O.E. Biscet, un eroe cubano nel gulag

Mentre ricordiamo Orlando Zapata, morto recentemente per sciopero della fame contro la dittatura sanguinaria di Castro, è bene non dimenticare il dottor Elias Oscar Biscet, anch’egli cubano, di famiglia povera, medico.

Biscet è condannato alla prigionia del gulag, chiuso in una cella piccolissima, senza finestre e senza bagno.

Il suo reato è quello di aver denunciato gli aborti e gli infanticidi innumerevoli che si consumano a Cuba, spesso sulle minorenni, per varie cause, tra cui la politica a favore del turismo sessuale adottata da Castro con la fine degli aiuti economici sovietici. Oggi Cuba è il paese col più alto tasso di aborti, al mondo, dopo il Vietnam, anch’esso vittima del comunismo ateo.

In Europa, negli ultimi 15 anni il triste primato degli aborti, come pure quello degli orfani abbandonati, spetta ad un altro ex paese comunista, la Romania. Ennesima dimostrazione di come non esista nella storia umana una ideologia che ha fatto tante promesse di libertà, uguaglianza, benessere, e ha invece partorito schiavitù, discriminazione e povertà.

 

L’attività di Biscet, un eroe dimenticato dei nostri giorni, la trovate qui:

 

www.grandeinfamia.net/abreg/abortoacuba4.pdf

 

http://cubadiice.blogspot.com/2008/02/oscar-elas-biscet-servire-la-vita.html

 

Il boom dei 5 in condotta

La notizia è di quelle che non dovrebbero passare sotto silenzio: dopo che il ministro ha dato il via libera, centinaia e centinaia di professori nel paese hanno deciso di utilizzare l’arma estrema del cinque in condotta, per lanciare un segnale. Agli alunni, ai genitori, alla società tutta intera.

Un grido che può essere tradotto così: noi insegniamo italiano, matematica, inglese ecc., ma quello che dobbiamo dire non riguarda anzitutto le nostre materie. Riguarda la possibilità stessa di fare scuola, senza doverci tramutare in gendarmi dell’ordine e della disciplina. Senza che la lezione si trasformi nel continuo e noiosissimo richiamare continuamente all’ordine. Perché non è possibile spiegare Dante, discuterne in classe, rendere viva la storia, la letteratura, ogni singola disciplina, se non c’è tutto quello che viene prima: la capacità dei ragazzi di stare alle regole, di comportarsi in un certo modo, di incuriosirsi e di entusiasmarsi. Bisogna, cari genitori, cari alunni, cari tutti, che si torni ai fondamentali. Come quando si impara a giocare a calcio: prima della partita, prima di potersi godere gli schemi di gioco, i triangoli spettacolari, gli affondi sulla fascia, le semirovesciate che mandano il pubblico in visibilio, occorre imparare a tenere la palla tra i piedi, passo dopo passo, correndo tra i birilli e palleggiando con pazienza, ore ed ore.

Così è per la scuola. Basta, alt, stop: devono finire tante cose che non funzionano, purtroppo. Certamente, perché questo avvenga, sono necessarie anzitutto regole chiare. Per cominciare chi si comporta in un certo modo, in futuro, deve conoscere le conseguenze del suo agire: di qui appunto il ritorno agli esami a settembre e la maggior forza conferita al voto in condotta. Si tratta di un passo essenziale, ma non basta: la scuola, da sola, può fare poco. Questo mi sembra un punto centrale. Le regole, da sole, sono lettera morta. Possono al massimo garantire la pace dei cimiteri, la tranquillità dei dormitori.

Queste regole devono essere conosciute nel loro significato profondo, devono essere il più possibile parte della storia di ogni alunno. Devono essere state digerite e vissute anzitutto in famiglia. Per troppo tempo una certa cultura ha voluto far credere che si potesse delegare tutto alla scuola; addirittura che la scuola fosse più adatta della famiglia a svolgere il ruolo di agenzia educativa. In nome di questa visione si è addirittura finiti per affermare che anche l’educazione affettiva dei ragazzi deve passare, anzitutto, da professori, da tecnici, da “esperti”, gestiti dalle Asl o da altre realtà esterne alla famiglia. In un mondo che si chiede addirittura se i bambini abbiano ancora “bisogno” di due genitori, di un padre o di una madre; in un mondo che vuole spesso dimenticare la necessità, per i giovani, di crescere amati, nella certezza e nella solidità dei primi e fondamentali affetti, il boom dei cinque in condotta vuole semplicemente ricordare la realtà: prima che persone istruite, occorre costruire persone vere.

Occorre qualcuno che sostenga il bambino quando gattona, che accompagni i suoi primi passi, che continui a fiancheggiarlo quando poi si pone le prime domande e si apre al mondo, come un novello Adamo. Occorrono più stabilità affettiva, meno televisione, meno internet, meno surrogati, meno parcheggi… La serenità e la condivisione imparate in famiglia, infatti, aprono il giovane alla tranquillità dei rapporti, al rispetto degli insegnati e dei compagni, alla curiosità verso la realtà che lo circonda e da cui egli si aspetta qualcosa di buono e di bello. A quel punto spetta a noi insegnati, contribuire a far nascere un seme che non è stato abbandonato, senz’acqua e senza cura, per lunghi anni; spetta a noi prendere per mano i ragazzi, e portarli nella bellezza delle discipline umanistiche e scientifiche.

Ma il guaio, oggi, è che, spesso, è difficile prenderle, afferrarle, molte mani; è difficile trovare un punto di appoggio, per fare leva: nella società sempre più liquida, tutto perde consistenza. Le passioni, gli interessi, l’ entusiasmo, la capacità di sacrificio, in una parola: le persone. Avvenire, 2 marzo 2010

Libertà va cercando, ch’è sì cara…In memoria di Zapata.

Lo sciopero della fame, in Italia, è un modo violento per ottenere ciò che non si riesce ad avere per altre vie, pure percorribili in un paese libero. E’ una prerogativa dei radicali e della loro capacità di conquistare così, ogni volta che vogliono, la ribalta mediatica.

Scioperando, a loro dire, circa 300 giorni all’anno, riescono così ad essere più o meno sempre sui giornali e le tv, nonostante siano da secoli sempre gli stessi quattro gatti.

Ma lo sciopero della fame è anche cosa seria, benché, quando arriva all’eccesso, certamente da disapprovare. Mi vengono in mente due scioperi della fame davvero per la libertà.

Il primo è quello di cui si è avuta notizia qualche giorno fa, benché i giornali vi abbiano dato ben scarso risalto:

L’Avana, 24 feb – E’ morto ieri in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame, il dissidente cubano Orlando Zapata: era stato incarcerato nel 2003 insieme ad altri dissidenti. Lo ha reso noto un portavoce dell’Ospedale Hermanos Ameijeiras dell’Avana, a Cuba. Il prigioniero politico 42enne, che era un’ex muratore di Santiago di Cuba, era stato dichiarato da Amnesty International prigioniero ”di coscienza” e l’organizzazione in questi anni ne aveva richiesto piu’ volte la liberazione. Zapata, che era stato arrestato per la prima volta nel 2002 ”per vilipendio al Comandante Fidel Castro”, e’ stato arrestato l’anno successivo nel corso di una retata contro i dissidenti, ed era stato condannato a 36 anni di detenzione…" (ASCA-AFP, 24 febbraio)

Il secondo è quello di Bobby Sands e dei ragazzi irlandesi che protestarono contro le violenze del governo inglese:Nel 1978 questi ragazzi iniziarono scioperi della fame, organizzati in modo che ogni quindici giorni ne morisse uno: il primo fu il giovane Bobby Sands. Durante lo sciopero l’unico alimento concesso era la particola benedetta che ogni mattina il cappellano portava ai ragazzi dell’IRA, mentre il resto della giornata era spesso dedicato allo studio del gaelico.

Bobby Sands era un ragazzo di famiglia cattolica, che aveva vissuto in un quartiere protestante ma ne era stato scacciato dagli oranges; da giovane amava spendere i suoi pochi soldi “in sale da ballo, ragazze e abiti nuovi. A quel tempo i soldi erano tutto per me”.

Poi, col tempo, si convinse della necessità di lottare perché al suo popolo fossero concessi maggiori diritti e libertà, e finì per impugnare le armi. Ecco cosa scrive nei suoi diari prima di morire: “Ogni protesta sembra fallire, ma non mi sento sconfitto. Oggi è Domenica 1 marzo 1981. Ho rifiutato la colazione. Continuerò a rifiutare ogni pasto, ogni boccone, immolandomi per il bene del mio paese…Mia nonna una volta mi disse che la prigionia dell’allodola è un crimine altamente crudele, perché l’allodola è simbolo della libertà felice. Io ho qualcosa in comune con quel povero uccello. Io sono stato privato dei miei indumenti, rinchiuso in una sordida cella vuota dove sono stato affamato, picchiato e torturato.

Ma io, come l’allodola, conservo lo spirito della libertà, nessuno può soffocarlo…In uno dei miei sogni ho visto le facce della mia famiglia: soltanto ora so quanto li amo tutti e quanto avrei desiderato vivere con loro questa breve esistenza, e soprattutto con mia madre. A Messa scorgo odio negli occhi dei miei camerati. Anche a Messa. Un giorno quegli uomini saranno padri e passeranno ai figli i loro sentimenti. Questo è il raccolto che l’Inghilterra ha seminato…Ma io sono qui nell’inferno della mia cella, digiuno, in preda a sofferenze atroci…Da lontano sento però voci familiari che mi aiutano a sopportare i dolori: ‘Siamo con te, figlio, non lasciarti battere dai torturatori’. Il freddo è intenso, credo di essere già nella tomba. Ma altri continueranno a vivere, dovranno poter vivere”.

Infine la storia di Orlando Zapata mi ricorda un’altra vicenda terribile, quella di Jan Palach: nel 1968, i russi seminano ancora una volta il terrore in uno dei loro paesi satelliti entrando in Cecoslovacchia: qui anche il leader comunista locale Alexander Dubcek cercava di avviare un processo di destalinizzazione, ma fu bloccato dall’intervento massiccio dell’esercito sovietico, che pose così fine alla Primavera di Praga (finita nella primavera del 1969), dove giunsero un primo scaglione di 165.000 uomini e 4600 carri armati ed un secondo contingente composto da 27 divisioni, 6300 carri, 800 aerei, 2000 cannoni e circa 400.000 soldati

Proprio a Praga un giovane studente di filosofia di 21 anni, Jan Palach, inaugurò una serie di suicidi di protesta (le "torce umane") dandosi fuoco con la benzina nel mese di gennaio del 1969: arriva in piazza Venceslao, si toglie il cappotto si versa la benzina e si dà fuoco, senza un grido; quasi un milione di praghesi seguiranno i suoi funerali, il 25 gennaio 1969. Due anni dopo il cantautore comunista Francesco Guccini canterà, ne La primavera di Praga: “Di antichi fasti la piazza vestita, grigia gurdava la nuova sua vita…Come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga. Ma poi la piazza fermò la sua vita/ ed ebbe un grido la folla smarrita/quando la fiamma violenta ed atroce spezzò gridando ogni suono di voce…Son come falchi quei carri appostati, corron parole sui visi arrossati…Dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava, la città intera che muta lanciava/ una speranza nel cielo di Praga, una speranza nel cielo di Praga.”

I tre big bang: il cosmo, la vita, l’autocoscienza

Facciamo un atto di fede, il più ampio possibile. Ammettiamo che Darwin avesse ragione in tutto e che ogni forma vivente, come egli ipotizza abbia origine fisica, biologica, da un’alga primitiva. Ammettiamolo, benché lo stesso Darwin sapesse bene di non avere alcuna prova al riguardo.

 Ebbene, quali sarebbero le conseguenze filosofiche, metafisiche, di tutto ciò? Alcune ce le propone Darwin stesso, quando si chiede: e l’alga da dove deriva? Dalla materia inorganica? Ma non abbiamo “nessuna prova attendibile” che ciò sia possibile. E se fosse possibile, dovrebbe esistere una “legge naturale” che lo permette, o lo determina, perché sarebbe evidente l’esistenza in natura di una direzione, di un fine, di un progresso (dalla materia inorganica alla vita e dalle forme semplici di vita alle più complesse): “Se un giorno si scoprirà che la vita può aver avuto origine in questo modo (dalla non vita, ndr), i fenomeni vitali saranno ricondotti a una qualche legge generale della natura”.

Ma le leggi naturali postulano un Legislatore? “Se l’esistenza di un Dio consapevole possa essere dimostrata in base all’esistenza delle leggi naturali… è questione che suscita perplessità, sulla quale ho spesso riflettuto, ma non riesco a vederci chiaro”. Il problema, continua Darwin, in un’altra lettera, è che l’evoluzione non si spiega da sola, ma esige delle spiegazioni che la precedono. Per questo, come scriverà ad un corrispondente olandese, “l’impossibilità di pensare che questo grandioso e meraviglioso universo, insieme a noi esseri coscienti, sia nato per caso, mi sembra il principale argomento a favore dell’esistenza di Dio”, anche se forse “l’intera questione si trova al di là della portata dell’intelletto umano”.

Pur partendo dall’alga, dunque, Darwin non negò mai l’esistenza di svariati problemi filosofici, che gli parvero insolubili, per cui mai affermò di essere ateo, bensì di essere agnostico. Oggi, che sono passati più di cent’anni dalle sue ipotesi, abbiamo idee più chiare, risposte scientifiche certe, incontrovertibili dogmi scientifici che ci impediscono di porci le antiche domande sull’origine del mondo e sul senso della nostra vita? Non pare proprio. Scienziati credenti e scienziati atei, messi alle strette, concordano sulla nostra ignoranza.

Per cavalleria possiamo analizzare il pensiero di un ateo molto famoso, Edoardo Boncinelli, seguace estremista del neodarwinismo nella sua versione materialista. Nei suoi libri, pur dando talora risposte apparentemente sicure e granitiche, riconosce che il Big bang cosmico, cioè la nascita dell’universo, il Big bang biologico, cioè la nascita della vita, e il big bang neurologico, cioè la nascita del cervello umano, sono per noi ancora, nella loro sostanza, nel loro perché profondo, inspiegabili. Richard Dawkins, il più famoso neodarwinista ateo, nel suo “L’Illusione di Dio”, ipotizza che i tre passaggi siano dovuti al caso.

Ipotizza, dico, perché ciò che è casuale non può per definizione essere provato. Per Dawkins dunque la vita deriva dalla non vita grazie a eventi puramente casuali: una “certa fortuna” e “forti iniezioni di fortuna” avrebbero permesso ai pianeti, col tempo, di generare forme di vita. Dawkins non ci dice come i pianeti sarebbero nati dal nulla e per caso, sapendo bene che dal nulla non nasce nulla e che ciò che non esiste non può produrre galassie e pianeti. E neppure spiega perché la vita avrebbe dovuto nascere solo sulla Terra, almeno per quanto ne sappiamo noi, che non è né il pianeta più grande, né il più antico (e quindi neppure quello, statisticamente, più probabile). Non ci dice neppure perché sulla Terra non solo è sorta la vita, ma sono nate molteplici, diverse e complesse forme di vita, mentre sulla luna, sul sole, su Marte non vi è neppure un filo d’erba.

 

Infatti sa bene che oggi la nascita della vita dalla non vita è del tutto inspiegata, come sottolinea anche il grande genetista Francis Collins e come ammette il già citato Boncinelli. Infatti, per citare un biochimico italiano, Paolo Tortora, la vita, della quale non abbiamo neppure una vera definizione scientifica, si presenta come cooperazione verso uno scopo, tra Dna (progetto) e proteine (componenti del macchinario). L’origine di questa realtà vivente e cooperante dalla materia inorganica, pone almeno due problemi irrisolti: “1 Generazione dell’informazione dal caos: equivale a generare un testo dotato di senso battendo a caso sulla macchina da scrivere (vale a dire, assemblare nucleotidi che formino un Dna codificante o aminoacidi che formino una proteina funzionale): statisticamente impossibile; 2 Interazioni: non solo i componenti del macchinario (la cellula, ndr) sono in se stessi funzionali, ma operano all’interno di una rete di relazioni reciproche, tale per cui ogni molecola deve agire in modo coordinato con tutte le altre”.

Dunque: ammettendo l’ipotesi del Big bang cosmico, nata dalla mente del sacerdote cattolico Lemaitre, rimane una domanda: qual è l’origine di questo venire all’essere, di questo innesco, del cosmo fisico? Perché il cosmo e non il nulla? Inoltre, ammettendo l’evoluzione, anche la più estrema ed improbabile, cosa è la vita e da dove essa ha origine? Perché la materia avrebbe dovuto di per sé generare la vita (big bang biologico)? Non possiamo certo tirare in ballo la selezione naturale e l’adattamento all’ambiente darwiniani: chi più adatto di un sasso, a qualsiasi ambiente? Cosa dunque avrebbe dovuto far sì che dal sasso, dal materiale chimico, si passasse al filo d’erba? Infine: come si è passati dalla materia vivente, dall’alga, all’uomo (Big bang neurologico)? Sappiamo che per il premio Nobel John Eccles, un credente, l’uomo è troppo diverso dagli altri animali, per cui è spiegabile solo chiamando in causa un principio spirituale, l’anima, che si concretizza nel linguaggio, nel senso morale, nella libertà, nelle infinite capacità che sono proprie dell’uomo e non dell’animale.

Per l’ateo Boncinelli no: l’uomo e l’animale coincidono, ed anzi, essendo materia causalmente aggregata, come il sasso, non differiscono sostanzialmente nè tra loro né con esso. Tutti ugualmente frutti del caso, materia e basta. Però, nel suo “Le forme della vita”, ammette: “Fin dall’inizio si è chiarito che questa teoria (neodarwiniana, ndr) spiega benissimo certe cose, meno bene certe altre e pochissimo altre ancora. Quello che è successo prima della cosiddetta esplosione del Cambiano e gli eventi che hanno portato all’evoluzione della specie umana esulano un po’ da ciò che la teoria spiega bene”. Altrove si chiede: essendo i batteri le forme viventi più adatte all’ambiente, non sappiamo affatto perché essi avrebbero dovuto evolvere in forme di vita più complesse, ma sicuramente più fragili e meno adatte alla vita, come gli altri animali e l’uomo. Sulla coscienza umana, aggiunge, da un punto di vista scientifico, empirico, “non ne parla quasi nessuno seriamente. Perché nessuno ne sa niente” (Corriere, 30/8/2008).

E l’intelligenza? Di essa non vi era “evoluzionisticamente parlando, alcun bisogno” per cui “la sua comparsa sarebbe dovuto “al solito capriccio del caso”! Boncinelli vuole dunque spiegare l’uomo solo in base a procedimenti meccanici e materiali, ma non ci riesce, ammette di non averne la possibilità.

In conclusione mi sembra interessante citare il pensiero di quello che è forse il più famoso darwinista vivente, Francisco Ayala, che nel suo “L’evoluzione”, scrive: “Niente nella natura del processo evolutivo rappresenta una premessa verosimile per la nascita degli eucarioti. E non c’è nemmeno niente che renda probabile l’evoluzione degli organismi pluricellulari. Ancor meno la comparsa degli animali…Riattivando il nastro della vita le improbabilità si moltiplicano di anno in anno di generazione in generazione, milioni e milioni di volte. Il numero di improbabilità che risulta è di tale portata che, se ci fossero anche milioni di universi grandi come quello che conosciamo, la probabilità per l’uomo rimarrebbe infinitesimale anche dopo aver moltiplicato le improbabilità per il numero dei pianeti possibili. Queste improbabilità non sono da applicarsi solo ad homo sapiens ma anche ad ‘organismi intelligenti con cui è possibile comunicare’… Non ci resta che concludere che gli esseri umani sono soli nell’immenso universo e che saremo sempre soli”.

Ora, come ho avuto modo si scrivere sul Foglio, se prendiamo questo ragionamento, l’estrema improbabilità della vita, in tutte le sue forme, rimangano solo due conclusioni logiche: l’uomo è, come vogliono Boncinelli e Monod, un numero, ma veramente fortunatissimo, irripetibile, uscito ad una roulette che produce tutti numeri unici e fortunatissimi (eucarioti, organismi pluricellulari, animali…); oppure l’infinita improbabilità delle svariate forme di vita richiede un progetto, un disegno, una causa intelligente, e l’infinita improbabilità dell’uomo è una prova logica del fatto che non era necessario, bensì voluto. Nel primo caso faremo un atto di fede nel Caso, evitando di spacciarlo per un atto scientifico; nel secondo un atto di fede, fondato sulla ragionevolezza umana, in Dio.

da : Il Timone, gennaio 2010 : www.iltimone.org 

L’aids e l’esperienza dell’Uganda

Riporto una pagina del bel saggio di Cesare Cavoni e Renzo Puccetti sull’aids in Africa: "L’Uganda è stata una fucina molto importante di informazioni per comprendere alcune rilevanti dinamiche nella lotta alla diffusione del virus.

All’inizio degli anni ’90 la diffusione dell’HIV tra la popolazione adulta superava il 10% nelle zone rurali, si attestava tra il 15 ed il 20% nelle città e sfiorava il 30% nella capitale, Kampala. Di fronte a questa situazione il presidente del paese, Yoweri Kaguta Museveni, divenuto presidente dopo 5 anni di guerra civile, seguiti alla destituzione del dittatore Idi Amin Dada, promosse il primo programma nel paese di prevenzione basato su una strategia che diventerà celebre col nome di ABC (Abstinence, Be faithful, Condom; in italiano astinenza, fedeltà, preservativo). Astinenza è intesa come ritardo nell’inizio dei rapporti sessuali dei giovani, possibilmente fino al matrimonio. Col termine fedeltà si indica la perseveranza in un rapporto monogamico con un partner sieronegativo.

La strategia comunicativa in Uganda fu tesa a far passare nella popolazione dei messaggi semplici. Per prima cosa mediante immagini dell’esercito e della popolazione civile si intese evidenziare che si era nel mezzo di una guerra che doveva vedere coinvolto nella lotta l’intero paese. Il secondo messaggio ben chiaro fu quello dell’associazione dell’AIDS con la morte. Una serie di vignette che invitavano le ragazzine a non accettare soldi da ricchi adulti in cambio di prestazioni sessuali, così come ad aiutare a resistere le amiche che stessero per accettare, altre che invitavano i camionisti sposati a non fermarsi con le prostitute e i fidanzati alla fedeltà, altre ancora che evidenziano la gioia di un ritorno a casa, dalla propria moglie e dai figli, con la certezza di essere sani, costituirono il perno delle prime campagne.

Nelle bozze originali del primo opuscolo della campagna del 1988-89 non c’era traccia del condom fino a pagina 32, dove si poteva leggere: “Il governo non raccomanda il condom come mezzo per combattere l’AIDS”. I

l finanziamento per l’opuscolo derivava però dall’UNICEF che controllava anche la pubblicazione finale; quindi l’UNICEF inserì a pagina 18 un riferimento al condom, peraltro con molta cautela per l’insistenza sul punto del governo ugandese. Nelle vignette di quella pagina si vede un medico che comunica la diagnosi di AIDS ad un paziente, di fronte all’obiezione di avere usato sempre il preservativo, il medico risponde: “Puoi comunque prendere l’AIDS anche se usi il preservativo”.

Nella immagine successiva si mette in evidenza come possa accadere che i condom non siano sempre disponibili. Si trattò di una strategia ben precisa che lo stesso presidente Musenevi esplicitò in un discorso del 1991 con queste parole: “Proprio come ci avevano offerto “la pozione magica” all’inizio degli anni ’40, adesso ci offrono il preservativo per il “sesso sicuro”. Ci sentiamo dire che solo un sottile pezzo di gomma sta tra noi e la morte del nostro continente. Sento che i preservativi hanno un ruolo da giocare come mezzi di protezione, specialmente nelle coppie che sono HIV positive, ma non possono diventare il mezzo principale per contenere la marea dell’AIDS”.

Questa campagna cominciò a fare cambiare i comportamenti alle persone. Nel periodo 1989-1995 i maschi che avevano rapporti al di fuori del partner regolare scese dal 34 al 14%, tra le femmine la stessa percentuale passò dal 16 al 3%, l’uso del condom aumentò, ma non a livelli superiori rispetto a nazioni vicine come Kenia, Zambia, Malawi, dove, la promiscuità si mantenne a livelli 3-5 volte maggiori rispetto all’Uganda e dove l’AIDS continuò ad imperversare. In Uganda invece questi cambiamenti cominciarono a dare i frutti sperati ed in breve tempo si registrò un dimezzamento della prevalenza di HIV che proseguirà negli anni successivi. Il confronto con le nazioni vicine mostra la specificità dell’Uganda.

Non è stato l’incremento del numero di preservativi, peraltro assai modesto nelle fasi cruciali della riduzione del numero di casi, ad avere fatto la differenza, ad avere ridotto in Uganda la prevalenza di malattia. “Queste evidenze suggeriscono che la riduzione del numero di partner sessuali e l’astinenza tra i giovani non sposati senza precedente esperienza sessuale (particolarmente nelle aree urbane e tra i maschi), piuttosto che l’uso del preservativo, sono i fattori rilevanti per la riduzione dell’incidenza dell’HIV”.

Sono le parole di Rand Stoneburner e Daniel Low-Beer, ricercatori presso l’università di Cambridge, pubblicate sulla prestigiosa rivista Science, peraltro condivise nella letteratura scientifica internazionale. Negli anni successivi la prevalenza dell’HIV nella popolazione generale è continuata a scendere fino ad una stabilizzazione che secondo i dati più recenti corrisponde al 6,3% della popolazione di età compresa fra 15 e i 59 anni (7,3% tra le donne e 5,2% fra gli uomini).

Certamente il quadro delineato non è scevro da contestazioni e discussioni, sia in merito all’entità della riduzione dell’HIV tra la popolazione ugandese, sia in relazione all’uso politico che è stato fatto della lotta all’AIDS nella nazione africana. È altresì indubbio che la riduzione dell’incidenza dell’HIV è stata reale ed ha riguardato consistenti cambiamenti nel comportamento di larghe fasce della popolazione ottenuto nel momento cruciale al costo annuale di 23 centesimi di dollaro per persona, secondo uno schema che si è ripetuto per altri paesi.

 

Inoltre può essere utile riflettere sull’esperienza di Rose:

Parla Rose Busingye, infermiera ugandese

Così l’Uganda sta vincendo la lotta all’Aids senza preservativi

“Chi pensa di salvare l’Africa con i preservativi è fuori dal mondo”


Il problema è capire se la vita ha un senso. Solo così posso volere bene a me e a chi ho davanti. E’ allora che lo proteggo, che faccio di tutto perché non si ammali”. Rose Busingye passa la sua vita ad accogliere e curare gli ammalati di Aids assieme all’ong Avsi al Meeting Point di Kampala, la capitale dell’Uganda. Rose è un’infermiera ugandese, e sa bene di cosa si tratta quando si parla di Africa, Hiv e preservativi. “Il problema è se la vita ha un valore, un significato, altrimenti non c’è preservativo che tenga”. In Uganda dal 1986 sono morte quasi un milione di persone (e più del doppio sono rimaste infettate) per il virus dell’Hiv. L’Uganda è però anche il primo paese del continente nero ad avere attuato una politica vincente nella lotta all’Aids: in pochi anni si è passati dal 21 per cento della popolazione infetta al 6,4 per cento di oggi. “Lo abbiamo fatto – spiega Rose – senza distribuire preservativi a tutti, ma educando le persone. Anche grazie al nostro presidente”.

Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, ha preso di petto la questione dell’Hiv fin da subito: “Ha chiesto di tornare alle nostre origini culturali – continua Rose – ha voluto che si lavorasse per il cambiamento delle persone. Una volta, durante un seminario, si discuteva di come affrontare il dilagare della malattia e la moglie del presidente è andata su tutte le furie quando ha sentito dire che la soluzione erano i profilattici. L’uomo non è come un cane che non riesce a trattenersi, diceva, ha la ragione, può smettere di vivere come un animale”. Così (come racconta anche il libro “Lo sviluppo ha un volto”, a cura di Roberto Fontolan, edito da Guerini) si è cominciato ad andare nei vari villaggi a insegnare, ad esempio, che chi ha una vita sessuale ordinata non rischia di prendere l’Hiv, che l’astinenza e la fedeltà al partner sono fondamentali e che in certi casi particolari è anche opportuno usare il preservativo.

Nulla di diverso dalle parole del Papa: “Se non c’è l’anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema. La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto con le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, a essere con i sofferenti”. Nulla di diverso da quello che racconta Rose: “Non sappiamo amare, viviamo definiti dall’istinto. E quando uno non si sente amato non può amare nessuno, usa se stesso e gli altri. A uno infettato dall’Hiv non interessa nulla proteggere gli altri se non sa che la sua vita ha un valore, un significato. Quelli che attaccano il Papa non sanno cosa dicono”. O forse lo sanno benissimo. “Tu vali più di un preservativo, il bisogno dell’Africa non sono i preservativi. Se lo pensi sei fuori dal mondo”, dice.

Rose incalza: “Qui Non abbiamo medicine, si muore di malaria, di dissenteria. E ci vogliono mandare i preservativi. Ma che coraggio hanno di fronte al mondo di dire che il bisogno dell’Africa è un preservativo?”. Le chiediamo se quindi sia un problema di educazione: “Si educa solo a ciò che si è”, risponde. In altre parole? “Bisogna risvegliare la coscienza dell’uomo: quando uno è voluto bene subito si accorge di quello che vuole, senza bisogno di fargli la lezione. L’uomo è un bisogno infinito di capire cos’è la giustizia, la bellezza, la felicità”. Rose racconta che tante persone che passano dal suo centro magari per un giorno poi non vogliono andarsene: “Se uno incontra anche solo un piccolo occhio che lo guarda per quello che è non può non riconoscere di essere fatto per queste cose. Puoi stare anni a insegnare come si usa il preservativo, ma se si è guardati con dignità basta un secondo per cambiare. Quando gli ammalati sentono che secondo te il loro bisogno è un preservativo se ne vanno, lo sanno che la loro vita è molto più grande. Non è un pezzo di lattice che salverà l’Africa, siamo seri. E in Uganda, dove il presidente si è opposto a questa idea, abbiamo abbattuto il numero di infezioni, tanto che adesso l’Hiv è soprattutto una malattia dei più ricchi, non dei poveri”.

Secondo Rose, il mondo dovrebbe avere il coraggio di parlare dell’origine della malattia, non di come contenere gli effetti di un comportamento di cui la malattia è diretta conseguenza. “E’ la libertà che muove la persona, se uno la usa male non può poi accusare la mancanza dei preservativi. Questo è un modo sbagliato di usare la ragione”. Ciò che impressiona è come le parole di Rose siano gravide di conseguenze nei fatti: al Meeting Point le donne infette dal virus dell’Hiv ballano, cantano, lavorano tutto il giorno; stanno talmente bene che all’inizio nessuno credeva che avessero bisogno di cibo e medicine, e solo dopo avere fatto il test a ognuna di loro si sono ricreduti. Parla di “ideologia”, Rose: “Si pensa che la vita umana sia definita solo dal sesso, ma questa è ideologia, nel senso che è l’esaltazione di un singolo aspetto umano”.

A questo punto racconta di quando ha insegnato alle sue donne come si usano i preservativi: “Abbiamo letto insieme le istruzioni: occorre una temperatura esterna non troppo alta, bisogna lavarsi, stare attenti perché basta un po’ di polvere per romperlo, ecc. Le mie donne mi hanno guardato e mi hanno detto: ‘Rose, quanti gradi ci sono in Africa? Quante case hanno il rubinetto per lavarsi?’. Poi mi hanno fatto vedere le loro mani: ruvide e rovinate dal lavoro nella cava, affilate come un sasso. E se basta un po’ di polvere per rompere il preservativo… Capisci? Non hanno neanche le lenzuola, i letti, l’acqua – ride – E pensano di salvarci con i preservativi!”. Si ferma, torna seria: “Bisogna smetterla di parlare per niente, senza sapere di cosa si sta parlando”. Sia l’opera grandissima in cui lavora Rose a Kampala sia i risultati dell’azione governativa sembrano dare ragione alle parole di questa piccola donna sempre sorridente: “L’uomo è fatto per essere amato e per amare, e ha la libertà. La sua soddisfazione totale non è nel sesso. In Uganda abbiamo combattuto senza preservativi ma per il cambiamento delle persone”.

Astinenza e fedeltà le parole d’ordine. Sembra impossibile al mondo laico del Vecchio continente. E invece sembra essere l’unica via per combattere con successo questa piaga. Ma una cosa del genere è possibile solo là dove c’è la chiesa? “Sì – dice Rose – perché chi riconosce che l’umano ha un valore è la chiesa”. Il presidente ugandese non è cristiano, però. “No, ma è un uomo”. Il viaggio del Papa in Africa ha scatenato l’ennesimo dibattito sull’opera della chiesa in quelle terre: “Qua tutti sanno che Benedetto XVI ci vuole bene, non abbiamo dubbi. I dubbi piuttosto ce li abbiamo su chi ci manda i preservativi invece dell’aspirina. Su chi riconosce che siamo esseri umani non abbiamo dubbi”. Rose ha perso tutti i parenti nel genocidio in Ruanda: “Dov’erano quelli che vogliono salvarci con i preservativi? Cos’è un preservativo di fronte ai morti che ho visto in Ruanda? Ammettano che sono loro gli sconfitti invece di volere salvare noi. Forse pensano che non lo capiamo, ma anche noi africani abbiamo il cervello, sappiamo usare la ragione”. Quegli stessi accusano il Papa di attentato alla vita dell’Africa: “Non ha senso attaccare una persona disarmata che ama così tanto la vita della gente”. Il Foglio, 20 marzo 2009

 

Conversioni

“Convertiti”. E’ un invito che verrà fatto ai credenti il mercoledì delle ceneri.Ogni cristiano è chiamato a convertirsi ogni giorno. Deve convertirsi, chi crede, per non cadere nell’indifferenza, nella tiepidezza, nel baratro del peccato.

Chi sta in piedi, guardi di non cadere“, ammonisce l’apostolo, per ricordarci che nulla è guadagnato per sempre, che nulla è compreso interamente, definitivamente. Per ricordarci che bisogna sempre riprendere in mano la propria vita, ritrovando il sentiero. L’esperienza della conversione è dunque abituale, per i credenti che hanno una qualche consapevolezza del loro limite e della loro fragilità. Ma è anche l’esperienza di molti che non credevano, di persone che più che badare di non cadere, tentano di rialzarsi.

Nel suo bellissimo “Convertiti d’Europa” (Lindau), Lorenzo Fazzini ci descrive proprio questo: la storia di dieci conversioni dei nostri giorni. Dieci persone in vista, “importanti”, raccontano come e perché si sono convertite.

Alcuni sono “ricomincianti“: avevano abbandonato la fede della loro infanzia, e sono tornati a riscoprirla, dopo aver assaporato altre vie e sperimentato altre risposte. Sono personaggi come Dante: persi nella selva, devono ritrovare il sentiero che porta al colle. Un colle illuminato, che altre volte avevano visto e contemplato, ma di cui poi avevano perso il ricordo.

Poi ci sono i “fulminati”, come san Paolo, che si sono convertiti all’improvviso, d’un tratto, in un attimo di tempo che si è stampato nella loro mente per la sua unicità. Si sentivano nel baratro, il loro occhio era abituato alla tenebra, ma ad un certo punto hanno intravisto la luce, e la hanno seguita.

C’è davvero un “prima” e un “dopo”, racconta il celebre scrittore francese Eric Emmanuel Schmitt, “nel senso che dal momento in cui ho creduto in Dio tutto è cambiato“. “Quello che era angoscia ora è diventata fiducia, il disinteresse per l’altro è divenuto interesse, quello che era sofferenza a causa dell’altro ha cessato di esserlo“. La vita di Schmitt è cambiata durante due notti diverse: nella prima, persosi nel deserto del Sahara, senza cibo né acqua, Dio gli si è rivelato attraverso la sua debolezza e, forse, la magnificenza del creato; nella seconda, diversi anni dopo, Eric Schmitt ha letto tutti e quattro i Vangeli di seguito, e ne è rimasto sconvolto.

I fulminati come lui, mi sembra di capire, sono persone che ad un certo punto sentono un invito potente, e decidono di rispondere, ritengono che sia necessario “buttarsi”, scommettere. Convertirsi significa per loro girare una pagina su cui si era fermi da tempo. Una pagina magari noiosa e vuota, ma a cui ci si può affezionare per paura, per pigrizia, perché si intravede che il girarla potrà sconvolgere l’ esistenza. Per voltare pagina ci vogliono coraggio, umiltà e occorre possedere già un po’ di fede nella possibilità del Bene. Bisogna già possedere, come scrive uno dei tanti convertiti che fanno capolino nel libro, la speranza che “la vita non si riduca, alla fine, ad una miriade di eventi perduti“.

Una speranza che sia così umile da permetterti di riconoscere gli sbagli del passato, senza che essi siano il freno che paralizza la volontà, e la disperde verso nuove illusioni orgogliose. Non è un caso che i più accaniti nemici della fede siano sovente coloro che hanno creduto in una ideologia fallita, e che nonostante ciò non si ricredono, non rivedono le loro posizioni, ma al contrario rafforzano il loro rancore verso Dio.

A muovere i fulminati, a rendere solida la nuova scelta, c’è un’altra speranza ancora, quella nel perdono, nella redenzione. Per convertirsi occorre sentirsi colpevoli, sentire il proprio peccato, ma soprattutto credere che esso può essere perdonato. Tra i convertiti intervistati da Fazzini ve ne sono alcuni che hanno avuto un esperienza mistica, improvvisa; altri che sono approdati alla fede attraverso la ragione, lo studio, la riscoperta dell’origine cristiana di valori di cui la cultura atea si è impadronita, smarrendone però il vero significato. Valori che separati da Cristo, loro origine, sono “come la foglia che cade dall’albero“: “essa per un attimo ci è sembrata libera, ma alla fine, con l’inverno, è marcita”.

E vi sono personaggi che hanno trovato la fede grazie alla bellezza. “Folgorato davanti ad un crocifisso“: è l’avventura del filosofo francese Fabrice Hadjadj, “che ha ricevuto il battesimo nella celebre abazia di Solesmes, nota per la grande tradizione del canto gregoriano ivi custodita“. Ci si converte quando si scopre qualcosa di bello che ci richiama, dice Hadjadj, o quando siamo colti da una “disperazione così profonda che ci assicura che non possiamo darci la gioia da noi stessi e dobbiamo quindi gridare (ecco la disperazione che si converte in speranza, ndr) verso un Salvatore“.

Non è così anche per chi è già cristiano? La bellezza di ciò che abbiamo, genera gratitudine per Colui che ci ha donato tutto, mentre la paura ci spinge a cercare aiuto. In entrambi i casi sperimentiamo la dipendenza da Dio e ci convertiamo a Lui. La ragione, continua Hadjadj, può trovare Dio, ma è soprattutto la fede che rilancia e illumina la ragione, perché il dogma “è una mano tesa e provvista di ali che può elevare l’intelligenza verso ricchezze inesauribili“. A

lle quali, conclude Lindo Ferretti nell’ultima intervista del libro, ci richiama il contatto con le bellezze del Creatore e con una liturgia che non abbia perso, come purtroppo spesso accade, il senso del sacro, il “timor di Dio”, la capacità di far intravedere il Mistero.(Il Foglio)

Riflessioni sul Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano II rimane, quarant’anni dopo, un evento che entusiasma e che divide. Se ne fa continuamente un gran parlare: i progressisti come il cardinal Martini, Mancuso, Melloni ecc. sembrano far risalire ad esso la nascita della Chiesa, ne invocano una più ampia e corretta attuazione e chiedono addirittura il Vaticano III, per aprirsi ancora di più al mondo e al pensiero moderno; il papa ribadisce che il Concilio Vaticano II non va separato da ciò che lo precede; mons. Fellay, superiore della Fraternità san Pio X, afferma di voler interpretare tale concilio alla luce della Tradizione, riservandosi anche di poter criticare alcuni passaggi ritenuti ambigui e alcuni documenti che considera almeno parzialmente in contrasto col magistero precedente (posizione questa già accettata dal papa per quanto riguarda gli statuti della comunità tradizionalista del “Buon pastore”, a cui è stato dato il permesso di criticare, con spirito costruttivo, alcuni passi conciliari controversi).

Personalmente non ho grande competenza per esprimermi, ma due concetti vorrei qui esporli, sperando siano utili al dibattito, e augurandomi di non dire sciocchezze troppo grosse (se lo farò, ci sarà certo qualcuno pronto, fraternamente, a correggermi). Ebbene, leggendo alcuni documenti del Concilio intravedo talora qualcosa che mi stupisce per eccesso di ottimismo. Il Concilio si aprì con le famose dichiarazioni di Giovanni XXIII, contro i “profeti di sventura”: Giovanni XXIII credeva fermamente che i nostri tempi fossero particolarmente favorevoli ad una nuova “primavera della Chiesa”, ad un “balzo innanzi”, ad una rinascita senza precedenti. Parlava apertamente di un “giorno foriero di luce splendidissima” di cui il Concilio rappresentava l’ “aurora”.

Si distaccava, in questo, dalla visione che avevano avuto Pio X e Pio XII, più inclini a scorgere nella contemporaneità un’epoca di progressivo e terribile allontanamento da Dio. Scriveva Giovanni XXII l’8 dicembre 1962, a chiusura della prima sessione del Concilio: “sarà veramente la nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza…sarà un nuovo balzo in avanti del Regno di Cristo nel mondo, un riaffermare in modo sempre più alto e suadente la lieta novella della Redenzione, l’annuncio luminoso della sovranità di Dio, della fratellanza umana nella carità…”. Purtroppo non è andata così, come ha notato anche il cardinal Biffi nelle sue recenti memorie, e se l’albero si vede dai frutti, oggi si può dire che molti segni dei tempi furono male interpretati. Dopo il Concilio migliaia e migliaia di sacerdoti lasciarono la veste, per sposarsi, o addirittura in seguito a crisi di fede. E il tempo non avrebbe mutato le cose.

Il pontificato di Paolo VI è stato su questo punto assai indicativo: il Montini fu infatti sovente portato a condividere l’ottimismo quasi utopico di Giovanni XXIII e a cercare nel rinnovamento pastorale, in una maggiore apertura al mondo, la via maestra per una nuova evangelizzazione; ma fu anche consapevole, in molte occasioni, e lo disse a gran voce, che invece della primavera, nella Chiesa, era arrivato l’inverno; che il fumo di Satana era entrato nel tempio di Dio. In lui convissero l’idea che il Concilio significasse un “primaverile risveglio d’immense energie spirituali e morali, quasi latenti nel seno della Chiesa”, insieme con profonde crisi interiori, di cui rendeva partecipe, tra gli altri, il cardinal Siri in lunghi colloqui privati e drammatici. E’ così che alcuni documenti del Concilio portano qua e là il segno di un certo ingenuo ottimismo, che, secondo padre Stanley Jaki, amico stimato di Benedetto XVI, secondo don Divo Barsotti e il riscoperto Romano Amerio, deriva da una sottovalutazione del peccato originale e della perfidia dello spirito del mondo, evangelicamente inteso. Questo ottimismo utopico, dicevo, lo si trova ad esempio all’inizio della Dichiarazione sulla libertà religiosa: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive”.

Nella “Gaudium e spes” invece si leggono frasi di tal genere: “Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà…numerosi sono perciò coloro che giungono a un più acuto senso di Dio…L’uomo d’oggi procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti”. Dichiarazioni analoghe, magari spesso limate e meglio specificate nei passaggi successivi, si trovano abbondantemente anche in altre encicliche pressoché contemporanee, prima tra tutte la Pacem in terris. Che male c’è, dirà qualcuno, ad essere ottimisti, a voler andare incontro al mondo in modo suadente e senza condanne altisonanti? Che male c’è a preferire “la medicina della misericordia piuttosto che della severità”, come disse sempre Giovanni XXIII, a puntare sull’ “aggiornamento”, piuttosto che sulla Tradizione?

In effetti a chi non piacerebbe, almeno apparentemente, un Cristo meno esigente, che fosse venuto a patti col mondo, che avesse dialogato con i suoi carnefici sino a convincerli, e che non chiedesse, anche ai suoi discepoli, di lottare contro il peccato, sino, se necessario, al sangue e al martirio? Che non ci avesse ricordato che “siete nel mondo, ma non del mondo”? Personalmente penso che la mancanza di realismo, di un sapiente equilibrio tra “severità” e “misericordia”, abbia sovente conseguenze negative, perché la diagnosi è sempre necessaria alla cura, e per questo deve essere implacabile e vera. “Il suo atteggiamento, scriveva Paolo VI il 7 dicembre 1965 parlando del Concilio, è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno”, preferendo a “deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi”. Ma quali sono state le conseguenze di tutto ciò, di questo atteggiamento così dichiaratamente nuovo nella storia della Chiesa? Quanto è mancata, al nostro mondo contemporaneo, una cruda diagnosi della sua malattia, accompagnata, certo, anche dalla misericordia della cura? Le conseguenze di un ottimismo estremo le stiamo pagando tuttora: si è ingenerata piano piano nei cattolici una mentalità eccessivamente acquiescente e irenista.

L’idea che non si debba “condannare”, che si debba sempre dialogare ad oltranza, che occorra far viaggiare la Chiesa col mondo, ha fatto tanta strada, portando ai “cattolici per il marxismo”, ai “cattolici per il divorzio”, ai “cattolici per l’aborto”, ai cattolici relativisti (“io no, ma gli altri…”), ai “cattolici adulti” e via discorrendo. Non cioè alla pace della Chiesa col mondo, come oggi è sempre più chiaro, ma alla discordia tra gli stessi credenti. Un esempio su tutti: la mancata scomunica del comunismo da parte dei padri conciliari, nonostante la petizione di 450 di essi, proprio allorché le persecuzioni erano immense e quella ideologia di morte devastava interi popoli, risponde proprio ad un ottimismo irrealistico, e ad una mentalità che volendo distanziarsi dalla consuetudine degli anatemi del passato, crede, mi sembra ingenuamente, che il dialogo col mondo sia la soluzione possibile, indolore ed efficace, per la redenzione dell’umanità.

Di qui anche quella visione del dialogo che diventa non un mezzo ma il fine; un dialogo che ha come scopo null’altro che il dialogo stesso, invece della conversione: come se Cristo stesso non avesse scelto, in ultima analisi, di testimoniare la sua divinità col suo sangue, e non avesse annunciato ai suoi discepoli persecuzioni e martirio. Riusciamo ad immaginare un Concilio, oggigiorno, in cui Benedetto XVI, per non litigare col mondo, rifiutasse di condannare clonazione, aborto e manipolazione genetica? E oggi, che il papa lotta come un leone a difesa dell’uomo, dal concepimento sino alla morte naturale, possiamo ancora sottoscrivere la celebre frase di Paolo VI secondo la quale “la religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata (al Concilio ndr) con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”, senza che ciò generasse un “scontro, una lotta, un anatema”, ma al contrario una “simpatia immensa”? O non è piuttosto sempre più chiaro che l’uomo che si fa Dio è la perfetta antitesi del Dio che si fa uomo, e che lungi dal rappresentare un vero umanesimo, l’umanesimo ateo contemporaneo finisce per disprezzare l’uomo, riducendolo ad una scimmia, ad un “numero uscito alla roulette”, ad un oggetto manipolabile?

Messa in luce questa mentalità di fondo presente in alcuni passaggi del Concilio, proporrei un’altra considerazione. Forse proprio la volontà di non urtare, di essere più “pastorali”, di non utilizzare la chiarezza lapidaria e sintetica del concilio di Trento, ha determinato la presenza in alcuni documenti conciliari di concetti non sempre chiari, ambigui, che lasciano spazio a interpretazioni divergenti. Prendiamo ad esempio il documento sull’ecumenismo, l’Unitatis Redintegratio. In esso si ripete più volte il dogma cattolico per il quale solo la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo; si insiste sovente sulle divergenze dottrinali tra cattolici, ad esempio, e protestanti; si condanna come “alieno dall’ecumenismo” il “falso irenismo”, in linea dunque con il magistero precedente. Ma poi, nell’illustrare i metodi del dialogo, si lascia spazio, ad esempio, alla preghiera comune, tra cattolici e membri di altre confessioni: “nei congressi ecumenici è lecito, anzi desiderabile, che i cattolici si associno nella preghiera coi fratelli separati”.

 Ma questo non genera confusione, indifferentismo, mentalità sincretista? Non porta i fedeli a dimenticare la realtà, e cioè l’importanza, nella Chiesa, della comunione con Roma e del primato petrino? I padri conciliari continuavano: “Tuttavia la comunicazione nelle cose sacre non la si deve considerare come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell’unità dei cristiani… La significazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione. La necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo di agire…decida prudentemente l’autorità del luogo…”. Ma allora pregare insieme a persone di fede diversa è un atto doveroso, o qualcosa di equivoco? Posizioni di questo genere, così poco chiare, hanno generato, nel post Concilio, una grande confusione, culminata, a mio modo di vedere, nei famosi incontri di Assisi del 1986.

Allora si arrivò a porre sugli altari delle chiese cattoliche statue di altre divinità o simulacri del Budda; sacerdoti cattolici si fecero pubblicamente iniziare a religioni animiste e i fedeli videro mescolarsi indifferentemente il nome di Cristo, “via, verità e vita”, con quello delle molteplici divinità fasulle, nella città di un grande santo, all’interno di chiese consacrate. L’effetto concreto fu il dilagare dell’indifferentismo, sintetizzabile in quell’espressione che divenne di moda sulla bocca di molti cattolici: “siamo tutti figli dello stesso Dio”.

Espressione vera, per carità, in ultima analisi, ma estremamente pericolosa se utilizzata per far credere che Cristo, Budda e Maometto siano la stessa identica cosa. Espressione che racchiude in sé un altro dramma del post Concilio: il progressivo venir meno nei cattolici della consapevolezza del dovere di annunciare Cristo a tutte le genti e delle responsabilità che il dono della fede comporta. Ad Assisi nel 1986 due cardinali preferirono non partecipare, intravedendo in quell’evento un grosso pericolo per la fede: il cardinal Giacomo Biffi e il cardinal Joseph Ratzinger, che in una recente prefazione ad un libro di Marcello Pera ha sottolineato come il dialogo sia possibile e doveroso tra persone, tra culture e popoli diversi, ma non tra diverse concezioni religiose e dottrinali.

Erano, i due cardinali, sulla stessa linea di papa Pio XI, che nella “Mortalium animos” aveva deprecato “congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere”, cattolici, eretici e rappresentanti di altre religioni, in nome di “una falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni”. Pregare insieme, pensava Pio XI, serve solo a creare confusione, a spingere al naturalismo e in ultima analisi all’ateismo pratico, delegittimando la Rivelazione e la Chiesa stessa. Un’ultima considerazione. La lettura del documento conciliare sulla liturgia permette qui di intravedere quello che a mio avviso fu un altro degli errori di quegli anni, cui il papa attuale sta piano piano ponendo rimedio, prima col motu proprio e poi restaurando la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio e altro ancora.

Da una parte si predicò il rinnovamento, insistendo fortemente su di esso, e generando la nascita di una serie incredibile di messe sperimentali in cui accadeva di tutto e durante le quali il celebrante diventava l’inventore sempre più fantasioso di nuove ritualità, sino alla nascita delle messe beat, o delle messe con le ballerine sull’altare; dall’altra si invitava a mantenere il latino, accanto ad un maggiore uso del volgare, e nel contempo si chiedeva di non introdurre “innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti”. Per quanto riguarda il canto, il concilio affermava che “la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana”, a cui riservare “il posto principale”; invitava contestualmente a tenere “in grande onore l’organo a canne…il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della Chiesa”.

Contemporaneamente, però, nella prassi, si lasciò che il latino scomparisse, e che del gregoriano e dell’organo non rimanesse traccia. In perfetta coerenza gli altari di un tempo vennero abbattuti, insieme alle balaustre e a tutto ciò che nella messa tradizionale serviva a sottolineare la sacralità della cerimonia e il suo carattere di rinnovazione del Sacrificio della Croce. Con esiti per nulla positivi. Rendersi conto di certi errori del passato, che esimi cardinali e papi riconobbero con grande umiltà di fronte all’esplosione del protestantesimo, permise alla Chiesa del Concilio di Trento di rinascere, dopo tempi onestamente bui. Non è giunto il momento, anche oggi, di qualche piccolo mea culpa, di una revisione, almeno, di questo ottimismo troppo mondano ed utopico? In verità l’ottimismo che, come cristiani, possiamo professare, è veramente immenso, ma ci viene dalla Resurrezione di Cristo, come fatto storico, non da altro. Dalla Sua morte, invece, dovremmo apprendere il realismo, cioè la consapevolezza dei nostri peccati e della necessità di convertirci e di convertirlo, non di vezzeggiarlo, il mondo.

Comunque la si pensi, in conclusione, mi sembra che buona parte della polemica sul Concilio e su Benedetto XVI stia qui: nella necessità di definire l’atteggiamento del cristiano dinanzi al mondo. Benedetto XVI ama il mondo, perché Cristo ha dato suo figlio per esso, ma lo richiama, lo incalza, lo sprona e lo infastidisce come si fa con un ronzino vecchio, stanco ed egoista; ama gli uomini di oggi, ma stigmatizza senza falsi scrupoli i mali contemporanei, alla luce della ragione e della fede, per il vero bene dell’umanità. Sa che il sale della fede non è dolce, e talora brucia, sulle nostre ferite, ma dà sapore alla vita. E lo fa tanto più con forza ed urgenza, quanto meno condivide l’idea che il mondo e la Chiesa stiano vivendo una “nuova primavera” e una “nuova Pentecoste”. In questo mi sembra che sia vero un certo suo distacco, una disillusione rispetto a certe illusioni dell’epoca conciliare

Agostino, santo e civilizzatore

Leggendo recentemente gli scritti e la vita di Agostino, mi sono reso conto di quanto la storia d’Europa debba al cristianesimo, in ogni senso. I santi, infatti, non sono, come si potrebbe pensare, uomini di Dio, di preghiera, di carità, e nulla più. Sono stati, in ogni tempo e in ogni paese, anche grandi civilizzatori; “umanisti” ben più straordinari dei filologi di età rinascimentale; personaggi storicamente ben più influenti degli Alessandro Magno, dei Cesare e dei Napoleone.

Checchè ne pensino i giudici di Strasburgo, non c’è quasi nulla di significativo, di duraturo, nella nostra storia, che non sia sorto all’ombra della croce: l’arte, le cattedrali, le scuole, gli ospedali d’Europa, l’idea di eguaglianza, di dignità umana…hanno origine e fondamento lì, in quell’uomo-Dio appeso ad un legno, segno di Speranza, di vittoria sulla morte e sul peccato, della Misericordia di Dio. Segno che ha suscitato imitatori potenti, uomini straordinari, santi insomma che sarebbe giusto non relegare solo all’interno degli studi teologici. Agostino, come dicevo, ne è una delle tante dimostrazioni.

Siamo nell’Africa romana del V secolo e il vescovo di Ippona parla ai suoi concittadini del Vangelo, e insegna loro un nuovo modo di vivere, di vedere i rapporti tra le persone, di pensare. Le ragazze africane si sposano a 12 o 13 anni, come è consuetudine anche nel resto dell’Impero? Agostino le invita a “riflettere bene”: “Non vi impegnate troppo presto”, dice loro. Sposatevi più tardi, più liberamente. Il matrimonio all’epoca è soprattutto questione dei genitori, e in specie dei padri? L’intervento dei genitori non è di diritto divino, spiega Agostino, altrimenti Adamo sarebbe stato presentato ad Eva da suo padre! Così si batte perché il matrimonio nasca dal mutuo consenso degli sposi, i veri ministri del sacramento. L’adulterio del maschio è tollerato, ritenuto del tutto normale, dalla legge e dall’opinione pubblica? Agostino si scaglia contro l’infedeltà degli uomini: “Le mogli si conservano caste e gli uomini non ne sono capaci?”, chiede con enfasi. E aggiunge: “Coloro che non intendono essere fedeli alle loro spose (e sono tanti) vorrebbero che io non parlassi di questo argomento. Ma io ne parlerò, che vi piaccia o no”.

I figli delle relazioni extraconiugali vengono spesso abbandonati e molti bambini esposti e lasciati morire? Agostino si batte contro l’aborto e contro ogni forma di abbandono degli infanti, ricordando che il matrimonio fedele garantisce anche nei confronti dei figli. Nella società del tempo esistono enormi differenze e ingiustizie sociali? Agostino invita alla giustizia, all’elemosina, a riconoscere il bisogno dei fratelli. Biasima duramente l’usura, e lo sfruttamento, rammentando che l’avidità non è mai sazia: “La coppa non basta mai, devono bere al fiume”.

Ricorda che la libertà del cristiano è “libertà dall’avere”, dal desiderio smodato di possedere beni materiali. I ricchi possiedono e sfruttano molti schiavi? Agostino si batte perché il matrimonio tra schiavi, ignorato dal diritto romano, sia riconosciuto, e gli schiavi abbiano finalmente diritto alla loro famiglia; condanna i padroni che approfittano sessualmente delle schiave, utilizzandole come oggetto di piacere e ricordando loro che si tratta di un peccato mortale dinnanzi a Dio. In uno dei suoi sermoni enumera i trattamenti iniqui cui gli schiavi sono sottoposti: descrive le botte, i ferri, i marchi sulla carne, protesta contro la disumanità della vendita degli schiavi, ricorda che nessun uomo è inferiore “per natura”, ed invita i cristiani ad affrancarli. Per incoraggiarli spiega addirittura, nelle prediche, quali sono le pratiche per l’affrancamento, reso più facile dagli imperatori cristiani: “Tu vuoi affrancare il tuo schiavo. Conducilo per mano in chiesa. Si fa silenzio. Viene letto il tuo atto di affrancamento oppure tu esprimi la tua intenzione in altro modo. Tu affermi di dare la libertà, perché si è dimostrato fedele in tutto nei tuoi confronti. Egli poi straccia l’atto d’acquisto”.

La gente della sua epoca si diverte nei circhi, coi giochi gladiatori, e batte le mani quando un uomo viene ucciso, quando un condannato viene sventrato dalle belve, quando un gladiatore si dimostra spietato? Agostino dice ai suoi fedeli che tutto ciò è immorale e disumano.

 I funerali pagani sono caratterizzati da sontuosi banchetti e da vivande versate di continuo sulla tomba dei defunti, per placarli e tenerli buoni? Agostino invita a pregare per i propri morti, che però non hanno alcun bisogno di essere ancora nutriti col cibo dei terrestri: si facciano i banchetti funebri per i poveri che muoiono di fame, piuttosto che gettare il cibo e le bevande sotto terra! Moltissime persone sono superstizione, ricorrono all’astrologia, come faceva anche lui da giovane, ai sortilegi, al malocchio? Agostino insegna a non credere che la libertà dell’uomo è schiacciata dal volere degli astri e dei maghi e a non ricorrere agli indovini: “Cosa vogliono sapere? Sempre la stessa cosa: in che giorno intraprendere un viaggio. Quando seminare? Mi sposerò entro l’anno? Sarò felice in amore? Vi viene detto se vincerete alle corse, se avete scommesso sul colore giusto, quanto tempo vi resta da vivere”, cosa fare quando “un cane o un sasso si mette tra voi due”, quando affrontare il mare e quando seminare. Non ci credete, intima Agostino, “è ridicolo regolare la propria vita in base agli almanacchi”. Ecco, così un santo insegna al suo popolo l’eguaglianza evangelica, la dignità umana, persino il giusto atteggiamento rispetto alla natura, alle stelle, alla libertà! Il Foglio 19 novembre

Quando Togliatti ordinò alla Iotti di abortire.

Ieri sera ad Otto Mezzo lo storico Pietro Melograni ha ricordato come il partito comunista ordinò a Togliatti di spingere la compagna Nilde Iotti ad abortire in una delle cliniche legate la PCI in cui si facevano gli aborti clandestini come “missione”.

Probabilmente , afferma Melograni, tutti gli interpreti di Stalin all’interno della segreteria del partito hanno ordinato a Togliatti di far abortire la Iotti…non bisognava far sapere che il compagno Togliatti aveva lasciato per sempre la moglie, Rita Montagnana, storica militante del partito, unendosi a una donna giovane e bella per godersi la vita”.

La notizia, pur non essendo affatto nuova, ha stupito molti, ma non certo chi ricorda che all’epoca il PCI sceglieva spesso persino con chi i suoi leader dovessero sposarsi.

Ma quello che è interessante è che la notizia ne richiama un’altra: le vicende di Villa Gina, la clinica privata di Mario Spallone, il medico personale e comunista di Togliatti. Riporto da un mio vecchio articolo sugli aborti clandestini:

Nel 2000 vi fu il caso della "clinica degli orrori" di Roma, Villa Gina, convenzionata con la Regione. In essa “i pezzi più grandi del feto venivano bruciati, mentre il resto veniva gettato nel water o nel lavabo”. I dottori della Villa pretendevano anche 8-10 milioni per aborto, “in contanti”; e il prezzo era alto perché si uccidevano anche bimbi di 6-7-8 mesi. "Cento casi circa ogni anno". Non tutte le interruzioni erano “volontarie”. Una donna, ad esempio, “era contraria, e quando arrivò in sala operatoria scoppiò a piangere gridando che non voleva abortire: Ilio Spallone (il medico, figlio del vecchio Spallone, ndr.) urlava e la colpiva sulle gambe, un altro la tratteneva, finchè l’anestesista non riuscì ad addormentarla…”.

Aborti clandestini e forzati, mentre a parole si teorizzava il femminismo e si parlava dell’emancipazione delle donne dalla opprimente morale cattolica…

Smemorie finiane

Due brevi riflessioni, tra storia e attualità. La prima: da tempo alcuni parlamentari che furono di AN si battono per il divorzio breve.

Tra costoro Maria Ida Germontani, i cui disegni di legge sono applauditi dall’associazione radicale per il divorzio breve. I dati sono questi: i divorzi crescono ogni anno e con essi le problematiche connesse all’equilibrato sviluppo psicologico di figli che possiedono un solo o più di due genitori. Quanto a quest’ultimi, secondo il presidente nazionale dell’Ami, l’associazione matrimonialisti italiani, “ogni anno in Italia si separano circa 160.000 persone e 100.000 sono i nuovi divorziati. "E` un fenomeno che riguarda per lo più operai, impiegati ed insegnanti. Le separazioni e i divorzi, dati gli obblighi economici e le spese che determinano, trasformano questi lavoratori in veri e propri ‘clochard’". Secondo l’Ami il 25% degli ospiti delle mense dei poveri sono separati e divorziati. Nell`80% dei casi si tratta di padri separati, obbligati a mantenere moglie e figli e a non avere più risorse per sopravvivere. Molti di questi dormono in auto e i più fortunati (circa 500.000) sono tornati ad essere ospiti delle loro famiglie d’origine ( 03/12/2009 – Apcom).

Di fronte a questo disastro non sarebbe meglio, piuttosto che facilitare ancora il divorzio, puntare su una rinascita del senso della famiglia, su una educazione alla famiglia che renda quantomeno meno frequenti certi drammi umani? In verità le battaglie della Germontani mi rammentano quanto racconta il vaticanista Benny Lay nel suo “Il mio Vaticano” (Rubettino). All’indomani della consultazione elettorale referendaria sul divorzio del 1974, l’ex ministro degli esteri e guardasigilli fascista Dino Grandi espresse a Benny Lay la sua soddisfazione per l’esito, spiegandogli che si era giunti finalmente a quello che anche lui e Mussolini avrebbero voluto, tanti anni prima: “Mussolini pretendeva che la Santa Sede, la quale aveva rafforzato la sua stretta neutralità dopo l’intervento dell’Italia in guerra, si schierasse a favore delle Potenze dell’Asse. A sua volta Hitler insisteva, con la sua nota stupidità, che l’Italia rompesse con la Santa Sede. A quel tempo…toccava a me provvedere alla redazione del nuovo Codice Civile. Ebbene, ricevetti ordini perentori da Mussolini di stendere gli articoli relativi al matrimonio in modo che fossero in contrasto all’articolo 34 del Concordato…Allora mi ribellai, mi ribellai per ragioni tattiche”, così che alla fine Mussolini disse: “questi preti mi hanno fregato. Forse tu hai ragione (a dire che non è questo il momento opportuno, ndr) ma la prima cosa che farò dopo la guerra sarà la denuncia del Concordato”.

Seconda riflessione: non molto tempo fa Gianfranco Fini ebbe a spiegare che la Chiesa non aveva fatto abbastanza contro le leggi razziali del 1938. Una accusa singolare, soprattutto provenendo da chi si era per tanti anni ispirato a Mussolini, cioè all’autore delle leggi razziali. Ancora più singolare vista l’idea di Fini, ripetuta più volte, sulla necessità che la Chiesa non invada spazi che non le appartengono. Recentemente è uscito il diario di Claretta Petacci, “Mussolini segreto”, a cura di Mauro Suttora (Rizzoli). Ne consiglio la lettura al presidente della Camera. Potrà trovarci ad esempio queste frasi: “8 ottobre 1938. Mussolini è indignato con Pio XI, che ha dichiarato ‘spiritualmente siamo tutti semiti’ e chiede di riconoscere la validità dei matrimoni religiosi misti tra ebrei e cattolici. ‘Tu non sai il male che fa questo papa alla Chiesa. Mai papa fu tanto nefasto alla religione come questo. Ci sono cattolici profondi che lo ripudiano. Ha perduto quasi tutto il mondo. La Germania completamente…E lui fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto’. ‘Adesso sta facendo una campagna contraria per questa cosa dei matrimoni. Vorrei vedere che un italiano si sposasse con un negro…Lui dia pure il permesso, io non darò mai il consenso…Ha scontentato tutti i cattolici, fa discorsi cattivi e sciocchi. Quello dice: ‘Compiangere gli ebrei’, e dice: ‘Io mi sento simile a loro’… È il colmo’… 10 novembre 1938. Il governo approva il decreto legge sulla razza che entrerà in vigore una settimana dopo. Benito ne parla a Claretta. ‘Oggi abbiamo trattato la questione degli ebrei. Certamente sua Santità solleverà delle proteste, perché non riconosceremo i matrimoni misti. Se la Chiesa vorrà farne, faccia pure’ 16 novembre 1938. Nuovo sfogo contro Pio XI. ‘Ah no! Qui il Vaticano vuole la rottura. Ed io romperò, se continuano così. Troncherò ogni rapporto, torno indietro, distruggo il patto. Sono dei miserabili ipocriti. Ho proibito i matrimoni misti, e il papa mi chiede di far sposare un italiano con una negra…’ ”.

Per la storia: il Mussolini socialista, prima di divenire il duce, spiegava un giorno sì ed uno no che la Chiesa era contro la scienza: scrisse infiniti articoli su Galilei e Giordano Bruno, e si dilettò nel confermare il materialismo di Marx alla luce di Darwin in un articolo intitolato “Centenario darwiniano”. Mussolini si riteneva molto scientifico, molto “avanti” diremmo oggi. Infatti volle che il Manifesto della Razza del 1938 avesse il crisma della “scienza”: fu firmato non dai “pipistrelli” che hanno paura della scienza, dalle “pallide ombre del Medioevo”, come il giovane Benito chiamava i sacerdoti, ma da dieci scienziati-scientisti, tra i più “in” dell’epoca: antropologi, medici e zoologi. (Il Foglio, 28/1/2010)