La persecuzione dei Cattolici in Cina: un martirio da non dimenticare

Nel mondo occidentale, dove in molti Paesi la dimensione religiosa si è ridotta soltanto
alla sfera del privato, quando si parla di martiri cristiani si è tentati di
andare con il pensiero molto indietro nel tempo fino ai primi cristiani gettati
nel Colosseo e sbranati dalle belve feroci tra atroci sofferenze. Risulta
davvero difficile trasmettere al cittadino medio la verità sull’attuale stato
di persecuzione nel quale sono costretti a vivere oggi milioni di cristiani,
soprattutto cattolici, ma non solo, in tutto il mondo, soprattutto in Africa e
in Asia. Leggi tutto “La persecuzione dei Cattolici in Cina: un martirio da non dimenticare”

Assaggi n. 46 – Egemonia culturale

Nel giugno 2008 il neo-ministro della cultura, Sandro Bondi, veniva intervistato dal direttore del settimanale «Tempi», Luigi Amicone. Questi gli chiedeva, dal momento che Bondi era stato sentito elogiare personalità di sinistra come Moretti e Eco, se aveva intenzione o meno di porre rimedio all’egemonia culturale gramsciana che imperversa in Italia praticamente dal dopoguerra. Il ministro rispondeva che sarebbe assurdo pensare di proporre una nuova egemonia di segno diverso ma sempre finalizzata al potere. Proprio così: assurdo. Ebbene, qualcuno dovrà far sapere al ministro che la gente ha votato il suo schieramento giusto per far cessare un’egemonia e imporne un’altra di segno diverso. Si chiama democrazia. (da "Antidoti" di Rino Cammilleri).

I Laogai, le esecuzioni capitali e la vendita degli organi nella Cina del terzo millennio.

Ogni anno in Cina migliaia di persone, donne, uomini e bambini, sono condannate a morte mediante fucilazione e decine di migliaia di cittadini, che forse sarebbe più corretto definire sudditi, sono incarcerati in campi di concentramento sparsi per tutto il Paese, i Laogai. Il tutto nel quasi totale silenzio degli organi di informazione mondiali e del mondo politico. Di questa realtà, così poco nota al grande pubblico, si è parlato nel corso di una vibrante e affollata conferenza organizzata venerdì 18 aprile da “Libertà e Persona” dal titolo: “I laogai, le esecuzioni capitali e la vendita degli organi nella Cina del terzo millennio”. Relatore il dott. Toni Brandi, presidente della “Laogai Research Foundation Italia”, associazione fondata nel 2005, con lo scopo di informare l’opinione pubblica sui laogai, sulle terribili condizioni di vita dei detenuti e sulle tragedie che al loro interno si consumano. Nell’introduzione ho voluto dedicare l’incontro a tutte le persone che nel mondo si battono per la ricerca della verità, e della libertà. Proprio partendo dalla rivolta per la libertà del popolo tibetano contro la tirannia cinese è iniziato il resoconto sulla situazione attuale della politica di Pechino, sottolineando insieme al relatore, che la lotta dei martiri tibetani è la stessa dei cristiani del Darfur, dei monaci birmani e di tutti i popoli che non vogliono rinunciare alle proprie tradizioni e ai loro valori morali e religiosi, in una parola alla propria identità. Ciò che oggi succede in Tibet dimostra ancora una volta l’arroganza del governo di Pechino e l’impotenza e l’ipocrisia di molti governi occidentali e dell’ONU, il cui Segretario generale ha annunciato che non sarà presente alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici “a causa di impegni precedentemente presi”! Nessun riferimento alla sanguinosa repressione in corso nel Tibet. Eppure vi è un risvolto nel dramma tibetano, che il mondo cosiddetto libero, deve saper cogliere e portare a conoscenza dell’opinione pubblica: finalmente la Cina è messa sotto la lente d’ingrandimento e, seppur a fatica, emergono i misfatti di un regime sanguinario che ha fatto di tutto per nascondere, utilizzando le Olimpiadi come vetrina luccicante e gaudente. Ma sotto il trucco, si cominciano a scorgere le rughe e le crepe di una realtà ben diversa. In Cina si può essere condannati a morte sulla base di ben sessantotto reati, dalla truffa alla frode fiscale, in base alla proprio credo religioso. Il tutto deciso da tribunale in cui l’accusato non ha praticamente alcuna possibilità di difendersi e dove, in occasione di accuse per reati politici o religiosi, anche qualche coraggioso avvocato difensore sparisce nel nulla o viene rinchiuso per anni in un laogai.

Il termine Laogai è l’acronimo cinese di LAODONG GAIZAO DUI, che significa letteralmente “riforma attraverso il lavoro”; questi campi di concentramento, spesso mascherati come fabbriche o impresa commerciale, furono istituiti nel 1950 da Mao Zedong, il quale sosteneva che era necessario rinchiudere gli oppositori al fine di lavare loro il cervello e trovare forza lavoro a costo zero. Ufficialmente oggi vi sono in tutto il territorio della Repubblica Popolare Cinese oltre mille laogai. A partire dal 1984 a tragedia si somma tragedia: da quell’anno, infatti, il regime comunista avvalla una vergognosa tratta degli organi che vengono estirpati dai corpi dei condannati a morte nei campi. Inizia un mercato, legale secondo le leggi cinesi, che di anno in anno vede aumentare le condanne a morte in base all’aumento delle richieste di organi da trapiantare che provengono non solo da chi in Cina può permettersi l’operazione di trapianto, ma anche dall’estero. Ad oggi si stima che il numero dei condannati a morte si aggiri tra gli 8.000 e i 10.000 all’anno. Il mercato degli organi viene valutato intorno ai 770 milioni di Euro; a beneficiarne sono il Partito Comunista Cinese, l’organizzazione ospedaliera e la polizia. Sono soltanto stime, in quanto in Cina vi sono milioni di persone “senza nome”, mai registrate all’anagrafe, le quali, se fermate per un controllo, vengono quasi sempre condannate per vagabondaggio e fatte sparire nel laogai, dove serviranno come miniera di organi, una miniera praticamente inesauribile. Il mercato degli organi è talmente florido che i dirigenti cinesi stanno cambiando anche le modalità di esecuzione capitale: non più con una pallottola alla nuca, il cui costo, per un perverso e crudele cinismo, viene addebitato ai congiunti quando sono reperibili, ma mediante iniezione letale; in tal modo non si rischia di compromettere alcun organo. Questa è la quotidianità negli oltre 600 ospedali cinesi in cui si pratica l’estrazione degli organi dai condannati a morte. Ma la Cina non è solo questo: è un Paese in cui le catastrofi ambientali non si contano; dove l’inquinamento nelle città è a livelli decine di volte superiori alla media occidentale, tanto è vero che qualche atleta chiede di spostare alcune competizioni dei Giochi olimpici lontano da Pechino. La Cina è anche i Paese dove ogni anno si contano 130.000 morti sul lavoro: queste sono cifre ufficiali del governo e, conoscendo la “limpidezza” delle fonti di informazione, si può presumere che il numero sia almeno da aumentare di cinque o sei volte! La Cina è il Paese che lo scorso anno ha aumentato le spese militari del 18% senza che nessun governo occidentale abbia minacciato un embargo o una qualche misura di protesta; silenzio totale anche da parte dell’ONU. Sembra trascorso un secolo dalla rivolta dei giovani cinesi in Piazza Tienanmen a Pechino, che suscitò scalpore e sdegno in tutto il mondo; da allora vi sono rivolte in tutto il Paese, tanto che nel 2005 ne sono state registrate oltre 87.000, 238 al giorno! Perché è calato il silenzio? Perché si tace sull’importazione di merci a basso costo che stanno distruggendo l’economia europea e non si denuncia che moltissimi prodotti sono fabbricati da prigionieri dei laogai? E’ arrivato il momento in cui ogni persona libera, indipendentemente dal suo credo politico, si mobiliti per contrastare e denunciare questa situazione. Da parte nostra continueremo a seguire le vicende legate al Tibet e alla lotta per la libertà in tutta la Cina, a cominciare da quella religiosa. Nell’introduzione al libro della Laogai Research Foundation “Cina, traffici di morte” (Ed. Guerini e Associati) vi è una citazione straordinariamente attuale dello statista cattolico irlandese del XVIII secolo, Edmund Burke che recita: “Perché il male trionfi è sufficiente che gli uomini buoni non facciano nulla”. ____________________________________________________________________________________ Di seguito alcuni spunti che la Laogai Research Foundation Italia fornisce per iniziare una piccola, ma significativa testimonianza, perché come ricorda il presidente Brandi, una goccia può sembrare non valere nulla, ma tante gocce fanno un oceano.

Che si può fare?

1. Inviare fax di protesta all’ ambasciatore cinese a Roma, Mr Dong Jinyi: Fax 06 8413467 chiedendo la chiusura dei Laogai, notizie dei detenuti e libertà in Tibet.

2. Leggere le ultime notizie su www.asianews.it, www.dossiertibet.it , www.laogai.org e www.tibetanuprising.com e diffonderle in qualsiasi maniera

3. Chiedere ai media di NON smettere di scrivere riguardo ai crimini dei comunisti cinesi, soprattutto lavorare sulla stampa, radio e tv locali

4. Sottoscrivere petizioni come http://www.avaaz.org/en/ 1,4M in 7 7 gg !! e http://www.getup.org.au/campaign/StandUpForTibet&id=316 e http://www.avaaz.org/en/tibet_report_back/5.php?cl=69597516

5. Partecipare alle manifestazioni di protesta od organizzarne altre (veglie e/o presidi pacifici) e commentare sui blogs.

6. Protestare con Jacque Rogge (IOC chairman) – Fax: 00 41.21 621 62 16 http://www.olympic.org/uk/organisation/ioc/index_uk.asp

7. Scrivere al segretariogenerale@coni.it all’attenzione del Presidente del Comitato Olimpico Nazionale sig. Gianni Petrucci

8. Boicottare gli sponsors delle Olimpiadi, non bevete Coca Cola, non usate VISA Cards, non mangiate Mc Donalds e dite perchè vi rifiutate di farlo… ……….. ecco la lista degli sponsors dei giochi olimpici: http://en.beijing2008.cn/90/53/column211995390.shtml

9. Non comprate prodotti cinesi e spiegate perchè non lo fate 10. Denunciare e protestare contro i complici del regime capital – comunista cinese. Troppi fra i nostri giornalisti …….…

Berlusconi, Fiore e Ferrando rispondono all’appello sul Tibet.

Nel silenzio quasi totale della politica italiana rispetto alle drammatiche vicende che stanno insanguinando il Tibet, e nell’imbarazzo di alcuni leader politici, rispetto alla posizione da prendere nei confronti del governo cinese anche in merito ai giochi olimpici di Pechino, è con soddisfazione che registriamo la presa di posizione di tre candidati premier hanno risposto all’appello lanciato da oltre trenta associazioni italiane, tra cui “Libertà e Persona”. Nella lettera aperta, apparsa anche sul nostro sito (vedi: Paolo Zanlucchi – Lettera aperta ai candidati premier sul Tibet – del 28/03/2008) si chiedeva a tutti i leader candidati alla carica di Presidente del Consiglio, di esprimersi ufficialmente riguardo alla politica del governo di Pechino in fatto di diritti umani. Hanno risposto all’appello Silvio Berlusconi (Partito della Libertà), Roberto Fiore (Forza Nuova) e Marco Ferrando (Partito Comunista dei Lavoratori). Tre schieramenti diversi, tre impostazioni politiche sostanzialmente antagoniste tra loro, diverse anche le concezioni della vita e la cultura, l’humus politico che ha fatto nascere i tre partiti citati. Qui di seguito le risposte, riportate in maniera integrale, alla lettera-appello. Volutamente non appongo nessun commento personale, pur notando le divergenze di fondo, in alcuni casi anche sostanziali, che emergono dalle tre prese di posizione: in tal modo lascio ai lettori la possibilità di valutare la risposta più o meno efficace e condivisibile. Buona lettura.

Lettera aperta : la risposta di Silvio Berlusconi (PdL).

1. Quando intende dare attuazione alle risoluzioni approvate dal nostro Parlamento il 30 Ottobre 2007 volte ad impedire che il Partito Comunista Cinese continui a detenere illegalmente milioni di uomini e donne nei campi di rieducazione denominati “Laogai”.

– Il governo agirà da subito, rispettando gli impegni assunti con il Parlamento e che finora sono stati disattesi. Quelle mozioni prevedevano in sintesi due azioni del governo. Un’azione di pressione diplomatica nell’ambito dei rapporti commerciali tra Unione europea e Cina per bandire dal mercato europeo le merci prodotte nel sistema dei campi di rieducazione “Laogai”, fino a giungere all’imposizione di un divieto sulle importazioni di tutte le merci cinesi provenienti, in tutto in parte, dal lavoro forzato e dallo sfruttamento umano dei Laogai. Un’azione di pressione sulle Nazioni Unite per rendere possibili le visite ai campi Laogai dell’Alto commissario per i diritti umani e degli inviati speciali dell’Onu e dei rappresentanti del Comitato internazionale della Croce rossa.

2. Quali iniziative diplomatiche intende intraprendere, d’intesa con i Paesi democratici,per impedire che il Governo della Repubblica Popolare Cinese continui a tenere in ostaggio tutte le Istituzioni Internazionali impedendo l’approvazione di ogni misura volta ad affermare i diritti umani ed il diritto internazionale nei paesi dove il regime comunista ha interessi economici e finanziari da tutelare.

Le istituzioni internazionali, per natura e regole di costituzione, offrono opportunità di veto su decisioni e orientamenti, anche maggioritari. In alcune occasioni, però, possono essere ottenuti risultati significativi anche in quelle sedi, anche in presenza di opposizioni da parte di nazioni importanti. L’Italia è stata protagonista dell’approvazione della moratoria della pena di morte. Con noi potrà diventare protagonista del rispetto dei diritti umani.

3. Quali azioni intende proporre in sede internazionale per affermare il diritto all’autodeterminazione dei Popoli Tibetano, Mongolo, Uiguro e Mancese e porre fine alla dominazione coloniale del regime comunista cinese su queste Nazioni.

– La linea dell’autonomia amministrativa del Tibet proposta dal Dalai Lama mi sembra, al momento, la più percorribile. Il nostro impegno andrà nella direzione di renderla praticabile.

4. Quali iniziative intende assumere,d’intesa con i nostri partner europei, per contrastare la concorrenza sleale di paesi quali la Repubblica Popolare Cinese; concorrenza basata essenzialmente sullo sfruttamento dei lavoratori/trici cinesi che ha già prodotto la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel nostro Paese.

– La concorrenza asimmetrica che viene dalla Cina, dove non esistono le regole contro lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente che esistono, giustamente, nei Paesi sviluppati rappresenta un problema della politica e dell’economia globale. Sostenere che dalla Cina viene un vantaggio per i consumatori occidentali, vista una maggiore disponibilità di beni di consumo a basso costo, equivale a ragionare come la nobiltà prima della Rivoluzione francese. Poi, appunto, è scoppiata la rivoluzione ed è seguito il terrore. Oggi dobbiamo, comunque, registrare un successo. La Ferrero ha vista riconosciuta la proprietà intellettuale di un suo cioccolatino e l’industria cinese che li ha contraffatti non può più produrli. Lo ha deciso una corte cinese, e questo è un precedente storico che proprio un’azienda italiana ha conquistato a tutela del mercato.

5. Quali misure intende prendere, d’intesa con l’Unione Europea, per tutelare la salute e la sicurezza dei consumatori italiani ai quali oggi è persino negato il diritto di conoscere la provenienza di molti beni di consumo prodotti nella Repubblica Popolare Cinese in totale assenza di controlli igienici e sanitari.

-Tutte le misure di controllo previste verso le importazioni da altri Paesi. Non ci possono essere occhi di riguardo nei confronti di nessuno.     Silvio Berlusconi.

Lettera aperta : la risposta di Roberto Fiore (FN).

Egregie Associazioni, sottoponiamo alla Vostra Attenzione la risposta al Vostro Appello del candidato premier Roberto Fiore.

L’Ufficio Stampa di Forza Nuova comunica che il candidato Roberto Fiore intende, in caso di vittoria, dare immediata e tempestiva attuazione alle risoluzioni approvate in data 30 ottobre 2007. Roberto Fiore ed il suo movimento politico hanno sempre dato ampissimo spazio, sia in sede di dibattito interno al partito, che in sede di dibattito pubblico e/o prese di posizione in materia di politica estera, alla questione dei Laogai, crimine contro l’umanità che a parere di Roberto Fiore viene lasciato compiere in uno scandaloso silenzio mediatico. Roberto Fiore si farà promotore di una forte campagna mediatica contro i Laogai, ordinando spot pubblicitari sui mass media nazionali al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e scoraggiare l’acquisto di prodotti cinesi. Il movimento politico di Fiore dedica all’interno del suo sito nazionale ampissimo spazio alla questione cinese, ed in caso di elezione intende inserire nel sito del ministero dell’Interno un apposito spazio aperto sulla questione cinese. Roberto Fiore comunica che intende effettuare un netto cambio di rotta per quanto riguarda la politica estera nazionale, promuovendo all’interno dei paesi membri dell’Unione Europea una maggiore presa di coscienza sulla questione cinese, stimolando attivamente una lunga serie di iniziative diplomatiche volte a rivisitare sia i rapporti politici con la Repubblica Popolare Cinese che i rapporti economici. Roberto Fiore intende proporre in sede internazionale l’avvio di una campagna economica unidirezionale di sostegno verso i popoli colonizzati dalla Cina. Intende inoltre farsi promotore dell’istituzione di un’unica e centrale organizzazione internazionale composta da diplomatici, studiosi e dissidenti politici la quale avrà il pieno ed incondizionato sostegno economico, politico, propagandistico dell’Italia, e dedicherà particolare attenzione alla repressione religiosa ed alle diecimila condanne a morte all’anno volute dal governo cinese. Roberto Fiore intende potenziare, a livello nazionale, l’associazione Compra Italiano da lui stesso fondata proprio per contrastare la sleale concorrenza dei prodotti cinesi. Contemporaneamente intende porre un blocco migratorio in Italia dei cinesi e chiudere ogni China Ingross presente sul nostro territorio nazionale. In sede europea intende favorire i prodotti locali mediante una serie di sgravi fiscali. Intende boicottare apertamente ogni prodotto di origine cinese, proponendo una legge europea che aumenti le imposte sui prodotti cinesi. L’UFFICIO STAMPA DI FORZA NUOVA.

Lettera aperta : la risposta di Marco Ferrando (PCL).

Gentili signori/e, le posizioni del PCL sulla questione cinese in generale e tibetana in particolare sono state espresse pubblicamente in queste settimane in diverse interviste e prese di posizione del Partito e del nostro candidato premier, Marco Ferrando. Rendendoci conto che comunque queste interviste e questi comunicati non sono state spesso ripresi dagli organi di stampa (per usare un eufemismo), riprecisiamo come da vostra richiesta alcune posizioni del PCL.

1) Il Partito Comunista dei Lavoratori, partito che ha nella sua matrice fondativa l’antistalinismo e la battaglia contro le degenerazioni burocratiche postrivoluzionarie, si è sempre battuto contro i “Laogai”, anche prima della risoluzione del Parlamento italiano. Come nella nostra tradizione sempre è stata presente una battaglia contro gli universi concetrazionari dello stalinismo, più o meno ortodosso, da Vurkuta a Goli Otok. Anche perché molti sono i compagni/e della nostra tradizione politica che hanno vissuto sulla propria pelle la realtà di questi campi di concentramento, vecchi e nuovi, battendosi contro lo stalinismo anche quando questa era incensato da tanti socialdemocratici oltre che da molti che oggi fondando il PD. Come nella nostra tradizione politica è sempre stato evidente il carattere stalinista dell’esperienza cinese e maoista, anche quando questa era sostenuta e ripresa da tanti che oggi magari militano in Comunione e Liberazione. E tanto più oggi ci battiamo contro la repressione cinese, quando questa da elemento stalinista di controllo sociale della casta di partito diventa strumento di oppressione di classe in un nascente capitalismo cinese, andando a colpire operai e contadini che lottano solo per vedersi riconosciuti i propri diritti sindacali, un salario un occupazione un lavoro. Ma la nostra battaglia di ieri contro le degenerazioni staliniste e di oggi contro una repressione che è anche strumento di ricostruzione di un modo capitalista di produzione in Cina, è sempre una battaglia per uscire a sinistra dallo stalinismo, per proseguire l’esperienza rivoluzionaria costruendo una democrazia consiliare, in cui il potere sia mantenuto dalla classe lavoratrice per un progetto di trasformazione socialista della società.

2) Non è il governo della repubblica Popolare Cinese ha tenere in ostaggio tutte le istituzioni internazionali. Sono tutte le istituzioni internazionali, a partire dall’ONU e dalle sua agenzie per arrivare al WTO o alla WB, che sono state costituite con statuti, ordinamenti e strutture organizzative antidemocratiche, centrate come sono sull’asse dei vincitori del 1945. Non delle organizzazioni democratiche quindi, ma una nuova forma di regolazione delle egemonie mondiali da parte delle principali potenze economiche e militari, uscite come tali dai 30 e più anni di guerra tra l’inizio del secolo ed il cosidetto secondo conflitto mondiale. Il potere di veto dei cinque “grandi” nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, ad esempio, non è che la traduzione giuridica di questo stato di cose e di questi rapporti di forza. Non a caso la Cina è stata inserita nei primi anni 70 in questo ristretto club, dopo le partite di pingpong ed il viaggio di Nixon in Cina, utile ad un nuovo riequilibrio della politica statunistense nel suo processo di continuo isolamento dell’Urss. Ed infatti praticamente mai l’ONU ha giocato un ruolo progressivo o positivo nelle crisi internazionali, dalla Corea al Bangladesh, dall’Irak alla ex Yugoslavia. O è stato docile strumento delle politiche imperialiste o è rimasto congelato nel gioco dei veti reciproci fra grandi potenze. E di conseguenza pensiamo che non sia possibile condurre nessuna azione per ridurrre questo potere “d’intesa con i paesi democratici”, perché proprio i principali paesi democratici (Francia, Usa, Gran Betagna) detengono oggi questo potere e non intendono minamente rinunciarci. Anzi, loro per prime lo utilizzano o minacciano di utilizzarlo ogni volta che l’ONU o altri organismi internazionali interferiscono nelle loro politiche. Quindi, come dire, alla vostra domanda è impossibile rispondere in quanto fate nel testo due affermazioni, dando per scontata che da una consegua l’altra, che per noi sono in contrapposizione: cioè nel momento in cui affermate giustamente che la Cina ha un potere di ricatto nella diplomazia mondiale, per difendere sè ed i suoi protetti, affermate contemporaneamente che i paesi democratici potrebbero/dovrebbero agire per limitarlo. Ma questa conseguenza per noi non esiste. Anzi. Se e quando i “paesi democratici” si battono contro il “potere di ricatto” della Cina non è per difendere e applicare un principio di regolazione internazionale, ma per difendere ed applicare i propri interessi specifici ed il proprio potere di ricatto. Potere di ricatto che magari dispiegano completamente, anche sul piano militare, dentro e fuori i confini politici dell’ONU, proprio nel conflitto contro questo o quest’altro “asse del male”, contro questo o quest’altro “potere di ricatto” in quel momento contingente non conforme ai loro interessi. Così ci sono regimi e dittatori che oggi difendono la democrazia e domani sono nazisti ricattatori o narcotrafficanti (da Noriega a Saddam Hussein). Così oggi una strategia per costruire la democrazia in Medio Oriente viene attuata a partire da un regno teocratico con potere assoluto della famiglia reale e repressione religiosa interna (l’Arabia Saudita) e da una dittatura militare che incarcera e turtura ciclicamente ogni opposizione politica più o meno radicale presente nel paese (l’Egitto). E cito solo gli esempi che coinvolgono gli USA in quanto principale paese democratico e potenza mondiale, ma altrettanto si potrebbe dire sulle politiche Francesi in Costa d’Avoria, in Ciad od in Ruanda. O di quelle inglesi nelle Falkland, in Irlanda del Nord, ecc ecc. La battaglia contro i poteri di ricatto della Cina, per il Sudan come per qualunque altro paese, non è modificabile d’intesa con i paesi democratici. E questo tanto più oggi e ancor più domani, dal momento che sempre più è evidente il ruolo rilevante che la Cina gioca negli equilibri e nella sopravvivenza dell’attuale mercato mondiale: il peso che oggi formalmente detiene la Cina nell’ONU e negli altri organismi è solo destinato a crescere, accompagnato dalle armi (metaforiche e reali) che il nuovo capitalismo cinese si sta dando: come non è un semplice appoggio tra regimi quello che lega la Cina al Sudan, ma vera e propria proiezione economica e militare, a partire dalla Cnoc e dalle altre compagnie petrolifere cinesi per finire alle diverse migliaia di soldati cinesi che stazionano intorno agli oledotti del paese. Una proiezione che, seppur ridotta per dimensioni e significato, è difficilmente distinguibile in via di principio da quella statunitense in Irak od in altri paesi del mondo. Il massimo impegno del PCL, al contrario, è dedicato alla costruzione di un modo di produzione e di un sistema internazionale realmente democratico, che a partire dal riconoscimento all’autodeterminazione e dalla massima trasparenza delle relazioni internazionali possa rappresentare le diverse popolazioni della Terra. E noi questo sistema lo chiamiamo socialismo.

3) Il PCL riconosce il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, senza distinzioni di interesse geopolitico od economico. Quindi ci siamo battuti e ci battiamo, nel nostro piccolo e nelle nostre possibilità, sostenendo il diritto all’autedeterminazione del pololo Tibetano, Mongolo, Uiguro e Mancese. Come ci battiamo per il diritto all’autodeterminazione dei ceceni, dei palestinesi, dei kurdi, del popolo basco e di quello corso, di quello altoaltesino come di quello sardo. E la lotta per il diritto all’autodeterminazione, a nostro parere, deve essere condotta in primo luogo da quei popoli, con ogni mezzo che ritengano necessario, senza che questo possa mettere in discussione la nostra solidarietà. A Lahsa saremmo stati con i ragazzi sulle barricate e negli scontri di piazza, non solo con chi invoca la non violenza e le pressioni internazionali per risolvere la questione “sul piano diplomatico” (che per esperienza vorrebbe dire trovare l’accordo e la quadra tra i diversi interessi delle grandi potenze, siano questi più o meno simili agli interessi ed alle volontà delle popolazioni coinvolte). Una lotta per l’autodeterminazione che per noi può diventare un percorso di liberazione sia dal colonialismo esterno sia da quello “interno”, cioè una lotta di liberazione da quei rapporti sociali che sottomettono la maggioranza della popolazione, siano essi di carattere “feudale” e “precapitalistico” come in alcuni di questi territori, siano essi pienamente capitalisti come in molti territori europei. Una lotta contemporanemanete di liberazione nazionale e di rivoluzione politica interna, una “rivoluzione permanente” per una società socialistacontro borghesie compradore e borghesie nazionali, apparati militari, organizzazioni teocratiche e partiti religiosi che spesso negli ultimi anni si sono espansi in molte di queste società. Contro il fondamentalismo come contro gli intrecci tra strutture religiose e potere politico, qualunque matrice questi intrecci e queste politiche fondamentaliste abbiano: siano essi cattolici, islamici, indù o buddisti.

4) La “concorrenza sleale” del nuovo capitalismo cinese è esattamente identica alla “concorrenza sleale” che per molti anni ha retto il miracolo italiano e l’espansione capitalista degli anni 60 nel nostro paese. Il punto non è aprire una nuova guerra protezionista, da scaricare sempre e comunque sulle frazioni più deboli dei lavoratori, siano essi italiani o cinesi. Guerra protezionista che, fra parentesi, è comunque uno dei più concreti sviluppi delle relazioni internazionali di fronte a noi, dettata dall’incipiente crisi americana e dalle conseguenti logiche economiche che da essa discendono, del resto anticipate dal fallimento del Doha Round. Il punto è eliminare la logica economica della concorrenza, sia essa più o meno apertamente “sleale”, in quanto “sleale” lo è sempre nel modo di produzione capitalista, non essendoci nessun principio regolatorio di fondo dell’attuale apparato produttivo eccetto il profitto. Ed il conflitto che questo genera con i tentativi per tenerlo sotto controllo. E’forse “leale” la concorrenza che l’Eni, o l’ENEL o la Fiat praticano oggi in Italia o nel mondo? E’ “leale” l’appoggio alle dittature praticato dall’Eni a Kasangian o nel delta del Niger? E’ forse “leale” l’accordo monopolistico da essa stretto per il controllo del metano in Italia? E quelli dell’Enel per le tariffe elettriche o, quando era proprietaria di Wind, di quelle telefoniche? E’ forse “leale” il risparmio che Fiat ha fatto in questi anni sulla sicurezza del lavoro, pagata anche con la recente morte a Melfi? O è forse “leale” l’utilizzo nella maggioranza degli stabilimenti italiani della Fiat di un sistema di controllo dei movimenti, il TMC2, che è stato dimostrato da USL e tribunali che aumenta esponenzialmente malattie e disturbi sul lavoro, dalle tendiniti all’artrite? E’ “leale” che per anni il sistema bancario italiano (a partire da Intesa) abbia considerato Telecom e Pirelli due entità economiche non collegate (quando così non faceva, ad esempio, la SECamericana), per non esser costretta a sommare i debiti delle due società e quindi, per l’attuale legislazione italiana, costringere bancaintesa e soci al rientro del debito in Telecom? Ed è “leale” che praticamente nessun giornale, televisione, ente politico o morale abbia fatto una compagna di moralità pubblica ed economica su quella che allora era la principale impresa italiana per capitalizzazione? Il punto diventa quindi per noi battersi contro questo modo di produzione, non sostenere l’una o l’altra parte nella loro competizione omicida. Siano cinesi od italiani i soggetti coinvolti.

5) Di nuovo, sembra che si sottolinei il carattere cinese di un problema (che certamente coinvolge la Cina), senza accennare o considerare la natura generale del problema. Molti altri paesi e realtà, il nostro compreso, hanno problemi nel “conoscere la provenienza di molti beni di consumo prodotti in totale assenza di controlli igienici e sanitari”. Il problema è quale politica di sostegno intendiamo dare ai nostri presidi di controllo sanitario, che tra parentesi proprio dall’Unione europea spesso ricevono pressioni per l’eccesso di controllo che praticano e vogliono praticare sulla carne o sui diversi altri prodotti. Non è l’unione europea che ha stabilito che si può chiamare cioccolato anche quello che ha meno del 30% di burro di cioccolato dentro, magari utilizzando invece come grassi l’olio di colza o “olii di vegetali vari”? E dall’Unione Europea che riceviamo partite di carne, pesce, verdure biolgiche e non prodotte nei nuovi territori senza alcun controllo sanitario? Non è in Unione europea che si è diffusa per anni la “mucca pazza”, con il silenzio la timidizza la complicità di autorità pubbliche e sanitarie che subivano la pressione degli interessi dei grandi allevatori e delle aziende alimentari? Non è in europa che si sta assistendo ad una lenta ma progressiva diminuzione dell’età della pubertà? E questo quanto può essere collegato alla presenza di estrogeni e altro ormoni nel latte, nella carne, ecc ecc? E la mozzarella campana? La diossina sarà entrata dalla spazzatura in questi giorni o sarà un problema di contaminazione decennale (se non più) di un territorio in cui, come molti servizi giornalistici e scientifici hanno dimostrato, non esiste controllo igienico sanitario (non solo e non tanto nelle bufale e nelle sue mozzarelle, quanto nel latte materno, nel terreno, nell’aria che si respira e di conseguenza nei suoi prodotti). Ed alla base, non c’è un sistema economico in cui la produzione del cibo e la sua commercializzazione è determinata dalla logica e dall’obbiettivo del profitto, ed in cui di conseguenza l’adulterazione dei prodotti è uno strategia praticata generalmente e diffusamente? Non siamo noi ad aver prodotto il vino al metanolo? Od i tedeschi negli anni 20/30 il “giallo burro” ed i conseguenti tumori intestinali? O le compagnie americane ad aver imposto commercialmente l’utilizzo dell’ammoniaca nelle sigarette, per incentivare la trasmissione nel sangue della nicotina? La Cina (come i paesi del est europeo, come molti paesi africani ed asiatici) hanno il difetto di essere entrati “oggi” nel mercato mondiale della produzione alimentare ed utilizzare pienamente strategie di posizionamento nel “mercato” che le nostre imprese hanno conosciuto decenni fa e che tuttora, quando possono e riescono nelle pieghe della legislazione od in violazione ad essa, utilizzano a piene mani. Allora certamente è importante, qui ed ora, incrementare i controlli sanitari ed igienici sulle produzioni alimentari, per rendere trasparente al consumatore il contenuto del cibo (produzione ed ingredienti, ogm e conservanti), per controllare e vietare rigorosamente l’adulterazione del cibo come l’utilizzo di sostanze tossiche (nei cibi come in tutti i prodotti). Ma questo deve valere per le imprese cinesi come per quelle campane, per quelle italiane come per quelle statunitensi (rispetto alle quali, proprio sul cibo, molte cose sarebbero da dire). Ed è per noi importante battersi nel medio e lungo periodo per un modo di produzione che prescindendo dal profitto e dalla valorizzazione del capitale, possa produrre non merci, me beni per le persone, un modo di produzione che noi definiamo socialista. Cordiali saluti (Comitato esecutivo Partito Comunista dei Lavoratori).

In nome di tutti coloro che non possono piu’ parlare

La fiaccola olimpica arriva a Pechino in un’atmosfera che ricorda molto da vicino il clima che George Orwell ha magistalmente descritto in "1984": città blindata, capi del partito a ricevere onori e Grande Fratello a controllare che nessuno disturbi i lustrini e le pailettes con manifestazioni di protesta pro-Tibet su quella Piazza Tienanmen simbolo di martirio e di libertà. A pochi mesi dalle Olimpiadi, il governo cinese è alle prese con un lavoro di radicale "pulizia" dei possibili oppositori o almeno disturbatori dei giochi; un’opera di maquillage che continua a lasciare il segno: sono stati intensificati i già severi controlli sulla libertà religiosa, in Tibet, ma anche contro i cattolici, ed è in atto un irrigidimento nei confronti di studenti, religiosi, insegnanti, scrittori, intellettuali in genere e delle loro famiglie. Per approfondire queste tematiche drammatiche, vi propongo un vibrante e toccante articolo di Toni Brandi, presidente della "Laogai Research Foundation Italia", apparso sulla rivista "Liberal" dello scorso 29 marzo.

In nome di tutti coloro che non possono piu’ parlare.

 Diciannove corrispondenti stranieri sono stati invitati in Tibet dalle autorità comuniste di Pechino. Le intenzioni delle stesse autorità cinesi erano quelle di tramutare questi giornalisti nel megafono della verità ufficiale, della versione dei fatti che il regime vuole offire al mondo. Davanti al tempio di Jokhang, santuario simbolo della fede tibetana, si scatena l’imprevedibile ed i corrispondenti stranieri vengono circondati da un gruppo di giovani monaci che li informano circa la vera natura di quel luogo di culto, covo temporaneo di falsi monaci ed agenti del partito. Inoltre, gli stessi denunciano le menzogne delle guide cinesi e gridano “Il Tibet non è libero”. La polizia cinese interviene, strattona i giornalisti ed arresta i monaci. La loro sorte sarà la stessa dei mille arrestati dei giorni scorsi, verranno imprigionati nelle prigioni e nei Laogai. In Tibet vi sono almeno 24 campi Laogai dove i Tibetani vengono detenuti, costretti al lavoro forzato e spesso uccisi. Drapchi, Chushur, Bomi/Powo, la prigione di Lhasa e Shengyebo sono alcuni tra i tanti Laogai stracolmi di patrioti tibetani. Sono ancora fresche nelle nostre menti le foto del massacro al Monastero di Kirti nella provincia tibetana di Amdo, che attualmente fa parte della provincia cinese del Sichuan.

Martedì scorso, 24 marzo, un altro giovane monaco di diciotto anni, Kunga, è stato ucciso a Drango dalla polizia comunista. E la persecuzione continua; ieri, 28 marzo alle 12,00, ora locale di Pechino, in Ngaba, la polizia comunista ha arrestato cento monaci dopo aver fatto irruzione nel loro monastero. Secondo il governo tibetano in esilio, i morti accertati ed identificati nelle rivolte in Tibet e nelle regioni limitrofe di Gansu, Sichuan e Qinghai sono ora almeno 140. E’ per loro che noi dobbiamo adoperarci ed agire. Non possono essere morti invano. I Giochi Olimpici, simbolo di pace e solidarietà fra gli uomini, non dovrebbero avere luogo in Cina. Sono stati gli interessi finanziari delle multinazionali e del regime comunista cinese a permettere questo paradosso. Il regime cinese non ha mantenuto nessuna delle sue promesse riguardo al miglioramento dei diritti umani nel paese asiatico. I Laogai, le migliaia di esecuzioni capitali con relative vendite degli organi umani, le centinaia di migliaia di aborti forzati e sterelizzazioni, la persecuzione di tutte le chiese e dei dissidenti sono alcune delle violazioni dei diritti umani perpretate dal regime comunista cinese e di cui i mass media parlano poco per non disturbare i commerci internazionali. E’ solamente grazie all’insurrezione tibetana ed al sacrificio dei giovani e monaci martiri che se ne parla, sempre in maniera esigua, oggi. Purtroppo, viviamo oggi in un mondo dove gli interessi finanziari ed economici sembrano predominanti. E’ veramente promettente osservare che esistono ancora persone che attribuiscono priorità a valori morali ed etici. Infatti, numerose sono le personalità che si sono espresse in maniera critica verso le Olimpiadi a Pechino. Fra queste il Principe Carlo d’Inghilterra, Spielberg, Mennea, Richard Gere, Ivana Spagna, Andrea Mingardi, Paul McCartney, Uma Thurman, Mia Farrow e Bernard Henry Levy. In questi giorni sta anche aumentando la lista dei politici che hanno deciso di non partecipare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi : il premier polacco Donald Tusk, i presidenti ceco ed estone Vaclav Klaus e Toomas Hendrik Ilves, il vice Premier Belga Didier Reynders, il cancelliere tedesco Merkel, il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier e Hans-Gert Poettering, presidente del parlamento europeo, che ha giustamente invitato a Bruxelles il Dalai Lama e lanciato un appello ai leader europei perchè boicottino l’apertura dei giochi.

Allo stesso tempo molti sono gli ipocriti che cercano scuse ed alibi per far tacere la loro coscienza. Primi fra tutti il Presidente Bush, che, tuttavia, ha almeno avuto il coraggio di incontrare il Dalai Lama, il Comitato Olimpico Internazionale, il nostro governo ed il premier Gordon Brown che, per far piacere ai grandi sponsors olimpici, si comportano come se nulla stesse accadendo. Ho fede nella natura umana, che è espressione divina, e sono certo che il numero dei politici che non parteciperanno alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi aumenterà. Sono anche certo che i Tibetani non si arrenderanno; la loro battaglia per la libertà e la giustizia sociale è la stessa battaglia dei popoli della terra contro le multinazionali e le èlites finanziarie che spadroneggiano oggi nel mondo. Negli anni novanta ho avuto l’onore di conoscere alcuni superstiti dei Fratelli della Foresta, i partigiani Lituani, traditi dall’occidente, che combatterono fino agli inizi degli anni cinquanta contro i comunisti sovietici. Nei loro occhi ho potuto osservare che, anche se debellati militarmente, non si sono mai sentiti realmente sconfitti. Dopo meno di quarant’anni conquistarono la libertà. La stessa determinazione l‘ho riscontrata fra i miei amici Tibetani. E’ solo questione di tempo, il Tibet sarà libero, come il mondo sarà libero da questa ciurmaglia di voltagabbana ed ipocriti capital comunisti. Non andare all cerimonia d’apertura delle Olimpiadi è il minimo da fare… Lo dobbiamo a tutti quei martiri tibetani che non possono piu’ parlare ! Toni Brandi

Lettera aperta ai candidati premier sul Tibet.

In queste ore drammatiche nelle strade di Lhasa, capoluogo del Tibet, pattugliata da oltre 20.000 soldati cinesi e da una cinquantina di blindati dell’Armata Rossa, decine, centinaia di prigionieri politici tibetani sfilano sui mezzi dell’esercito di Pechino ammanettati mentre dagli altoparlanti una voce metallica intima a quanti non sono stati ancora arrestati, di consegnarsi prima che sia troppo tardi. E sempre in queste ore sono stati affissi sui muri della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet e delle contee e aree tibetane incorporate nelle province del Sichuan e del Gansu, manifesti in cui si avverte la popolazione che ogni assembramento verrà immediatamente sciolto con la forza dalla Polizia Armata che ha l’ordine di sparare sulla folla. Questo è la situazione del Tibet odierno, governato da quella Cina che si sta gioiosamente preparando a celebrare la sua parata olimpica pronta ad incassare il plauso e la meraviglia del mondo per le sue conquiste e le sue scintillanti vetrine. Quella Cina che parla di sé come di una “società armoniosa” e che, grazie al “socialismo di mercato”, è proiettata verso un futuro di superpotenza economica e grazie alla forza dei suoi armamenti, anche di superpotenza politica e militare: nel silenzio imbarazzante dei governi occidentali e delle organizzazioni pacifiste, pochi giorni or sono Pechino ha aumentato del 18% il suo già oneroso budget per le spese militari. Vicini alle elezioni nazionali in Italia, l’associazione “Libertà e Persona” ha deciso di sottoscrivere un appello indirizzato a tutti i candidati premier italiani al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e ricevere dal mondo politico indicazioni su come i leader dei vari schieramenti intendano muoversi nei confronti del governo cinese. L’appello è stato sottoscritto da oltre trenta associazioni in tutta Italia, fra cui la “Laogai Research Foundation Italia”. Qui di seguito il testo dell’appello:

Lettera aperta ai candidati/e Premier.

Egregio/a Candidato/a.

 Ad oggi non ci è ancora dato sapere quali proposte il Suo partito/coalizione intende avanzare per affrontare alcuni temi che noi riteniamo fondamentali per garantire sicurezza ,sviluppo e lavoro al nostro Paese. Per questa ragione La invitiamo a rispondere ad alcune semplici domande che cercano di riassumere le preoccupazioni di molti elettori che condividono con noi da tempo l’impegno per affermare la libertà e la giustizia sociale nel mondo. Le Sue risposte crediamo condizioneranno quindi le scelte di migliaia di uomini e donne che non si accontenteranno della propaganda elettorale per valutare i programmi del Suo partito. Avremmo molte domande da porLe ma ci limitiamo a riassumere in pochi quesiti le nostre preoccupazioni :

Nel caso in cui Lei assuma la Presidenza del Consiglio:

– Quando intende dare attuazione alle risoluzioni approvate dal nostro Parlamento il 30 Ottobre 2007 volte ad impedire che il Partito Comunista Cinese continui a detenere illegalmente milioni di uomini e donne nei campi di rieducazione denominati “Laogai”.

– Quali iniziative diplomatiche intende intraprendere, d’intesa con i Paesi democratici, per impedire che il Governo della Repubblica Popolare Cinese continui a tenere in ostaggio tutte le Istituzioni Internazionali impedendo l’approvazione di ogni misura volta ad affermare i diritti umani ed il diritto internazionale nei paesi dove il regime comunista ha interessi economici e finanziari da tutelare.

– Quali azioni intende proporre in sede internazionale per affermare il diritto all’autodeterminazione dei Popoli Tibetano, Mongolo, Uiguro e Mancese e porre fine alla dominazione coloniale del regime comunista cinese su queste Nazioni.

– Quali iniziative intende assumere,d’intesa con i nostri partner europei, per contrastare la concorrenza sleale di paesi quali la Repubblica Popolare Cinese ; concorrenza basata essenzialmente sullo sfruttamento dei lavoratori/trici cinesi che ha già prodotto la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel nostro Paese.

– Quali misure intende prendere , d’intesa con l’Unione Europea, per tutelare la salute e la sicurezza dei consumatori italiani ai quali oggi è persino negato il diritto di conoscere la provenienza di molti beni di consumo prodotti nella Repubblica Popolare Cinese in totale assenza di controlli igienici e sanitari.

La ringraziamo sin d’ora per le risposte, anche sintetiche, che vorrà dare ai nostri quesiti. Al testo che ci vorrà trasmettere daremo la massima pubblicità , pubblicandolo tempestivamente su tutti i siti e gli organi di stampa delle associazioni e dei gruppi firmatari della presente richiesta.

Cordiali saluti Marzo 2008.

Gli studenti stranieri bocciano l’università italiana.

In occasione del ventennale del “Progetto Erasmus”, è stata pubblicata nei giorni scorsi una relazione che riassume le risposte date da 1500 studenti universitari stranieri che hanno partecipato al progetto frequentando le facoltà italiane: l’immagine della nostra università che ne deriva è complessivamente sconfortante. Tentiamo di spiegarne le ragioni. I responsabili italiani del progetto hanno preparato un questionario con 20 domande, somministrato a studenti provenienti da 28 Paesi diversi e frequentanti facoltà in 27 diverse città italiane. Gli studenti interpellati sono un campione rispetto ai circa 14.000 ragazzi stranieri che ogni anno frequentano corsi universitari nel nostro Paese. In generale, emerge il ritratto di un’Italia non troppo accogliente, sfatando così uno dei miti del Belpaese, costosissima, incapace di garantire agli studenti un alloggio a prezzi contenuti e dove l’inglese è una lingua assolutamente inutile anche per le comunicazioni tra colleghi studenti e con i docenti. Un dato che deve far riflettere, riguarda il gradimento che questi giovani stranieri nutrono nei confronti del nostro Paese: infatti, all’inizio della loro esperienza, il 97% degli intervistati dichiara di aver scelto l’Italia perchè “è un paese che mi è sempre piaciuto”; al termine del soggiorno-studio la percentuale di quelli che si dimostrerebbero pronti a scegliere di nuovo l’Italia come meta di un viaggio scende al 60%, ma soltanto il 35% tornerebbe per rifrequentare un corso di studi universitario “nonostante le difficoltà non siano poche”. Molti stranieri rimarcano come, al loro arrivo in Italia, nella maggior parte dei casi, nessuno in Università fosse in grado di fornire la benché minima informazione, anche generale; grave anche la mancanza di alloggi per studenti; quindi, molti di loro sono stati costretti addirittura ad andare in albergo e poi a cercare camere in affitto a prezzi sensibilmente più alti che nei loro Paesi. Quella della mancanza dell’alloggio per gli studenti è un’anomalia tutta italiana. Come ricorda il mensile “Studenti Magazine”, la ricerca della casa non è quasi mai un problema sentito dagli studenti che partecipano ad “Erasmus” in altri Paesi. In molti casi, per esempio Danimarca, Francia, Svezia, è la stessa università a trovare l’alloggio agli studenti. In generale, comunque, uno dei dati più significativi è quello che racconta che l’83% degli intervistati spende di più in Italia rispetto al proprio Paese. Per quanto riguarda l’accoglienza in Università, al di là della retorica europeista, soltanto poco più della metà degli intervistati, il 52,8%, ha dichiarato di essere stato accolto sufficientemente bene e solo il 18% ha detto che l’Italia è più ospitale del proprio Paese.

Veniamo ora al cuore della relazione, perchè, se per quanto riguarda l’accoglienza, l’università italiana è stata giudicata con qualche riserva, questa viene decisamente bocciata quando agli studenti stranieri si chiede di farne un raffronto con il proprio Paese di provenienza. I dati raccolti sono disarmanti: ben il 71% degli intervistati afferma che l’Università in Italia è organizzata peggio, contro il 17% che non vede differenze e soltanto il 12% la giudica migliore. La causa principale di questa bocciatura è lo stato pessimo delle strutture per il 39,6% degli intervistati, seguita dalla scarsità dei servizi web per il 24,4%, la difficoltà nel raggiungere informazioni per il 19,5% e il livello dei professori 16,5%. Relativamente a questi ultimi, quando si chiede un confronto con quelli del proprio Paese il 59% non vede grandi differenze, ma ben il 25% li giudica peggiori. Viene sottolineato, inoltre, un fenomeno tipico della nostra università, l’assenteismo dei docenti dalle lezioni. In molti casi si rimarca addirittura l’assenza di rintracciabilità, manca quel concetto di cammino didattico che deve portare gli studenti all’esame con i giusti mezzi messi a disposizione dal docente. Un dato concreto riferito alla preparazione dei docenti è tristemente allarmante: considerato che la maggior parte degli studenti stranieri che vengono nella nostra penisola ha come meta anche imparare l’italiano, il ruolo dei corsi accademici è davvero mortificante. Quasi tutti gli intervistati dichiarano di aver migliorato la propria conoscenza della lingua italiana, ma il 52,6% di loro, più della metà quindi, grazie a rapporti personali con italiani, oppure pagandosi lezioni autonomamente, perché i corsi di lingua italiana organizzati dalle nostre università sono stati ritenuti inadeguati, per non dire inutili. Certamente esistono in Italia situazioni di eccellenza, ma il confronto con giovani di altri Paesi ci invita e ci stimola a qualche riflessione. Probabilmente questi dati toccano anche il nostro amor di Patria e fanno scalpore, ma concordano con il quadro complessivo della nostra università, in gran parte non più all’altezza di rispondere ai bisogni di formazione e di internazionalizzazione che il mondo della nuova economia ci sta richiedendo. Secondo una ricerca della Fondazione Agnelli, gli atenei nazionali si presentano, ai giovani che vi accedono, come "giganteschi labirinti". Nei quali il 60% degli studenti si perdono, vagando tra le diverse facoltà, e un iscritto su quattro, se potesse tornare indietro, sceglierebbe un altro indirizzo di studi. Per non parlare dei cosiddetti "abbandoni sotto l’albero di Natale", cioè gli studenti che lasciano l’università dopo solo il primo trimestre di frequenza: sono quasi il 10% dei nuovi immatricolati. La mancanza di un serio orientamento trascina la generazione dei fuori corso in un baratro di paradossi e depressioni. La disorganizzazione ed il basso livello di molti corsi di laurea riscontrati dagli studenti stranieri sono vissuti quotidianamente sulla pelle dei nostri studenti. Mancanza di orientamento, disorganizzazione, la sciagurata riforma del “3+2”, ha portato la nostra università anni luce indietro rispetto alla media europea; non è un caso se in nostri studenti si laureano 4 o 5 anni in media dopo i loro colleghi inglesi, tedeschi o francesi. Non è un caso se l’esercito dei “fuori corso” costa in termini diretti allo Stato quasi come una legge finanziaria, ma indirettamente i costi sono incalcolabili: giovani che entrano tardi nel mondo del lavoro, che ritardano quindi la costruzione di una famiglia autonoma, che procrastinano sine die nel dare il loro contributo attivo di idee e di innovazione al nostro Paese. In altre parole, se la competitività dell’università italiana è ben lontana, nel suo complesso, dal saper affrontare le sfide dell’internazionalizzazione, come logica conseguenza sarà l’Italia tutta a vedere decadere il proprio ruolo come nazione sia a livello economico sia culturale. La cosiddetta “fuga di cervelli” verso Paesi stranieri dei nostri migliori ricercatori è solo la punta dell’iceberg di questa situazione. Auguriamoci che questa sfida, fondamentale per programmare un futuro degno di questo nome da consegnare alle prossime generazioni, possa essere finalmente raccolta anche dalla politica, da chi avrà in sorte la responsabilità della guida del nostro Paese negli anni a venire.

Genitori in classe? No, grazie.

Continua a far discutere l’iniziativa presa dalla Dirigente scolastica dell’Istituto “Tambosi” di Trento, Francesca Carampin, di permettere ad alcuni genitori di assistere alle lezioni dei propri figli per verificare il comportamento degli studenti e di come essi trattano aule e laboratori della scuola. La stampa locale ha dato all’avvenimento grande rilevanza, sottolineando soprattutto il fatto che “i genitori entrano a scuola per condividere le scelte educative” (“l’Adige”). Cerchiamo di analizzare in sintesi i fatti: la Dirigente ha precisato che “non è un controllo poliziesco o repressivo, ma un modo per lavorare assieme con lo scopo di insegnare ai giovani quel rispetto per gli altri e delle regole che sembra essere stato dimenticato dai ragazzi d’oggi”. La decisione è stata presa in seguito ad un’assemblea con i genitori in cui, riporta ancora “l’Adige”, sono emerse le difficoltà sia della scuola sia delle famiglie che non riescono a trasmettere ai figli-alunni la capacità di riconoscere ruoli e rispettare regole. La scuola, quindi, rivendica un ritorno alla serietà e alla severità. Ad una lettura superficiale sembrerebbe finalmente attuarsi una condivisibile inversione di tendenza rispetto al lassismo che ha permeato le nostre scuole negli ultimi decenni: resta però il fatto che gli studenti sperimentano ogni giorno che molti loro insegnanti (circa il 40 per cento secondo una ricerca Iard) sono poco preparati per non dire del tutto impreparati. Come ricorda Giovanni Cominelli su “Tempi”, perché la scuola non incomincia a essere seria e severa nell’offerta educativa? Una scuola severa con se stessa tutto l’anno dispone della legittimazione per chiedere serietà ai propri alunni, una scuola in cui l’insegnante bravo è premiato e quello incapace è penalizzato può chiedere molto ai propri ragazzi.

Non solo, ma la figura di riferimento degli studenti, l’insegnante che hanno di fronte, è ridotto da tempo, fatte le necessarie eroiche eccezioni, ad essere un mero comunicatore di saperi, con una visione impiegatizia del proprio lavoro. In base a questa visione, figlia legittima di una pedagogia agonizzante post-sessantottina, proprio nel momento dell’adolescenza, dell’età dei mille perché, della ricerca di un senso del proprio operare, che dia risposte alle prime grandi inquietudini della vita, la scuola si è ritirata: ha abdicato ai pedagoghi che l’hanno trasformata in una sorta di centro sociale in cui domina un conformismo melenso di idee, in cui regnano i buoni sentimenti, in cui di tutto si discute fuorché di saperi, in cui si cerca di analizzare la realtà senza averne gli strumenti adeguati che solo la conoscenza del passato ci può fornire. E la realtà in cui i nostri ragazzi vivono rimane estranea, lontana, la scuola è diventata quindi un contenitore vuoto, non più luogo di senso, luogo che permetta di capire perché io adolescente, io persona, vivo, a cosa posso aspirare nella mia vita, quali modelli di riferimento prenderò per intraprendere la strada della vita con qualche certezza di potercela fare. Non è un caso che secondo una recente indagine OCSE ben il 38% degli studenti italiani ha definito la propria scuola come il luogo del non senso; e qui ci poniamo due domande: come ci si sente a vivere gran parte della giornata, per anni, lunghi anni quelli dell’adolescenza, in un luogo al quale non si sente di appartenere, anzi un luogo senza significato? Che valore possono avere quelle regole che adulti senza autorevolezza e autorità chiedono di rispettare? Un adolescente ha bisogno di modelli educativi, di maestri che sappiano rispondere alle immense e mutevoli questioni che a quell’età ogni ragazzo si pone e che se non trovano risposte coerenti, possono sfociare anche in atti di bullismo o di trasgressione più o meno pesante. Non giustifico assolutamente tali comportamenti, ma non voglio nemmeno dimenticare anche la situazione familiare in cui sempre più ragazzi devono vivere, con famiglie esplose in microparticelle affettive, spesso senza un cardine, un luogo dove ritrovarsi stabilmente e confrontarsi. Famiglie che spesso, aihmè, delegano in toto alla scuola il compito di educare i loro figli, come se l’educazione fosse solo la trasmissione di regole e non di condivisione anche affettiva di un percorso. A questo proposito ritengo davvero tristemente significativo il pensiero della Dirigente del “Tambosi”, la quale, certamente in assoluta buona fede e con le migliori intenzioni pedagogiche, afferma che ” per un giorno i genitori hanno scelto di condividere con la scuola metodi e obiettivi educativi“. Per un giorno? E gli altri? Sembra che famiglia e scuola abbiano compiti diversi, come se le domande di senso, di significato dei ragazzi fossero diverse a seconda dell’ora in cui vengono poste e del luogo in cui si trovano. Metodi ed obiettivi educativi dovrebbero essere condivisi integralmente fra genitori e docenti, non part-time, magari ad ore alterne o peggio durante la ricreazione, punendo chi getta le cartacce per terra. Questa, gentilissima Dirigente, ricorda molto da vicino la morale deamicisiana, un moralismo vacuo che certamente finirà per ibernare definitivamente le pulsioni pressanti di quei ragazzi, che chiedono risposte alle eterne domande adolescenziali sul proprio esistere, sulla comprensione della realtà, sul senso di questa nella creazione critica di una propria identità. Quei giovani chiedono di potersi stupire davanti alle cose che vengono loro insegnate, chiedono in maniera maldestra, ma forte, che qualcuno fra i loro insegnanti sappia emozionarli partendo dalla singola materia, strumento di analisi della realtà. I nostri studenti non hanno bisogno di un decalogo di buoni comportamenti e buoni sentimenti “neutrali”, ma di qualcuno che si prenda la responsabilità di indicare loro ipotesi di senso della propria esistenza e che oltre ad istruirli, li sappia anche educare al bello, alla meraviglia, allo stupore della vita, ma questo non avverrà attraverso le circolari interne degli Istituti, ma attraverso un sentimento fra educatore ed educato che nasce dalla condivisione di un percorso, ricordando le parole di don Bosco, il quale sosteneva che “l’educazione è un fatto di cuore”.

Uccisi dalle forze dell’ordine: santi subito?

E’ finita finalmente! E’ finita questa settimana di ordinaria follia che ha percorso l’Italia da Bergamo a Taranto ed i cui guru si sono ritrovati a Genova sabato 17 novembre, dopo essere passati in processione, e qualche volta glorificati, sui maggiori giornali nazionali e trasmissioni televisive tipo “Anno zero“. Il tam tam mediatico che si è succeduto a partire dalla tragica fine di Gabriele Sandri, il supporter della Lazio ucciso da un agente ad un autogrill mentre, al termine di una rissa, si stava allontanando in auto per proseguire il viaggio che lo avrebbe portato allo stadio di Milano, ha raggiunto livelli di desolazione che raramente si ricordano in questo nostro straordinario e disgraziato Paese. Così come desolanti sono stati i commenti alla manifestazione genovese che aveva come scopo principale protestare contro la Commissione Affari Costituzionali del Senato che non ha convalidato la richiesta di una commissione parlamentare sui comportamenti della polizia durante il G8 del 2001. Le reazione di una parte del mondo politico, poi, ha fatto il resto, offrendo ai cittadini un quadro dei suoi membri ancora più disarmante di quanto non fosse già precedentemente ai fatti, drammatici, che si sono susseguiti nei giorni scorsi. C’è davvero qualcosa di paranoico in questo Paese: due gruppi di giovani si incontrano, per caso, in un autogrill; il viaggio è lungo, fanno una pausa. Normale, anzi lodevole, te lo dicono anche i cartelli ai lati dell’autostrada “Stanco? Non rischiare! Fermati al prossimo autogrill.” Solo che da due automobili scendono dei ragazzi che santificano la domenica andando in pellegrinaggio al santuario della propria squadra e di questa portano al collo, talvolta anche tatuato sulla pelle, i segni distintivi: sciarpe colorate esibite come amuleti, per i quali si può dare la vita. I colori delle sciarpe, però, questa volta sono diversi: appartengono ad un’altra religione. Non c’è dialogo, non esiste ecumenismo fra supporters di squadre “nemiche”; comincia la zuffa, che, sembra, degenera in rissa vera e propria. Dall’altra parte dell’autostrada ci sono altri due ragazzi. Questi la divisa ce l’hanno sul serio. Quella domenica la santificano facendo il loro dovere, lavorando, pattugliando quel tratto di asfalto anonimo che segnerà per sempre l’esistenza di uno di loro; chissà cosa aveva intenzione di fare l’agente Spaccarotella, chissà cosa gli passa per la testa. Spara. Uccide. Un ragazzo dall’altra parte del guard rail muore. Inizia una settimana di ordinaria follia. Quasi simultaneamente in tutta Italia scoppiano tumulti, episodi di violenza che sfociano in atti di vera e propria guerriglia urbana. Addirittura a Roma si assalta un commissariato di polizia senza che nessuno intervenga a difenderlo; si scoprirà in seguito che l’ordine di non intervenire in alcun modo è stato dato dal Ministro degli Interni Giuliano Amato. Francesco Cossiga, che nella sua lunga carriera politica è stato anche Ministro dell’Interno, epoca in cui fu ribattezzato “Kossiga”, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano “Libero“: “Se (all’epoca, ndr) gli autonomi avessero assaltato una caserma, c’era il mio ordine scritto di rispondere al fuoco con il fuoco: non si sarebbero mai sognati di farlo perché noi avremmo risposto con le armi. Il fatto è – puntualizza l’ex presidente della Repubblica – che tra chi assalta le caserme della Polizia e dei Carabinieri ci sono non pochi elettori della maggioranza di centrosinistra“. Le notizie rimbalzano, le responsabilità sugli scontri vengono palleggiate fra Ministero degli Interni ed i superiori dell’agente Spaccarotella, il quale è lasciato solo proprio da chi avrebbe dovuto tutelarlo, almeno fino al termine di un regolare processo. I pochi delinquenti fermati sono già a piede libero, salutati dai loro clan come degli eroi. Siamo al far west. E’ già pronta una corda, anzi una sciarpa, per appendere il disgraziato agente.

Anche il funerale del povero Gabriele Sandri non è sfuggito a questo clima di isteria folle. Nel momento del dolore, un dolore straziante come la perdita di un figlio, di un fratello, la cerimonia funebre, il momento estremo in cui si accompagna un nostro caro alla sua ultima dimora, si è svolta in un clima da stadio, peggio: un’atmosfera quasi da cerimonia pagana, dove, al posto della croce sventolavano le sciarpe con i colori sociali dei clubs tenute in alto, simbolo di appartenenza al clan, alla tribù. Poi il rito di coprire con i colori delle squadre di calcio la bara, come un tempo si riservava agli eroi caduti in battaglia con l’alloro. Più che un viaggio verso il Signore sembrava un scena da opera wagneriana, una cavalcata con le Walchirie verso il Walhalla, nel paradiso degli eroi del dio Pallone. Poi i canti. Non quelli sacri, non si parla di resurrezione, non si invocano i santi: al loro posto fuori dalla chiesa l’inno della Lazio, la squadra del cuore di Gabriele. I mass media fanno il resto: come una maionese impazzita mischiano la morte del tifoso laziale ad opera di un poliziotto con la morte dell’agente Raciti a Catania e di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso dal carabiniere Placanica nel corso degli scontri di Genova del 2001. Molti giornalisti e uomini politici, soprattutto a sinistra, hanno iniziato un lavoro di sciacallaggio mediatico che merita la nostra deplorazione: in poche ore i principali gruppi ultras coinvolti negli incidenti di piazza, vengono dipinti come covi di terroristi di estrema destra da estirpare subito con decisione. Poche ore dopo, quando si scopre che gli ultras di quasi tutte le squadre si erano dati appuntamento in vari luoghi delle principali città italiane per compiere atti di guerriglia urbana vera e propria, gruppi politicamente vicini alla sinistra e all’estrema sinistra compresi, allora il discorso cambia, come cambia l’obiettivo della maggior parte degli opinion makers nostrani. Finisce per magia la richiesta di fermezza. Si torna a mettere nel mirino la polizia. Tanto è vero che anche esponenti di spicco del mondo no global, Casarini in testa, si stracciano le vesti e incominciano a cavalcare la protesta verso le forze dell’ordine come non si ricordava dal tragico G8 di Genova. Per l’agente nessuna pietà, nessuna attenuante: il processo non è ancora incominciato, la magistratura non ha certamente terminato il proprio lavoro, ma la sentenza è già stata emessa: omicidio volontario. Portatelo dentro e gettate la chiave. Senza diritto di replica, neppure un sussulto di cristiana pietà. Questa volta i paladini alla “nessuno tocchi Caino” sono rimasti muti, forse in letargo vista la stagione. Li ricordate, al contrario, gli stessi politici e gli stessi mass mediologi quando a morire per mano di un teppista a Catania fu l’agente Raciti? Stuoli di buonisti e sociologi impegnati a cercare di capire il degrado del territorio che ha generato quell’episodio, cercando di spiegare il malessere dei giovani, la mancanza di valori degli adolescenti che avevano commesso quel barbaro assassinio al termine di una partita di pallone. Pippo Baudo che come Salomone dispensava saggezza e tutti lì ad ascoltarlo. All’epoca avevano persino paura a pronunciare la parola “assassino”. Tutti ad intervistare il padre del maggior sospettato cercando di convincerci che l’ambiente, la società degradata meridionale, i Borboni magari, erano i veri colpevoli, non il povero ragazzino che si scagliò contro Raciti. Poi il silenzio. Di tomba. Credo che un minimo di cautela, un pizzico di buon senso potrebbe aiutare a valutare meglio le cose pur senza negare la drammaticità e la complessità dei fatti. Vi è in Italia un sottobosco strisciante che ormai può agire impunemente alla luce del sole, ogni domenica prima, durante e dopo un incontro di calcio; accanto a questi vi sono poi gruppi di no global per i quali non esistono leggi, regolamenti del buon vivere civile; giovani, ma spesso non giovanissimi, tenuti prudenzialmente ai margini, ma utilizzati all’occorrenza per destabilizzare, carne da macello da sacrificare all’altare di una certa politica, legalitaria o movimentista a seconda della convenienza. Sabato 17 novembre, a Genova, queste realtà si sono ritrovate. I partecipanti sono stati meno del previsto, a dire la verità. Non è successo alcun incidente di rilievo, e non possiamo che rallegrarcene; ma insieme a queste realtà spesso al limite della legalità, hanno marciato esponenti politici che rappresentano e sostengono l’attuale maggioranza di governo. E gli slogan contro le forze dell’ordine sono stati ben udibili: “non giustizia, ma vendetta“, “chiesa e polizia, giustizia e vendetta“, “la giustizia non è nei tribunali. Vogliamo la vendetta per Carlo Giuliani“. Vendetta! Tremenda vendetta! A quando l’istituzione di un tribunale del popolo? Presidente Napolitano, Ministro Amato date un segno della vostra presenza alla maggior parte degli italiani che apparentemente invano chiedono legalità, giustizia per tutti in un clima di pacifica convivenza. Se Placanica e Spaccarotella hanno sbagliato sconteranno la loro pena, ma evitiamo di associarci a chi vuole creare attorno alle figure dei ragazzi morti un alone di eroicità metropolitana. A loro vada la nostra preghiera, ma senza dipingerli con in mano la palma del martirio e tenendoli ben lontano da ogni strumentalizzazione politica.

No global contro i martiri spagnoli.

Domenica 28 ottobre 2007 sarà ricordata, soprattutto in Italia ed in Spagna, per due avvenimenti straordinari, legati indissolubilmente tra loro e che hanno contribuito, una volta di più, a screditare il mondo della galassia no global di fronte all’opinione pubblica e alla storia. A Roma, nella chiesa di Sant’Eugenio è stata celebrata la cerimonia di beatificazione di 498 martiri spagnoli caduti per mano dei repubblicani rossi nel corso della guerra civile. Un numero record di beatificazioni avvenute in un solo giorno, proprio nel momento in cui il governo spagnolo presieduto da Zapatero sta discutendo sull’introduzione della «legge della memoria», che, se approvata, altro non porterà che ad una condanna aprioristica e senza appello del periodo franchista. Una ferita aperta, quindi, quella lasciata dalla guerra civile spagnola e che sembra non doversi mai chiudere, soprattutto per la volontà della frange più estreme della sinistra internazionale ed italiana in particolare. Proprio durante e al termine della solenne celebrazione religiosa di Roma, un gruppo di no global ha innalzato cartelli e striscioni in cui si leggeva, tra le altre cose, “Viva la brigata internacional”, “Chi ha ucciso, torturato e sfruttato non può essere beato”; altri manifestanti hanno innalzato cartelloni con impresso il celebre quadro di Picasso “Guernica”, diventato il simbolo della resistenza repubblicana contro il dilagare del franchismo in Spagna. Ma i gruppi di contestatori no global nostrani hanno qualche ragione valida per opporsi alla beatificazione dei 498 martiri spagnoli? Iniziamo una breve analisi dei fatti, ricordando doverosamente che la maggior parte delle vittime beatificate, spesso giovanissime, furono sacerdoti, suore, frati, che subirono, prima di essere uccise, torture paragonabili al supplizio di Gesù Cristo e i cui corpi furono quindi lasciati alla mercè della soldataglia comunista per giorni prima di essere cosparsi di benzina e bruciati. Non credo di poter essere smentito se affermo che nessun altra guerra civile ha raggiunto gli apici di violenza e di odio ideologico paragonabili a quelli scatenatisi durante la guerra civile che insanguinò la Spagna tra il 1936 ed il 1939. Guerra ideologica certamente, supportata con grande dispendio di mezzi e uomini dalle grandi potenze totalitarie dell’epoca, Germania, Italia ed Unione Sovietica. La peculiarità di questa guerra risiede però nella volontà esplicita da parte delle forze repubblicane di eliminare forzatamente e definitivamente ogni traccia della gloriosa e radicata presenza cattolica nel mondo spagnolo; per portare a termine questo disegno mefistofelico si utilizzarono modalità talmente raccapriccianti che ancora oggi appaiono quasi incredibili: dati ufficiali parlano di 6834 vittime tra i religiosi spagnoli, tra cui ben 13 vescovi e 283 suore. Per non parlare dell’immenso patrimonio artistico distrutto dalla ferocia anticristiana dei comunisti, dei socialisti e degli anarchici, sia spagnoli sia membri delle brigate internazionali. Furono profanate chiese, fucilate statue del Cristo, di Santi, della Vergine Maria, messi al rogo migliaia di libri e testi sacri o a carattere religioso. Per essere seviziato ed ucciso bastava portare addosso, al collo o in tasca un’immagine sacra: ci sono giunte testimonianze di crocifissioni messe in atto contro persone sospettate di vicinanza alla chiesa cattolica. Non ne erano più state eseguite dai tempi delle grandi persecuzioni dell’Impero Romano. Molti cadaveri non furono mai ritrovati.

Un odio cieco e spietato che non si può spiegare solo attraverso un’analisi politica dei fatti, in una lotta contro il “fascismo” come per tanti anni abbiamo sentito ripetere dalla maggior parte della storiografia italiana. Per decenni abbiamo assistito ad una divisione manichea della storia, dove tutti i buoni stavano da una parte, in questo caso i “rossi”, ai quali si perdonava tutto in quanto portatori della giusta causa; se poi si massacravano anche migliaia di religiosi inermi, si faceva finta di non sapere oppure si cercavano giustificazioni banali, indicandoli come fiancheggiatori, se non complici del franchismo. A distanza di tanti anni dalla fine della guerra, a 32 anni dalla morte del “Caudillo” Franco e , soprattutto, dopo l’implosione dei regimi comunisti dell’est, si sperava di poter discutere e valutare le terribili vicende della guerra civile spagnola con il distacco dello storico, obiettivamente e senza partigianeria di giudizio: evidentemente per buona parte dell’universo legato alla sinistra il tempo si è fermato. Mi spiace (quasi) che i no global romani non abbiano pensato di utilizzare meglio il loro tempo per studiare ed approfondire quelle vicende invece di preparare striscioni grondanti del sangue dei martiri spagnoli. Avrebbero forse scoperto che l’accusa periodicamente mossa ai religiosi spagnoli di essere una sorta di “quinta colonna” franchista e che proprio per questa ragione furono uccisi, anzi, “giustiziati”, è infondata alla radice: l’odio anticristiano delle milizie comuniste, socialiste, senza dimenticare il supporto degli ambienti repubblicani e massoni, iniziò già nel 1931, con l’approvazione di una Costituzione “laica”, ma forse si potrebbe già definire laicista; l’anno seguente si vietò l’esposizione di ogni simbolo religioso dalle scuole, l’insegnamento della religione in tutte le scuole di ogni ordine e grado e si promulgò una legge che introduceva il divorzio. Nel 1933 si introdusse una legge che sottoponeva il culto cattolico al controllo dell’autorità civile. Nel 1934 si cominciano a contare le prime esecuzioni di religiosi e di cattolici laici durante la rivolta delle Asturie. Un martirio vero e proprio legato alla devozione e non al credo politico come ancora sostengono i militanti dei centri sociali romani, fermi su posizioni ideologiche preconcette ormai superate dall’evolversi stessa della storia. Come ben ha ricordato Papa Ratzinger al termine dell’Angelus del 28 ottobre “I martiri uccisi in Spagna sono uomini e donne diversi per età, vocazione e condizione sociale, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa”.