Ritorno alla disciplina nella scuola italiana?

Riprendiamo il dibattito in corso intorno alla proposta del Ministro Fioroni di reintrodurre gli esami di riparazione nella scuola superiore, anche alla luce delle manifestazioni di protesta che gli studenti hanno inscenato in tutta Italia, a dir il vero con esiti poco lusinghieri per non dire controproducenti, data la totale disorganizzazione mostrata e la quasi assoluta mancanza di proposte alternative avanzate o di ipotesi di confronto costruttivo. Non mi voglio soffermare sul riscontro che le varie manifestazioni studentesche hanno ottenuto sui mezzi di informazione, certo non possiamo neppure mettere la testa sotto la sabbia e far finta di non avere visto e sentito centinaia di ragazzi e ragazze, anche giovanissimi, scandire per ore un unico slogan, “Fioroni, Fioroni vaffa….”, e trascorrere la mattinata a bere dopo aver fatto scorta di alcolici nei supermercati. A Trento, di fronte alla residenza dell’Arcivescovo sono stato testimone di un episodio che da solo meriterebbe un’analisi di qualche educatore o almeno di un sociologo: quattro, cinque ragazzine ubriache fradice, bottiglia in mano che urlavano bestemmie all’indirizzo dell’Arcivescovo. Senza motivo, gratuitamente, abbruttite, senza comprendere la gravità del gesto e il vuoto culturale ed esistenziale in cui sono sprofondate. Dell’intervento dei no global, provocatori per antonomasia, il cui leader trentino si è distinto per aver spento un sigaro in faccia ad un ragazzo reo, a suo dire, di averlo provocato (sic!) si è già dibattuto anche sulle pagine del nostro sito. Ma se questa è una fetta importante della nostra gioventù, di quella che dovrebbe essere un domani, sempre più lontano, la classe dirigente del nostro Paese, allora il problema principale che come operatori della scuola ci dovremmo porre, a partire dal Ministro Fioroni, ruota intorno al problema dell’educazione di un popolo; la logica usata invece dal Ministro è quella di proporre una severità tout court verso gli studenti senza andare ad incidere sul ruolo educativo e formativo che la scuola italiana sembra aver smarrito da tempo. Di questo avevamo già argomentato su questo blog nell’articolo “Esami di riparazione: tra severità e indulto“, in “Scuola educazione”. A supporto di questa tesi e come ulteriore momento di dibattito e confronto, mi permetto qui di seguito di proporre la lettura di un articolo di Giovanni Cominelli apparso sul settimanale “Tempi” del 18 ottobre 2007 dal titolo: “Il ritorno alla disciplina non sarebbe così fischiato se solo la scuola fosse più severa anche con se stessa”.

Arriva l’autunno, gli studenti scendono in piazza. E’ così da qualche decennio, dal ’68 in avanti. Sociologi, pedagogisti, giornalisti e politici accorrono sui marciapiedi per decifrare gli slogan, individuare i trend e arruolare i manifestanti pro o contro il governo di turno. Ogni anno l’innesco della miccia è diverso. Quest’anno è il decreto di Fioroni sui debiti formativi, presentato come una tappa del ritorno alla severità e alla serietà. Gli studenti scesi per le strade sono contrari. Ma sotto il “no” si leggono in filigrana motivazioni diverse. Alcuni portano in piazza la convinzione che lo studio è un diritto non accompagnato dal dovere. La scuola è vissuta come un ambito di socializzazione, di adolescenza lunga, di parcheggio, di rinvio delle responsabilità. Sono contrari a ogni verifica personale, a ogni certificazione effettiva. Hanno assorbito la mentalità adulta diffusa nel paese: tirare a campare e portare a casa un titolo di studio, dotato del pieno valore legale e del massimo disvalore reale. Tanto, alla fine, chi ha i soldi o è furbo se la cava sempre. Il fatto strano è che si credono di sinistra. Altri invece portano in piazza, ancorché confusamente, la coscienza d’essere l’ultima ruota del carro. La scuola rivendica un ritorna alla serietà e alla severità. Ma i ragazzi sperimentano quotidianamente che molti loro insegnanti (circa il 40 per cento secondo una ricerca Iard) sono impreparati. Perché la scuola non incomincia a essere serie e severa nell’offerta educativa? Una scuola severa con se stessa tutto l’anno dispone della legittimazione per chiedere serietà ai propri alunni, anche agli esami, una scuola in cui l’insegnante bravo è premiato e quello incapace è penalizzato può chiedere molto ai propri ragazzi. Una scuola capace di accompagnare ciascun ragazzo personalmente può anche chiedergli di fermarsi un anno o di frequentare qualche corso supplementare. Una scuola in cui le discipline siano molte meno e in cui ci sia una gerarchia di importanza tra di esse può decidere quali siano i debiti insolvibili e quelli che si possono realisticamente recuperare. Una scuola capace di dire la verità a se stessa è accettata se dice la verità nuda e cruda ai ragazzi, mediante una certificazione rigorosa e senza sconti. Qui invece capiscono confusamente di essere solo i cirenei. Una scuola irreformata da decenni può chiedere una riforma della mentalità lassista e irresponsabile dei nostri figli?

Finanziaria 2008: attacco alle Forze Armate.

Stiamo ancora discutendo sulla Legge finanziaria del 2007, con tutti i pasticci e le nefandezze che ha provocato e continua a provocare, che giunge all’orizzonte quella del 2008, carica di speranze e di attese. Vedremo quali e quante tasse andremo a pagare nel prossimo anno, ma felici, supportati dalla parola del Ministro Padoa Schioppa secondo il quale, ricorderete, “pagare le tasse è bellissimo”. Non ce ne siamo mai accorti, ma sarà certamente per colpa nostra e chiediamo immediatamente scusa. Non entro nel merito specifico della nuova finanziaria, non sono un tecnico, ma vorrei soffermarmi su un articolo, il numero 82, nemmeno fra i più importanti in un’ottica prettamente economica, ma certamente significativo, da un punto di vista simbolico ed ideale, del clima che anima l’attuale coalizione di governo. L’articolo in questione cita testualmente: La Legge Finanziaria 2008 (A.S. n. 1817) nell’ambito delle iniziative tendenti a razionalizzare gli Enti Pubblici dello Stato, prevede che all’U.N.U.C.I. venga tolto lo status di Ente Pubblico riconosciuto con la Legge n. 311/2004. La sigla “U.N.U.C.I.”, per la gran parte degli italiani sconosciuta, è l’acronimo di Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia, la quale, come cita l’articolo 3 del suo statuto, è apolitica ed accoglie gli ufficiali in congedo dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, dei Corpi Armati dello Stato, della Croce Rossa Italiana e del Sovrano Militare Ordine di Malta, di qualsiasi grado e in qualsiasi posizione, nonché i cappellani militari appartenenti al ruolo ausiliario ed a quello della riserva. E’, quindi, l’associazione che raggruppa tutti gli ufficiali di ogni arma e reparto che hanno servito il Paese, in guerra ed in pace. Un’associazione che lega idealmente chi ha dedicato una parte o tutta la vita al servizio dello Stato e alla difesa del Paese. Un’associazione ben viva e vitale che non si è chiusa a riccio in un bunker di revanscismo e nostalgie del passato: gli iscritti si occupano di volontariato, di fornire supporto legale agli ex appartenenti alle varie forze armate italiane, organizzano attività di aggiornamento continuo in accordo con il Ministero della Difesa. Tutto questo però non basta a sottolineare il valore di associazioni come quella in questione; il maggior merito che deve essere riconosciuto è quello di difesa e divulgazione della nostra memoria storica, della nostra identità di popolo, della salvaguardia della nostra storia nazionale, troppo spesso dimenticata o travisata, in una parola la nostra tradizione. Proprio su questo punto, ritengo, vale la pena riflettere: la finanziaria attuale e quella passata sono palesemente condizionate dalla sinistra estrema, quella sinistra che basa le proprie azioni su presupposti ideologici, classisti: dopo aver penalizzato lo scorso anno artigiani, commercianti, l’esercito della partita IVA, questa volta tenta di completare l’opera smantellando anche un’associazione d’arma composta da cittadini per i quali la parola Patria ha ancora un significato profondo, senza cadere nel nazionalismo e nella retorica. Quello che emerge negli ambienti delle Forze Armate è la sensazione di essere stati abbandonati dal Governo e la certezza che questo Stato sia ostaggio di una parte politica radicale che denigra e svilisce tutto ciò in cui decine di migliaia di persone credono e che questa Nazione hanno comunque giurato di difendere, anche a costo della vita. La spesa per la Difesa è ai minimi storici e addirittura si qualificano le associazioni degli ex ufficiali come enti inutili. Intristisce, inoltre, vedere come anche certa stampa abbia supportato supinamente la proposta del Governo di abolire lo status di Ente pubblico all’U.N.U.C.I., gettando fango senza verificare i dati riportati; è il caso de “Il Sole-24Ore” del primo ottobre 2007, dove è apparso un articolo sulla Finanziaria 2008 nel quale, tra l’altro, si affermava che “alla governance dell’UNUCI concorrono 44 persone e che negli ultimi anni ha registrato anche meno di 100 iscritti”. Il giornale di Confindustria si mostra quindi virtuoso contro i deboli, giustifica il taglio ai contributi all’Ente in oggetto, si tratta di circa 100.000 Euro all’anno, e non verifica, supponendo che a nessuno interessi, tali cifre, le quali in realtà sono ben diverse e ben più significative: l’U.N.U.C.I nazionale conta venti collaboratori volontari e quattro impiegati con una struttura di oltre 43.000 soci, ufficiali di tutte le Forze armate, e che negli ultimi quattro anni ha registrato 6.077 nuovi iscritti. Un mondo di persone che, come ricordavo sopra, opera ancora al servizio del Paese, donando migliaia di ore di lavoro oscuro, manuale e culturale, al servizio della comunità. E’ palese la discriminazione in atto verso una parte di cittadini italiani che non scenderanno mai in piazza per protestare e non devasteranno città per affermare le loro ragioni calpestate e difendere le idee e gli ideali che li hanno accompagnati e guidati per tutta la vita. Ormai è evidente come ci sia una parte della nostra società profondamente anti-italiana, che calpesta i valori in cui si identifica la maggior parte del nostro popolo, facendo della storia e delle persone che l’hanno fatta e ancora oggi la stanno facendo, un uso strumentale tentando di eliminare “legalmente” le ultime sacche di resistenza della memoria. Naturalmente non faremo passare tutta questa operazione sotto silenzio, non possiamo alzare bandiera bianca senza provare a resistere e a reagire e per questo occorre il supporto di tutti, anche di coloro non hanno servito il Paese in armi, ma che hanno potuto vivere e vivono in libertà e prosperità anche grazie agli uomini in uniforme: un primo passo importante è sensibilizzare le alte cariche dello Stato sottoscrivendo una petizione all’indirizzo: http://www.firmiamo.it/unuci.

Esami di riparazione: tra severità e indulto.

Il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni ha annunciato che intende ripristinare gli esami di riparazione, cancellati dall’allora ministro D’Onofrio nel 1995. La decisione, naturalmente, ha aperto la porta a discussioni infinite fra favorevoli e contrari, in una classica disfida fra guelfi e ghibellini che certamente si protrarrà anche nei prossimi mesi. Procediamo per ordine e cerchiamo di analizzare la questione partendo da alcuni dati statistici. Gli esami di riparazione sono stati aboliti nelle scuole elementari e medie nel 1977 e nelle scuole secondarie superiori con la legge 352 dell’8 agosto 1995. Al loro posto furono introdotti i cosiddetti debiti formativi, che l’alunno avrebbe dovuto saldare durante l’anno scolastico seguente, ma che, anche in caso di perdurante insufficienza in una o più discipline, non pregiudicava (e non pregiudica fino ad oggi) in alcun modo la frequenza all’anno successivo. Pur lodevole nelle intenzioni, l’introduzione del sistema di recupero tramite “saldo del debito”, ha portato ad una situazione per certi versi paradossale: secondo dati ufficiali del Ministero, negli ultimi anni, in media, 42 alunni su 100 sono stati ammessi alla classe successiva pur in presenza di almeno un debito formativo. Il dato però più significativo è che di questo 42% di studenti, ben il 75 % passa alla classe successiva senza aver mai recuperato il proprio debito, in altre parole, senza aver colmato quelle lacune per cui il consiglio di classe aveva segnalato l’insufficienza; solo uno su quattro, quindi, si è sforzato di recuperare le lacune precedentemente accumulate. Si è giunti al paradosso per cui, fino ad oggi, era possibile che gli studenti con un profitto non sufficiente in una o più discipline, completassero il loro percorso scolastico per intero senza mai colmare queste insufficienze.

E qui interviene il Ministro Fioroni, il quale annuncia che è arrivato il momento di portare “serietà” nel mondo della scuola. Nessuna persona di buon senso potrebbe dargli torto, al solo annuncio di maggiore severità nella valutazione si sono scatenati plausi bipartisan da parte dell’opinione pubblica, mentre, come qualcuno di voi avrà certamente notato, nel mondo della scuola, non sono poche le voci critiche, quando non contrarie del tutto. Cerchiamo di capire perché o, almeno, proviamo a comprendere la perplessità di chi, fra cui il sottoscritto, dubita dell’efficacia del provvedimento introdotto in questi termini, senza una visione strategica dell’intero mondo della scuola superiore. La storia recente, ahimè, non ci aiuta ad essere ottimisti; già lo scorso anno, ricorderete, fu varata la riforma dell’esame di maturità (lasciatemelo chiamare così) che prevedeva la reintroduzione della figura del commissario esterno: i dati finali relativi ai respinti all’esame di maturità 2007 evidenziano un raddoppio rispetto all’edizione dello scorso anno, passando da 3,3% al 6,6%. Anche qui, a prima vista, nulla da eccepire, verrebbe da dire che qualche somaro ha raccolto quanto seminato nel corso del quinquennio. Le cose non stanno purtroppo così: a parte la decisione presa ad anno scolastico iniziato che ha posto non pochi problemi organizzativi e metodologici alle varie scuole, come se un arbitro di una partita decidesse di cambiare le regole del gioco fra il primo e il secondo tempo, il fulcro della questione è che si è voluto iniziare una riforma della scuola superiore, l’ennesima, partendo dalla fine, ma lasciando inalterate tutte le altre componenti che hanno portato in molti casi al degrado della scuola. Il concetto emerso lo scorso luglio di “più bocciati uguale più serietà” non è veritiero. Non si attende l’esame finale per decidere se uno studente è in grado o meno di affrontare un percorso formativo universitario o pronto per accedere al mondo del lavoro. L’esame dovrebbe semplicemente certificare le competenze raggiunte dallo studente nel corso del quinquennio di studi, non una prova che talvolta sembra isolata dal contesto precedente, un concorso a quiz avulso dal curriculum di studi effettivamente svolto. Anche nella scorsa maturità sono stati presentati testi di matematica e di italiano, completamente staccati dal reale programma svolto dagli studenti, tracce impossibili da svolgere in quanto mai affrontati in classe o addirittura non previsti da alcuni curriculum di studi.

Così come per gli esami di riparazione, si tenta di introdurre criteri di severità, ma senza andare a modificare le cause che portano in molti casi all’insuccesso formativo degli studenti. Non si dice nulla, ad esempio, di come prevenire gli insuccessi scolastici durante il corso dell’anno scolastico; si parla di organizzare, nel corso di ogni anno scolastico, subito dopo gli scrutini intermedi, corsi di recupero per gli studenti che abbiano qualche insufficienza. I famigerati corsi di recupero sono già previsti dalla normativa in corso e i risultati di tali recuperi sono davvero sconfortanti. Il Ministro non dice nulla riguardo la motivazione allo studio, all’aiuto concreto che si dovrebbe dare allo studente di poter scegliere l’indirizzo di studi più consono alla proprie inclinazioni ed ai propri interessi. Ma qui è stata abolita prima di nascere la figura del tutor, proposta dal Ministro Moratti, che avrebbe certamente contribuito ad accompagnare il ragazzo nelle sue scelte e nel suo percorso formativo e, nelle intenzioni, avrebbe potuto anche prevenire qualche insuccesso scolastico. Ho l’impressione che anche l’introduzione dell’esame di riparazione voglia nascondere problematiche più profonde. Si interviene solo in fase “punitiva” intorno allo studente, fase che certamente non deve mancare, ma senza mettergli a disposizione quegli strumenti che gli possano permettere di superare con successo le difficoltà che lo studio comporta. La priorità, a mio avviso, dovrebbe concentrarsi sulla figura del docente, in gran parte fautore del successo o del fallimento scolastico dei nostri ragazzi. Nulla si dice sulla valutazione della effettiva preparazione del singolo insegnante, del suo ruolo non solo informativo, ma anche formativo. Non una parola è stata spesa e, possiamo scommettere, sarà utilizzata, in questo senso. Dopo decenni in cui il ruolo docente è stato via via degradato fino a farlo diventare un operatore sociale tout court, una sorta di baby sitter per bambini cresciuti, ora d’improvviso come per magia lo stesso insegnante deve intervenire bocciando o rimandando.

Non una parola sul suo ruolo educativo, che, intendiamoci, prevede anche il momento della verifica e della punizione se necessaria, ma che deve innanzi tutto motivare il giovane allo studio, fargli capire che non è il titolo di studio, il “pezzo di carta” che potrà cambiare in meglio la sua vita, ma le competenze acquisite, un metodo di lavoro e di apprendimento che lo possano aiutare anche all’università e nel mondo dell’impresa, e da ultimo, ma non per ordine di importanza, fargli capire che stiamo investendo su di lui risorse, energia e anche affetto. Silenzio assoluto sui criteri di selettività del corpo insegnanti. Possibile che si parli dei docenti solo in caso di atti di bullismo, fatti o ricevuti, o quando c’è una qualche vertenza sindacale intorno allo stipendio? Possibile che la tanto decantata autonomia scolastica non possa riguardare anche la scelta dei docenti? Le eccellenze non mancano, anzi rispetto a qualche anno addietro il livello medio del corpo docente è migliorato, ma le mele marce che ne infangano ruolo e prestigio non possono essere allontanate o rimosse, previo rischio di sollevazioni della triplice sindacale. Tornando agli esami di riparazione, non possiamo non portare alla luce altre questioni da non sottovalutare: le verifiche, gli esami, dovranno essere tenuti entro il 31 agosto. Non solo: al termine di questi corsi o interventi didattici lo stesso Consiglio di classe, “in sede di integrazione dello scrutinio finale, procede alla verifica dei risultati conseguiti e alla formulazione del giudizio definitivo”. Il tutto entro il 7 settembre. Ci sono quindi problemi organizzativi enormi: molti docenti sono impegnati fino alla metà di luglio con gli esami di maturità, si richiederebbe di rinunciare a qualche giorno di ferie a fronte di un probabile guadagno pecuniario irrisorio. Vi è un altro timore che serpeggia soprattutto fra gli addetti ai lavori: quali consigli di classe avranno la fermezza, il coraggio, la convinzione di bocciare un alunno che a settembre dimostrerà di non aver colmato le lacune dell’anno scolastico precedente? Bocciato per una materia, magari non caratterizzante il percorso di studi? Il timore, o forse qualcosa di più, è che si cercherà una via per così dire, a metà tra il buonismo e l’indulto: verrà assegnato allo studente un “sei” ufficiale, che non lascia traccia, al contrario di oggi, nel curriculum personale di studi. Ma le lacune rimangono… Si tratta, me ne rendo conto, di un’interpretazione forzata non suffragata, per ora, da prove, ma non occorre essere grandi indovini per prevedere in molti casi esiti come quelli sopra descritti. Infine, vi è il capitolo dei finanziamenti che non può e non deve essere sottaciuto, perché queste novità comporterebbero un aggravio di lavoro sui docenti (in particolare durante l’anno) con conseguente aumento delle indennità e la questione nell’attuale bozza è rinviata in sede di contrattazione sindacale; inoltre, il Ministro non ha saputo spiegare fin ad oggi a quali risorse finanziarie attingerà per far fronte ai prevedibili aumenti di spesa che gli esami a settembre comporteranno. Il timore è che si vadano a tagliare risorse sul budget delle singole scuole per progetti, interventi didattici o uscite, viaggi di istruzione e aggiornamento docenti. Attendiamo gli sviluppi e certamente la questione esami di riparazione la riprenderemo ancora, anzi visto che siamo in tema, la rimandiamo a future discussioni che, stiamone certi, non mancheranno.

3 ottobre 1990: un anniversario dimenticato.

Sono trascorsi soltanto diciassette anni da quel 3 ottobre 1990, quando a Berlino, allo scoccare della mezzanotte, venne proclamata ufficialmente la riunificazione della Germania. Terminava un capitolo centrale della guerra fredda e si chiudeva una delle pagine più drammatiche della storia europea. Quasi un anno dopo la caduta del muro, avvenuta il 9 novembre 1989, un milione di tedeschi si è dato appuntamento davanti al Reichstag e tutta una nazione è incollata davanti alla televisione per seguire una cerimonia attesa da due generazioni, un evento storico che nessun politologo avrebbe nemmeno immaginato due anni prima. Oggi quell’evento, che ha avuto conseguenze tanto importanti dal punto di vista politico, economico, ma anche simbolico, sembra essere stato dimenticato da tutti i mezzi di informazione, almeno italiani. Quella cerimonia solenne e gioiosa non rappresentò soltanto l’inizio di una nuova era per la Germania, seppur difficile e piena anche di contraddizioni, ma svelò al mondo intero il fallimento del regime comunista della Repubblica Democratica Tedesca, la DDR. La Germania Est era nata nel 1949 sui territori dei cinque L?nder orientali occupati dall’Armata Rossa nel 1945. Fin da subito gli emissari del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) iniziarono un’opera di sovietizzazione dei territori sotto il controllo russo, attuando una sistematica e capillare caccia ai possibili avversari del regime. E’ una pagina di storia che quasi mai trova posto nei libri dei nostri studenti: tra il 1945 ed il 1950 furono internate circa 122.000 persone, tra queste ben 43.000 morirono di stenti o in seguito a sevizie subite e 756 furono condannate “ufficialmente” a morte. Ma ciò che non viene mai ricordato è che i “liberatori” sovietici ed i loro seguaci locali, adoperarono a tale scopo i tristemente famosi Lager già utilizzati dai Nazionalsocialisti, tra cui Sachsenhausen, e Buchenwald, non lontano da Weimar, città simbolo del Classicismo tedesco: luogo di cultura, di vette letterarie inarrivabili grazie alle opere di Goethe e Schiller e luogo di morte tra i più terribili della storia. Palcoscenici della tragedia dei regimi totalitari del Novecento, in una danza macabra dove le vittime diventarono aguzzini.

Dopo il 1950, il partito unico alla guida della DDR, il SED, Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (Partito socialista dell’unità tedesca) con zelo tipicamente teutonico, completò l’opera dei compagni russi e fece in modo di arrestate e perseguitare dalle 40.000 alle 60.000 persone. La maggior parte degli arrestati e molti di coloro che non fecero più ritorno dai quei campi di concentramento, non avevano commesso gravi crimini contro il neo costituito regime; la loro grave colpa, davanti agli occhi dei nuovi padroni, fu di appartenere ad associazioni, sindacati, gruppi politici locali, sacerdoti, insegnanti, a quella società civile che aveva davvero sperato in un cambiamento della società tedesca dopo la terribile parentesi hitleriana. Ma non avevano fatto i conti con un regime che non poteva tollerare un rappresentatività politica e sociale proveniente “dal basso”; le cosiddette “democrazie popolari” temono la partecipazione diretta del popolo vero alle questioni politiche. Non sorprende, quindi, che nel 1953 la grande rivolta contro il regime comunista tedesco orientale, guidato da Walther Ulbrich, fu organizzata dagli operai, soprattutto dei cantieri edili di Berlino Est, per protestare contro le difficili condizioni di lavoro e di vita cui erano costretti. Anche in questa occasione la repressione fu terribile: oltre un centinaio di morti e circa 14.000 arrestati. Pochissimi in Italia alzarono la loro voce per denunciare l’accaduto, parole al vento: nel 1953 si piangeva la morte di Stalin… Il vero messaggio che tutti ascoltavano, anzi, ossequiavano, era il volto ufficiale del regime, quello rappresentato dalle opere di Bertolt Brecht, autore che ha trovato, e trova, nel nostro Paese terreno fertile per la messa in scena delle sue opere naturalmente antifasciste, anticapitaliste, antioccidentali. Pochi ricordano che Brecht fu uomo del regime, sostenuto finanziariamente per rappresentare nel mondo il volto del “Sol dell’Avvenire” in versione tedesca.

Un sole che tramontò definitivamente il 13 agosto 1961, quando Berlino, anzi, quando il mondo si trovò diviso da un muro alto 3 metri e 60 centimetri. Il muro per antonomasia. Simbolo di ogni divisione e di ogni sofferenza. L’ipocrisia dei governanti di allora lo definì il “muro antifascista” oppure “anticapitalista”. Quante tragedie intorno a quel mucchio di cemento armato e filo spinato che doveva difendere i figli felici del “socialismo dal volto umano” dall’assalto feroce dei reprobi capitalisti occidentali. Talmente felici gli abitanti della DDR che per controllarli, il servizio di sicurezza interno, la famigerata STASI, acronimo di Staatssicherheit (Sicurezza di Stato), poteva contare su una rete di circa mezzo milione di informatori, naturalmente pagati dallo Stato; poco prima di implodere, la DDR guidata da Erich Honecker arrivò ad avere quasi 600.000 informatori, o quantomeno collaboratori, legati a doppio filo alla STASI, la quale fu, senza dubbio, il più importante datore di lavoro dell’allora Germania Est, il vero collante del regime, l’organo che con i suoi tentacoli riuscì a creare il consenso all’interno del Paese. Peccato che in Italia, il Paese con il più importante partito comunista del mondo, esclusi i satelliti di Mosca, sui testi scolastici non si trovava traccia delle reali condizioni della DDR e dei Paesi al di là della “Cortina di ferro”. Ancora oggi non sono molti, uso un eufemismo, i libri adottati nelle nostre scuole che ripercorrono criticamente quegli anni e le vicende di quei regimi. Si è talmente fatta opera di rimozione della memoria, che difficilmente uno studente italiano saprebbe raccontare, anche a grandi linee, le vicende legate al dopoguerra tedesco, alle tragedie causate da uno dei regimi più sanguinari ed illiberali della storia, quasi che la storia della Germania finisse nel 1945 e precipitasse poi in un limbo indefinito. Ecco allora che in mezzo a tanti uomini di cultura, giornalisti, editori, personaggi politici italiani allora compiacenti con quel regime, oggi alcuni ancora al potere, risulta davvero profetico rileggere uno scritto del 1984 di un personaggio, già allora controcorrente, che scrisse, in un mare di polemiche, che “Milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertà fondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari e atei che si sono impadroniti del potere per vie rivoluzionarie e violente, proprio in nome della liberazione del popolo. Non si può ignorare questa vergogna del nostro tempo: proprio con la pretesa di portare loro la libertà, si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell’uomo”; quel signore, un tedesco della Baviera, si chiamava Joseph Ratzinger…

Il vescovo ubbidisca al sindacato!

Il quotidiano “l’Adige” di sabato 15 settembre ospita un commento di Vincenzo Bonmassar, promotore del referendum del 30 settembre prossimo contro il finanziamento alle scuola paritarie della provincia di Trento, il quale, non avevamo molti dubbi a riguardo, mette in campo tutte le argomentazioni più retoriche ed ideologiche a sostegno dell’abolizione del suddetto finanziamento. Procediamo con ordine. Il casus belli che ha spinto il responsabile Scuola della UIL del Trentino ad imbracciare la penna e partire lancia in resta, è stato l’intervento dei giorni scorsi dell’Arcivescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, il quale, legittimamente e motivandone le ragioni, ha preso posizione a favore dell’astensionismo. Apriti cielo! Esordisce Bonmassar sottolineando il fatto che ” il dibattito e la polemica sono graditi e dovuti, fatto salvo che il tutto deve rispettare alcuni (perché non tutti?, ndr.) criteri di correttezza. Ci deve essere corretta informazione ed anche onestà di intenti“. Non possiamo non essere in accordo, ma questo vale per tutti, incominciando dai promotori del referendum, i quali da mesi distribuiscono manifesti e locandine contenenti messaggi fuorvianti, quando non smaccatamente falsi nei contenuti. Prosegue Bonmassar: “interviene il Vescovo di Trento e le cose diventano ancora peggiori perché costui (sic!) approfitta della sua indiscussa autorità morale per invitare i cittadini a non esprimersi sul tema come altri cittadini, legittimamente e nel rispetto delle regole, hanno chiesto e ottenuto. Dunque il Vescovo ritiene che i firmatari della richiesta di indire il referendum vadano svillaneggiati e derisi come se non contassero nulla. Questa è la semplice, coerente e logica conclusione del suo poco spirituale intervento“. Davvero singolare il linguaggio ed i toni usati: un attacco all’Arcivescovo che come pastore e, perché no?, come cittadino, ha voluto dare il proprio contributo al dibattito in corso, ma esprimendo una posizione divergente da quella dei promotori avrebbe svillaneggiato e deriso i firmatari del referendum. Siamo alle solite: la democrazia e il pluralismo dei Bonmassar e degli ultimi statolatri valgono solo se l’opinione è unica e, naturalmente, coincide con la loro, altrimenti diventa offesa, anzi svillaneggiamento… Non ricordo interventi del signor Bonmassar quando, nel corso dell’estate, il Presidente del Consiglio Romano Prodi affermò che i preti dovrebbero prendere posizione durante la Santa Messa contro gli evasori fiscali. In quel caso la posizione, l’opinione degli esponenti della Chiesa sarebbe legittima e sufficientemente spirituale? Non ci sarebbe ingerenza negli affari dello Stato? Ma proseguiamo nell’analisi dell’articolo. Dopo aver affermato che le scuole di tendenza, come vengono definite, sono “prive di libertà di insegnamento, come ben si sa (!), ma che sono riconosciute nella loro anomalia costituzionale da norme apposite e che specificatamente servono a fare riconoscere il titolo di studio da queste rilasciate.” Vorrei dire al signor Bonmassar che conoscendo bene, dall’interno il mondo di queste scuole di “tendenza”, avendoci lavorato per 15 anni, non mi sono accorto di veder lesi i miei diritti di libero docente e, almeno spero, non credo di aver mai privato i miei studenti della possibilità di esprimere liberamente la loro opinione. L’articolo prosegue e poco dopo ci imbattiamo in una serie di pensieri che fanno rabbrividire tanto forte è la carica di giacobinismo e furore classista; non solo mons. Arcivescovo non avrebbe dovuto esprimere la sua opinione, ma il signor Bonmassar, dall’alto della sua crociata anticattolica, perché a ben guardare solo di questo si tratta, si permette perfino di giudicare le persone che liberamente hanno scelto di iscrivere il loro figlio in una scuola cattolica. Riporta il testo: ” … sono anche scuole in grado di coinvolgere qualche migliaio di utenti i quali si dividono in due categorie. La prima … è quella che crede fermamente che la Repubblica e la sua scuola rappresentino una minaccia educativa. Integralisti, penitenti, confessionali e pessimisti sono qui ben rappresentati, ma sono pur sempre una minoranza rispetto all’altra categoria che è fatta di utenti che scelgono orari a tempo pieno e scuole che non risentono della minaccia del mondo essendo sostanzialmente protetti da utenti extracomunitari ed alunni handicappati.” A quando la ghigliottina per tali utenti? Chiedo scusa per il linguaggio, ma siamo in pieno delirio di onnipotenza: alla fine dei tempi verrà il signor Bonmassar avvolto di luce propria e separerà i buoni da chi ha osato iscrivere i propri figli alle scuole cattoliche! Una serie di insulti gratuiti a chi, in piena legittimità e libertà, per varie ragioni, ha scelto un percorso formativo diverso da quello statale, o meglio, provinciale nel nostro caso. Su extracomunitari e handicappati tocchiamo poi il fondo del cattivo gusto oltre che del sotteso razzismo. Le porte degli uni e degli altri non sono mai state chiuse, certo è che le risorse a disposizione per il sostegno ed il supporto sono spesso insufficienti, ma lo sono anche nella scuola provinciale. Faccia sua questa battaglia signor Bonmassar, una battaglia per gli ultimi, affinché possano davvero integrarsi nella realtà educativa che liberamente sentono più vicina alle loro aspirazioni, al loro modo di sentire e di intendere la vita. Proseguiamo nel, breve, commento a questa lettera degna di un commissario politico cambogiano ai tempi di Pol Pot. Nelle scuole cattoliche (ndr)… “è legittimo anche licenziare in tronco gli insegnanti se divorziano e vivono more uxorio. Se si discostano dalla dottrina della Chiesa e se portano a scuola libri non consentiti e chi dovesse portarli dentro l’edificio scolastico può essere licenziato immediatamente“. Ne deriva un panorama agghiacciante, potrebbe diventare la trama di un best seller sulla falsariga del “Codice da Vinci”, il tutto ambientato negli scantinati del Collegio Arcivescovile, nella mensa del Sacro Cuore e nella segreteria della UIL Trentina. Ma non è finita qui, purtroppo. Prosegue l’articolo: “serve ancora aggiungere che queste scuole private….coltivano un’ostilità verso lo stato democratico“. E ancora: “per costoro ( per chi sceglie le scuole “private”, ndr) la scuola della Repubblica assomiglia ad un covo di male persone che non lavorano, che si comportano in modo scorretto e sono pure ignoranti.” Ne deriva un quadro di utenti con il cervello all’ammasso, che non iscrivono i figli con la convinzione e la consapevolezza che la scelta educativa dei loro figli dipende solo da loro, dalla famiglia, e non dal potere politico. Che cosa significa poi “ostilità verso lo Stato democratico”? Proprio lo Stato democratico consente, o dovrebbe almeno favorire, un pluralismo di istituzioni formative, educative, in una logica di confronto che è la ricchezza di un popolo, in un’ottica di sussidiarietà che possa permettere di costruire educazione e cultura, in questo caso, dal basso, dalla società civile, come si dice oggi. E’ curioso ricordare come la legge sulla parità fu introdotta per la prima volta in Italia, pur con limiti e certamente migliorabile, dal Ministro Berlinguer, di area non certamente filocattolica. Lo ricorda questo il signor Bonmassar? O quando pensa alla democrazia sogna il paradiso formativo che si respirava nella Repubblica Democratica Tedesca o al pluralismo certamente democratico dell’offerta formativa della Repubblica Popolare Cinese? Per non parlare poi dei luoghi comuni sui docenti delle scuole statali. Non è questo il luogo adatto per dissertare sul ruolo e la figura dei docenti, ma da anni ormai il livello medio degli insegnanti delle scuole “statali” si è attestato su buoni livelli, in alcuni casi con pun
te di eccellenza. Lasci stare il luogocomunismo sui professori signor Bonmassar; nessuno pensa più, ormai, certe cose della maggioranza dei docenti. Contribuisca, invece, a liberare la scuola (tutta la scuola, a prescindere dall’ente gestore) dai pochi fannulloni che la disonorano facendo leva su contratti blindati appoggiati in questo da un certo tipo di veterosindacalismo che lei ben rappresenta.

Il caso De Gennaro: vendetta è compiuta.

Come è stato riportato da tutti gli organi di informazione nazionali, il capo della Polizia, Gianni De Gennaro, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Genova nell’ambito dell’inchiesta sul G8 organizzato nel capoluogo ligure del 2001. Secondo fonti ufficiose, l’iscrizione sarebbe avvenuta per l’ipotesi di reato di istigazione alla falsa testimonianza in merito ai fatti riguardanti la fase di preparazione, svolgimento e conclusione delle operazioni di polizia condotte alla scuola Diaz il 21 luglio 2001. Con l’iscrizione di De Gennaro nel registro degli indagati, si è chiuso il cerchio, per ora, della rivincita dei movimenti no global e dei partiti dell’estrema sinistra a seguito dei fatti avvenuti in quella tragica estate del 2001: un cammino inesorabile, che ha avuto un primo “successo” nell’intitolazione lo scorso autunno, di un’aula del Senato a Carlo Giuliani, il manifestante ucciso durante gli scontri fra disobbedienti e forze dell’ordine. Non voglio entrare troppo nel merito della “questione De Gennaro”, i giochi politici di palazzo, visti dalla nostra periferia, o solo mediati dagli organi di informazione, non possono che risultare parziali, ma alcune considerazioni di fondo non si possono evitare. Innanzi tutto non possiamo non notare la tempistica dell’intervento di rimozione, perché di questo si tratta, attuato dal governo: a pochi giorni dalla vicenda legata al Generale Speciale, Comandante della Guardia di Finanza, un altro esponente di spicco delle forze dell’ordine viene esposto alla berlina mediatica. Il premier Romano Prodi ha detto testualmente: “? stato concordemente convenuto che De Gennaro sarà sostituito nel suo incarico al termine del suo settimo anno di mandato“.

Peccato che, come ha ricordato, tra gli altri, l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga, “Non esiste scadenza per il capo della Polizia se non quella prevista per il collocamento a riposo dei prefetti, che è stabilita a 67 anni, salvo l’anticipato collocamento a riposo deliberato dal Consiglio dei ministri e che equivale ad una destituzione“. Un aspetto drammatico, poco sottolineato anche da molti osservatori nazionali, è che la “destituzione” è avvenuta con una rapidità e con una tempestività degni di una Repubblica della Banane, tanto è vero che nessuno ha pensato di nominare un immediato successore ai vertici della polizia di Stato, creando, di fatto, un vuoto in uno dei ruoli chiave della sicurezza nazionale, malumore all’interno di tutte le forze dell’ordine ed un certo sconcerto nelle persone più attente ai fatti della politica o della “para-politica”. Vi è un’ulteriore ragione che giustifica coloro che ritengono la “defenestrazione” di De Gennaro come un regalo fatto all’estrema sinistra parlamentare, ed extra parlamentare, in un momento di grande difficoltà per l’esecutivo in carica: un governo serio, autorevole, avrebbe atteso le conclusioni dell’indagine prima di chiedere le dimissioni ad una figura istituzionale come De Gennaro, persona comunque sempre esposta in prima fila nella lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata e con una carriera conquistata sul campo, e non come altri boiardi di Stato per meriti legati all’anzianità, in cui spiccano, fra gli altri, gli undici anni ininterrotti di affiancamento del giudice Giovanni Falcone nella lotta alla mafia. Ricordo, inoltre, che Gianni de Gennaro fu nominato capo della polizia il 26 maggio 2000 dal Consiglio dei Ministri di un governo certamente non vicino all’attuale opposizione….

Comunque sia, le accuse rivolte a De Gennaro si riferiscono alle note vicende accadute alla scuola Diaz di Bolzaneto, Genova, il 21 luglio 2001, dove, secondo gli esponenti no global, la polizia si lasciò andare ad un pestaggio ingiustificato di manifestanti fermati durante quelle tragiche, assurde, demenziali, violentissime manifestazioni di protesta che accompagnarono il G8 genovese. Se le accuse mosse dalla procura di Genova all’ormai ex capo della Polizia di aver coperto e nascosto i fatti, si dimostrassero vere e provate, ne prenderemo atto, ma mi permetto di esprimere comunque solidarietà per tutti quegli esponenti delle forze dell’Ordine che all’epoca dei fatti furono bersaglio di attacchi violentissimi da parte degli esponenti dei centri sociali, dei black bloks per giorni e giorni. Non si vuole negare il diritto a manifestare a nessuno, ma mettere a ferro e fuoco una città, mettere in pericolo la vita di decine di agenti che stanno compiendo il loro dovere, non ha nulla a che fare con il diritto all’esternazione delle proprie idee. Nelle scorse settimane, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione delle Festa dell’Arma dei Carabinieri, ha consegnato medaglie alla memoria alle vedove, agli orfani e ai familiari di agenti caduti mentre compivano il loro dovere, ha consegnato attestati di benemerenza ad agenti particolarmente distintisi in azione; bei gesti, dovuti, ma è lo stesso Presidente che non volle ascoltare quei parlamentari, quei cittadini, che gli chiesero di non avallare la richiesta degli esponenti di Rifondazione Comunista, appoggiati da altri gruppi parlamentari di area, di intitolare un’aula del Senato a chi quegli agenti voleva colpire, a chi quelle istituzioni che oggi, per puro calcolo elettorale, lo onorano, voleva sovvertire, combattere in una lotta disperata e vuota. E’ certo comunque che l’Italia della legalità, delle persone perbene, degli uomini e delle donne che ancora tentano di educare i propri figli al rispetto della vita, propria e altrui, dei beni di tutti, della libertà fatta di regole condivise, esce sconfitta da queste vicende. Vendetta è compiuta.

Joachim Haspinger: un cappuccino contro Napoleone.

Bene hanno fatto Irene Bertoglio e Giovanni Lissandrini a richiamare l’attenzione, proprio dalle pagine di questo sito, intorno alla necessità di recuperare, finchè siamo ancora in tempo, la nostra memoria storica, le nostre tradizioni, in una parola, la nostra cultura: qual comune sentire che ci lega indissolubilmente a chi ci ha preceduto e che può darci ancora forza, fiducia e indicazioni per il futuro. Il problema italiano, ma più in generale, occidentale, è che della storia, delle radici autentiche dei popoli europei, abbiamo una visione ed una conoscenza ormai filtrate da oltre due secoli di ingerenze massonico-illuministe e, a partire specialmente dal secondo dopoguerra, da decenni di storiografia di ispirazione marxista-progressista. In tale contesto, le vicende storiche cessano di essere analizzate obiettivamente, circostanziate nel loro tempo, ma vengono sezionate in un’ottica ideologica che porta ad estrapolare le vicende dal loro reale contesto e tende a dividere i protagonisti in buoni e cattivi, secondo schemi preconcetti e artificiosi, senza possibilità di redenzione per questi ultimi. I testi scolastici sono inzuppati di luoghi comuni sull’Inquisizione, la scoperta dell’America, Galileo, tanto per ricordare i casi più noti in cui l’intellighentia illuminista-progressista ha martellato, e martella, generazioni di studenti.

Altri fatti o personaggi, non in linea con il pensiero dominante sono addirittura ignorati. Dopo aver presentato la figura di Marco d’Aviano (vedi: "Marco d’Aviano – Il medico spirituale dell’Europa”. In: Storia. Ndr.), prendo in considerazione un altro religioso oggi quasi del tutto dimenticato, una figura di frate senza ombra di dubbio poco, o nulla, allineata ai canoni dell’ortodossia massmediatica odierna: padre Joachim Haspinger. Padre Joachim, collaboratore e compagno d’arme di Andreas Hofer, fu uno dei leader indiscussi della resistenza tirolese contro le truppe napoleoniche; gli eventi che lo vedono protagonista, sono intrecciate indirettamente a quelle di migliaia di persone, uomini e donne di ogni parte d’Italia e d’Europa, e che per la storiografia “di massa” quasi non sono mai esistite, così come il “movimento” che lì unì in un’epica lotta impari: parlo delle insorgenze, naturalmente, che nei testi scolastici sono spesso appena accennate, bollate talvolta come eventi di resistenza armata isolata, marginale, attuata da sparuti gruppi di contadini ignoranti, guidati, anzi soggiogati da preti fanatici che si opponevano al progresso, all’uguaglianza sociale e alla libertà portate dalle baionette delle armate napoleoniche e dai loro alleati. Joachim Haspinger nasce in Val Pusteria il 27 ottobre 1776, viene battezzato con il nome di Johann Simon; figlio di contadini, ha comunque la possibilità di frequentare il ginnasio a Bolzano. Spirito battagliero, profondamente legato alla propria terra ed ai valori che questa incarna, tra cui una profondissima religiosità, già a 19 anni lo incontriamo arruolato una compagnia di Schützen, dove si fa notare per il suo coraggio, tanto da meritarsi una medaglia al valore. Dal 1799 al 1802 studia filosofia presso l’università di Innsbruck e nello stesso anno entra nell’Ordine dei Cappuccini: il 1 settembre 1805 diventa per il mondo padre Joachim.

Predicatore ispirato, ben presto viene chiamato in vari angoli della sua terra a predicare il Vangelo; le sue prediche, narrano le cronache del tempo, sanno toccare le corde della sensibilità e dell’anima della sua gente. Sarà questa un’esperienza fondamentale per le future prove che egli dovrà sostenere pochi anni dopo. Sono anni terribili in Europa: il millenario Sacro Romano Impero è stato sciolto, liquefatto; a seguito della battaglia di Austerliz, la “Provincia del Tirolo”, comprendente il territorio fra l’Inn e le Alpi, l’attuale Alto Adige e il Trentino, viene assegnata in base al trattato di Pressburg (26 novembre 1805), l’attuale Bratislava, al Re Massimiliano di Baviera, alleato di Napoleone. La Baviera era allora retta politicamente dalla cosiddetta “Setta degli Illuminati”, i cui membri erano, in larga maggioranza, animati da forte spirito anticattolico. I primi atti politici compiuti dal governo degli Illuminati bavaresi provocarono la scintilla per la rivolta. Con un decreto del 1806 si stabilì che la Chiesa venisse sottoposta al controllo statale, i Vescovi non potevano più nominare nuovi sacerdoti e sarebbe spettato al governo anche la nomina dei nuovi parroci. Nel 1809, il marchese di Montgelas, ministro del re di Baviera, con un atto di imperio e senza motivo apparente, se non seguendo coerentemente il suo pensiero giacobino, soppresse di colpo tutte le cerimonie del culto cattolico: proibì processioni, matrimoni e funerali religiosi, e addirittura il suono delle campane. Il cattolicissimo popolo tirolese inoltrò al re di Baviera le proprie rimostranze, affinché fosse ritirato il "decreto empio e liberticida", come venne definito. La richiesta fu respinta e la reazione, quasi immediata, fu la rivolta di un popolo, l’insurrezione in massa. Secondo molti storiografi, soprattutto di matrice progressista, le cause principali della rivolta tirolese sono da attribuirsi all’introduzione della leva obbligatoria e all’aumento delle tasse imposto dai nuovi governanti: certamente questi fatti contribuirono non poco a far accrescere il malcontento specialmente delle classi contadine e piccolo borghesi, ma quasi mai si prende in considerazione l’aspetto religioso, l’anima spirituale e culturale di questo popolo che prese le armi per difendere la sua cultura, il suo modo di vivere, di educare i figli e di morire, in un’assonanza immediata che ci porta con il pensiero alle analoghe vicende della Vandea.

Il 1809 fu un anno terribile per l’Europa e per i cattolici in particolare: Papa Pio VII, dopo aver lanciato contro Napoleone la scomunica, venne arrestato dai francesi e, da Roma, tradotto in esilio. Il Tirolo nel frattempo si infiamma: all’appello di Andreas Hofer accorrono migliaia di volontari, di lingua tedesca, ma anche italiana, trentini che Hofer definì i “dilettissimi Tirolesi Italiani “. Furono numerosissimi anche i sacerdoti a prendere le armi e a rispondere al richiamo della “Heimat”: fu soprattutto una battaglia religiosa, tutti, infatti, si rendevano conto che le disposizioni emanate, se fossero state applicate, avrebbero annientato un popolo intero, lo avrebbero sradicato completamente ed ineluttabilmente dal suo passato, gli avrebbero sottratto quell’humus fertile di storia e storie, di patrimonio religioso e culturale condiviso, che solo cementa l’anima di una Nazione. Inoltre, su precisa disposizione di Hofer, dopo ogni scontro, ogni vittoria, si doveva celebrare una Messa o una processione in onore del Sacro Cuore di Gesù. Padre Haspinger, novello Marco d’Aviano, guidò in prima persona le truppe contadine in diversi scontri, sempre brandendo il crocifisso, tenendolo sempre in alto in modo che tutti i combattenti, amici, ma anche nemici, potessero vederlo. Certo questo suo modo di porsi può risultare indigesto a qualche sacerdote moderno, e a molti cattolici “adulti”, fautori del dialogo sempre e comunque, a qualunque costo, anche scendendo troppo spesso a compromessi intorno ai fondamenti della nostra fede. Padre Haspinger e i sacerdoti tirolesi fecero quadrato intorno al Papa, intorno ai valori naturalmente cristiani dei loro conterranei. Addirittura, padre Haspinger, oltre che cappellano militare, divenne comandante di una compagnia di Schützen, partecipò direttamente a vari scontri e a lui fu riconosciuto il merito principale della vittoria delle truppe popolari tirolesi contro i franco-bavaresi al Berg Isel, presso Innsbruck, il 13 agosto 1809. La strenua difesa dei trentino-tirolesi fu definitivamente stroncata nel 1810.

Andreas Hofer, catturato, fu portato in catene a Mantova e fucilato per ordine dello stesso Napoleone il 20 febbraio 1810. Un aspetto che varrebbe la pena approfondire, riguarda i cittadini mantovani, i quali raccolsero in pochi giorni 5000 scudi per la liberazione di Hofer: lo riconobbero come eroe delle lotte di liberazione antifrancesi e questo sfata alcuni luoghi comuni, ben orchestrati politicamente, sul fatto che la rivolta tirolese fu essenzialmente fenomeno locale e circoscritto alle popolazioni tedescofone dell’odierno Tirolo con risvolti nazionalistici pangermanici. Ma torniamo a padre Haspinger: dopo un’avventurosa fuga attraverso l’Italia settentrionale e la Svizzera, riuscì a raggiungere Vienna, dove fu ricevuto dall’Imperatore Francesco I il 2 e il 4 novembre 1810. Rimase due mesi nel Convento dei Cappuccini a Vienna. Nel 1812 gli fu ancora commissionata una missione segreta per valutare l’ipotesi di organizzare una nuova insurrezione in Tirolo, ma non ne sortì nulla. Quindi continuò la sua opera di religioso, di curatore d’anime fino al 1836 in varie zone della Bassa Austria poi fino al 1854 in altre diocesi austriache. In quell’anno l’Imperatore Francesco Giuseppe gli assegna un appartamento d’onore nel Castello di Mirabell a Salisburgo, dove morirà il 12 gennaio 1858 assistito dall’Arcivescovo della città. Il 16 marzo la salma di padre Haspinger fu traslata nella Hofkirche di Innsbruck e deposta accanto a quelle di Andreas Hofer e Josef Speckbacher. Certamente la figura di padre Haspinger va legata al momento in cui la storia lo pone al centro della scena in questo angolo di mondo; irruente, focoso, sovente impetuoso nelle sue prediche e oltremodo energico nel suo operare, ma non poteva essere diversamente in quell’epoca di violenza, materiale ed ideologica. La sua lotta deve essere vista come il tentativo dal basso, dal popolo, quello vero, fatto di persone, di comunità, non di soli “cittadini”, di difendere lo scorrere “naturale” della vita, fuori dagli schemi ideologici intellettualistici che con la forza delle armi i giacobini francesi, con i loro complici in tutta Europa, volevano imporre. E quando passiamo per qualche paese del Trentino o del Tirolo, magari la domenica, e sentiamo il suono cosi familiare delle campane a distesa, in un paesaggio unico al mondo, pensiamo a padre Haspinger e alla sua lotta per difendere, oltre alla sua patria, quel suono da chi, come il marchese di Montgelas e gli “Illuminati”, lo avrebbe voluto cancellare per sempre dalle nostre orecchie e dalla nostra anima.

Arcipelago gulag: la memoria perduta.

Il 27 maggio del 1994 è da annoverare come una data che segna un’epoca, ma che troppo velocemente è caduta nell’oblio, specialmente in Italia: Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel della letteratura, torna in Russia venti anni dopo essere stato espulso dall’allora Unione Sovietica. Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma sembra un secolo: l’implosione dell’URSS, la disgregazione dell’Impero sovietico, che sembrava inossidabile, però, invece di portare in Italia ad un’analisi critica degli errori e degli orrori del comunismo, sono avvenimenti oggi quasi del tutto cancellati dalla nostra memoria storica nazionale. Discutendone anche a scuola con dei giovani, ragazzi che affronteranno tra breve l’esame di Stato, si avverte che poco o nulla sanno di quell’epoca, quasi non v’è traccia nei loro libri di scuola di che cosa sia stata davvero l’Unione Sovietica ed il comunismo. E come potrebbero in un Paese come il nostro in cui le maggiori case editrici, scolastiche e non, sono in mano all’intellighentia di sinistra?

Mi viene in aiuto, a tal proposito, il lavoro di Eugenio Corti, “Il fumo nel tempio”, del 1991, nel quale con disincantato realismo egli descriveva le vicende legate alla divulgazione dell’opera di Solzenicyn, in particolare, ma che abbracciava con sapiente maestria tutte le questioni che trattavano il tema “comunismo”. Ci ricorda Corti come “Solzenicyn sia stato trattato con tolleranza dalla cultura laico-marxista egemone in Italia, fino a quando questa lo riteneva contrario al solo Stalin, e non al marxismo in sé stesso. Le sue opere vennero allora pubblicate da Mondadori, cioè dal principale editore italiano, ed essendo in sé molto valide, ebbero larga diffusione. Quando però si scoprì che Solzenicyn dimostra in modo inequivocabile che non solo lo stalinismo, ma ogni comunismo porta al gulag, e sostiene che oggi il principale dovere di ogni uomo è di adoperarsi a “vivere fuori della menzogna”, l’atteggiamento della cultura egemone verso di lui si è capovolto. Così mentre il primo volume del suo Arcipelago gulag ha avuto in Italia una grande tiratura (si parla di 500.000 copie), il secondo è uscito quasi alla chetichella, e il terzo volume oggi, dopo anni, mentre è ormai diffuso da un pezzo nel resto del mondo, in Italia seguita a non venire pubblicato. Ragion per cui la successiva opera di Solzenicyn “Dialogo con il futuro” ha finito con l’essere da lui affidata alla minuscola Casa di Matriona, una cooperativa editrice di gente coraggiosa e cristiana, molto bersagliata dalla cultura egemone”.

Oggi la situazione sembra leggermente cambiata, ma è innegabile che persista una vera e propria censura sulle idee e sulle notizie, che viene praticata in modo sistematico dalla cultura dominante filomarxista, che detiene direttamente il controllo, o si è infiltrata in modo determinante in quasi tutti i mass media; la reazione scomposta, talvolta violenta alle opere di Gianpaolo Pansa è solo la punta dell’iceberg. Per tornare a Solzenicyn, è innegabile che è stato lui a mostrare al mondo la menzogna ideologica del marxismo. E’ stato lui a stabilire incontestabilmente che gli enormi crimini del regime comunista non potevano essere ridotti a “culto della personalità”, agli eccessi di un tiranno folle come è stato dipinto Stalin post-mortem. In “Arcipelago Gulag”, Solzenicyn ha pagato tributo alla memoria dei milioni di cittadini, russi e non, che vi hanno trovato la morte. Ricordiamo anche i tanti italiani, comunisti, che hanno pagato con la vita il minimo tentativo di dissenso, o semplicemente perché Togliatti, “il Migliore”, aveva sospetti che fossero poco ortodossi nella fede rossa. “Arcipelago Gulag” è un ammonimento continuo, è la rappresentazione reale, documentata, concreta, sconvolgente dell’inferno dei gulag sovietici. L’inferno del comunismo sovietico con tutti i suoi infimi e disumani gironi di milioni di anime dannate. Sofferenze di decine di milioni di persone che non si possono misurare e che abbiamo il dovere di non far cadere nell’oblio, così come l’orrore dei parenti delle vittime del Gulag, quotidianamente costretti a convivere con il pericolo delle denunce forzate, del terrore continuo d’essere a loro volta arrestati, ingoiati per sempre nel vortice degli innumerevoli campi di quell’Arcipelago mostruoso. Ma è bene ribadire ulteriormente che l’eliminazione, prima sociale, poi morale e infine fisica degli avversari politici non è una degenerazione del comunismo sovietico sotto Stalin, come ancora oggi si sente ripetere dai guru della nostra sinistra, megafoni di un Paese che ha addirittura tre partiti comunisti, oggi al governo: il terrorismo come sistema, le esecuzioni di massa, i campi di lavoro forzato e di sterminio sono parte integrante dell’ideologia marxista. Già prima della Rivoluzione, Lenin aveva scritto di mirare, nelle dispute, non alla confutazione dell’avversario, ma alla sua eliminazione.

E Lenin aveva fatto tesoro del pensiero di Marx, di quello storicismo ateo che al posto di Dio, del Dio misericordioso dei cristiani, aveva sostituito la statolatria, il progresso storico, al punto da arrivare a sostenere che “la storia ci guiderà verso la giustizia senza l’aiuto di Dio” e le terribili conseguenze di un tale storicismo non sono altro che la riduzione in schiavitù dell’uomo sull’uomo. Alcune, crude cifre della “giustizia senza l’aiuto di Dio” dei gulag sovietici: secondo la maggior parte degli storici e degli studiosi della macchina repressiva dell’URSS, la cifra delle vittime dei gulag sovietici si aggirerebbe da un minimo di 35 ad un massimo di 45 milioni. E questo riguarda soltanto i campi entro i confini delle repubbliche sovietiche, perché il costo umano del comunismo nei paesi dell’Europa dell’Est, occupati dall’Armata Rossa e divenuti poi satelliti di Mosca, continua ad essere ancora oggi aggiornato attraverso nuove documentazioni e testimonianze, a fatica, in quanto sono ancora viventi, in alcuni casi ancora al potere, quegli stessi protagonisti che gli effetti della inumana ideologia supportarono o che, addirittura, servirono con dedizione. E’ davvero quasi incredibile pensare che fu solo nel 1986, ieri, storicamente parlando, che Gorbaciov, cominciò finalmente a smantellare i campi sparsi per i 12 fusi orari dell’Unione Sovietica. Gli studenti, i nostri giovani, hanno il diritto di conoscere anche questa pagina tragica di quel secolo disperato e folle, che fu il novecento dei totalitarismi e noi, indiretti testimoni di quei fatti, abbiamo il dovere morale, ancor prima che storico, di spiegare loro la verità dei fatti.

L’Adunata della “società del silenzio” – Cuneo 2007.

Si è parlato a lungo in questi giorni del “Family day” tenutosi a Roma lo scorso 12 maggio, al quale la nostra Associazione ha aderito con convinzione e grande spazio di discussione hanno avuto anche su questo sito, giustamente, i commenti all’evento che ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. Ho atteso, volutamente, qualche giorno per ricordare che in contemporanea alla grande manifestazione di Roma si è svolta anche un’altra imponente riunione in Italia, a Cuneo precisamente, l’80^ Adunata Nazionale degli Alpini. Credo che il 12 e 13 maggio 2007 saranno ricordati a lungo in Italia come i giorni della riscossa della gente perbene, delle persone, uomini, donne, bambini che pacificamente, ma orgogliosamente hanno finalmente voluto dimostrare al Paese che la maggioranza silenziosa sa anche mobilitarsi per difendere i valori in cui crede, in cui intende continuare a vivere, riconoscersi e ad educare i propri figli. A Cuneo, dicevo, si sono ritrovate 450mila persone, Alpini di ogni età, grado, appartenenza politica e preparazione culturale, accompagnati spesso da mogli e figli per ribadire al mondo con gioia, con serenità in allegria, ma con fede incrollabile che in Italia concetti quali l’amor di Patria, il senso del dovere, del sacrificio gratuito, dell’amicizia e della solidarietà hanno davvero ancora un significato profondo, radicato nell’animo della popolazione.

La “società del silenzio”, come è stata definita, ha saputo restare fedele ai valori, cristiani in generale, ma non solo, non come bandiera astratta, ma come vissuto quotidiano, come storia e come tradizione che sta alla base di una sana e pacifica convivenza tra gli uomini. A Roma e a Cuneo ha sfilato davvero la gente perbene, in una sorta di rivincita di un popolo. Il mondo mediatico ha presentato questa Adunata, purtroppo, soprattutto insistendo sul lato folkloristico e goliardico della manifestazione, che naturalmente c’è stato e mi auguro ci sarà sempre: un’allegria semplice, spontanea, coinvolgente, vorrei dire, realmente popolare, lontana anni luce dal concetto di “popolo” che si respira ormai da anni nei salotti radical-chic di certa sinistra nostrana. Ma vi è qualcosa di più del folklore che affratella persone cosi diverse fra loro: è difficile da spiegare, forse impossibile, per chi non ha il cappello con la penna bene in vista in casa. E’ un modo di vivere, di condividere valori ed idealità, fratelli nel senso più alto e vero del termine e, si badi bene, non solo chiusi nel ricordo nostalgico e retorico di un pur glorioso passato, ma bene radicati nel presente.

Perché degli Alpini ci si dimentica spesso, li si ricorda spesso con altezzosa spocchia e facile ironia; poi leggiamo i numeri di questa straordinaria famiglia che nelle calamità non si tira indietro, che ha educato i propri figli, i bocia, al sacrificio e all’amore per il prossimo, e restiamo sbalorditi: soltanto nel 2006, gli appartenenti all’Associazione Nazionale Alpini hanno svolto a favore delle varie comunità locali in tutta Italia, oltre 1 milione e 444mila ore di lavoro e raccolto e distribuito in beneficenza 5 milioni e 514 mila euro, denaro frutto di spettacoli, manifestazioni ed elargizioni fatte anche e soprattutto da singoli soci. Quasi un milione e mezzo di ore di lavoro per il prossimo, gratuite, frutto spesso di sacrifici e rinunce, sottraendo tempo anche agli affetti più cari. Le cifre, già impressionanti, rappresentano però circa il 50% del lavoro effettivamente svolto per le varie comunità: la metà delle sezioni dell’A.N.A. non ha voluto comunicare i dati, preferendo lavorare con modestia, senza enfasi in una naturale riservatezza che è tipica della gente di montagna, lontano dal clamore e dalle vetrine televisive. Opere di solidarietà vera, sul campo, nel fango e tra le macerie, che tanto hanno contribuito ad alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite da calamità naturali: in Italia, nel passato anche recente, ricordiamo il terremoto in Friuli, in Irpinia, in Umbria, le alluvioni del Piemonte, della Valle d’Aosta solo per citarne alcune. Tali interventi si ritrovano oggi in esempi concreti in varie parti del mondo, tra cui lo Sri Lanka, il Mozambico, l’Afghanistan.

Ecco cosa c’è “dietro” l’Adunata Nazionale degli Alpini, c’è un convinto coinvolgimento personale, c’è la disponibilità ad ascoltare i bisogni dell’altro, c’è quella testimonianza di amore per i valori semplici e forti delle nostre tradizioni che spesso si preferisce non vedere, ma che rappresentano un’anima profondamente radicata nella società italiana. Un mondo di persone perbene che crede che vi siano dei valori che vale la pena difendere contro il relativismo morale che caratterizza il nostro tempo. A Cuneo sono arrivati, siamo arrivati, da ogni parte d’Italia e del mondo, per rivendicare con orgoglio questa appartenenza, in centomila abbiamo sfilato, tutti uguali solo in apparenza, ma ognuno con la propria storia e il proprio fardello di vita ed esperienze. Ed è stata la festa della semplicità, o, come ben ha detto il capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, “un magnifico bagno nella normalità”.

Marco d’Aviano il “medico spirituale dell’Europa”.

Capita talvolta durante un viaggio di trovarsi di fronte a luoghi talmente carichi di storia e di suggestioni che quasi restiamo increduli, storditi, commossi. E’ successo recentemente che, dovendo recarmi a Vienna per lavoro, ho voluto ritagliarmi un po’ di tempo per compiere una sorta di pellegrinaggio sulle tracce di quel gigante del XVII? secolo che fu Marco d’Aviano, anima della liberazione di Vienna nel 1683. Un gigante dicevo, eppure ancora oggi in gran parte d’Italia poco noto, tenuto nascosto quasi come un parente scomodo che, per timore del giudizio altrui, si tiene in cucina quando arrivano ospiti.

Padre Marco è sepolto nella Chiesa dei Cappuccini a Vienna, sopra la celebre Cripta che ospita le spoglie mortali degli Asburgo, unico non appartenente alla dinastia ad aver avuto questo privilegio; eppure nelle guide ufficiali che accompagnano il turista italiano medio a conoscere la città, vedi per esempio il celeberrimo “libro verde” delle Guide d’Europa del Touring Club Italiano, neppure una parola, un accenno, un rimando: Marco d’Aviano semplicemente non esiste. Solo ignoranza? Non è da escludere, ma se dietro questa “dimenticanza” ci fosse invece la volontà di occultare la memoria scomoda, almeno da noi, di colui che ancora oggi è venerato come un santo non solo in Austria, ma anche in Ungheria, Slovenia e in altre regioni danubiane? La figura di padre Marco certamente spaventa le anime belle del dialogo ad oltranza e del pacifismo che si fa codardia, sottomissione a culture e religioni altrui in nome di una tolleranza che svilisce e avvizzisce le nostre radici. Queste anime belle dimenticano certamente che senza l’azione ferma, decisa, incrollabile nella Fede del frate friulano, forse oggi la nostra pavida Europa, o almeno gran parte di essa, sarebbe certamente islamizzata, una realizzazione compiuta di quella “Eurabia” che tanto spaventava Oriana Fallaci.

Marco fu, non dimentiachiamolo mai, in primo luogo uomo di Fede, animato da una volontà tenace di restituire alla cristianità le terre ormai sottomesse all’Islam, in Europa ed in Terra santa. Uomo del suo tempo, avvertiva i pericoli delle divisioni interne alla cristianità di fronte all’espansionismo turco e si prodigò girando gran parte d’Europa sorretto dalla Parola, predicando e compiendo guarigioni miracolose e prodigi che ben presto lo fecero conoscere ovunque nel continente. Numerosi furono i regnanti e i nobili europei, dalla Germania al Belgio, dalla Boemia alla Francia, alla Svizzera, che richiedevano la presenza e la parola del frate friulano e particolarmente devoto a padre Marco fu Leopoldo I d’Asburgo, che lo volle sempre accanto nei momenti di difficoltà e crisi anche politica, diventandone con il passare del tempo, confidente, padre spirituale ed amico. Ai confini del suo regno, l’Impero turco si stava preparando per sferrare l’assalto decisivo al mondo cristiano: nell’aprile 1683 un esercito turco di 150.000 uomini più circa altrettanti ausiliari e trecento cannoni, con 50.000 carri, si mise in marcia sotto il comando del sultano Maometto IV il quale dopo aver raggiunto Belgrado, lasciò la responsabilità dell’armata al gran visir Kara Mustaf?. Da un punto di vista strettamente militare si trattò davvero di un’impresa epica, la più grande spedizione militare mai organizzata dai turchi. Il 12 luglio 1683 l’armata turca raggiunge Vienna dopo aver occupato e saccheggiato gran parte dei Balcani e messo a ferro e fuoco oltre 400 città. Di fronte alla minaccia islamica si mobilitò in primis Papa beato Innocenzo XI tentando di coalizzare i principi cristiani in una Lega Santa contro la mezzaluna. Alla chiamata del Santo Padre risposero la Polonia di re Jan III Sobieski, alcuni volontari italiani ed alcuni principati germanici come Baviera, Turingia, Holstein, Renania e Sassonia, cattolici e protestanti insieme. La Francia, come altre volte, restò sorda all’appello del Pontefice, attendendo di godere i frutti dell’auspicata sconfitta degli odiati Asburgo.

Il comando delle truppe cristiane, che contavano circa 70.000 uomini, fu affidato dapprima a Carlo V di Lorena, cognato dell’Imperatore e discepolo di padre Marco, ed in seguito al Re di Polonia Sobieski. Vera guida della coalizione cristiana fu in realtà padre Marco, che riuscì, inoltre, ad impedire che i dissidi fra i vari principi mandassero in fumo la già fragile alleanza tra loro. Il giorno 11 settembre, le truppe cristiane occuparono il Kahlenberg, il colle che guarda Vienna da occidente. Fu da questa altura che padre Marco infiammò le truppe con i suoi incitamenti, con le sue prediche, instancabile incoraggiò e benedisse tutti i soldati e loro comandanti. Sulla parete della piccola chiesa, la Josefskirche, una targa ricorda la visita di papa Giovanni Paolo II su questo colle nel 1983: il papa polacco sostò in preghiera sul luogo della celebrazione della Messa da parte di padre Marco a Jan Sobieski e agli altri principi cristiani. All’alba del giorno 12 settembre, dopo aver celebrato la Santa Messa e benedetto le truppe della coalizione, seguì l’evolversi della battaglia correndo da un punto all’altro dell’epico scontro. Nonostante il numero nettamente inferiore di soldati, le schiere cristiane sbaragliarono il poderoso esercito turco, già in serata padre Marco entrò in Vienna liberata e il giorno seguente volle celebrare il Te Deum nella cattedrale di Santo Stefano. Dopo Vienna guidò con impegno e fede incrollabile la riscossa cristiana nei Balcani fino alla liberazione di Belgrado nel 1688. L’incessante impegno e gli sforzi continui minarono la sua salute: il 25 luglio 1699 fu costretto a letto a Vienna vegliato dai membri della casa d’Austria, ed il 13 agosto morì assistito dalla famiglia imperiale, dall’imperatore Leopoldo e dall’imperatrice Eleonora. Dal 1703, come ricordato, riposa in una cappella nella chiesa dei Cappuccini.

Numerosi sono i documenti e le testimonianze che riportano guarigioni e miracoli dovuti all’intercessione di padre Marco d’Aviano; il processo di canonizzazione fu avviato da S. Pio X nel 1912 e fu papa Giovanni Paolo II a concludere la causa di beatificazione, proclamandolo beato a Roma il 27 aprile 2003, suscitando anche numerose polemiche all’interno di un certo mondo cattolico progressista che considerava e considera padre Marco troppo combattivo e una minaccia per il dialogo interreligioso. Marco d’Aviano e Giovanni Paolo II, due figure immense della cristianità, combattive, generose, mai dome, sorrette da una Fede solida, scevra da ogni compromesso, in quel giorno di quattro anni fa una di fronte all’altra, due campioni della Fede di fronte alle minacce dei loro tempi. Marco d’Aviano fu comunque un uomo che si attirò anche il rispetto dei musulmani della sua epoca, non dobbiamo dimenticarlo, proprio per la sua incrollabile Fede, per la coerenza delle sue azioni. Mai, inoltre, nelle sue prediche scaturì un sentimento di odio verso le schiere avversarie, i prigionieri turchi furono trattati con giustizia, secondo il volere dello stesso Marco. Il messaggio che padre Marco ci invia, oggi più forte che mai, è proprio rivolto ad ognuno di noi, cittadini di quest’Europa che si vergogna di riconoscere le proprie radici cristiane, a seguire il suo esempio nell’opera di riappropriazione di quelle nostre radici, dei nostri valori morali e spirituali. Il male principale della nostra epoca, il laicismo imperante, un nemico forse ancora più subdolo e pericoloso della minaccia islamica che atterriva l’Europa di allora, sarà sconfitto solo seguendo l’esempio di abnegazione e di Fede del piccolo grande frate di Aviano, il quale amava definirsi, non a caso, il “medico spirituale d’Europa”. Ditelo anche ai redattori, e alle redattrici, della guida turistica del Touring Club Italiano…