Domani c’è il Banco Alimentare

Sabato 28 novembre come tutti gli anni ci sarà la giornata del Banco Alimentare, una bellissima invenzione nata negli ambienti di Comunione e Liberazione, e poi cresciuta col supporto di associazioni come la san Vincenzo, gli alpini e tanti altri gruppi del volontariato cattolico italiano.

Il Banco Alimentare è una grande rete di magazzini e di volontari che un giorno all’anno, davanti a moltissimi supermercati in tutta Italia, chiedono ai clienti un dono in natura: scatolette di tonno, pasta, olio, omogeneizzati…Tutto ciò che viene raccolto viene poi conservato in grandi magazzini e ogni mesi un piccolo esercito di volontari porta un pacco spesa a casa delle famiglie o dei singoli bisognosi.

I magazzini del banco vengono poi costantemente riforniti da grande case produttrici di cibo, come la Perugina e tante altre, di cibo in sovrappiù, magari vicino alla data di scadenza, che non è più possibile, per motivi di tempo, mettere in vendita, ma di cui è assicurata la bontà, per numerosi altri mesi, dall’azienda donatrice.

Anche case produttrici di vestiti, come l’Oviesse, donano spesso vestiti per bambini. A tutto ciò si aggiungono i formaggi e il latte della Comunità Europea che non possono essere messi in vendita per motivi commerciali. Si crea così una quantità enorme di beni di prima necessità che vengono di continuo distribuiti ai poveri e ai bisognosi: un’opera che sta crescendo, negli anni, in modo incredibile.

http://www.bancoalimentare.org/

Qual è il Mancuso autentico?

Si intitola “La vita autentica” il nuovo saggio di Vito Mancuso, il teologo di maggior successo del mondo editoriale italiano. Mancuso torna alle origini, cioè pubblica con Raffaello Cortina, prestigiosa casa editrice che regalò il successo al suo “L’anima e il suo destino”. Sembra quasi un tentativo di rifarsi una verginità intellettuale, dopo il volume “di cassetta” realizzato a quattro mani con Corrado Augias, “Disputa su Dio”, che lo trascinò, suo malgrado, in una imbarazzante polemica.

Si trattava infatti di un testo piuttosto scontato, in cui in fin dei conti il credente Mancuso e l’ateo Augias, dopo aver identificato un nemico comune, la Chiesa cattolica, duellavano stando attenti, soprattutto, a non ferirsi. Poi scoppiò, grazie a Libero, lo scandalo: si scoprì che Augias, oltre alle numerosissime imprecisioni, alle forzature storiografiche e al procedere piuttosto traballante, aveva prelevato di peso dalla rete, senza citarne la fonte, un intero brano del sociobiologo E. O. Wilson, sostenitore dell’idea secondo cui gli uomini, privi di libertà, sarebbero completamente determinati, in ogni loro azione e scelta, esattamente come le formiche, dal loro patrimonio genetico.

Augias si difese in modo piuttosto impacciato, e Mancuso si dichiarò offeso e sminuito dal procedere poco “scientifico” del collega. Ma Mancuso, prima di “Disputa su Dio” e prima di divenire, a Repubblica, il teologo “cattolico” funzionale alla santa crociata antiberlusconiana, aveva esordito in altro modo: prima con un testo filosofico teologico di un certo spessore, poi con articoli piuttosto impegnativi e profondi sul Foglio.

Dopo essere divenuto col tempo, e la fama, il giornalista qualunquista di Repubblica, che spara un giorno sul papa e un giorno sul premier, mescolando sovente i due obiettivi con furore ideologico, deve aver pensato che tutto sommato non è male per un teologo tornare a parlare di “anima” e di questioni spirituali. E’ nato così “La vita autentica”. Anche questa volta il testo è potenzialmente appetibile al grande pubblico. Anche perché è scritto con eleganza e chiarezza. Bisogna riconoscere che l’autore sa essere accattivante e, soprattutto, sa schivare l’oscurità tipica di molti filosofi e teologi. In verità, però, nelle poche pagine del saggio, Mancuso esprime concetti piuttosto banali.

Sostiene ad esempio che l’uomo “autentico” è quello che “ama sopra ogni cosa la verità”, e che per questo deve essere incline da una parte ad “essere fedele a se stesso”, dall’altra a “diffidare di sé”, “a trascendersi”, a riconoscere la propria miseria. Un simile pensiero mi appare certamente condivisibile, anche se non è chiaro cosa alla fine Mancuso intenda per “verità”, e non vi sono mai esempi concreti, tratti ad esempio dalla riflessione bioetica un tempo a lui cara, che lo rendano comprensibile. Si tratta di un modo di procedere piuttosto tipico, questo, di un certo modo cattolico progressista, che non rinuncia alle belle proposizioni di principio, ma omette poi di calarle nella realtà, di incarnarle, per non urtare nessuno.

Insomma un pensiero debole, seppure non debolissimo, che può piacere a tutti, e che, se non piace, quantomeno non urta. Un altro concetto trascinato per svariate pagine, anch’esso di massima condivisibile, è quello secondo cui la vita non è univocamente interpretabile in ogni momento allo stesso modo: essa ci mette talora dinnanzi alla contemplazione di un ordine, di un’armonia, di un Mistero buono e provvidenziale, mentre in altri momenti sembra rivelarsi come assurda, insensata, piena di dolori e interrogativi inevasi.

 Proseguendo Mancuso prende le distanze da molti campioni dello scientismo contemporaneo per i quali la casualità dell’esistenza umana e dell’universo, il fatto che “moriamo quindi per caso come per caso siamo nati” (Boncinelli), sarebbe dimostrabile scientificamente: non mancano illustrissimi scienziati contemporanei, nota, da Dyson a De Duve, che la pensano all’opposto e che riconoscono anche nell’universo fisico una finalità ed un senso. Il centro di tutto, conclude allora Mancuso, “la dimensione peculiare in cui l’Io ultimamente consiste”, “è la libertà”, ed essa non può essere negata né dalle neuroscienze, che non la sanno né possono spiegare, perché “non possono pensare a prescindere dalla materia”, né dalle svariate forme di determinismo che tendono a ridurre l’uomo alle sue componenti materiali (“non siamo riducibili ai neuroni, o alle ossa e ai nervi”).

La libertà, infatti, è per definizione “autonomia dalla materia”, capacità dell’uomo di elevarsi sopra le sue determinazioni biologiche e istintive, a differenza delle pietre, delle piante e degli animali. Così, per una volta, il teologo torna a parlare quantomeno di anima, di verità, di bene, di libertà, le parole che forse, anche perché sempre più desuete, avevano affascinato i suoi primi lettori. Ma lo fa con quella leggerezza, si diceva, che sterilizza anche le idee più nobili e le rende sostanzialmente inerti.

Come si declina, concretamente, la libertà? Quali sono, se ne ha, i suoi limiti? Esiste una Verità alla luce della quale giudicarla, cioè ad essa superiore? Queste e altre domande fondamentali rimangono inevase, mentre al lettore, alla fine del libro, ne sorgono delle altre.

Qual è il Mancuso “autentico”? Quello che fu sacerdote di santa romana Chiesa, o quello che non perde occasione per gettare ogni sorta di veleno su di essa, criticando radicalmente non l’infedeltà, inevitabile, di alcuni suoi membri, ma l’istituzione stessa? Quello vero è il Mancuso che una volta scoperti i copia e incolla del suo amico Corrado Augias, ne prese pubblicamente le distanze, o quello che continua a presentare insieme a lui, in giro per il paese, il fortunato (economicamente) libro che scrissero a quattro mani? Quello autentico, ancora, è quello che si scandalizza per le vere o presunte avventure dongiovannesche del premier, e lancia pesantissimi anatemi contro chiunque semplicemente lo saluti, o quello che scrive su un quotidiano da sempre molto libertino, il cui fondatore Eugenio Scalfari, nella sua autobiografia, racconta tranquillamente di aver fatto le sue prime esperienze col gentil sesso, per vincere la “timidezza”, in un bordello?

Quello vero è il teologo che ha anche rivendicato l’umanità dell’embrione e del feto, nei suoi scritti passati, o quello che dinanzi alla legalizzazione della Ru 486, vero pesticida umano per grandi e piccini, finisce come sempre per prendersela col papa e col governo? (Libero, 19/11/2009)

Infine, leggendo approfonditamente il libro, ci accorgiamo che il Mancuso che vi compare la pensa molto diversamente, seppure quasi a bassa voce, dai suoi colleghi di Repubblica. Cosa può avere a che fare, infatti, con la “vita autenticità”, un Corrado Augias che sforna libelli pieni di imprecisioni e calunnie, lui che collaborava coi servizi segreti di un regime comunista, ferocemente repressivo di ogni libertà? Che relazione tra il riconoscimento della libertà, l’ottica antiscientista di Mancuso, la sua fiducia in un significato della vita umana, e il casualismo di Scalfari, che arriva a equiparare l’uomo ad una mosca (“l’uomo è una forma della natura come la mosca”), perché entrambi sarebbero prodotti di una natura che ciecamente “esplode forme continuamente nel modo più casuale”?

Che rapporto può esistere tra l’Io libero e teso verso verità, bene, giustizia, per quanto indefiniti, di Mancuso, e l’Io che Scalfari considera una “gabbia”, un “capriccioso dittatore”, un “prigioniero” da distruggere? Che relazione, ancora, tra l’umanità di Mancuso e il transumanismo di un altro giornalista di Repubblica, il marxista Aldo Schiavone, secondo il quale la tecnica ci permetterà a breve di spostare la nostra coscienza su supporti removibili e di conservare post mortem, dopo il seme e gli ovuli, le funzioni di un individuo, il suo pensiero, la sua personalità, entro strutture biotech?

Che cosa c’è, infine, di comune tra la tensione ai valori spirituali che caratterizzerebbero la ricerca di una vita autentica e libera, e il sogno di un altro collaboratore di Repubblica, quel Desmond Morris che definisce l’uomo una “scimmia nuda” e che implora dalla scienza un’immortalità pesantemente terrestre, senza personalità né autenticità alcuna, allorché scrive: “Se solo il mio cervello potesse essere inserito nel cranio di un giovane morto per trauma cranico…potrei ricominciare da capo e godermi un altro po’di vita su questo nostro piccolo, affascinante pianeta” (Repubblica 10/4/2008)?

A 150 anni dalla malaunità

A 150 dall’Unità si preparano le celebrazioni. Solo che stavolta, causa la crisi economica, i fondi sono pochi e quindi il fiume di retorica a pagamento forse non ci sommergerà. Chi scrive non sogna un’Italia pre-unitaria, né la divisione del paese, che oggi non interessa a nessuno.

 Anche la Lega ha utilizzato quest’idea più che altro come slogan, per farsi strada nel dibattito sul federalismo. E con indubbi risultati. Epperò, senza pensare affatto a improbabili nostalgie, è giusto piantarla con i miti fondatori. Altrimenti non si capisce nulla della nostra storia recente: dell’emigrazione di massa post unitaria; dell’aggravarsi del fenomeno del brigantaggio in meridione, dopo il 1960; della politica di Giolitti verso il sud del paese; della partecipazione dell’Italia a quell’ “inutile strage” che fu la I guerra mondiale; dello strapotere torinese e agnelliano nella storia italiana; dell’adesione delle plebi meridionali al fascismo, nel quale spesso videro una maggior attenzione alle loro esigenze; della nascita della Lega in Sicilia, all’indomani della seconda guerra mondiale, prima, e della Lega veneta e lombarda al nord, poi; infine, del partito del sud di cui si parla oggi.

 Ammettiamolo: Garibaldi, Cavuor, Mazzini non hanno fatto risorgere nulla. Da cosa doveva risorgere la patria delle università, della scienza, della medicina, dell’arte, di Dante, Giotto, Cimabue, Petrarca….? La storia degli stati pre-unitari è storia sovente gloriosa, di repubbliche come Genova e Venezia, che hanno dominato i mari, di ducati come quelli di Mantova e Parma, delle decine di capitali che costellavano la nostra penisola… Insomma, il “bel paese” dove i romantici venivano a godere l’arte, la poesia, la musica, la buona cucina… Da cosa dovevamo risorgere, se non, come voleva Cavour, dalle tenebre della storia cristiana? L’unità politica ed economica era forse un’esigenza, benché i popoli della penisola non ne sapessero nulla. Anche Pio IX e buona parte del clero italiano la avrebbero appoggiata. Nei primi anni del Risorgimento non mancavano i sacerdoti e i seminaristi che partivano volontari, che agitavano la coccarda tricolore nelle strade, che si arruolarono nella I guerra di indipendenza. Ma ad un certo punto non fu più possibile farlo, perché si capì che chi si stava appropriando del movimento di unificazione voleva un’Italia elitaria, “illuminata”, che tagliasse le sue radici col passato.

 L’unità avrebbe potuto nascere per consenso, con la dovuta calma e cautela, federando stati, culture, economie diverse, e mantenendo uguali diritti per tutti. Coniugando la storia e i costumi del nord con quelli del centro e del sud. Invece Garibaldi, Mazzini, Cavuor, le sette segrete, con l’appoggio di parte della borghesia capitalista, puntarono a fare dell’Italia un’appendice del Piemonte, con l’ausilio non degli italiani, ma dell’esercito di Napoleone e dei soldi dell’Inghilterra. Ha scritto Antonio Gramsci: “I liberali concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia…”.

Si volle dunque fare dell’Italia un paese “liberale”, nel senso di borghese, dove contadini e operai non erano neppure considerati, mentre i diritti dei più ricchi erano garantiti dall’apertura delle frontiere, da leggi speciali a vantaggio di determinate industrie e di certe categorie di persone, e dal diritto di voto al 2% della popolazione (i benestanti). Anche da queste miopìe derivarono non solo i problemi del sud, ma anche i fatti di Milano del 1898, l’uccisione di Umberto I e un socialismo massimalista che avrebbe poi formato spiriti violenti e totalitari come quelli di Mussolini e di tanti uomini del Pcd’I.

Non è un caso che Torino, per una sorta di vendetta della storia, dopo essere stata la prima capitale dell’Italia borghese, liberale, industriale, sia divenuta poi una delle patrie del comunismo italiano, ed infine la meta di migliaia e migliaia di meridionali e di extracomunitari. La politica di Cavour fu quella, furbesca, ma non certo patriottica, del carciofo: annettere gli stati italiani uno alla volta, come si sfoglia un carciofo, cercando di volta in volta alleati ingenui, da scaricare al momento opportuno. Persino Napoleone III fu concepito come un uomo da addomesticare con una bella donna e promesse irrealizzabili.

Il tutto in vista di un centralismo alla francese, giacobino, che rinnegava le storie molteplici, e persino la varia geografia, del nostro paese. Riguardo alla Chiesa si volle servirsi di Pio IX, contro l’Austria, con cui si cercò a tutti i costi un casus belli: e così facendo prima trascinarono il papa, controvoglia, nella guerra del 1848, poi lo dipinsero come un mostro reazionario, nemico della modernità. A tirare le fila di tutto, quei politici piemontesi, che si definivano liberali, ma che per raggranellare i soldi per le loro imprese espansionistiche confiscavano i beni della Chiesa e indebitavano l’erario statale, in attesa poi di riempirlo nuovamente, ai danni degli stati conquistati; che mandavano a morire i soldati sabaudi in Crimea, a migliaia di chilometri da casa, e avrebbero poi imposto una leva militare obbligatoria lunghissima, negli stati italiani ove essa non esisteva. In effetti la I guerra di Indipendenza costò 295 milioni di lire, cioè quanto lo stato spendeva in due anni e mezzo di vita pacifica; costò tanti uomini, troppi per un paese così piccolo.

Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, pronti a servirsi di chiunque, e creavano uno stato a misura di borghesia rampante, a costruire scuole, tipografie, falegnamerie per i poveri piemontesi, per gli orfani e le vittime dell’industrializzazione accelerata di Cavour, ci pensava Giovanni Bosco; mentre i malati incurabili li raccoglieva, nella sua splendida opera della Provvidenza, il canonico Cottolengo. I diritti dei più forti erano garantiti, quelli dei deboli ignorati. In questo il regno dei Savoia era all’avanguardia: “Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e lavoratori erano regolati, in Piemonte, da norme precise che difendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Un editto reale del 1844 (strappato dai liberali in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto, nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine”.

Nello stesso 1844 i ragazzini al di sotto dei 10 anni impiegati nelle fabbriche piemontesi sono quasi ottomila. Lo stesso Cavour, favorevole al liberismo, mentre Giovanni Bosco raccoglie questi ragazzi per le strade, gli insegna un mestiere e cerca di strappare per loro la domenica libera e contratti migliori, afferma: “ forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più, se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra” (Teresio Bosco, Don Bosco, 1988, p.201)

Dopo la vittoria, grazie ai francesi, nella II guerra d’indipendenza, i sabaudi si sarebbero spinti al sud, tramite gli avventurieri di quel Garibaldi che nelle sue memorie scriveva: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX….Un’altra volta, dal balcone del palazzo della Foresteria io dicevo a codesto popolo: Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa!" (Giuseppe Garibaldi, Memorie, Rizzoli).

Cosa fece Garibaldi in meridione? Basterebbe leggere gli autori siciliani che credettero in lui, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello. Oppure quelli che non gli credettero mai: tutti quelli di cui è stata cancellata in buona parte la memoria, come i sessanta vescovi meridionali allontanati dalle loro sedi “per trame politiche contro il regno d’Italia”. Bisognerebbe ricordare coloro che divennero “briganti”, non di rado per lottare contro l’occupazione; coloro che nei plebisciti avrebbero votato contro l’unità, ma poi si trovarono ingannati, perché quella che doveva essere la loro prima esperienza di voto libero, fu invece una beffa vera e propria. Tomasi di Lampedusa ce la descrive ne "Il gattopardo", attraverso la figura di Ciccio Tumeo: "Io, eccellenza, avevo votato no…e quei porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco".

Dopo Garibaldi, Vittorio Emanuele II e le leggi marziali applicate nel meridione. Dovunque esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano “liberate”, e, infine, l’acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese. Ne “Il gattopardo” questo tentativo di comperare le elite meridionali, allo scopo di completare la piemontesizzazione di tutto, è descritto nell’incontro tra il messo del re, Chevallay, dal cognome poco italico, e il principe di Salina, che alla proposta di far parte del nuovo Senato, risponde: “ Stia a sentire, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare…”; ma “ in questi sei ultimi mesi da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e di portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male”.

 E’ proprio per la rilettura della storia del recente passato che in meridione pullulano, ultimamente, le riviste e i libri revisionisti che ribaltano la storia degli ultimi 150 anni, e presentano Garibaldi per quello che fu veramente. Per questo le infinite vie dedicate all’ “eroe dei due mondi” vengono ormai sempre più spesso eliminate e sostituite, con una certa enfasi, da sindaci e consigli comunali iconoclasti e stufi della retorica. Certo non basterà a risollevare un sud in perenne difficoltà, ma personalmente penso che questa revisione, se condotta senza inutili vittimismi e con un certo patriottismo “leghista”, possa fare più bene al nostro sud, risvegliando in esso un sano orgoglio, delle ennesime celebrazioni che vogliono trasformare i fatti storici in mitologia patria. Dietro il fenomeno Raffaele Lombardo, in ogni modo, c’è anche questo desiderio di rivincita, questa revisione del Risorgimento, che non deve però divenire volontà di rifugiarsi nel pozzo oscuro dei soldi “romani”. Sarebbe un paradossale ricadere nel centralismo risorgimentale.(Il Foglio)

Profezie di un matematico ateo

Su Repubblica di qualche tempo fa Piergiorgio Odifreddi ha dedicato una pagina ad un vecchio libro del matematico Bertrand Russell, “Matrimonio e morale”, per esaltare la sua visione molto “aperta” della vita affettiva.

Per Oddifreddi Russell è un libero pensatore, che ha osato sfidare i tabù della morale cattolica, proponendo la pluralità dei rapporti affettivi come naturale, “biologica”, contrapposta all’innaturalità della fedeltà monogamica.

Russell insomma non fu precisamente quello che si dice un uomo pio: la sua avversione al pensiero cristiano, filosofico e morale, era infatti nota a tutti, al punto che oggi è un po’ considerato il padre dell’ateologia contemporanea. Un santo, insomma, per quelli dell’UAAR. Eppure è interessante, anche per un cattolico, rileggere un testo, del 1931, che precede di un anno il più celebre “Brave new world” di Aldous Huxley: “La visione scientifica del mondo” (Laterza).

In quest’opera Russell immagina la società scientifica del futuro. Per il celebre matematico “la scienza, al suo inizio, si deve a uomini che amavano il mondo” e che “s’accorsero della bellezza delle stelle e del mare, dei venti e delle montagne. Siccome li amavano, i loro pensieri si fermarono su di essi, e cercarono di capirli più intimamente che non permettesse una semplice contemplazione superficiale”.

Col tempo, però, le cose mutarono: “Ma passo a passo, come si è sviluppata la scienza, l’impulso dell’amore, che l’originò, è stato ostacolato sempre più, mentre l’impulso del potere, che dal principio era un semplice seguace di campo, gradualmente ha usurpato il comando, a causa del suo impensato successo. Colui che amava la natura è stato deluso, il tiranno della natura è stato ricompensato…Quando d’altro canto la scienza si considera come una tecnica per la trasformazione di noi stessi e di quanto ci sta attorno, vediamo che ci dà un potere del tutto indipendente dalla sua validità metafisica…Così solo in quanto noi rinunciamo al mondo come amanti, possiamo conquistarlo da tecnici…Non appena si comprende l’insuccesso della scienza considerata come metafisica, il potere conferito dalla scienza come tecnica si otterrà solo da qualcosa di analogo alla adorazione di Satana, cioè dalla rinuncia dell’amore”.

Queste riflessioni, di quasi ottant’anni fa, di un celebre matematico e polemista antireligioso, ci dicono tutta la differenza di spessore tra un pensatore che riflette sulla realtà, di ieri, e un “matematico impertinente”, che fa di professione il conta-storie, di oggi.

La scienza, è bello ripeterlo, nasce dall’amore: è stupor mundi, come avrebbe detto Platone, contemplazione attraverso le creature della bellezza del Creatore, come dirà San Francesco. E’, inoltre, manifestazione evidente dell’antropocentrismo cristiano: solo l’uomo indaga e conosce, ricerca e fruga nei cieli e nelle viscere della terra. Il mondo è stato creato per lui, perché se ne serva, lo utilizzi, lo studi, come si fa con un dono: cioè con rispetto, gratitudine, pudore. Ma questo amore, continua Russell, ha lasciato col tempo il posto alla brama di potere: la scienza, attraverso la tecnica, può divenire magia, manipolazione, predominio arrogante.

Tra i fabbricanti di homunculi del Cinquecento e gli stregoni che lavorano intorno agli embrioni umani, di questi anni, non vi è nessuna differenza, eccetto qualche conoscenza e qualche utensile in più. Lo spirito è lo stesso. Parola di uno scienziato agnostico, che analizza anche quello che potrebbe succedere se la scienza volesse insediarsi nel campo della riproduzione. Dalla medicina che salva i bambini si passerebbe a quella che li elimina e li produce.

Sotto un "governo mondiale scientifico", profetizza Russell, l’atto d’amore sarà disgiunto da quello procreativo, e "si considererà l’ingravidamento artificiale più sicuro e meno imbarazzante, poiché non richiederà il contatto tra il padre e la madre del futuro bambino". Di conseguenza "il sentimento della paternità" sparirà "completamente": "un uomo e una donna che mostrassero una devozione ardente l’uno per l’altro sarebbero considerati dai moralisti alla stregua di quelli che oggi non sono sposati".

Ancora: "La Chiesa sanzionava certe specie d’amore e condannava delle altre, mentre l’ascetico moderno è più completo, condanna ogni specie d’amore alla stessa stregua, come semplice pazzia e perdita di tempo". "L’amore tra gli sterilizzati -infine- non avrà restrizioni di legge o di pubblica opinione, ma sarà casuale e temporaneo, e non comprenderà nessuno dei sentimenti più profondi e nessun affetto serio".

Vita e pensiero di Karl Marx

Il pensiero di Karl Marx, che ha affascinato per secoli milioni di persone, è nella sua sostanza abbastanza semplice: vengono indicati la verità dell’uomo, solo materia in divenire; le modalità con cui questo divenire procede, e cioè la dialettica triadica hegeliana; il nemico da abbattere, la borghesia al potere; e infine il Paradiso terreno da conquistare, la società comunista del futuro dove, dopo la presenza momentanea di uno Stato che tutto possiede e a tutti dà secondo equità, si passa, non si sa come, ad una "felice" anarchia, ad un Eden di eguaglianza e giustizia, in cui non esistano più eserciti, polizia, leggi, autorità, Dio….

Non c’è dubbio che un simile modo di pensare, nella sua semplicità, nella sua schematicità buoni-cattivi, proletariato-borghesia, presente nefasto-futuro radioso, abbia avuto una potenzialità enorme, specie presso le masse maltrattate e sfruttate dell’epoca industriale, pronte a cogliere qualsiasi opportunità pur di mutare le loro misere condizioni.

Poco importa che poi molti dettagli non tornino: cosa significa la frase marxiana "dittatura del proletariato"? Che tutti i proletari, e cioè la maggioranza della popolazione, andranno al potere, e che la borghesia diverrà quindi, in un circolo vizioso, il nuovo proletariato? Cosa significa "eguaglianza", sotto uno Stato che nega ad ogni individuo la possibilità di esprimersi, di essere secondo le sue specifiche caratteristiche e secondo le sue capacità? Come si fa a passare da uno stato assoluto, tirannico, prima fase del comunismo marxista, alla anarchia improvvisa, la seconda fase, senza che questo comporti disastri immani? E’ proprio vero che il benessere materiale è sufficiente da solo alla felicità umana?

Tante, insomma, sono le domande, le assurdità e le incongruenze del pensiero marxista che la storia si è incaricata di mostrarci in più occasioni: ogni volta che il comunismo è andato al potere, dalla Russia, alla Cina, alla Cambogia, a Cuba, è sempre stato tirannia di pochi, pochissimi, uno solo, sui molti; stato di polizia, di gulag, di proscrizioni, di purghe tra membri dello stesso partito, e non luogo di anarchia "felice"….

Nella realtà, quindi, la forza del marxismo non sta, come voleva Marx, nella sua "scientificità", nella sua concretezza, contrapposta alle false promesse della religione, ma al contrario nella sua vaghezza, nelle sue speranze utopiche, nel suo promettere una felicità totale, raggiungibile semplicemente eliminando il nemico con la lotta di classe. Il marxismo è stato, e ancora spesso è, una vera e propria religione, un vero "oppio dei popoli" (il fatto che prometta qua, e non per l’aldilà, lo rende ancor più intollerante, aggressivo, violento: se il paradiso non arriva, è perché vi sono dei nemici, dei congiurati, degli oppressori da eliminare).

Scriveva André Frossard, figlio del fondatore del partito comunista francese: "Era una religione, e come ogni religione ai primordi, escludeva tutte le altre. Non era un sistema economico, era una fede: l’uomo era buono, benché gli uomini non lo fossero sempre, ed aveva preso in mano proprio lui il problema della sua salvezza. Il nostro Jaurés ed il nostro Jules Guesde erano rispettati come Padri della Chiesa: Karl Marx, il Mosè degli esiliati proletari, ci aveva tirati fuori dall’Egitto del conformismo e della sottomissione…ci avrebbe irresistibilmente portati verso il mondo della riconciliazione di cui aveva predetto l’avvento…La socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio avrebbe modificato radicalmente i rapporti umani purificandoli di tutto ciò che c’era in essi di iniquo e dannoso. Non ci sarebbero più stati rapporti da padrone a schiavo, da oppressore a oppresso, ma da uomo a uomo nella perfetta uguaglianza d’un esproprio generale a beneficio della collettività…L’avidità, la volontà di accaparramento e di dominio, non trovando più sostegno né incoraggiamento nella società nuova, sarebbero perite d’inazione; scomparsi gli antagonismi economici e sociali con le cause che li rendevano inevitabili, la guerra non avrebbe più avuto ragion d’essere e sarebbe scomparsa dalla superficie della terra…gli ultimi resti della costruzione religiosa, privati dei loro punti d’appoggio, sarebbero crollati da soli. Gli uomini avrebbero conosciuto finalmente il gusto della giustizia e della pace. E la scienza si sarebbe incaricata del resto" (André Frossard, "Dio esiste e io lo ho incontrato", Sei).

Diversi storici hanno messo in luce come sia riscontrabile in questo tipo di pensiero una radice ebraica, e cioè messianica: come il popolo ebreo attendeva un Messia Salvatore, così l’ebreo Marx propone al popolo dei proletari, di essere il messia di se stesso, di procurarsi una salvezza puramente terrena, da sé, tramite la violenza, "levatrice della storia".

Sarebbe troppo lungo giustificare con esempi storici la veridicità di tale analisi: basti ricordare quanti italiani fuggirono dal fascismo, per scappare in Russia, nella "patria dei lavoratori", convinti di trovare lì il regno della giustizia e dell’eguaglianza. Molti finirono invece nei gulag, oppure, che è più terribile, disperati: non ressero alla vista di un regime in cui avevano creduto ciecamente, e che si rivelava invece ai loro occhi non come un luogo di felicità e benessere ma come uno dei sistemi più mostruosi della storia, un’immensa prigione a cielo aperto.

Scrive sempre André Frossard: mio padre "da buon socialista non ammetteva che una società fosse fondata sui rapporti di forza…una delle sorprese della mia infanzia sarà quella di venire a sapere che la Russia Sovietica aveva la sua armata, con una disciplina, una divisa, una gerarchia, delle uniformi. Anche là consideravano la natura umana col pessimismo che rende necessari i soldati? No. Si trattava di resistere all’accerchiamento del male".

Frossard, come tanti altri che rimasero comunisti, anche nell’epoca del terrore di Stalin, anche di fronte alle atrocità più tremende, non poteva ammettere, finché credette nel marxismo, che la felicità non fosse stata veramente raggiunta, che l’eguaglianza sociale non avesse veramente dischiuso il paradiso in terra. Era questo il dogma principale, che non poteva essere abbattuto, la roccia su cui poggiava tutto l’edificio marxista. Fatte queste brevi premesse sul cuore del pensiero marxista, ritengo che in realtà rileggere la vita di Karl Marx sia assai più utile, per comprendere il comunismo marxista, di tutti i trattati del filosofo tedesco. Sulla pagina asettica, di carta stampata, infatti, l’impressione che ha affascinato milioni di lettori è quella di assaporare i pensieri di un nuovo Mosè, pronto a portare il suo popolo verso la terra promessa; di un uomo affamato di giustizia, disposto a perseguirla con intransigenza, come un monaco guerriero; di un profeta che indica nemici, battaglie, ma anche "terre nuove e cieli nuovi". Se si analizza la sua biografia, invece, risulta difficile non dar ragione a quanto scriveva Giovanni Papini, all’inizio del Novecento, allorché rintracciava nel marxismo, materialista per definizione, lo stesso spirito, anch’esso materialista, del capitalismo borghese: “Io non so trovare una definizione del socialismo meno inesatta e più profonda di questa: un movimento ultraborghese con caratteri religiosi…Uno dei caratteri salienti del borghese, quale ce lo rappresentano ogni giorno gli stessi popolari, è la preoccupazione del benessere materiale. Il tipo, ormai classico, del grasso borghese, quale appare in tutte le figure democratiche, è un uomo che pensa soprattutto a empire il ventre e la borsa. I socialisti accettano completamente questa veduta: anch’essi desiderano, soprattutto e avanti tutto, l’aumento del benessere materiale, e i loro sociologi fanno della questione del ventre il fondamento della storia sotto il nome significativo di ‘materialismo storico’. Essi non ce l’hanno coi borghesi perché stanno materialmente bene, ma semplicemente perché non possono stare bene come loro…Il socialista, se ben si guarda, non tende, in fondo, ad essere qualcosa di diverso dal suo nemico, ma semplicemente a divenire a sua volta un piccolo borghese…”.

 Lo stesso Marx infatti era proprio un "borghese", nel senso non positivo del termine. Alcuni episodi significativi. "Una volta abbandonato il nido (familiare), Karl mantenne scarsi rapporti con la madre, ad eccezione dei momenti in cui tentava di scucirle denaro, di solito con scarso successo. Molti anni più tardi, in occasione della morte di Mary Burns, l’amante dell’amico Engels, Marx scrisse all’amico una brutale lettera di condoglianze: ‘non avrebbe potuto, in luogo della Mary, morire mia madre che è ormai piena di acciacchi e che ha vissuto quanto doveva?’".

 I rapporti di Marx con la madre, infatti, erano legati solo alla speranza dell’eredità, mentre la devozione al padre era tale che alla sua morte Karl non partecipò neppure al funerale, "spiegando che il viaggio da Berlino sarebbe stato troppo lungo e lui aveva cose più importanti da fare". Marx viveva tra i debiti, le richieste di denaro ad Engels, che lo manteneva con grande generosità e che lo stimolava di continuo a scrivere, e le invettive feroci contro chiunque non fosse d’accordo con lui. Forse per questo, al suo funerale, nel 1883, ci saranno solo undici persone.

Da buon borghese, inoltre, "Marx riteneva impensabile per una persona delle sue condizioni non avere un segretario privato, ovvero concedersi periodiche vacanze al mare, lezioni di piano per i bambini e tutti gli altri costosi annessi e connessi della rispettabilità. Anche con le tasche vuote semplicemente si rifiutava di accettare una vita da ‘sottoproletario’, per usare i suoi stessi termini".

Andava fiero delle origini nobiliari della moglie, e voleva per le figlie, due delle quali sarebbero purtroppo morte suicide, una vita come quello del giovin signore del Parini, con costosi guardaroba, affinché potessero trovare i pretendenti giusti, "lezioni private di francese, italiano, disegno e musica". Bussare per soldi alla porta degli amici, era il suo impiego preferito, oltre che attendere salvifiche eredità: "A very happy event, la morte del novantenne zio di mia moglie, ci è stato comunicato ieri": così scriveva, in occasione di un decesso che significava soldi, mentre era affaccendato a speculare su obbligazioni statali americane ed inglesi" (Francis Wheen, "Marx. Vita pubblica e privata", Mondadori).

Ecco, a rileggere questi aneddoti, a rileggere la storia del profeta del proletariato, che mai lavorò in una fabbrica e mai visse le condizioni dei proletari, sembra di capire la "genialità" del marxismo, il perché ancor oggi, per stare da quella parte, occorra non di rado una certa ricchezza, una qualche posizione nella società, e un po’ puzza sotto il naso: ci si sente "più buoni", a poco prezzo, giusti, in una società ingiusta. Non importa poi se in nome della giustizia futura si trascura la carità presente, e se in nome della astratta filantropia, si dimentica persino l’etimologia del termine "prossimo".

Il tipo umano "comunista" è spesso così: ama il lontano, l’africano, l’emigrato, il barbone che ha visto in cartolina, cui dedica articoli e trasmissioni, ma assai meno i vicini. La sua frequente intolleranza si nutre della convinzione di possedere la Verità, non come dono, che viene da un Altro, ma per averla personalmente ingabbiata in un agile ed onnivoro schemino triadico e tirannico, dal quale sono esclusi tutti i "nemici" di classe, di ideologia, di pensiero.

Einstein al Time.

Albert Einstein, 1940, al “Time” : ” Solo la Chiesa ha fatto quadrato sul percorso della campagna di Hitler per la soppressione della verità. Non ho mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza per difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Mi trovo quindi costretto a confessare: ciò che io un tempo d.isprezzavo, ora io lodo senza riserve”( M. Burleigh, In nome di Dio, p. 249, Rizzoli, Milano, 2007)

L’aborto clandestino: persiste ed aumenta.

L’aborto clandestino, una volta legalizzato l’aborto, non importa più a nessuno. Non ci sono più i radicali ad urlare, nè tantomeno le femministe. Eppure l’aborto clandestino è più vivo che mai. Notizie di questo genere sono all’ordine del giorno:

 "Con l’accusa di aver abusato sessualmente per undici anni di una donna affetta da un handicap psicofisico e di aver costretto la disabile ad abortire per undici volte, un uomo di 68 anni è stato arrestato dalla polizia in un comune del nord barese. Gli aborti sarebbero stati praticati quasi sempre in modo clandestino, anche in cliniche compiacenti. La vittima delle violenze, che oggi ha 33 anni, aveva 22 anni quando ha cominciato a subire gli abusi dell’uomo, che godeva della fiducia della famiglia della disabile. L’arrestato – a quanto si è saputo – abusava della ragazza in località di campagna dove si appartava con la sua automobile. DENUNCIA – È stata la mamma della disabile (che ha solo problemi psichici, non fisici) a denunciare nel marzo scorso alla polizia le presunte violenze subite della figlia. La donna ha raccontato ai poliziotti che la figlia frequentava da anni un imprenditore edile di Barletta di 68 anni, che oggi è stato arrestato in base ad un provvedimento restrittivo per violenza sessuale aggravata…" (Corriere 1 novembre 2009).

All’ordine del giorno anche gli aborti cladestini su donne cinesi, su prostitute nigeriane e albanesi… Vedi anche :

https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=718

 https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=1297

Eutanasia: le chiese per l’eutanasia e il caso Olanda.

… Avete mai sentito parlare della “Chiesa dell’eutanasia”, e del “Movimento per l’estinzione volontaria dell’umanità”? Oppure dell’associazione radicale “Rientro dolce”, che predica la riduzione dell’umanità da sei a due miliardi, evidentemente con “dolci” aborti, e dolci morti (eu-tanasie) in serie?

Non sono anche oggi i moderni eutanasisti di Micromega, con cui Beppino Englaro si è alleato, sostenitori del “riconoscimento dell’autodeterminazione di ciascuno nella forma più radicale, fino al suicidio assistito” (Micromega, n.1, 2007)?

Per costoro al centro di tutto vi è il principio dell’autodeterminazione: per Mori, Veronesi, Pannella, D’Arcais e compagnia, l’idea fondamentale, di origine gnostica, è che il corpo è mio, e me lo gestico io, come proprietario, come colui che ha diritto di porre fine alla “vita non buona”, “indegna di essere vissuta”.

Osserviamo bene i fatti storici: i sostenitori dell’autodeterminazione catara, nel medioevo, arrivavano a decidere anche la morte dei propri figli, tramite aborto ed infanticidio, dimostrando così con ciò stesso che arrogarsi la proprietà della propria vita è un gesto di violenza che innegabilmente ricade sugli altri.

Chi dice che la sua vita è solo sua, da una parte offende “l’’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi” (Catechismo della Chiesa cattolica), dall’altra inevitabilmente finisce per violare anche le vite di cui è procreatore. Come i catari medievali, così quelli odierni. P

rendiamo uno dei “catari” contemporanei più famosi ed autorevoli: Peter Singer, animalista, consulente di Zapatero, considerato da molti anche in Italia il miglior bioeticista laico al mondo. Singer giustifica il suicidio eutanasico, ma poi si allarga a considerare l’eutanasia per motivi economici, o per necessità trapiantistiche (casi in cui l’autodeterminazione non centra nulla); difende l’autodeterminazione del soggetto, ma poi è favorevole all’aborto, sino a qualsiasi data, e all’infanticidio dei bambini malati (anche qui il principio dell’autodeterminazione svela la sua inconsistenza). I suoi epigoni italiani fanno lo stesso. Gli eutanasisti, dicevo, sono i nuovi catari, e come loro e come allora, guardano all’oriente.

Leggendo il bellissimo libro del sociologo americano Rodney Stark, “La scoperta di Dio” (Lindau), notavo che nel mondo induista e buddista la negazione del concetto di creazione come “cosa buona” ha portato all’inazione, al fatalismo, al disprezzo per la vita, ad esempio dei feti e degli infanti, specie femmine, e al ricorso massiccio al suicidio, inteso come liberazione dal corpo, dal ciclo di nascita, morte e rinascita. Non mancano infatti le storie di santoni induisti che “digiunavano intenzionalmente sino a morire”, che “ponevano termine alla loro vita per inedia”. “Per quanto riguarda il digiuno- scrive ancora Stark parlando dei monaci giainisti- l’ideale sarebbe che, divenuti anziani, digiunassero fino alla morte, pratica che viene definita la morte del saggio”. C’è dunque, in molta mentalità orientale, conclude Stark, una equiparazione tra salvezza, libertà, e suicidio. Con evidenti effetti nefasti sul piano sociale.

Dove sta allora la grande differenza, di umanità, tra le eresie medievali, il nichilismo orientale, e il cristianesimo che ci ha dato il concetto di libertà, di diritti umani, la scienza, l’instituzione ospedaliera ecc.ecc.? Facciamo un esempio concreto. Nell’Olanda secolarizzata, patria dell’autodeterminazione come legge sacralizzata, sono legali il partito pedofilo, le droghe leggere, l’aborto, il divorzio flash, almeno sino a poco tempo fa, i matrimoni omosessuali e l’eutanasia o suicidio assistito.

Riguardo a quest’ultimo, l’Olanda è stato il primo paese a legalizzarlo, determinando, immediatamente, quel fenomeno che va sotto il nome di “china scivolosa” o “pendio inclinato”, già presente all’epoca dell’eutanasia nazista, iniziata con i casi estremi, “pietosi”, e via via allargatasi a malattie non gravi. Infatti solo qualche giorno dopo la legalizzazione dell’eutanasia, il ministro della sanità Els Borst ha proposto di “consentire il suicidio di anziani che non hanno più voglia di vivere, pur non essendo malati terminali”. E’ giusto, ha affermato il ministro, che “persone molto anziane le quali ne abbiano abbastanza della vita” siano aiutate dallo stato con delle pillole liberanti (Repubblica, 14/4/2001).

A ruota sono nati un manuale per il suicidio, compilato con “l’aiuto di scienziati e psichiatri”, “il primo del genere mai pubblicato”, volto a incentivare una pratica già piuttosto diffusa: se in Italia i suicidi sono circa 3000 all’anno, in Olanda sono 4500 circa, con una popolazione quattro volte inferiore!

Molti suicidi continua l’agenzia dell’Aduc del 24/3/2008, sono compiuti con l’aiuto di familiari e amici, e la pratica più comune è quella di rifiutare il cibo e l’acqua, oppure con una overdose di medicinali”. A questo numero già alto di suicidi olandesi, si aggiungano ora i casi di eutanasia: dal 2002 al 2004, secondo Micromega, si parla di 7.637 casi. Ma il numero è destinato a crescere.

Non si dimentichi infatti, accanto alla china scivolosa, il cosiddetto “effetto Werther”, cioè il fatto che i suicidi tendono a moltiplicarsi per emulazione, imitazione, come all’epoca in cui il famoso romanzo di Goethe, “I dolori del giovane Werther”, determinò un’epidemia di suicidi tale da indurre alcuni governi a vietare la diffusione del libro.

Ebbene, quando una cultura finisce per accettare e legalizzare il suicidio assistito, anche le barriere religiose, culturali e morali, di fronte a questo gesto estremo, cadono, ed è inevitabile che l’eutanasia legale di qualcuno, influenzi e determini altre eutanasie, a catena. Si faranno uccidere malati in preda allo sconforto (è questa l’autodeterminazione?), ma anche malati che in una cultura eutanasica finiscono per sentirsi un peso, in una società che finisce gradualmente per concepirli come tali. Quale sarà la libertà, l’autodeterminazione di costoro? Quale è, in generale, la libertà, l’autodeterminazione, di chi si suicida?

Un esempio riportato da un personaggio non sospettabile come Umberto Veronesi, ci dice dove possa portare l’idea di una società che invece di farsi carico del dolore dei suoi membri, si fa carico di eliminarli. Scrive Veronesi: “Mi ha raccontato un amico, un medico in un paese in cui la legge consente il suicidio assistito: ‘Ho accompagnato un mio paziente, che voleva essere aiutato a morire. L’inviato dell’organizzazione ha preparato la pozione letale, il paziente ne ha bevuta la metà e poi ha avuto un ripensamento. L’incaricato gli ha detto: ‘Guardi che così rischia di avere delle sofferenze indicibili. Beva tutto perché io sono venuto qui perché lei finisca di bere!’Il paziente ha obbedito ed è morto” (Umberto Veronesi, Il diritto di morire, Mondadori).

Quale la libertà del suicidio? Quanto più probabile, in una società eutanasizzata, più dell’accanimento terapeutico, l’abbandono terapeutico e l’eutanasia “imposta”, come nel caso citato? Ma non è tutto: se torniamo all’Olanda vediamo che il fenomeno della china scivolosa ha dimostrato la sua realtà con l’introduzione dell’eutanasia sui bambini, evidente dimostrazione, anche qui, di come l’autodeterminazione costituisca un alibi per introdurre una cultura di morte. Nessuno infatti potrà sostenere che l’infanticidio praticato in Olanda su decisione di mendici e genitori è un caso di autodeterminazione!

Ebbene in Olanda, secondo il protocollo di Groningen, bambini con la spina bifida vengono tranquillamente uccisi. Repubblica del 2/9/2004 esordisce così, in un articolo intitolato “Così aiutiamo i bimbi a morire”: “Sorridono, sorridono tutti, nella clinica della dolce morte bambina. Anche l’asino dipinto alla parete con un buffo cappellaccio in testa. Sorride anche lui, il DottorDolce morte, bello come un attore americano, alto e biondo…”.

Cosa fa l’eroe alto e biondo di Repubblica? Uccide, ma lui preferisce farisaicamente il verbo “terminare”, la vita di bambini nati con spina bifida! Li uccide, perché per lui, per la cultura eutanasica, è la vera pietas.

A differenza dell’Olanda, l’Italia è ancora, sebbene in piccola parte, un paese cattolico: benché il suicidio abbia perso gravità, persino agli occhi della Chiesa- in quella corsa al buonismo che è stato il Concilio Vaticano II-, è ancora considerato per quello che è, un dramma immenso, una sconfitta per il singolo e la società. Così anche l’eutanasia non è ben accetta agli occhi del popolo, meno che meno quella dei bambini.

Per questo, dopo il caso Eluana non c’è stato, almeno sino ad ora, quella corsa all’eutanasia che ci si sarebbe potuti aspettare, essendoci altre 2500 persone nelle sue condizioni. Eluana non è ancora entrata nella nostra cultura, con la sua china scivolosa e il suo effetto Werther. La vita, insomma, è per gli italiani, almeno in parte, ancora sacra, un “dono” di Dio, e per molti medici non solo non siamo i padroni della vita, ma siamo responsabili della nostra e di quella dei nostri fratelli. Forse è per questo che abbiamo molti meno suicidi che in Olanda, non abbiamo né droga libera né partiti pedofili, almeno apertamente, e ci sono invece medici come Gloria Pellizzo, di cui hanno parlato recentemente tutti i giornali, che è riuscita a curare in utero alla 24esima un bambino con spina bifida!

Mentre in Olanda si uccide, in nome dell’autodeterminazione divenuta arbitrio dei medici e dei genitori sui figli (il vecchio ius vitae ac necis), la cultura della vita e della speranza cura, guarisce, crea vero progresso. (da: Scritti di un pro life, Fede & Cultura)

Da Bersani a Marrazzo

Le elezioni all’interno del Pd hanno visto la vittoria di Bersani, che si è imposto abbondantemente su Franceschini e Marino.

Si tratta, a mio modo di vedere, di una notizia positiva: Franceschini rappresenta, al pari di Fini, il classico uomo etero diretto che sposa le idee che ritiene più opportune al successo mediatico. Il suo mentore, De Benedetti, sperava nella sua vittoria, ritenendo Bersani uomo troppo libero, con maggior personalità ed indipendenza di giudizio (ed anche orgoglio personale).

Ma i sondaggi davano Bersani vincente, per cui alla fine Repubblica non si è schierata. Insomma: meglio un vecchio comunista, che è solo in seconda battuta, ma senza fanatismo, un nemico dell’antropologia cristiana, di un Franceschini che dietro le calze turchesi ed altro pagliacciate, non ha altro da dichiarare, né una proposta politica seria da fare. Eviteremo così l’ennesima ambiguità come ai tempi di Prodi: l’ennesimo sedicente cattolico a cui certi poteri possano affidare i dico, la droga libera, l’esaltazione della Ru 486 o simili. E’ giusto che gli ominicchi, dopo un po’ di agognata ribalta, tornino a fare ciò che sanno fare (cioè poco).

Il caso Marrazzo fa molto pensare.
Non entro nelle sue vicende sessuali, ma sulla sua carriera precedente. Perché Marrazzo è divenuto presidente della regione Lazio? Per quali meriti? Marrazzo è il solito giornalista della Rai, senza arte né parte, entrato nella grande baracca dove si prendono milioni di euro all’anno per cooptazione o intrallazzi vari. Laddove si prendono stipendi stramiliardari che nessuno altrove può neppure sognarsi.
Era, in specifico, il figlio di un altro giornalista Rai: questi i suoi meriti. Prima di lui, alla guida della stessa regione, Piero Badaloni, un altro giornalista, scelto anch’egli non per le sue particolari abilità, ma per essere un volto noto della Tv. Penso che dopo Mussolini, D’Alema, Veltroni, Badaloni, Marrazzo, Santoro, Gruber (quest’ultimi due eletti a Strasburgo ma senza aver lasciato neppure la traccia delle lumache)… sia ora che qualcuno si renda conto che i giornalisti sono, sovente, persone senza vere competenze, benché abituati a parlare di tutte le materie, tutti i giorni. Persone, sovente, molto superficiali e poco adatte a governare…Peggio dei politici, insomma….

Una domanda: perchè Franceschini e compagnia hanno chiesto le dimissioni di Marrazzo? Non sono lo stesso partito che ha eletto Luxuria, il quale non fa mistero nè di essere trans, nè di battere? Forse avviene come con la Concia: la mettono in lista, poi le dicono, dopo il terremoto in Abruzzo: stai a casa, non andare tra i terremotati, perchè non è bello essere rappresentati da te. Ipocriti?

Una nota divertente: qualche giorno fa il Foglio ha pubblicato una pagina intera con donne nude, con in mano oggetti sadomaso e porcherie simili. Accanto la dichiarazione a difesa delle donne, contro le donne oggetto di Berlusconi, lanciata con forza da Repubblica. Le donne nude, però, erano tutte sul sito di Repubblica. Colti in castagna, i repubblichini le hanno subito tolte dal sito: ipocriti? E la libertà sessuale predicata su quel giornale da 30 anni?

Il Corriere riporta la notizia che a votare alle primarie del Pd sono stati oltre tre milioni di votanti, ma anche che sono stati segnalati casi di persone che hanno votato tre volte. Chissà…

Sempre il Corriere dimostra una grande attenzione per Fini: ogni volta intervista un membro della sua Fondazione, di qualsiasi argomento si parli. Da una parte il parere di uno di sinistra, dall’altra il parere di un uomo di Fini, come se costoro fossero i rappresentati di tutto il centro destra, e non una piccolissima minoranza all’interno del Pdl. E’ chiaro che Fini è come Franceschini: l’uomo su cui puntano i poteri industrial-mediatici, che amano eterodirigere.

Il ritorno del senso del sacro.

Nel suo ultimo libro, con Alessandra Borghese, La verità chiede di essere conosciuta, il cardinal Carlo Caffarra ha scritto in più punti un concetto: che la crisi della Chiesa è anzitutto crisi nella celebrazione dell’Eucaristia.

Caffarra è tra quanti sottolineano sovente l’importanza di tornare alla sacralità dell’antico rito, che non consiste tanto nella lingua latina (che può benissimo essere ridotta), quanto nella sua verticalità e nel suo essere totalmente ad Deum.

In questo è in linea con Benedetto XVI, che da quand’era cardinale va predicando la necessità di riformare la riforma litugica di Bugnini. Nel suo La mia vita il futuro papa ricordava come "la  ‘messa normativa’ che doveva subentrare all’Ordo Missae precedente, e di fatto poi subentrò, venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967".

Il divieto che poi fu fatto dell’antico messale, continua Ratzinger, mi lasciò "sbigottito, dal momento che una cosa simle non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia". E analizzando il modo di celebrare comune concludeva: " si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia ‘fatta’, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di ‘donato’  ma che dipenda alle nostre decisioni. ..Ma quando la liturgia è qualcosa che si fa da sè, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero…Per la Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica…" 

Qui potete trovare un interessantissimo sondaggio sui cattolici e il ritorno della liturgia tridentina (e molti approfondimenti sulla liturgia):

http://blog.messainlatino.it/2009/10/risultati-del-sondaggio-assolutamente.html