il parlamento subalpino scatena una guerra senza frontiere contro la Compagnia di Gesù. Come se i gesuiti non fossero cattolici, apostolici e romani. Per capire questa vistosa incongruenza bisogna tenere presente che la guerra scatenata dal mondo protestante e massonico contro la chiesa cattolica ha nei gesuiti l’avversario principale e più temibile. Per combattere l’eccellenza dei gesuiti (nati proprio per contrastare la riforma protestante) la calunnia è sempre sembrata l’arma più appropriata. Nel 1614 vengono stampati a Cracovia i Monita privata Societatis Jesus: supposte istruzioni segrete, radicalmente false, che i gesuiti avrebbero seguito per conquistare non il mondo a Cristo, ma il potere alla Compagnia. Da allora per i gesuiti (salvo curiosamente negli ultimi decenni) non c’è mai stata tregua.

Interessante da questo punto di vista la lettera che il generale dell’ordine, padre Giovanni Roothaan, invia il 25 agosto del 1850 all’imperatore Francesco Giuseppe per spiegargli l’origine dell’odio che circonda la Compagnia. Secondo padre Roothaan la macchinazione parte da quella che definisce una “empia setta”: “per riuscire nei suoi disegni disastrosi, l’empia setta, alla quale è stato dato di prevalere un istante, si è sforzata soprattutto di combattere e di distruggere i sentimenti religiosi nei paesi cattolici, e a questo fine essa ha attaccato in primo luogo gli ordini religiosi, nella cui esistenza essa individuava un ostacolo alle sue mire. Ma tra tutti gli ordini religiosi quello che più eccitava il suo furore, quello di cui essa si sforzò con ogni mezzo di rendere financo il nome odioso a tutti i popoli e a tutte le classi della società, è notoriamente la Compagnia di Gesù”. I liberali italiani si inseriscono in questo filone collaudato che si accanisce contro i gesuiti per colpire la chiesa. Le istruzioni di Mazzini al riguardo sono precise. Bisogna sfruttare al massimo la potenza delle parole: “Vi sono parole generatrici che contengono tutto- scrive l’avvocato genovese-, e che devono ripetersi al popolo: libertà, diritti dell’uomo, progresso, eguaglianza, fratellanza; ecco quello che il popolo comprenderà, soprattutto quando vi si contrapporranno le parole di dispotismo, di privilegi, di tirannia, di schiavitù”.

Chi è più dispotico, chi più tiranno dei gesuiti? “La potenza clericale -continua- è personificata nei Gesuiti; l’odioso di questo nome è una potenza pei socialisti”. E così, mentre l’esercito combatte una guerra rovinosa contro l’Austria, il parlamento subalpino passa il tempo ad accumulare “prove” contro i figli di S. Ignazio. Definiti i gesuiti “lue”, “peste”, “vespe”, “setta fatale”, deputati e senatori sanzionano la soppressione della Compagnia, espropriano tutti i beni dell’ordine e costringono i padri al domicilio coatto non perché rei di qualche colpa ma perché membri di un ordine religioso considerato pericoloso per la libertà. Perseguitati, cacciati dalle proprie case, espropriati di tutto, i gesuiti non possono nemmeno difendersi dalle calunnie lanciate dalla stampa ufficiale perché i giornali governativi non pubblicano le smentite. Ecco cosa scrive il 25 gennaio 1848 a Carlo Alberto il provinciale dei gesuiti piemontesi padre Francesco Pellico: “Era sapientemente dichiarato da V.[ostra] M.[aestà] nella nuova legge sulla stampa che dovesse rimaner inviolato l’onore delle persone e dei ministri della Chiesa.

Ma pare che nell’avvilire e calunniare i Gesuiti non si tema di trasgredire la legge”. I padri sono “esposti per la sola qualità di Gesuiti al pubblico odio o alla diffidenza e al dispregio. Intanto però i giornali ed i libelli che ci fanno la guerra, approvati in ciò dalla censura, hanno diritto di rifiutare le nostre smentite; né tuttavia abbiam noi un altro organo imparziale da stamparle con uguale pubblicità, se pure non ci venga concesso di farlo per via della gazzetta del Governo”. I Savoia e i liberali violano uno dopo l’altro tutti i principali articoli dello Statuto, compreso l’articolo 28 che tutela la libertà di stampa: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”.

La noia di D’Azeglio.

“Re galantuomo”, “l’Italia è fatta, si tratta di fare gli italiani”, queste parole d’ordine, questi motti incisivi, perfetti dal punto di vista della propaganda, sono il frutto di un’intelligenza brillante e di una fantasia disinvolta: quelle del cavaliere Massimo D’Azeglio, uno dei principali protagonisti dell’epopea del nostro risorgimento nazionale.
Pittore, romanziere, genero di Manzoni, membro della migliore aristocrazia piemontese, amico di tutti i massimi governanti d’Europa, Massimo D’Azeglio è l’uomo che può riuscire dove altri hanno fallito. Così pensa la massoneria. Dopo i disastrosi tentativi insurrezionali di carbonari e mazziniani, si impone un cambiamento di strategia: bisogna puntare su un uomo moderato, ufficialmente conosciuto come cattolico, che dia alla strategia rivoluzionaria un’apparenza di riformismo e, sotto questo camuffamento, riesca dove tutti gli altri hanno fallito.
Narcisista come pochi, è lo stesso D’Azeglio a raccontare l’episodio del suo incontro romano col “settario” Filippo. Il compito che la massoneria affida a D’Azeglio non è semplice. Si tratta di convincere l’antico cospiratore Carlo Alberto a farsi promotore della lotta per la libertà e l’indipendenza della penisola e si tratta anche di convincere i vari ‘fratelli’ sparsi per l’Italia centro-settentrionale a fidarsi di lui. Il problema è serio perché già una volta (in occasione dei moti del 1821) Carlo Alberto in un primo momento aderisce alla cospirazione ma poi si tira indietro e tradisce.
D’Azeglio svolge brillantemente il compito affidatogli. La motivazione utilizzata per convincere i “fratelli” è davvero azzeccata: quando il ladro ruba per sé, si può star certi che faccia sul serio. Bisogna aver fiducia in Carlo Alberto, sostiene. Capeggiare la rivoluzione italiana è nel suo interesse perché alla fine dell’impresa avrà un regno immensamente più grande e prestigioso.
D’Azeglio inizia così quella che con brillante giro di parole battezza “congiura all’aria aperta”. La congiura, dopo tanto sangue sparso inutilmente, invece delle armi si serve della penna. L’arma prescelta, la penna della pubblicistica e della propaganda, è puntata contro l’Austria e contro lo stato pontificio accusati di essere la quintessenza dell’oppressione liberticida e del malgoverno.
E’ davvero tanto insopportabile la vita negli stati preunitari? A tener conto di come la descrive lo stesso D’Azeglio ne I miei ricordi non sembrerebbe. “Qual è l’opinione -scrive-, l’idea, il pensiero che non si possa dire o stampare oggi in Italia, e sul quale non si possa discutere e deliberare? Qual è l’assurdità o la buffonata, o la scioccheria che non si possa esporre al rispettabile pubblico in una sala o su un palco scenico di qualche teatrino (pur di pagar la pigione s’intende) col suo accompagnamento di campanello, presidente, vice presidente, oratori, seggioloni, candelieri di plaquè, lumi, ec. ec.? Basta andar d’accordo col codice civile e criminale; del resto potete a piacimento radunarvi, metter fuori teorie politiche, teologiche, sociali, artistiche, letterarie, chi vi dice niente?”.
Il torinese D’Azeglio, per di più, non sopporta la tetraggine bacchettona della Torino sabauda: “ed io, un odiatore di professione dello straniero, lo dico colla confusione più profonda, se volevo tirar il fiato, bisognava tornassi a Milano”. E allora perché? Perché D’Azeglio si impegna con tanta tenacia nella “congiura” all’aria aperta? Perché tanta fatica spesa per organizzare una campagna di disinformazione e di odio contro il papa e contro l’imperatore austriaco? Per vincere la depressione. Questa la candida ammissione del cavalier D’Azeglio: “per aver modo di passar la malinconia -scrive ne I miei ricordi-, e finalmente il mio gusto per la vita d’avventure e d’azione”.
Alle motivazioni ufficiali che nel 1861 rendono possibile la nascita del Regno d’Italia -oltre all’unità alla libertà e all’indipendenza per intenderci-, ce n’è un’altra da non sottovalutare: la noia.

La lega federale.

La Lega federale Chi per primo lancia l’idea di una lega federale fra i vari stati che compongono la penisola italiana? Strano a dirsi, ma è il famigerato Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie.

Nel novembre del 1833, tramite il proprio ambasciatore a Roma conte Ludorf, Ferdinando II invita Gregorio XVI a farsi promotore di una Lega difensiva e offensiva fra i vari governi italiani per tutelare la religione, i troni e l’ordinamento sociale minacciati dal liberalismo, vale a dire dalla rivoluzione. Visti gli immediati precedenti storici -Napoleone e Murat-, si tratta anche di agire di comune accordo “verso quelle potenze straniere che sconsigliatamente volessero cooperare a favorire in un caso estremo gli sforzi dei medesimi settari”. La risposta del papa arriva per mano del cardinal Bernetti, segretario di stato, il 6 dicembre dello stesso anno. Gregorio XVI apprezza la proposta e le intenzioni di re, ma non può far propria l’iniziativa perché “il carattere sacro di padre comune” impedisce al papa, “supremo gerarca di nostra santa religione”, di “suonare la tromba di guerra od eccitare alle armi”. Le difficoltà cui accenna Gregorio XVI sono comprensibili, eppure l’idea della Lega si fa strada all’interno della Chiesa e nel cuore di Pio IX, successore di Gregorio XVI.

Mastai Ferretti appoggia la costituzione di una Lega doganale, punto di partenza per un’unione federale e, dietro al papa, è praticamente tutta la Chiesa a promuovere e sostenere l’unificazione italiana attraverso un processo federale. Ecco con quale slancio, nel 1848, l’influente gesuita Giuseppe Romano parla della Lega in La causa dei gesuiti in Sicilia: “La Lega! il sospiro di tanti anni, il voto unanime de’ popoli italiani. La Lega federativa è diretta a tutelare a ciascuno dei popoli federati i suoi diritti, gl’istituti, le proprietà, le franchigie. La Lega ritenendo tutti i vantaggi che dà ad ogni stato la sua autonomia, aggiunge al loro aggregato tutta la forza che mancherebbe a ciascuno di essi per costituirsi in nazione grande, ricca, commerciante, prosperevole e temuta”. La Lega, a parole da tutti auspicata, non si realizza perché sulla sua strada si frappone un ostacolo insormontabile: Carlo Alberto di Savoia. Il Re di Sardegna ha l’ambizioso progetto di “fare da sé”. Incurante delle più elementari norme di diritto internazionale, vuole diventare re d’Italia lui solo. Il 2 giugno 1846, il ministro degli esteri dello stato sardo, conte Clemente Solaro della Margarita, indirizza a Carlo Alberto un Memorandum per mettere in guardia Sua Maestà dai pericoli che la politica liberale può comportare per il suo governo: “La corona d’Italia sarà una corona mal acquistata che presto o tardi sfuggirà dalle mani di chi se ne sarà impadronito con un progetto politico opposto a quello voluto da Dio”.

Solaro ricorda a Carlo Alberto di essere il primo ad augurarsi l’accrescimento del “potere” e dei “domini” di Casa Savoia, purché questo avvenga “senza lesione di giustizia”. Il benservito a Solaro della Margarita, dopo undici anni di fedele servizio, è il più chiaro segno che Carlo Alberto ha rotto gli indugi: Casa Savoia fa proprio il progetto massonico dell’unità nazionale sotto la bandiera liberale. Buon profeta Ferdinando II di Borbone. Quanto da lui paventato diventa realtà: una casa regnante italiana si fa paladina, oltre che delle proprie, delle esigenze di potere di Fracia ed Inghilterra, massime potenze liberali dei tempi.

Risorgimento e congressi scientifici.

L’invasore Napoleone si muove nel nome della scienza. Quello che fa, lo fa per liberare i popoli dal giogo dell’oppressione e dell’ignoranza. Napoleone ritiene giunto il momento in cui tutti debbano riconoscere la bontà, la scientificità ed il valore dei principi massonici da lui incarnati.

E’ così che dovunque arriva li propaganda nel nome della scienza, fondando dappertutto Società di Agricoltura, di Scienza e di Arti. Caduta la stella di Napoleone, in piena Restaurazione, i liberali di tutti gli stati d’Italia tengono vivo il ricordo delle mitiche gesta dell’eroe corso e rinfocolano la speranza di un più roseo avvenire -gli antichi sovrani si sono affrettati a sopprimere le Logge sorte dovunque in epoca napoleonica- organizzando Congressi scientifici. Anima del movimento è un cospiratore legato a Napoleone da stretti vincoli di parentela, Carlo Bonaparte, principe di Canino. Non è un caso che, a cose fatte, a Risorgimento ultimato, il sindaco di Roma Luigi Pianciani inaugurando nel 1873 il penultimo Congresso scientifico, finalmente convocato nella città dei papi, invita i convenuti ad una “profonda, immensa soddisfazione”. “Sì, o signori, -sostiene- a me piace riconoscerlo qui in Roma, grandissima parte del risorgimento italiano è dovuto a voi; giacché ha cominciato il nostro movimento col Congresso scientifico che ebbe luogo in Pisa nel 1839”.

Cosa c’entra un congresso scientifico col processo di unificazione italiana? Per propagandare una religione diversa dal cattolicesimo in un paese profondamente cattolico, non ci si può servire della miriade di confraternite e opere pie in cui la popolazione italiana è capillarmente suddivisa; per scalzare dai propri troni i rispettivi regnanti, non si può agire pubblicamente in qualcuna delle, pur prestigiose, istituzioni culturali e scientifiche dei vari regni. Per propagandare la rivoluzione, cioè l’unità e l’indipendenza d’Italia, bisogna sfruttare tutti gli spazi possibili, creando le occasioni propizie. A questo mira l’Istruzione della carboneria quando prescrive: “Sotto il più futile pretesto, ma mai politico né religioso, fondate voi medesimi, o, meglio, fate fondare da altri, associazioni e società di commercio, d’industria, di musica, di belle arti”. La pratica dei Congressi scientifici che fra feste, fanfare e invocazioni dello Spirito Santo si apre solennemente a Pisa nel 1839, va in questa direzione. Da allora, e fino al 1847, si tiene un congresso all’anno, a turno, nelle diverse città d’Italia. Si prosegue con Torino, poi Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e, infine, Venezia. Un solo stato si rifiuta di ospitare le assise scientifiche di nuovo tipo, ricalcato sul modello dei paesi protestanti: lo Stato della Chiesa. Quale conclusione trarne? Che si tratta di uno stato oscurantista, avverso al progresso e al sapere; uno stato che rende l’Italia, per utilizzare la colorita espressione di Pianciani, “una terra di morti”. Organizzati per sezioni, i lavori dei congressi contemplano, insieme a quelli della medicina e delle scienze naturali, il tema dell’agricoltura. Quest’ultimo soggetto però, visto l’assetto eminentemente agricolo della nazione, non è affrontato solo nei congressi.

La divulgazione capillare dei miglioramenti proposti dalla scienza in agricoltura, è favorita attraverso la costituzione di numerose Associazioni Agrarie, la prima delle quali vede la luce in Piemonte nel 1843. All’associazione, ricorda lo storico massone La Farina nella Storia d’Italia, “si iscrissero non solo gli studiosi delle scienze attinenti all’agricoltura, ma anche tutti gli uomini dotati di generosi e liberi sentimenti”: ben “tremila e seicento” i soci. Il numero sorprendentemente alto degli iscritti diventa comprensibile se si tiene conto che molti di coloro che vogliono modernizzare le colture non hanno alcun campo per tradurre in pratica le teorie. E infatti, è sempre il parere di La Farina, “la parte politica, a volte predominò sulla scientifica”: “ne’ banchetti e festeggiamenti, fra clamorosi applausi invocavasi il nome d’Italia, le sue antiche glorie si rammentavano, nuove glorie e non lontani trionfi le si auguravano”. Anche in questo caso, sottolinea lo storico, la “parte gesuitica” fu decisamente avversa alla vita delle associazioni e, con esse, al necessario sviluppo del progresso in campo agricolo. La Farina confonde l’avversione cattolica alla messa in scena delle Associazioni agrarie con il mancato interesse per i miglioramenti scientifici. Quante cose non si fanno per la scienza. Ieri come oggi il mondo è sempre lo stesso.

Giuseppe Mazzini: uno strano tipo di credente

Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali nonché antenato di Indro, il giornalista scomparso da alcuni anni, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, ad una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo.

A lui “debbonsi lodi per alcun bene che fece -sostiene-, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio”. Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati -spesso riusciti- alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: “L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale”.

Massimo D’Azeglio dice di lui che “legato a società bibliche inglesi e americane” cerca “di rendere l’Italia protestante”. Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: “La missione religiosa consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia”. Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: “Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità”. Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: “Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso” sia “la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti”.

Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria.

Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile” e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: “raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”. “Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta”, scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di “secondo Maometto”. Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la u maiuscola.