Gli studenti stranieri bocciano l’università italiana.

In occasione del ventennale del “Progetto Erasmus”, è stata pubblicata nei giorni scorsi una relazione che riassume le risposte date da 1500 studenti universitari stranieri che hanno partecipato al progetto frequentando le facoltà italiane: l’immagine della nostra università che ne deriva è complessivamente sconfortante. Tentiamo di spiegarne le ragioni. I responsabili italiani del progetto hanno preparato un questionario con 20 domande, somministrato a studenti provenienti da 28 Paesi diversi e frequentanti facoltà in 27 diverse città italiane. Gli studenti interpellati sono un campione rispetto ai circa 14.000 ragazzi stranieri che ogni anno frequentano corsi universitari nel nostro Paese. In generale, emerge il ritratto di un’Italia non troppo accogliente, sfatando così uno dei miti del Belpaese, costosissima, incapace di garantire agli studenti un alloggio a prezzi contenuti e dove l’inglese è una lingua assolutamente inutile anche per le comunicazioni tra colleghi studenti e con i docenti. Un dato che deve far riflettere, riguarda il gradimento che questi giovani stranieri nutrono nei confronti del nostro Paese: infatti, all’inizio della loro esperienza, il 97% degli intervistati dichiara di aver scelto l’Italia perchè “è un paese che mi è sempre piaciuto”; al termine del soggiorno-studio la percentuale di quelli che si dimostrerebbero pronti a scegliere di nuovo l’Italia come meta di un viaggio scende al 60%, ma soltanto il 35% tornerebbe per rifrequentare un corso di studi universitario “nonostante le difficoltà non siano poche”. Molti stranieri rimarcano come, al loro arrivo in Italia, nella maggior parte dei casi, nessuno in Università fosse in grado di fornire la benché minima informazione, anche generale; grave anche la mancanza di alloggi per studenti; quindi, molti di loro sono stati costretti addirittura ad andare in albergo e poi a cercare camere in affitto a prezzi sensibilmente più alti che nei loro Paesi. Quella della mancanza dell’alloggio per gli studenti è un’anomalia tutta italiana. Come ricorda il mensile “Studenti Magazine”, la ricerca della casa non è quasi mai un problema sentito dagli studenti che partecipano ad “Erasmus” in altri Paesi. In molti casi, per esempio Danimarca, Francia, Svezia, è la stessa università a trovare l’alloggio agli studenti. In generale, comunque, uno dei dati più significativi è quello che racconta che l’83% degli intervistati spende di più in Italia rispetto al proprio Paese. Per quanto riguarda l’accoglienza in Università, al di là della retorica europeista, soltanto poco più della metà degli intervistati, il 52,8%, ha dichiarato di essere stato accolto sufficientemente bene e solo il 18% ha detto che l’Italia è più ospitale del proprio Paese.

Veniamo ora al cuore della relazione, perchè, se per quanto riguarda l’accoglienza, l’università italiana è stata giudicata con qualche riserva, questa viene decisamente bocciata quando agli studenti stranieri si chiede di farne un raffronto con il proprio Paese di provenienza. I dati raccolti sono disarmanti: ben il 71% degli intervistati afferma che l’Università in Italia è organizzata peggio, contro il 17% che non vede differenze e soltanto il 12% la giudica migliore. La causa principale di questa bocciatura è lo stato pessimo delle strutture per il 39,6% degli intervistati, seguita dalla scarsità dei servizi web per il 24,4%, la difficoltà nel raggiungere informazioni per il 19,5% e il livello dei professori 16,5%. Relativamente a questi ultimi, quando si chiede un confronto con quelli del proprio Paese il 59% non vede grandi differenze, ma ben il 25% li giudica peggiori. Viene sottolineato, inoltre, un fenomeno tipico della nostra università, l’assenteismo dei docenti dalle lezioni. In molti casi si rimarca addirittura l’assenza di rintracciabilità, manca quel concetto di cammino didattico che deve portare gli studenti all’esame con i giusti mezzi messi a disposizione dal docente. Un dato concreto riferito alla preparazione dei docenti è tristemente allarmante: considerato che la maggior parte degli studenti stranieri che vengono nella nostra penisola ha come meta anche imparare l’italiano, il ruolo dei corsi accademici è davvero mortificante. Quasi tutti gli intervistati dichiarano di aver migliorato la propria conoscenza della lingua italiana, ma il 52,6% di loro, più della metà quindi, grazie a rapporti personali con italiani, oppure pagandosi lezioni autonomamente, perché i corsi di lingua italiana organizzati dalle nostre università sono stati ritenuti inadeguati, per non dire inutili. Certamente esistono in Italia situazioni di eccellenza, ma il confronto con giovani di altri Paesi ci invita e ci stimola a qualche riflessione. Probabilmente questi dati toccano anche il nostro amor di Patria e fanno scalpore, ma concordano con il quadro complessivo della nostra università, in gran parte non più all’altezza di rispondere ai bisogni di formazione e di internazionalizzazione che il mondo della nuova economia ci sta richiedendo. Secondo una ricerca della Fondazione Agnelli, gli atenei nazionali si presentano, ai giovani che vi accedono, come "giganteschi labirinti". Nei quali il 60% degli studenti si perdono, vagando tra le diverse facoltà, e un iscritto su quattro, se potesse tornare indietro, sceglierebbe un altro indirizzo di studi. Per non parlare dei cosiddetti "abbandoni sotto l’albero di Natale", cioè gli studenti che lasciano l’università dopo solo il primo trimestre di frequenza: sono quasi il 10% dei nuovi immatricolati. La mancanza di un serio orientamento trascina la generazione dei fuori corso in un baratro di paradossi e depressioni. La disorganizzazione ed il basso livello di molti corsi di laurea riscontrati dagli studenti stranieri sono vissuti quotidianamente sulla pelle dei nostri studenti. Mancanza di orientamento, disorganizzazione, la sciagurata riforma del “3+2”, ha portato la nostra università anni luce indietro rispetto alla media europea; non è un caso se in nostri studenti si laureano 4 o 5 anni in media dopo i loro colleghi inglesi, tedeschi o francesi. Non è un caso se l’esercito dei “fuori corso” costa in termini diretti allo Stato quasi come una legge finanziaria, ma indirettamente i costi sono incalcolabili: giovani che entrano tardi nel mondo del lavoro, che ritardano quindi la costruzione di una famiglia autonoma, che procrastinano sine die nel dare il loro contributo attivo di idee e di innovazione al nostro Paese. In altre parole, se la competitività dell’università italiana è ben lontana, nel suo complesso, dal saper affrontare le sfide dell’internazionalizzazione, come logica conseguenza sarà l’Italia tutta a vedere decadere il proprio ruolo come nazione sia a livello economico sia culturale. La cosiddetta “fuga di cervelli” verso Paesi stranieri dei nostri migliori ricercatori è solo la punta dell’iceberg di questa situazione. Auguriamoci che questa sfida, fondamentale per programmare un futuro degno di questo nome da consegnare alle prossime generazioni, possa essere finalmente raccolta anche dalla politica, da chi avrà in sorte la responsabilità della guida del nostro Paese negli anni a venire.

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