Cesare Battisti la guerra da vincere

Ho davanti due foto di Cesare Battisti comparse sui giornali. In una ride, nell’altra piange. Quasi tutti gli uomini, quando ridono, diventano almeno un po’ simpatici. Quasi tutti gli uomini, anche i più cattivi, quando piangono, generano compassione. Ma questa volta non è così. Perché Battisti, a suo tempo “denunciato per atti di libidine su una persona che la burocrazia dei verbali definisce incapace”, rapinatore e assassino plurimo, responsabile della morte di quattro innocenti in nome della rivoluzione comunista, ride quando crede di avercela ormai fatta ad ottenere l’impunità, e piange quando viene a sapere che la Corte costituzionale brasiliana ha considerato illegittimo il suo status di rifugiato politico.

Ecco, guardare il volto di un uomo simile, pensare che dopo tanti anni continua a ricorrere ad ogni trucco meschino -dai tentativi di presentarsi come un perseguitato politico agli scioperi della fame-, crea in me un moto violento di ribellione. Accresciuto dalle sue risa sciocche, dal suo pianto vigliacco e miserabile. Questi uomini invasati di ideologia, che hanno avuto il coraggio di sbandierare con baldanza le loro ideologie di morte, di ammazzare il loro prossimo, ripetutamente, con odio brutale, non sono oggi capaci di un gesto di eroismo, di un atto di vero coraggio, perché, in verità, non lo sono mai stati.

E’ davvero triste vedere uomini simili, ma è comprensibile che ne esistano: sono i figli legittimi del comunismo ateo, cresciuti negando con pervicacia l’esistenza di Dio, e di conseguenza di una morale, di una legge superiore al loro capriccio, ai loro schemi ideologici, ai loro rancori bestiali, travestiti, in modo grottesco, da aneliti alla giustizia e alla verità. I peggiori, come Battisti, non hanno imparato nulla dalla vita, neanche vent’anni dopo. Non hanno lasciato neppure un po’ di spazio al rimorso, al ripensamento, al pentimento. “Il pentimento? Io non sono cattolico, quindi non mi appartiene“, aveva dichiarato Battisti al Corriere del 31 marzo del 2004.

Qualche anno prima, un altro terrorista comunista degli anni di piombo, condannato per sei omicidi, Christian Klar, oggi libero, aveva dichiarato: “Sensi di colpa o pentimento non sono categorie politiche“. E’ vero: se non si crede in Dio, anche implicitamente, non è possibile neppure il pentimento. Dove non c’è Dio ci sono solo il nostro interesse, le nostre insindacabili decisioni, l’istante presente e il futuro più prossimo. Per questo Battisti lotta come un leone, per essere libero, per godersi quel po’ di vita che gli rimane. Ha escluso che dopo questa vita ve ne sia un’altra e crede, una volta gabbata la giustizia umana, di averla fatta franca per sempre. Crede che la vita consista nel vincere qualche scaramuccia, qualche battaglia, nell’ottenere qualche piccolo successo, qui ed ora. Non immagina neppure che le battaglie si possono anche vincere, che i fratelli si possono anche uccidere e che si possono continuare a scrivere libri di successo, senza che questo significhi che si è vinto alcunché.

La guerra, caro Battisti, è un’altra cosa: quella si vince solo alla fine, il giorno in cui ogni uomo sarà giudicato e sarà per lui finito il tempo della misericordia e del perdono, e incomincerà quello della giustizia. Per questo io le auguro fraternamente il carcere, il più duro possibile, il prima possibile: perché conosca il dolore, perché le sue lacrime scorrano finalmente sincere e degne di compassione, perché una sconfitta terrena le apra la possibilità di riconoscere il suo peccato e di vincere così la battaglia finale. Perché non c’è peccato che Dio non voglia perdonare, e perché “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione“. Mi piacerebbe vedere una foto, un giorno, di Battisti che piange sui suoi peccati, e una in cui il suo riso non è più un riso beffardo, ma quello puro di un uomo nuovo che ha trovato il suo Dio. Un uomo che possa dire, nonostante tutto: “felix culpa“. (Il Foglio, 26/11/2009)

Il papa e l’ambientalismo

Benedetto XVI, dinnanzi al tema sempre più dibattuto dell’ambientalismo, ha deciso di dedicarvi la prossima Giornata mondiale della pace, per meglio specificare la posizione cattolica sull’argomento. Il papa ha anzitutto ricordato che nel Genesi il creato è affidato all’uomo, affinché lo domini e lo custodisca.

L’uomo infatti, è “custode e amministratore responsabile del creato”. Ricordare questo è molto utile oggi, in un’epoca in cui manca la consapevolezza, come scriveva il grande biochimico Erwin Chargaff, nel suo “Mistero impenetrabile” (appena riedito da Lindau), che per la “prima volta nella storia del mondo uno stolto si trova nelle condizioni di poter contaminare irrimediabilmente la biosfera”.

Mentre infatti qualcuno si ostina a lanciare allarmi ingiustificati sull’apocalisse climatica prossima ventura, e si dibatte così, quantomeno, sull’opinabile, nel chiuso dei loro laboratori, nuovi Prometeo e nuovi Mengele lavorano indisturbati alla “creazione” di terrificanti batteriuncula, i cui effetti sull’ecosistema sono del tutto sconosciuti, e alla produzione seriale di poveri homunculi prigionieri dell’azoto liquido e di una provetta di vetro.

Con un totale disprezzo del mistero del creato- parola assai più bella e sacra dell’insulso termine “ambiente”- che porta con sé il rischio che le scienze naturali, come ammonisce sempre Chargaff, finiscano per servire all’opera gnostica di snaturamento della natura e di disumanizzazione dell’uomo.

Il papa ha poi ricordato che l’ecologismo contemporaneo si accompagna oggi, molto spesso, ad una divinizzazione della natura che sfocia in un “nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo”, e che in nome della difesa dell’ambiente finisce per considerare l’uomo il cancro del pianeta. Queste considerazioni ci permettono di analizzare due caratteristiche di buona parte dell’ecologismo contemporaneo: anzitutto la condanna del cristianesimo, accusato non di essere nemico della scienza, come fanno altre ideologie, ma al contrario di essere il pensiero che la ha partorita.

Per molti guru ambientalisti al pensiero biblico sono preferibili le religioni animiste, che annullando l’uomo nella natura, impediscono la nascita in lui dell’ubris scientifica e tecnologica. La concezione antropocentrica cristiana, notano costoro, gli ha dato consapevolezza della sua dignità spirituale, della sua possibilità di agire sulla natura e di dominarla. Questa concezione è sicuramente vera, benché parziale: in effetti, è innegabile che laddove l’uomo è terrorizzato dal fulmine, dal terremoti e dai vulcani, dove anche gli astri possiedono un’anima e diventano i veri artefici del nostro destino, la scienza e la tecnica non sorgono, se non episodicamente. Se non piove, al più si invocherà qualche divinità, facendo una qualche specie di danza, oppure, come avveniva presso gli aztechi o gli antichi germani, le si sacrificherà qualche essere animale o umano! Se qualcuno è malato, si farà come accade molto spesso ancora oggi nei paesi animisti: lo si lascerà morire, per non contrastare il Fato, o addirittura lo si respingerà con fastidio, ritenendolo colpevole di qualche offesa a qualcuna delle infinite e assai suscettibili forze naturali. Ma se è vero che la visione antropocentrica svela all’uomo la sua grandezza, è altrettanto certo che nel pensiero biblico il creato è affidato all’uomo come un dono, di cui egli è responsabile, perché in ultima analisi “al Signore, Dio tuo, appartengono i cieli e i cieli dei cieli, la terra e tutto quanto essa contiene” (Deuteronomio, 10,14).

La seconda caratteristica di magna pars dell’ecologismo è l’idea che proprio l’uomo, in quanto creatore della scienza e della tecnica, sia il cancro del pianeta: un “numero uscito alla roulette”, come voleva Monod, che diventa immediatamente “un refuso sfuggito al controllo della selezione naturale”, nell’ottica di quel nume del pensiero pannelliano che fu Aurelio Peccei. Analoga visione fu espressa molto bene dal principe Filippo di Edimburgo quando spiegò che si sarebbe voluto reincarnare nel virus dell’aids per sterminare un po’ di persone in eccesso; oppure dai radicali, allorché costoro auspicano il “rientro dolce” della popolazione mondiale da sei a due miliardi, arrivando addirittura, come fece Marco Panella, a “comprendere” i sistemi cinesi di pianificazione familiare obbligatoria con annessi aborti e sterilizzazioni forzate.

 L’idea dell’uomo cancro del pianeta è quella che permette agli ambientalisti pagani di trovare accordi con i più accesi sostenitori della tecnocrazia e dello scientismo: l’ambiente umano, dall’utero materno alla famiglia naturale, sono infatti un bersaglio comune, e non pochi “verdi” plaudono all’Ru 486, come raro esempio di chimica “buona”, di artificiosità utile al bene comune.

Esemplare di questa alleanza che ha come nemico acerrimo l’uomo, unica creatura a immagine e somiglianza di Dio, è, tra le tante, l’associazione denominata “Movimento per l’estinzione umana volontaria” (Vhemt). I membri di codesta aggregazione, nelle scuole, in internet, sui giornali, definiscono l’uomo un “parassita avido e amorale su un pianeta che era in buona salute”, e invitano tutti a non procreare, per non offendere oltre “Madre Natura”, o, con un antico nome pagano, non causale, Gaia. Perché essa possa star bene, insomma, “è necessaria la nostra scomparsa”. Si comprende, alla luce di questo modo, di ragionare, il significato di un versetto biblico: “Chi odia Me, dice la Sapienza, ama la morte”. (Il Foglio, 24/12/2009)

Nella foto il nuovo logo di Sinistra e libertà, la sinistra radicale di Vendola, da poco unitasi ad alcuni pezzi del vecchio partito dei Verdi.

Postilla: un amico, che è stato un pezzo grosso dei radicali, mi disse una volta che quando si sposò fu guardato molto male; quando ebbe un figlio, fu per lui la fine delle amicizie all’interno della dirigenza del partito. Matrimonio e figlio aprirono gli occhi a quell’amico, sulla bellezza della vita coniugale e sulla bruttezza della sterilità fisica e spirituale del radicalismo. Mi viene in mente questo aneddoto leggendo un articolo del solito radicale anti-famiglia, Marco Cappato, sul quotidiano ambientalista "Terra", in cui il nemico è sempre quello degli antichi catari: l’uomo.

Marco Cappato
IDEE. La crescita della popolazione mondiale è il fattore che ha maggiormente contributi nell’ultimo secolo ad aumentare il consumo delle risorse ambientali.

Nella preparazione del Vertice sul clima è stato finora rimosso il fattore che più di tutti ha contribuito, nell’ultimo secolo, ad aumentare il consumo delle risorse ambientali: la crescita della popolazione mondiale. Nonostante il tasso di fecondità sia in calo in molte parti del pianeta, si prevede che la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di abitanti entro il 2050. Questo dato, combinato alla crescita dei consumi nei Paesi in via di sviluppo, indica che il boom demografico continuerà nei prossimi decenni a determinare l’impronta ecologica della specie umana sulla Terra.
 
In quei Paesi è quasi inesistente la concreta affermazione del diritto alla salute riproduttiva e all’informazione sessuale, della contraccezione e della pianificazione familiare, servizi che potrebbero contribuire a contenere la popolazione mondiale sotto gli 8 miliardi, con un impatto enorme su risorse scarse come aria, acqua e suolo. Per diminuire i rischi di fallimento del Vertice, i cosiddetti “Grandi” della Terra dovrebbero superare i veti ideologici del fondamentalismo clericale e natalista – del quale il nostro governo è totalmente succube – e accogliere l’invito del Fondo Onu sulla Popolazione e lo sviluppo a promuovere i diritti della donna, la sua emancipazione e l’affermazione della sua piena libertà e responsabilità in materia sessuale e riproduttiva come priorità della comunità internazionale.
 
Bisogna subito invertire la tendenza di questi ultimi anni, che ha visto addirittura diminuire la spesa da parte dei Paesi donatori per la pianificazione familiare. Le nuove tecnologie e la penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa nei Paesi in via di sviluppo rappresentano un’occasione unica per informare l’opinione pubblica mondiale sulle conseguenze della bomba demografica. Tenendo fermo il rifiuto delle pratiche illiberali e violente di controllo delle nascite “alla cinese” (frase che dopo le sparate dell’altro Marco, Pannella, occorreva d’obbligo, ndr), dobbiamo mettere in pratica quella strategia di “rientro dolce” – cioè basato sull’informazione, il diritto e la libertà – della popolazione mondiale, come scelta vitale per il futuro del pianeta. (Terra, 8/12/2009).

Qui invece il vecchio pezzo di Pannella elogiativo, seppure in modo subdolo, delle politiche cinesi:

Caro Grillo,

tu conosci quanto mi siano propri ispirazioni, obiettivi, urgenze che proponi e che tanta presa di coscienza, di dibattito e di consenso stanno suscitando; a cominciare dalle fonti rinnovabili per andare alla riduzione degli sprechi, al far tesoro della spazzatura che sommerge e inquina il mondo, alla promozione ed alla tutela dei produttori indipendenti. Scusami ma non ce l’ho fatta, con i casini nei quali sono stato impegnato, diciamo totalmente, a scriverti prima sul tuo documento sulle risorse energetiche.

Comunque non tutti i mali vengono per nuocere, il documento è utile, prezioso, ma (mi) urge anche “altro”.
Beppe, “quanto, cosa, come consumiamo – e produciamo” è il problema che con e grazie a te si può sperare ora di affrontare; per tentare di tappare le falle aperte da decenni di politiche energetiche sciagurate, dove il petrolio è stata la benzina della corruzione dei partiti e degli Stati, della creazione e del mantenimento di dittature sanguinarie. Ma alla base, all’origine di tutto, dobbiamo chiederci e sapere: tutto questo per chi è, di chi è? Insomma “Quanti siamo?” “Energia”, per chi? Quanti? per 3, 6, 9, e via crescendo, miliardi di “persone”, di consumatori?

Se il nazicomunismo cinese non avesse stabilito da generazioni di nazisticamente impedire la natalità, sterminando con la forza dello Stato feti e neonati, e genitori “colpevoli”, a che punto di già non saremmo*?
Se non imbocchiamo subito la strada di un “rientro dolce” della popolazione del pianeta da 6 miliardi di persone più o meno alla metà nell’arco di 4 o 5 generazioni, di un secolo, continueremo ad esser travolti dallo tsumani natalista, che ha visto alleati nei decenni precedenti sia i poteri fondamentalisti clericali, Vaticano in testa, sia il Potere dell’Impero sovietico e quelli fascisti, nazisti, totalitari di ogni tipo, che hanno imposto e impongono all’umanità di procreare, di moltiplicarsi bestialmente, irresponsabilmente, condannando centinaia di milioni di bambini a morire di fame, stenti, guerre…

Insomma, una energica, immediata politica demografica di “rientro dolce” mi appare come coessenziale per realizzare politiche di risparmio energetico e di investimento sulle fonti rinnovabili per il futuro del nostro paese il documento sulle risorse energetiche.
Lo ripeto: fascismo, nazismo, comunismo stalinista, fondamentalismi vaticani, talebani, e quelli nazionalisti e razzisti hanno rilanciato in questi giorni dissennate politiche nataliste.
Oggi, in questi giorni, in Italia i programmi elettorali, i congressi dei partiti recitano un dogma comune: la “difesa della famiglia”. E per “famiglia” intendono la riproduzione continua, intensificata, statalmente incentivata, con milioni di mancia ad ogni bebé, sovvenzioni e detassazioni alla famiglie più numerose… Non una voce si alza contro, a parte i… soliti… Radicali? Rosa nel Pugno? Margherita e Udc, Mastella e Lega trainano possenti, a rimorchio F.I. e in ginocchio perfino i DS, “Verdi” e Comunisti “distratti”.

La famiglia? Quale? Quali diritti sociali, “etici”, politici per i suoi “costitutori”, donne e uomini di ogni latitudine, colore, opinione, religione? Beppe: anche tu hai l’età per ricordare – siamo ancora in tanti – ma stiamo per essere travolti se gli “altri”, i “giovani” non sanno: “Dio, Patria, Famiglia”. La “bomba” non è quella “nucleare”, se non in termini di rischio, di pericolo. Ma la “bomba demografica” deflagra da più di un secolo e sul suo cammino distrugge tutto: natura, umanità, pianeta, appesta il mondo e i suoi dintorni.

Lanciamo anche questo SOS, questo MayDay? Io sono pronto, da tempo a dare una mano, e di più. Dai tempi del Club di Roma, quando proponemmo Aurelio Peccei (e chi sarà mai?) a Presidente del Consiglio…
Ma che disastro quella genìa di sessuofobi, di assolutisti, di disperati, di blasfemi accumulatori di ori e di poteri, di impotenti e prepotenti, sbarcati, di nuovo, da una sponda all’altra del Tevere, e che disperazione i potenti, prepotenti, impotenti di qui, che hanno loro spalancato porte e portoni del Palazzo e delle loro storie, e coscienze!”.

Marco Pannella

(http://www.rientrodolce.org/index.php?option=com_content&task=view&id=145&Itemid=127)

Solo Tartaglia è lo psicolabile?

Dopo l’azione criminale del signor Tartaglia ai danni di un uomo che è anche il premier del paese, molti membri dell’opposizione hanno subito affermato che la colpa è di Berlusconi e del clima d’odio da lui creato.

Chi scrive la pensa diversamente, sia perché ricorda la profluvie di libri, libelli e gesti di intolleranza sorti a partire dal 1994, quando un governo legittimo fu fatto cadere per via giudiziaria, sia perché dalla storia ha appreso che non esiste forza più abile a demonizzare l’avversario e a gestire la propaganda, insieme ai nazionalsocialisti, dei comunisti e degli ex comunisti. Pur essendo dovunque minoranza, infatti, i seguaci della ideologia di morte più terribile della storia, sono riusciti con la violenza e l’astuzia ad impadronirsi del potere in molti paesi, per poi coprirli di campi di concentramento per i loro avversari, ma anche per i loro stessi seguaci. Il comunismo cinese, cambogiano, nepalese, birmano e cubano attuali dovrebbero insegnare qualcosa! Qualcosa dovremmo imparare anche ogni volta che vediamo cosa il comunismo ha prodotto per i romeni, gli albanesi, gli slavi…

E’ vero, a scuola di queste cose non si parla mai. Potenza, ancora una volta di certa propaganda. Ci siamo mai chiesti perché i nostri programmi di storia siano ingolfati dal nazismo, mostro orribile, ma limitato nel tempo e nello spazio, e pochissime pagine siano dedicate sui testi della scuola dell’obbligo all’alleanza tra nazisti e comunisti del 1939 e soprattutto al comunismo europeo e mondiale in generale, cioè ad un fenomeno estesissimo e duraturo? Perché tutto conoscono cosa è la Gestapo, ma la maggioro parte dei nostri ragazzi non sa neppure dell’esistenza della Stasi, che pure è finita l’altro ieri? Perché nessuno ignora cosa siano stati i lager, mentre i più non saprebbero dire se i gulag sono campi di concentramento e spezie per la polenta? L’abilità è certamente di coloro che non si vergognavano a dichiararsi comunisti sino al 1989, cioè alla caduta del muro di Berlino, e che cambiarono il nome del loro partito solo in quell’occasione, quando orami era chiaro a tutti che la Repubblica democratica tedesca, nonostante il nome, era non una democrazia ma un inferno!

Quanto all’Italia non sono lontani gli anni del dopoguerra, quando, come ci ha raccontato Giampaolo Pansa, i comunisti italiani, sperando di fare entrare il nostro paese nel Paradiso sovietico, si diedero ad ammazzare allegramente non solo fascisti, ma anche antifascisti che avevano però il difetto di non essere comunisti: cattolici, monarchici, liberali ecc… Non sono tanto lontani neppure i tempi in cui l’Espresso e i sanguinari di Lotta Continua, incitando all’eliminazione dell’innocente Calabresi, scatenarono gli anni di piombo, ben raccontati in “Il Piombo e il silenzio. Le vittime del terrorismo in Italia. 1967-2003” (San Paolo). Del resto le periodiche incursioni delle rinate Br, con l’omicidio D’Antona e l’omicidio Biagi, e le violenze abituali degli anarchici, sono lì a ricordarci che un’Italia violenta esiste ancora, ed è sempre quella di un tempo. Qualcuno altrimenti dovrebbe spiegare come mai nel nostro paese il premier Berlusconi non possa girare liberamente, senza il pericolo di una statuetta sul volto, o di un cavalletto in testa, mentre Prodi poteva farlo tranquillamente senza correre alcun rischio: forse perché la violenza politica “levatrice della storia”, come voleva Marx, appartiene, appunto, ad un certa cultura, e non è stata ancora rinnegata?

I fatti attuali portano altre conferme: dopo il Tartaglia day, infatti, e l’esultanza pubblica di molte persone, il capo del comunisti italiani Paolo Ferrero, un tipo che rimpiange la falce e il martello e vive ancora sognando di potercela impiantare sulla testa a tutti, ha paragonato il premier ad un pedofilo, precisamente al “mostro di Marcinelle”. In nome del fatto che è meglio abbassare i toni…. Contemporaneamente su Repubblica, Franco Cordero, lo ha paragonato a Hitler, lo ha definito “affarista ignorante, Caimano, criminofilo, guastatore dell’ordinamento“…e ha pensato bene di offendere anche oltre metà del popolo italiano spiegando che chi lo ha votato è “un popolo credulo, obbediente, adorante“. Senza neppure immaginare che invece, tra coloro che lo hanno votato, vi sono molti che non necessariamente lo “adorano”, ma che lo ritengono infinitamente migliore di tanti suoi velenosissimi avversari.

Infine, per non fare indigestione, perché altrimenti ce ne sarebbero altri, un altro pronunciamento “nobile”, quello di Sabina Guzzanti, espressione becera di un certo mondo volgare e intollerante, che sul suo sito, più o meno “scherzando”, ha scritto che “l’unica mossa per salvare la partita è far uccidere Berlusconi…”. Poi dicono che Tartaglia è lo psicolabile…E Cordero, Ferrero, Guzzanti? E tutti quelli che sono convinti che sia lui, in verità, la longa manus dietro tutte le iniquità del mondo, dalla morte di Giulio Cesare in poi?

Dan Brown e la massoneria

Mr. Dan Brown ha già ottenuto uno strepitoso successo anche con l’ultimo libro, Il simbolo perduto.

 Il successo, lo ricordiamo tutti, era arrivato con Il codice da vinci, un best seller incredibile, che ha fatto di Brown uno degli uomini più ricchi del mondo. Ma è adesso, col nuovo libro, che è finalmente completo il pensiero dell’autore: per lui la Chiesa, che è pubblica e non ha nulla di segreto, avrebbe segreti inconfessabili, e omicidi svariati per mantenerli, e sarebbe una perfida macchina da oppressione, mentre la Massoneria, al centro de Il simbolo perduto, che è per definizione una società segreta, sarebbe sì segreta, ma non avrebbe nulla, in verità, da nascondere, essendo solamente una organizzazione filantropica tesa al vivere civile e pacifico.

 In una conferenza stampa a Milano l’8 dicembre, Brown ha espresso il suo pensiero, a cui mi sembra sia stato dato ben poco rilievo, benché in verità la cosa avrebbe dovuto suscitare maggiori interessi. Essa infatti chiarisce finalmente la sua formazione massonica o filo massonica, confusamente esoterica ed anti-cristiana, già visibile ne Il Codice da Vinci.

Ecco una breve rassegna stampa sulle dichiarazioni di Brown: D. Brown:

Ah, se durante le mie ricerche avessi trovato un solo documento che denunciasse che i massoni hanno commesso delle malefatte, l’avrei scritto a chiare lettere. Invece ho sempre trovato massoni aperti e tolleranti. Questo è un bene, in un mondo dove spesso ci si uccide perché si tiene troppo alla propria versione della verità. Nella Massoneria, invece, vi sono le persone più diverse, ma tutti si chiamano fratelli! Dopo Il simbolo perduto mi hanno fatto capire che le porte erano spalancate anche per me, ma sapete – e qui Dan fa l’occhiolino – mi hanno chiesto un giuramento sulla segretezza, e a me i segreti piace svelarli, mica conservarli».Il Giornale, 9 dicembre 2009

«Ma noi negli Stati Uniti abbiamo una idea diversa, meno sporca rispetto alla vostra, dei liberi muratori. I quali riescono a convivere e chiamarsi fratelli pur essendo di origini, di religione, di credo politico diversi. Non è una cosa da poco». Il Messaggero 9 dicembre

Lei critica la Chiesa cattolica nel Codice e in Angeli e demoni, e esalta la massoneria nel Simbolo perduto. È la sua posizione anche fuori dei romanzi? «La Chiesa cattolica ha fatto tonnellate di cose buone, e alcune meno buone. Quando ho cominciato a fare ricerche sui massoni ha scoperto gente con una mentalità davvero aperta. Voi la pensate diversamente, ma la massoneria da noi è così». La stampa 9 dicembre

Mr. Brown, cosa l’affascina della massoneria? «Conosco le storie della P2 e della vostra massoneria, ma il concetto massonico che avete in Italia è molto diverso da quello americano. Oggi tutti si ammazzano perché ognuno crede in un dio che reputa il migliore. Ognuno ha una visione diversa del proprio dio. Allora la massoneria ha riunito ebrei, cristiani, musulmani e altri religiosi, esortandoli a dimenticare la semantica e a capire che, se tutti crediamo in un essere superiore, tutti siamo fratelli. Credo che questo sia un approccio molto giusto verso le varie religioni». Il Tempo 9 dicembre

Le infatuazioni di Zapatero per i moriscos

Mentre in Svizzera la popolazione si pronuncia non contro le moschee, ma contro il proliferare di minareti islamici, svettanti sulle case e le chiese degli indigeni, vedendo in essi una minaccia culturale e politica, nella Spagna di Zapatero la deriva nichilista si manifesta nel più acceso odio di sé e della propria tradizione avita.

Non basta, ai progressisti spagnoli, equiparare i diritti delle scimmie a quelli degli uomini; neppure è sufficiente smantellare ogni giorno i valori della cristianità, sostituendoli col più triste ed infelice individualismo, che è poi quanto resta dopo l’ideologia alienante del comunismo. Occorre fare di più, occorre riscrivere la storia, con un solo intento: svillaneggiare il passato cristiano della Spagna e deturparne il ricordo.

Così i socialisti spagnoli propongono di risarcire pecuniariamente nientemeno che i tris-nipoti dei tris-nipoti dei moriscos cacciati dopo la Reconquista del 1492! Ecco, similmente, il grande successo di un romanzo antispagnolo, La mano di Fatima di Ildefonso Falcones, subito adocchiato, recensito ed elogiato, anche dalla sinistra nostrana! Cosa si dice in questo libro cui gli spagnoli hanno tributato tanto successo? Si racconta la storia dei “poveri” islamici, “stanchi di ingiustizie e umiliazioni”, che si battono contro i cattivi cristiani! Il protagonista, siamo nel 1568, è “un ragazzo di quattordici anni dagli occhi incredibilmente azzurri”, nato dall’atrocità di un prete cristiano, guarda caso un prete!, che ha stuprato una povera donna morisca!

Il libro, secondo i giornali progressisti spagnoli, ricostruirebbe le discriminazioni dei cristiani e la loro intolleranza. Ma come sono andate realmente le cose in Spagna: chi sono stati gli aggrediti, gli intolleranti, e chi gli aggressori, le vittime?

Nel 711 la Spagna viene assalita da settemila Berberi del Marocco convertiti all’Islam e dediti alla “guerra santa” contro gli infedeli. Sono gli anni in cui l’Islam si espande con velocità inaudita, conquistando una ad una le terre cristiane, dalla Siria all’Africa del nord. Il Mediterraneo, infestato dai pirati saraceni, diviene impraticabile per gli europei; muoiono i commerci, le città sulle coste decadono, e, come ricorda lo storico Henri Pirenne, per la prima volta l’Occidente latino si trova isolato ed escluso dal contatto con i paesi a sud del mare nostrum. In pochi anni cadono sotto i musulmani Lisbona, Cordova, poi la Sicilia e altre isole del Mediterraneo. Nell’840 i musulmani saccheggiano Roma, rapinando e uccidendo senza pietà. A breve, sulle coste italiane inizierà ad riecheggiare il noto grido di terrore: “mamma li Turchi”. Ebbene la Spagna cristiana subisce il giogo islamico per oltre sette secoli. Si libererà solamente con la conquista di Granada nel 1492, in una battaglia a cui partecipano, a fianco degli spagnoli, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi… Pochi anni prima i musulmani hanno definitivamente distrutto e conquistato Costantinopoli, pronti a chiudere l’Europa in una morsa (1453). Durante la presa di Granada, come racconta lo storico J.Dumont (“La regina diffamata“, Sei), i “re cattolicissimi” “hanno proibito ai cristiani rappresaglie o saccheggi”, che in effetti non si verificano.

Ma cosa fare dei moriscos, una volta liberata la città? Isabella e Ferdinando, dal 1492 al 1499 propongono loro la conversione volontaria, senza alcuna imposizione, concedendo nel contempo moschee, libertà di culto e di costumi. Ma la politica tollerante non ha successo: molti moriscos sono sempre pronti alla sedizione e alla prova di forza. E’ in questa situazione, dopo la loro ennesima ribellione, che i re di Spagna, nel 1501, li invitano ad una scelta estrema: o la conversione, volontaria, o l’esilio, il ritorno nelle proprie terre. Dopo 7 secoli di oppressione islamica, non se ne ha diritto? Convertendosi liberamente, scrive il Dumont, i moriscos “potevano conservare i costumi musulmani, le abitudini more, l’uso della lingua araba…La conversione diveniva dunque un semplice modus vivendi tra Cristianesimo di principio e Islam di fatto”. Infatti molti accetteranno queste condizioni. Sarà solo nel 1566-68, dopo che i Turchi hanno lanciato una poderosa offensiva nel Mediterraneo e i Mori nordafricani hanno razziato le coste della regione di Granada, in combutta coi moriscos “spagnoli”, riforniti di armi raccolte in una moschea di Algeri, che Filippo II proibirà l’uso della lingua, degli abiti e dei costumi arabi, e imporrà a tutti i moriscos di imparare lo spagnolo entro tre anni, favorendo nello stesso tempo i matrimoni misti. In questi anni, scrive lo storico H. G. Koenigsberger, i frequenti attacchi turchi alle navi, ai villaggi e ai porti della Spagna meridionale, “contribuirono a tenere continuamente vivo il senso di minaccia” negli spagnoli, mentre “i contatti (dei turchi, ndr) con i moriscos di Granada portarono il pericolo musulmano nel cuore della Spagna” (Cambridge University, Storia del mondo moderno, vol. III).

Infine, nel 1609, quando si apprese che “i moriscos complottavano con i barbareschi ed Enrico IV di Francia, grande nemico della Spagna, per organizzare una nuova sollevazione, estesa a tutto il regno“, Filippo II ordinò l’espulsione di 300.000 di loro.

Erano passati sette secoli di dominio islamico e oltre cent’anni di falliti tentativi di convivenza: con quale coraggio Mario Vargas Llosa ed altri intellettuali “progressisti”, di continuo col ditino alzato, con le loro analisi sempre così banali, scontate, ripetitive, straparlano, a proposito di queste vicende, di “intolleranza religiosa” e “pregiudizio razzista“? (Il Foglio, 10 dic.2009)

Le divergenze tra Darwin e Wallace.

Il prof. Roberto De Mattei, vice presidente nazionale del CNR, reo di aver organizzato un convegno a Roma con alcune personalità scientifiche piuttosto critiche [verso l’ideologia darwinista, ha subito l’ennesimo processo dalle colonne del periodico giacobino Micromega.

 A fare da inquirente, il violentissimo Telmo Pievani, un personaggio che dietro le teorie di Darwin, ammantandosi del titolo di difensore della ragione e della scienza, nasconde il suo ateismo dogmatico e assolutista e il sua rancore e disprezzo per il pensiero cattolico e teista, ben espresso nel suo “Creazione senza Dio”. Pievani è uno di quelli che non possono sopportare alcun rilievo, piccolo o grande che sia, nei confronti di Darwin e del suo pensiero, non per una reale attenzione alla sua opera, quanto per personali motivi ideologici: il naturalista inglese è infatti per lui, come lo fu per Marx ed Engels, o per Stalin, la “dimostrazione” scientifica della inesistenza di Dio (vedi appunto il titolo del suo libro).

Questo nonostante Darwin stesso non si sia mai definito ateo, e, al contrario, abbia in più occasioni fatto dichiarazioni di questo tipo: “l’impossibilità di pensare che questo grandioso e meraviglioso universo, insieme a noi esseri coscienti, sia nato per caso, mi sembra il principale argomento a favore dell’esistenza di Dio”, salvo poi aggiungere però che “l’intera questione si trova al di là della portata dell’intelletto umano” (Randal Keynes, Casa Darwin, Einaudi).

La polemica tra il dotto ed equilibrato professore del CNR e lo scomposto Pievani, perfetta espressione di un certo mondo poco amante del libero dibattito sull’opinabile, ci dà la possibilità, in chiusura dell’anno darwiniano, di ricordare anche un altro personaggio importante, quel sir Alfred R. Wallace, che è ricordato, insieme a Darwin, come lo scopritore della selezione naturale, e la cui memoria, pur essendo egli un evoluzionista, non farà forse un gran piacere al nostro Pievani. Qual è il nucleo del pensiero di Wallace?

Wallace entra in discussione con l’amico Darwin a proposito dell’unicità umana. Non che neghi la natura anche animale dell’uomo, ma sostiene che l’unicità umana non può essere negata, ed è anzi evidente nel fatto che l’uomo è l’unica creatura che non è costretta a modificare il proprio corpo “in relazione alle mutate condizioni ambientali”, ma al contrario modifica l’ambiente a seconda delle proprie necessità. Per nuotare, nota Wallace, non abbiamo subito mutazioni genetiche che ci hanno fatto crescere le branchie, né per volare ci sono venute le ali, ma abbiamo inventato le pinne, le maschere, i sommergibili, le navi e gli aerei (e gli ospedali, che contrastano la legge del più forte).

Non è dunque solo la natura ad esercitare il suo potere su di noi, ma anche noi ad esercitarlo su di essa. E questo come si spiega? Necessita, conclude Wallace, ipotizzare “un Potere che ha guidato l’attività di tali leggi (naturali ndr) in una precisa direzione e con uno specifico scopo”.

Necessita cioè, per spiegare l’uomo, una concezione teleologica-provvidenzialistica, un principio spirituale che renda conto della sua irriducibile alterità, ciò che i filosofi chiamano “anima”; necessita “un qualche altro potere, diverso dalla selezione naturale” che sia “stato coinvolto nella realizzazione dell’uomo”, una “legge più generale…forse connessa con l’origine assoluta della vita e dell’organizzazione”.

A queste osservazioni Darwin, che non condivide l’idea di riservare all’uomo “un posto a se stante nel regno animale”, risponde a Wallace: “Non capisco la necessità di tirare in ballo un’ulteriore e diretta causa riguardo all’uomo”, oltre, evidentemente, alla legge della selezione naturale, “la vostra e mia creatura” (Federico Focher, L’uomo che gettò nel panico Darwin, pp.155-197, Bollati Boringhieri, 2006).

Eppure Wallace continua a sostenere una tesi che è ancora oggi la più evidente e di buon senso, e che certo non è mai stata smentita: che nell’uomo una “forza misteriosa”, la mente, costituisce “la vera grandezza, l’originalità dell’uomo” e lo rende “un essere a se stante”. L’uomo, per Wallace, si sarebbe evoluto sino al momento in cui l’intelletto, raggiunta una soglia minima di sviluppo, avrebbe reso inutile le modificazioni del corpo.

Ma cosa “la selezione naturale non può fare”? Essa, per lui come per Darwin, non ha “nessun potere di spingere un qualunque essere molto più avanti dei suoi simili, se non quel tanto che basta per permettergli di sopravanzarli nella lotta per l’esistenza”. Eppure nell’uomo, nota sempre Wallace, vi è un evidente eccesso: la capacità di costruire aerei, o di dipingere, o di osservare gli astri con un cannocchiale, non sembra avere alcuno scopo, alcuna utilità, tanto meno immediata!

Anche la voce umana, così capace di estensione, di versatilità, e di dolcezza, “mostra di eccedere le necessità dei selvaggi” e le nostre: qual è l’utilità, per la sopravvivenza, di un soprano o di un tenore, del gregoriano, o della polifonia? Tanto più che le immense potenzialità della voce umana rimangono latenti anche nella gran parte degli uomini civilizzati. E l’immensa potenzialità delle nostre mani? Con esse l’uomo suona il piano o il violino, costruisce gioielli e microchip, fa operazioni chirurgiche o scrive col computer…

Cioè, secondo le parole di Wallace, “la mano dell’uomo presenta delle capacità latenti e delle potenzialità che non vengono utilizzate dai selvaggi e che devono esserlo state ancora meno dall’uomo paleolitico e dai suoi più rozzi antenati. Ha tuttavia l’aria di un organo predisposto per essere utilizzato dall’uomo civilizzato, anzi di un organo necessario per rendere possibile la civilizzazione”.

Se pensiamo alle facoltà mentali, la capacità di concepire l’eterno, l’infinito, l’armonia, il numero, non “influiscono minimamente” sulla esistenza individuale o su quelle della tribù, e quindi è “impossibile che si siano sviluppate grazie a una qualche forma di conservazione di forme di pensiero utili”. Inoltre la selezione non “ha il potere di produrre delle modificazioni in qualche misura dannose per chi le possiede”, essendo esse adattative.

Si chiede allora Wallace: perché allora perdere il pelo, là dove sarebbe utile? Perché la posizione bipede, e le altre debolezze fisiche dell’uomo, quali appunto la pelle senza peli, che un quadrumane non ha? “La pelle dell’uomo, delicata, nuda, sensibile, priva completamente di quel rivestimento di pelo così comune in tutti gli altri mammiferi- conclude Wallace- non si può spiegare con la teoria della selezione naturale. Le abitudini dei selvaggi dimostrano che essi sentono il bisogno di questo rivestimento, assente nell’uomo proprio nei punti in cui negli animali è più folto. Non abbiamo alcuna ragione di credere che il pelo possa essere stato dannoso, o anche solo inutile, per l’uomo primitivo”.

Perché la crescita del cervello, se in primis è solo causa di mortalità alla nascita e di parti più dolorosi e rischiosi? Afferma Wallace: quando “modificazioni nocive o inutili al tempo della loro comparsa” divengono, “col tempo estremamente vantaggiose, e sono ora essenziali per il pieno sviluppo morale e intellettuale della natura umana, dovremmo dedurne l’azione di una mente che prevede e lavora per il futuro, proprio come facciamo noi quando vediamo l’allevatore organizzare il proprio lavoro con il determinato proposito di produrre un dato miglioramento nella coltivazione di una pianta o nell’allevamento di qualche animale domestico”.

 Wallace argomenta poi in questo modo: la crescita del cervello, il suo volume, ci differenzia dalle scimmie, ma la differenza tra il volume dei selvaggi e quello dei civili è ben misera ( il cervello dei selvaggi è “immensamente più grande di quello degli animali”; “la selezione naturale avrebbe anche potuto dotare il selvaggio di un cervello non molto superiore a quello di una scimmia, e invece egli ne possiede uno di pochissimo inferiore a quello di un filosofo”). Eppure il selvaggio non usa moltissime delle facoltà di cui si serve l’uomo civile. Ma l’ampiezza del suo cranio (quello di un nero selvaggio può anche essere maggiore di quella di un bianco europeo) dimostra che il suo cervello “è capace, se coltivato e sviluppato, di svolgere un lavoro dal punto di vista sia qualitativo che quantitativo che va molto al di là di quello che gli viene normalmente richiesto”.

Tra i selvaggi possiamo trovare esempi di senso artistico, di altissima moralità, ecc…, pertanto, “considerato che tutte le facoltà morali e intellettuali occasionalmente si manifestano anche nel selvaggio, possiamo benissimo concludere che esse sono sempre latenti e che il suo grande cervello è sovradimensionato per le reali richieste della sua condizione di selvaggio”.

Il cervello del selvaggio sembra cioè “predisposto per essere completamente utilizzato via via che egli progredisce nella civilizzazione”. Ma un cervello così grande rispetto alle necessità, non può essere frutto solo della selezione, che agisce in modo economico, badando all’utile immediato, portando ciascuna specie “ad un grado di organizzazione esattamente proporzionato alle sue necessità, mai oltre”, e mai preparando “nulla per il futuro sviluppo della razza”.

Le facoltà umane della geometria e dell’aritmetica, come tante altre come possono essere emerse “in un epoca in cui non sarebbero state di nessuna utilità per l’uomo nella sua primitiva barbarie?” Si tratta infatti di facoltà “così incredibilmente lontane dalle necessità materiali degli uomini selvaggi”; del resto l’ “ipotesi utilitaristica (che altro non è che la teoria della selezione naturale applicata alla mente)” “sembra inadeguata anche per spiegare lo sviluppo del senso morale”, in quanto “nella nostra natura esiste un sentimento, un senso del giusto e dell’ingiusto, che è anteriore e indipendente da esperienze utilitaristiche”. Come Darwin era partito dallo studio degli allevamenti artificiali, cioè dalla selezione operata dall’intelligenza umana, così l’evoluzionista Wallace conclude ipotizzando all’origine del cosmo una “intelligenza superiore”, analoga a quella, appunto, dell’allevatore o del coltivatore. Il Foglio, 4/12/2009

Fini Gianfranco, l’ipocrisia trionfante

Il buon Gianfranco Fini non cessa di stupire. Il suo ultimo libro costruito con la collaborazione del Corriere e della sua casa editrice, Rizzoli, si presenta come l’ennesima opera stonata di un uomo veramente poco credibile. Un uomo che non solo cambia ogni due anni o più idea sulle principali vicende politiche italiane di cui è protagonista, ma anche le sue idee sulla vita e sulla morte.

Un uomo che chiede maggior democrazia e dibattito nel Pdl, certamente a ragione, ma che è famoso per aver stroncato sempre qualsiasi opposizione interna, gestendo per anni da vero duce il partito di cui era segretario (qualcuno ricorderà i numerosi deputati da lui espulsi dal partito senza appello per averlo contraddetto, o i vertici del partito ricreati da zero dopo uno scontro con i cosiddetti colonnelli…).
 L’ultimo libro di Fini, che dovrebbe essere anche il suo primo, si rivela l’ennesima operazione mediatica gestita da altri, cioè dai suoi sponsor: quel vecchio marpione di Paolo Mieli ( direttore della Rizzoli, che gli ha assicurato l’editore, e assicura, a lui e alla sua fondazione, i titoloni e gli articoli continui sul Corriere) e il mondo della grande finanza, che possiede il Corriere. In questo libro noto, come hanno già fatto altri prima di me:
 – manca qualsiasi riferimento di Fini alla sua storia politica, al fascismo e al MSi: amnesia galoppante?
 – Manca qualsiasi riferimento a Berlusconi, a cui è legato da oltre 15 anni politicamente e a cui deve il suo essere dove è: come mai ora è imbarazzante ciò che sino a ieri , sino alle ultimissime elezioni, in campagna elettorale, non lo era? Come mai questa improvvisa avversione verso la persona con cui si è lavorato per 15 anni?
 -vi sono un’infinità di citazioni dotte che non appartengono al personaggio, sia perchè provenienti per lo più da intellettuali di sinistra, sia perchè Fini non ha mai dimostrato in passato la conoscenza di quegli stessi autori (del resto diciamo pure che non gode la fama di essere molto colto).

Per questo, un uomo che lo conosce da sempre, come Marcello Veneziani, lo ha accusato di non aver scritto lui il libro, ma di averlo commissionato ad altri (a meno che non siano stati altri ad averlo, oltre che scritto, anche commissionato a lui): non c’è stata risposta.

Di seguito le risposte che Francesco Storace, già suo portavoce, ha dato oggi al Corriere:

 “Sa qual è il suo vero talento?” No. “E’ bravissimo a galleggiare. E se ne infischia di ogni contraddizione”. Storace, lei è molto duro. “No. Essendo stato testimone oculare, se permette, posso raccontare”. Racconti. “ Vado a memoria e ho un flash: 2002, arriva la notizia che Le Pen, gran capo della destra francese accusata di xenofobia, va al ballottaggio con Chirac. Io leggo l’agenzia, e telefono subito a Fini”. E lui? “Felice. Anzi, no: tra l’eccitato e l’entusiasta”. Magari…”Magari che? Vogliamo parlare dei manifesti di An con le impronte digitali, per sensibilizzare, diciamo così, l’opinione pubblica sul fenomeno dell’immigrazione? Chi era il segretario?”….”Leggo che Fini si lamenta perché, secondo lui, nel PDL non si discute abbastanza”. Esatto.

 “E lui allora? Quand’era il nostro grande capo? Sa come funzionavano le assemblee? La relazione di Fini, due sbadigli e poi tutti a casa. Non solo: lui va in tv, lo pizzicano con il fuori onda che sappiamo e deve sembrarci tutto normale. Ma quando un cronista del Tempo origliò alcuni discorsi critici di la Russa, Matteoli e Gasparri, lui si infuriò a tal punto di decapitare l’intero partito…” (Corriere, 3 dicembre 2009).

Il presidente dell’Aifa, finalmente, senza volerlo, dice la verità sulla Ru 486.

Visto il dibattito, come sempre falsato dai grandi giornali, mi sembra opportuno ripubblicarlo:

Il titolo è il solito del Corriere. Mente pur di ribadire l’idea che gli sta a cuore: “Quel farmaco è sicuro. Nel mirino c’è la 194”. Sotto l’intervista la presidente dell’Aifa che ha appena votato il permesso alla RU 486 in Italia. E’ il ginecologo Pecorelli che si dichiara subito d’accordo con Gianfranco Fini. E spiega che qualcuno vuole, in verità attaccare la 194. Il che gli sembra uno scandalo inaudito.

Poi, buttata lì, tra le altre, l’unica domanda importante: “ Aborto chirurgico e aborto farmacologico sono uguali?”. La risposta di Pecorelli: “ Da ginecologo (e da abortista convinto, ndr) dico che quello farmacologico può comportare un percorso più tortuoso, psicologicamente difficile da sopportare”. Che ammissone! Uno si aspetterebbe subito la domanda di rimbalzo: “Perché?”.

Ma per carità questo è il tema che non bisognava trattare, altrimenti si finisce per dar ragione agli avversari della Ru 486… Cosa che Pecorelli non può fare, a meno di darsi la zappa sui piedi, e il Corriere non vuole fare. Sono 4 anni che con Repubblica porta avanti la campagna pro pillola abortiva, a forza di didascalie in cui si leggeva: “l’embrione si distacca dalla parete” al posto del più onesto: l’embrione avvelenato, spappolato e ucciso, si distacca dalla parete e verrà espulso non si sa quando, solitamente a casa, in gabinetto.

Oggi, accanto all’intervista a Pecorelli, si legge che la Ru 486 “induce l’espulsione della mucosa uterina”. La mucosa, capite, null’altro? Ma la verità si impone, e almeno in parte è saltata fuori: "più tortuoso" vuol dire una marea di cose che chi vuole approfondire può trovare….

Però manca ancora molto: ad esempio il fatto che l’embrione di 49 giorni (nella foto) è in buona parte formato; oppure che molte donne sono morte per Ru 486; oppure il fatto che qualora la pillola venisse col tempo liberalizzata, come in realtà si vuole fare,  avremmo come negli altri paesi le ragazzine come l’americana Holly Patterson, di 17 anni, che vanno tranquillamente a letto con qualcuno, tanto c’è la pillolina che si compera senza problemi; poi si chiudono in una stanza, senza dire nulla ai genitori, prendono la pillolina, perché tanto tutti dicono che non fa niente ed effettivamente è solo una pillolina (o due..)… e poi ci lasciano la pelle.

Due morti con due pilloline, e il Corrierone e Repubblica possono festeggiare un nuovo diritto civile!

Domani c’è il Banco Alimentare

Sabato 28 novembre come tutti gli anni ci sarà la giornata del Banco Alimentare, una bellissima invenzione nata negli ambienti di Comunione e Liberazione, e poi cresciuta col supporto di associazioni come la san Vincenzo, gli alpini e tanti altri gruppi del volontariato cattolico italiano.

Il Banco Alimentare è una grande rete di magazzini e di volontari che un giorno all’anno, davanti a moltissimi supermercati in tutta Italia, chiedono ai clienti un dono in natura: scatolette di tonno, pasta, olio, omogeneizzati…Tutto ciò che viene raccolto viene poi conservato in grandi magazzini e ogni mesi un piccolo esercito di volontari porta un pacco spesa a casa delle famiglie o dei singoli bisognosi.

I magazzini del banco vengono poi costantemente riforniti da grande case produttrici di cibo, come la Perugina e tante altre, di cibo in sovrappiù, magari vicino alla data di scadenza, che non è più possibile, per motivi di tempo, mettere in vendita, ma di cui è assicurata la bontà, per numerosi altri mesi, dall’azienda donatrice.

Anche case produttrici di vestiti, come l’Oviesse, donano spesso vestiti per bambini. A tutto ciò si aggiungono i formaggi e il latte della Comunità Europea che non possono essere messi in vendita per motivi commerciali. Si crea così una quantità enorme di beni di prima necessità che vengono di continuo distribuiti ai poveri e ai bisognosi: un’opera che sta crescendo, negli anni, in modo incredibile.

http://www.bancoalimentare.org/

Qual è il Mancuso autentico?

Si intitola “La vita autentica” il nuovo saggio di Vito Mancuso, il teologo di maggior successo del mondo editoriale italiano. Mancuso torna alle origini, cioè pubblica con Raffaello Cortina, prestigiosa casa editrice che regalò il successo al suo “L’anima e il suo destino”. Sembra quasi un tentativo di rifarsi una verginità intellettuale, dopo il volume “di cassetta” realizzato a quattro mani con Corrado Augias, “Disputa su Dio”, che lo trascinò, suo malgrado, in una imbarazzante polemica.

Si trattava infatti di un testo piuttosto scontato, in cui in fin dei conti il credente Mancuso e l’ateo Augias, dopo aver identificato un nemico comune, la Chiesa cattolica, duellavano stando attenti, soprattutto, a non ferirsi. Poi scoppiò, grazie a Libero, lo scandalo: si scoprì che Augias, oltre alle numerosissime imprecisioni, alle forzature storiografiche e al procedere piuttosto traballante, aveva prelevato di peso dalla rete, senza citarne la fonte, un intero brano del sociobiologo E. O. Wilson, sostenitore dell’idea secondo cui gli uomini, privi di libertà, sarebbero completamente determinati, in ogni loro azione e scelta, esattamente come le formiche, dal loro patrimonio genetico.

Augias si difese in modo piuttosto impacciato, e Mancuso si dichiarò offeso e sminuito dal procedere poco “scientifico” del collega. Ma Mancuso, prima di “Disputa su Dio” e prima di divenire, a Repubblica, il teologo “cattolico” funzionale alla santa crociata antiberlusconiana, aveva esordito in altro modo: prima con un testo filosofico teologico di un certo spessore, poi con articoli piuttosto impegnativi e profondi sul Foglio.

Dopo essere divenuto col tempo, e la fama, il giornalista qualunquista di Repubblica, che spara un giorno sul papa e un giorno sul premier, mescolando sovente i due obiettivi con furore ideologico, deve aver pensato che tutto sommato non è male per un teologo tornare a parlare di “anima” e di questioni spirituali. E’ nato così “La vita autentica”. Anche questa volta il testo è potenzialmente appetibile al grande pubblico. Anche perché è scritto con eleganza e chiarezza. Bisogna riconoscere che l’autore sa essere accattivante e, soprattutto, sa schivare l’oscurità tipica di molti filosofi e teologi. In verità, però, nelle poche pagine del saggio, Mancuso esprime concetti piuttosto banali.

Sostiene ad esempio che l’uomo “autentico” è quello che “ama sopra ogni cosa la verità”, e che per questo deve essere incline da una parte ad “essere fedele a se stesso”, dall’altra a “diffidare di sé”, “a trascendersi”, a riconoscere la propria miseria. Un simile pensiero mi appare certamente condivisibile, anche se non è chiaro cosa alla fine Mancuso intenda per “verità”, e non vi sono mai esempi concreti, tratti ad esempio dalla riflessione bioetica un tempo a lui cara, che lo rendano comprensibile. Si tratta di un modo di procedere piuttosto tipico, questo, di un certo modo cattolico progressista, che non rinuncia alle belle proposizioni di principio, ma omette poi di calarle nella realtà, di incarnarle, per non urtare nessuno.

Insomma un pensiero debole, seppure non debolissimo, che può piacere a tutti, e che, se non piace, quantomeno non urta. Un altro concetto trascinato per svariate pagine, anch’esso di massima condivisibile, è quello secondo cui la vita non è univocamente interpretabile in ogni momento allo stesso modo: essa ci mette talora dinnanzi alla contemplazione di un ordine, di un’armonia, di un Mistero buono e provvidenziale, mentre in altri momenti sembra rivelarsi come assurda, insensata, piena di dolori e interrogativi inevasi.

 Proseguendo Mancuso prende le distanze da molti campioni dello scientismo contemporaneo per i quali la casualità dell’esistenza umana e dell’universo, il fatto che “moriamo quindi per caso come per caso siamo nati” (Boncinelli), sarebbe dimostrabile scientificamente: non mancano illustrissimi scienziati contemporanei, nota, da Dyson a De Duve, che la pensano all’opposto e che riconoscono anche nell’universo fisico una finalità ed un senso. Il centro di tutto, conclude allora Mancuso, “la dimensione peculiare in cui l’Io ultimamente consiste”, “è la libertà”, ed essa non può essere negata né dalle neuroscienze, che non la sanno né possono spiegare, perché “non possono pensare a prescindere dalla materia”, né dalle svariate forme di determinismo che tendono a ridurre l’uomo alle sue componenti materiali (“non siamo riducibili ai neuroni, o alle ossa e ai nervi”).

La libertà, infatti, è per definizione “autonomia dalla materia”, capacità dell’uomo di elevarsi sopra le sue determinazioni biologiche e istintive, a differenza delle pietre, delle piante e degli animali. Così, per una volta, il teologo torna a parlare quantomeno di anima, di verità, di bene, di libertà, le parole che forse, anche perché sempre più desuete, avevano affascinato i suoi primi lettori. Ma lo fa con quella leggerezza, si diceva, che sterilizza anche le idee più nobili e le rende sostanzialmente inerti.

Come si declina, concretamente, la libertà? Quali sono, se ne ha, i suoi limiti? Esiste una Verità alla luce della quale giudicarla, cioè ad essa superiore? Queste e altre domande fondamentali rimangono inevase, mentre al lettore, alla fine del libro, ne sorgono delle altre.

Qual è il Mancuso “autentico”? Quello che fu sacerdote di santa romana Chiesa, o quello che non perde occasione per gettare ogni sorta di veleno su di essa, criticando radicalmente non l’infedeltà, inevitabile, di alcuni suoi membri, ma l’istituzione stessa? Quello vero è il Mancuso che una volta scoperti i copia e incolla del suo amico Corrado Augias, ne prese pubblicamente le distanze, o quello che continua a presentare insieme a lui, in giro per il paese, il fortunato (economicamente) libro che scrissero a quattro mani? Quello autentico, ancora, è quello che si scandalizza per le vere o presunte avventure dongiovannesche del premier, e lancia pesantissimi anatemi contro chiunque semplicemente lo saluti, o quello che scrive su un quotidiano da sempre molto libertino, il cui fondatore Eugenio Scalfari, nella sua autobiografia, racconta tranquillamente di aver fatto le sue prime esperienze col gentil sesso, per vincere la “timidezza”, in un bordello?

Quello vero è il teologo che ha anche rivendicato l’umanità dell’embrione e del feto, nei suoi scritti passati, o quello che dinanzi alla legalizzazione della Ru 486, vero pesticida umano per grandi e piccini, finisce come sempre per prendersela col papa e col governo? (Libero, 19/11/2009)

Infine, leggendo approfonditamente il libro, ci accorgiamo che il Mancuso che vi compare la pensa molto diversamente, seppure quasi a bassa voce, dai suoi colleghi di Repubblica. Cosa può avere a che fare, infatti, con la “vita autenticità”, un Corrado Augias che sforna libelli pieni di imprecisioni e calunnie, lui che collaborava coi servizi segreti di un regime comunista, ferocemente repressivo di ogni libertà? Che relazione tra il riconoscimento della libertà, l’ottica antiscientista di Mancuso, la sua fiducia in un significato della vita umana, e il casualismo di Scalfari, che arriva a equiparare l’uomo ad una mosca (“l’uomo è una forma della natura come la mosca”), perché entrambi sarebbero prodotti di una natura che ciecamente “esplode forme continuamente nel modo più casuale”?

Che rapporto può esistere tra l’Io libero e teso verso verità, bene, giustizia, per quanto indefiniti, di Mancuso, e l’Io che Scalfari considera una “gabbia”, un “capriccioso dittatore”, un “prigioniero” da distruggere? Che relazione, ancora, tra l’umanità di Mancuso e il transumanismo di un altro giornalista di Repubblica, il marxista Aldo Schiavone, secondo il quale la tecnica ci permetterà a breve di spostare la nostra coscienza su supporti removibili e di conservare post mortem, dopo il seme e gli ovuli, le funzioni di un individuo, il suo pensiero, la sua personalità, entro strutture biotech?

Che cosa c’è, infine, di comune tra la tensione ai valori spirituali che caratterizzerebbero la ricerca di una vita autentica e libera, e il sogno di un altro collaboratore di Repubblica, quel Desmond Morris che definisce l’uomo una “scimmia nuda” e che implora dalla scienza un’immortalità pesantemente terrestre, senza personalità né autenticità alcuna, allorché scrive: “Se solo il mio cervello potesse essere inserito nel cranio di un giovane morto per trauma cranico…potrei ricominciare da capo e godermi un altro po’di vita su questo nostro piccolo, affascinante pianeta” (Repubblica 10/4/2008)?