VERITÀ POLITICAMENTE SCORRETTE … ma eterne

Beato Angelico

Rendo partecipi i lettori della riflessione che Padre Livio Fanzaga ha proposto oggi agli ascoltatori al termine del commento alla stampa del giorno. Essa tiene conto dei messaggi di alcuni Vescovi che in questi giorni si sono pronunciati sul terremoto che ci ha colpiti tutti.

 

LA VITA NON FINISCE CON LA MORTE

Dinanzi allo spettacolo terrificante del terremoto Leggi tutto “VERITÀ POLITICAMENTE SCORRETTE … ma eterne”

Separarmi o no?

Il Movimento per la Vita di Trento promuove, per venerdì 25 novembre alle ore 20.30 presso l’istituto Salesiani (entrata con parcheggio da via Brigata Aqui) una conferenza dal titolo: "Separarmi o no?".

La serata vedrà come relatori:

Gregorio Pezzato, consulente familiare di coppia, perfezionato in Sessuologia, che indagherà il tema: "Io cosa posso fare per me… e cosa posso fare per la mia coppia"

Massimiliano Fiorin, avvocato, Presidente della Camera Civile di Bologna, che si soffermerà sulla "Cultura del divorzio"

L’incontro è aperto a tutta la cittadinanza.

In Romania, divorzi low-cost

di Mario Palmaro

Basta prendere un aereo per la Romania e spendere 1500 euro. La coppia stipula un contratto di affitto di tre mesi, che serve per ottenere la residenza, e a quel punto avere il certificato di divorzio dal tribunale rumeno è un gioco da ragazzi.

E’ il divorzio “low cost”, cui anche le coppie italiane possono accedere sfruttando le norme europee, che rendono il documento valido in tutti i Paesi che aderiscono all’Unione. Ovviamente la stampa laica e illuminata, Corrierone in testa, gongola: è tutto un elogio per le magnifiche sorti e progressive del divorzio rapido nella terra del Conte Dracula. Ed è insieme un grido di dolore per i tempi “lunghissimi” che invece tocca attendere in Italia per disfare un matrimonio. Perché un Paese è tanto più civile quanto più in fretta riesce a cancellare il vincolo matrimoniale.

Inutile stupirsi di un simile tracollo mentale delle nostre elite culturali: decenni di società divorzista hanno instillato l’idea che il matrimonio sia una burletta, con il risultato che oggi è indubbiamente più facile “licenziare” la moglie o il marito, piuttosto che un proprio dipendente. Con il risultato che il contratto di lavoro dipendente è un vincolo morale e giuridico più forte del matrimonio. La follia al potere.

Ma la vicenda dei divorzi super veloci dice però anche dell’altro: induce a riflettere, prima che sia troppo tardi, sulla tragica debacle della sovranità nazionale che i meccanismi perversi dell’Unione Europea sta determinando nella più totale indifferenza dei cittadini. Spesso l’opinione pubblica si accapiglia intorno alle scelte del parlamento, alle leggi da varare, alle decisioni del governo di turno, nella fiducia un po’ ingenua che poi sia davvero l’Italia a darsi delle leggi e a farle – più o meno – rispettare. Ma se una coppia può, con un viaggetto in Transilvania e una delega a un avvocato, ottenere la distruzione giuridica del matrimonio aggirando allegramente le norme in vigore in Italia, costringendo il nostro Paese a digerire che questo atto abbia piena dignità giuridica; beh, tutto questo significa una sola cosa: e cioè che la sovranità nazionale è morta e sepolta.

Ovviamente, le implicazioni di questa deriva sovrannazionale sono molteplici, e toccano i più diversi profili giuridici: ad esempio, la nostra Corte costituzionale rischia di essere contraddetta e ridimensionata dai pronunciamenti della Corte di Giustizia europea. E l’interpretazione dei nostri principi costituzionali potrà essere piegata nella direzione ritenuta più coerente con le istanze politiche e ideologiche della vecchia e disperata Europa. In questo modo, i temi eticamente sensibili – dall’aborto all’eutanasia, dalla fecondazione artificiale al testamento biologico, dalle unioni di fatto all’adozione delle coppie gay – verranno surrettiziamente sottratti alle decisioni dei parlamenti nazionali, e ridefinite dagli euro burocrati che decidono in nome del popolo senza aver ricevuto alcun mandato elettorale.

Vero è che, sul piano formale, gli stati nazionali hanno conservato precise prerogative. Ma sotto il profilo sostanziale le cose sembrano ben diverse. E ogni divieto contenuto nelle leggi in vigore potrebbe a questo punto essere aggirato con un viaggetto all’estero o con una sentenza creativa. Così, ognuna delle nostre nazioni rischia di essere – è il caso di dirlo – vampirizzata dall’Unione Europea. Però, bisogna ammetterlo, in modo rapido e indolore, come si conviene alle nazioni davvero “civili”.

da www.labussolaquotidiana.it

19-10-2011

La fabbrica dei divorzi

di Massimiliano Fiorin

E poi dice che uno si butta coi preti. La battuta di Giuliano Ferrara non ricalca esattamente quella di Totò, e non poteva essere altrimenti. Il principe De Curtis, infatti, non si prese mai troppo bene con il mondo cattolico, visto che ai suoi tempi le questioni massoniche, ma soprattutto quelle matrimoniali, venivano ancora prese sul serio. Proprio per questo, l’insofferenza dell’Elefantino si adatta assai bene al caso che mi riguarda.
La prima recensione al mio saggio sul divorzio in Italia l’ho ricevuta su Famiglia Cristiana. Nulla di strano, visto che l’editore è lo stesso. Tre pagine intere con il titolo del libro – La Fabbrica dei Divorzi – citato persino in copertina. L’articolo iniziava così: “Un libro che farà discutere molto”. Quando lo lessi, benché fossi sinceramente grato alle Edizioni Paoline, rimasi alquanto scettico, perché ero sicuro che non avrei trovato attenzione al di fuori di quel ristretto circuito culturale.

Di cosa sia diventato il divorzio oggi, la società secolare non ha affatto voglia di discutere. Anzi, persino nel mondo cattolico è palpabile una certa riluttanza nel riproporre la questione. Certo, sussiste ancora l’eroica fermezza di alcuni vescovi, specialmente quelli più vicini a Benedetto XVI. Esistono anche numerosi parroci che riescono ancora a far risplendere barlumi di autentica vita cristiana, tra le famiglie delle loro comunità. Ma in molte altre diocesi e parrocchie – forse la maggioranza – sembrano persino compiaciuti del fatto di “essersi attestati su nuove posizioni”, come recitavano i bollettini di guerra ai tempi dell’Eiar, per non fare capire che le nostre truppe erano state sopraffatte.
In effetti, può sembrare che oggi non abbia più senso continuare a parlare di divorzio, visto che è venuto meno il senso stesso del matrimonio. Forse faremmo meglio a interrogarci su come organizzare l’imminente società post-coniugale.
I più recenti dati Istat ci dicono che in Italia ci si sposa sempre meno, e i figli nati al di fuori di unioni regolari sono già attorno al 20% del totale. L’accelerazione del fenomeno è stata fortissima a partire dall’inizio del nuovo secolo, e le proiezioni ci dicono che nel 2020 i figli nati da genitori non sposati potrebbero essere uno su due. In breve tempo, l’Italia potrebbe anche colmare il ritardo – per così dire – che ancora la divide dal nord Europa o dal Regno Unito, dove già si parla del 75% delle nascite fuori dal matrimonio.

Anche nel nostro Paese, con qualche residua differenza tra nord e sud, è venuto meno qualsiasi segno di differenziazione sociale tra l’essere o meno sposati. Fino a vent’anni fa era ancora diffusa l’idea dei figli come esito di un progetto di vita che partiva col matrimonio. Ma poi, a partire dagli anni novanta si sono rapidamente invertiti i termini. Dapprima si iniziò a sposarsi quando già erano venuti i figli, quasi a voler coronare il percorso compiuto. Ma anche questa fase è stata ormai superata. I paggetti e le damigelle che assistono felici al matrimonio di mamma e papà sono diventati un reperto vintage, come le voluminose videocassette che ce ne tramandano l’immagine. Oggi non ci si sposa nemmeno più, e i figli rimangono attestati sul tasso demografico dell’1,1 %, il più basso del mondo assieme a quello della Spagna. Se non cambia il trend, il popolo italiano in quanto tale si sta avviando a un’estinzione che non si era verificata in questi termini nemmeno ai tempi delle invasioni barbariche.

Del resto, per certi versi era prevedibile che sarebbe andata a finire così. Joseph Ratzinger (e poi dice che uno si butta coi preti) in alcuni suoi scritti lo aveva previsto con largo anticipo. La riforma protestante, che nel XVI secolo reintrodusse il divorzio nell’esperienza giuridica europea, in fondo non intendeva fare altro che tornare al passato, fino ai tempi di Gesù, quando il ripudio era ammesso dalla legge mosaica come rimedio “alla durezza del cuore dell’uomo”. Invece, quel che si è introdotto in tutto l’Occidente negli ultimi quarant’anni, di pari passo con la rivoluzione sessuale, è stato qualcosa di essenzialmente diverso.

Il primo esempio moderno di no-fault divorce, divorzio senza colpa, è stato introdotto in California nel 1970, sotto il governatorato di Ronald Reagan. Fu la prima volta in assoluto che, in uno Stato moderno, divorziare diventò un diritto soggettivo insindacabile di ciascuno dei coniugi. E’ innegabile che, secondo lo spirito del tempo, avrebbe dovuto trattarsi in particolare di un diritto femminile. Nel mondo nuovo la donna avrebbe dovuto vedersi garantiti gli strumenti legali per liberarsi dalla dipendenza dal maschio. L’aborto fu solo il passo successivo, tanto che la famosa sentenza Roe Vs. Wade è del 1973.
Basta uno sguardo alle date per capire quanto fosse falsa la vulgata laicista sul “ritardo civile” che il nostro Paese avrebbe attraversato in quegli anni, a causa della presenza del Vaticano. La legge Fortuna sul divorzio è infatti anch’essa del 1970, mentre la grande riforma del diritto di famiglia è del 1975. Tra l’altro, per la legge italiana, separazione e divorzio dovrebbero tuttora rappresentare rimedi estremi per le crisi coniugali altrimenti irrisolvibili, e non un diritto soggettivo.
Tuttavia, fin dal principio, di fatto i Tribunali non hanno mai preteso che venissero dichiarate le vere ragioni delle rotture coniugali, accontentandosi di una generica affermazione – anche unilaterale – sulla “incompatibilità di carattere”. Ancora oggi, questa frase che non vuol dire nulla è alla base di quattro separazioni su cinque, e tre divorzi su quattro.

Il millenario istituto del matrimonio è così divenuto, nel giro di un paio di decenni, un negozio giuridico senza più alcun valore né privato né pubblico. Un vero e proprio caso unico del diritto civile, che per il resto si regge ancora sull’elementare principio per cui pacta sunt servanda. In realtà, le promesse del giorno delle nozze – coabitazione, fedeltà, impegno a crescere i figli insieme – oggi non hanno più alcun valore, perché i coniugi non hanno più strumenti per chiederne conto all’altro. La gente comune ha iniziato a percepirlo, e a regolarsi di conseguenza.
E allora, che senso ha attardarsi ancora oggi a parlar male del divorzio in se stesso? Il motivo è che, per quanto nessuno lo dica apertamente, a quarant’anni dalla legge Fortuna la questione non è stata per nulla metabolizzata. Potrebbe sembrare il contrario, se si pensa che nei giorni scorsi a Milano si è persino tenuto il “Salone del Divorzio”, dove si organizzavano servizi vari per i single di ritorno, e si offrivano a prezzi stracciati esami fai-da-te per l’accertamento della paternità. Ma si tratta solo della facciata mediatica, che fornisce copertura al sistema giudiziario. C’è bisogno di lubrificante per impedire che la macchina si inceppi, e con essa il suo fatturato multimilionario.

Nella realtà quotidiana, invece, dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare immensi oceani di sofferenza, disagio psicologico, malessere economico. In fondo, si tratta solo di una nuova applicazione della banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Nella catena di montaggio del divorzio, così come avveniva in quella della shoah, ciascuno esegue il proprio compito obbedendo agli ordini ricevuti. Senza porsi il problema del significato e delle implicazioni di quello che fa.
Ogni anno, solo in Italia, i fatti di sangue direttamente connessi alle separazioni genitoriali sono centinaia. I morti sono più di cinquanta all’anno, con punte di oltre ottanta. E se andassimo a indagare anche sui suicidi, i numeri salirebbero vertiginosamente. E’ fuori discussione che i costi umani del divorzio siano molto più sanguinosi di quella prodotti dalla criminalità organizzata. E si tratta solo della punta dell’iceberg di un malessere sociale molto più radicato.

La crisi dell’istituto matrimoniale sta generando depressione, malesseri, e povertà collettiva, in maniera molto più ampia di quanto il mondo del diritto e della comunicazione siano disposti a ammettere.
Gli operatori di questi settori, infatti, lavorano tuttora sulla base delle coordinate culturali di quarant’anni fa. Vedono ancora, cioè, il divorzio come strumento di liberazione individuale, da contrapporre alla struttura irrimediabilmente autoritaria della famiglia patriarcale. Tant’è che, come è avvenuto lo scorso 10 maggio, quando capita che i delitti da divorzio siano due nello stesso giorno, e quindi il fenomeno si imponga alle cronache, l’unico abbozzo di spiegazione che i media riescono a proporre è quella della ancestrale violenza del maschio, che non riesce a tollerare le nuove libertà femminili.

June Carbone, giurista americana, dieci anni fa scrisse giustamente che il diritto di famiglia si sarebbe sempre più evoluto nel senso from partners to parents. In tutto il mondo occidentale, allo Stato gliene sarebbe fregato sempre meno di come i cittadini si comportavano in coppia, ma si sarebbe sempre più interessato di come facevano i genitori. Previsione quanto mai azzeccata, viste le migliaia di perizie che oggi – solo in Italia – vengono stilate riguardo all’idoneità genitoriale di chi si separa in Tribunale.
I costi e le conseguenze di questo modus operandi sono enormi, e contribuiscono all’impoverimento collettivo. Oltretutto, il sistema è ferocemente discriminatorio verso la figura e il ruolo maschile. Al di là della propaganda politicamente corretta, la guerra contro il padre pare essere la vera, persistente, finalità dell’intero sistema, nonché la sua fondamentale chiave interpetativa.

“Le donne si comportano come se avessero di fronte un nemico da distruggere… non è sufficiente l’affidamento dei figli, l’obiettivo vero è negare il partner come padre e come marito”, riconosceva Lia Cigarini, femminista storica e poi avvocato matrimonialista a Milano, in un’intervista del 2004. Da allora a oggi i successi in questo senso sono stati crescenti, grazie a un apparato compiacente che si può giovare non solo del pregiudizio degli operatori giudiziari, ma anche di vere e proprie leggi speciali.
In Italia sono stati gli operatori della Caritas (e poi dice che uno si butta coi preti) i primi a accorgersi del problema. Senza aspettarselo, hanno rilevato come stia crescendo sempre più la presenza dei padri separati tra i frequentatori delle loro mense e dormitori pubblici. E’ un esercito invisibile di disperati, che a causa dell’assegnazione della casa familiare alla moglie si sono ritrovati sulla strada nel giro di un mese, e con lo stipendio più che dimezzato.

Le false denunce di pedofilia e di violenza sessuale, poi, sono diventate un vero e proprio affare per chi non ha scrupoli a ricorrervi. Il criminologo Luca Steffenoni, nel suo recente saggio “Presunto Colpevole” (ChiareLettere), ha individuato che solo il 17 per cento delle denunce di questo tipo si trasformano poi in condanne, sulle quali peraltro ci sarebbe molto da discutere. Quattro denunce su cinque provengono proprio dall’ex coniuge o convivente. Alcuni magistrati hanno iniziato a riconoscere apertamente che buona parte di queste denunce è strumentale, e finalizzata a mettere nell’angolo la controparte nelle cause civili per la separazione.

Gli effetti della persecuzione del padre, ad opera del sistema divorzista, sono già esplosi. Hanno cominciato a indagarli negli Stati Uniti, nel corso degli anni ’80. Agli Americani, si sa, piacciono i numeri e le statistiche, mentre invece noi Europei i dati preferiamo interpretarli. Ma i crudi numeri raccolti dall’US Department of Health and Human Services ci dicono che l’assenza del padre dal nucleo familiare in cui si è cresciuti è un fattore che ricorre più di tutti gli altri, rispetto ai casi di abbandono scolastico, alcolismo e droga, gravidanze precoci, depressione, suicidi, disoccupazione cronica, fino a arrivare alle situazioni più gravi di criminalità. Eppure, nonostante il sangue che scorre, l’impoverimento collettivo, i malesseri gravi dei soggetti coinvolti, l’ondata di emarginazione, ancora non si riesce a porre la questione nei termini di una vera emergenza sociale. E nemmeno a avviare un serio dibattito sul significato che, ancora oggi, potrebbe avere l’istituto del matrimonio. Perché, in fondo, il vero motivo per cui oggi tante coppie divorziano – e i più giovani non si sposano nemmeno – è perché sono incoraggiati a farlo. Il sistema li favorisce in tutti i modi. Gli avvocati sanno bene che un numero crescente di separazioni, specie tra le coppie di età più avanzata, non nasce da una vera rottura del loro legame,ma ha motivazioni patrimoniali e tributarie. Serve a godere dei vantaggi non da poco di cui godono i single, specie rispetto al fisco, alla proprietà immobiliare, o anche ai servizi sociali riservati ai cosiddetti “nuclei monoparentali”.

Si può dire che il welfare state, per come lo abbiamo praticato in Italia negli ultimi quarant’anni, sia stato un potente alleato della crisi del matrimonio. Se i trentenni italiani di oggi non si sposano, ma nemmeno fanno scoppiare una nuova contestazione, forse è perché hanno troppe gatte da pelare. I loro genitori hanno costruito per se stessi un sistema che ha lasciato sulle loro spalle un operosissimo debito pubblico, e in proiezione un’ancora più spaventoso debito pensionistico. La generazione sessantottina oggi si sta godendo pensioni relativamente da favola, dopo avere accumulato risparmi, investimenti e proprietà immobiliari, che per i loro figli e nipoti rappresentano un autentico miraggio. Del resto, anche senza scomodare le statistiche, alzi la mano chi oggi ha meno di quarant’anni, e avrebbe mai potuto mettere su famiglia senza farsi aiutare dai suoi.

D’altra parte, i bamboccioni sono anche la prima generazione che è diventata adulta dopo avere conosciuto il divorzio di massa dei propri genitori. Anche questo probabilmente ha giocato un ruolo decisivo, sul piano psicologico, rispetto al loro attuale marriage strike.

E allora che fare? Negli USA alcuni stati federali hanno cominciato a pensare a risposte anche sul piano giuridico, introducendo la possibilità di scegliere il covenant marriage, con il quale ci si impegna fin da prima delle nozze a non divorziare se non per cause oggettive, e dopo il ricorso alla mediazione familiare. Ipotesi ancora impensabile, in buona parte d’Europa. Però, sarebbe già un bel passo avanti se almeno cominciassimo a liberarci dei luoghi comuni da anni ’70, sui quali ancora si reggono le separazioni facili e le famiglie allargate. Come quello per cui i figli minori sarebbero meno pregiudicati da un divorzio rapido “tra persone civili”, piuttosto che dal crescere assieme a genitori conflittuali, o non più innamorati. Oggi è più facile, specialmente per una madre, convincersi che sia la propria personale felicità a essere necessaria per quella dei figli, piuttosto che il contrario. Ma è un inganno puerile. Basterebbe dunque, tante volte, che gli operatori coinvolti si informassero di più sulle dinamiche delle crisi familiari, e agli interessati ogni tanto sapessero dire la verità. E magari anche qualche no.

Conferenza pubblica: “La fabbrica dei divorzi” con l’avv. Massimiliano Fiorin

Venerdì 30 aprile alle ore 20.30, presso la Sala Falconetto di palazzo Geremia (via Belenzani, Trento), si terrà la conferenza: "La fabbrica dei divorzi", con l’avvocato Massimiliano Fiorin, autore del libro "La fabblica dei divorzi. Il diritto contro la famiglia" (ed. San Paolo).

Il libro descrive la realtà italiana delle separazioni coniugali e dell’affidamento dei figli. Il libro si apre con l’esame di ciò che avviene ogni giorno nei tribunali e negli studi degli avvocati (dove la "fabbrica dei divorzi" si muove secondo una logica ferrea da catena di montaggio), e dai fatti raccontati emerge con chiarezza come sia opportuno che tutti gli operatori di questo settore – avvocati, magistrati e consulenti – rivedano i loro modi di pensare e di agire. Successivamente, il discorso viene esteso all’intera cultura occidentale, alla ricerca di come e dove sia iniziato tutto.
Su un piano più strettamente giuridico, si tenta poi di rompere il tabù dell’intangibilità della legge sul divorzio, indicando modelli alternativi – come il covenant marriage, sempre più diffuso negli Stati Uniti – per riscoprire in essi il significato più profondo del matrimonio.

Ami, il 25% dei separati e divorziati vive in miseria

Negli ultimi dieci anni in Italia si è sviluppata una nuova ed irresistibile piaga sociale causata dall`aumento esponenziale di separati e divorziati, che spesso vivono in miseria  a causa degli obblighi economici derivanti dalle separazioni e dai divorzi.

Secondo Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell`Ami, associazione matrimonialisti italiani, ogni anno in Italia si separano circa 160.000 persone e 100.000 sono i nuovi divorziati. "E`un fenomeno che riguarda per lo più operai, impiegati ed insegnanti. Le separazioni e i divorzi, dati gli obblighi economici e le spese che determinano, trasformano questi lavoratori in veri e propri ‘clochard’".

Secondo l’Ami il 25% degli ospiti delle mense dei poveri sono separati e divorziati. Nell`80% dei casi si tratta di padri separati, obbligati a mantenere moglie e figli e a non avere più risorse per sopravvivere. Molti di questi dormono in auto e i più fortunati (circa 500.000) sono tornati ad essere ospiti delle loro famiglie d`origine ( 03/12/2009 – Apcom).

La soluzione dell’Ami? ."Urge una nuova politica sociale – spiega Gassani – che restituisca dignità a quanti sono stati sfortunati nel loro matrimonio, che hanno perso tutto e che vivono da emarginati. Occorrono misure atte a garantire alloggi a questo popolo di nuovi poveri nonché aiuti economici. Anche costoro hanno diritto ad avere pari opportunità. Quando si perde la dignità si rischia di non essere nemmeno buoni genitori".

Come mai nessuno può permettersi neppure di pensare che urge, invece, una nuova cultura della famiglia, dopo i disastri radicali e libertari?

Benedetto XVI parla del divorzio.

Il divorzio, la convivenza e le famiglie allargate rovinano la vita di molti bambini, spesso "privati dell’appoggio dei genitori, vittime del malessere e dell’abbandono", e "che si sentono orfani non perchè figli senza genitori, ma perchè figli che ne hanno troppi".

Papa Benedetto XVI, parlando a un gruppo di vescovi brasiliani in visita ad limina, denuncia un "assedio alla famiglia" basata sul matrimonio tra uomo e donna e "la profonda incertezza" diffusa nel "mondo secolarizzato specialmente da quando le società occidentali hanno legalizzato il divorzio". Sin qui il papa. Proverò ad argomentare il perchè di questa posizione.

L’indissolubilità del matrimonio, il divorzio e i suoi effetti.

Discutere sull’indissolubilità del matrimonio, oggi, non è certo facile. Tutti abbiamo esperienza della fallibilità umana, della nostra miseria, della litigiosità che caratterizza certe coppie o certi momenti del rapporto coniugale. Nel passato pre-cristiano il divorzio esisteva, nella forma del ripudio dell’uomo nei confronti della donna. Il contrario non era possibile. In molti periodi i divorzi crescevano, e lo stato, gli imperatori, i re di turno, solitamente, cercavano di correre ai ripari, di mettere dei freni, di aumentare la dignità culturale, giuridica, rituale, del matrimonio. Perché tutti avevano consapevolezza che più il matrimonio tiene, più la società è stabile e serena.

Nell’antica Roma ad assistere al matrimonio di una giovane coppia vi era una donna sposata una volta sola, come testimone e auspicio. La cerimonia era lunga, solenne, per sottolineare l’importanza di ciò che stava avvenendo. Questo significa che nonostante la duritia cordis di cui parla Gesù, riferendosi al ripudio concesso nell’Antico Testamento, vigeva l’idea che l’unione stabile e fedele fosse il meglio per tutti.

Col cristianesimo si afferma il matrimonio monogamico indissolubile, che è anche la consacrazione concreta della pari dignità tra uomo e donna. L’uomo non può più ripudiare la propria sposa, ma neppure la donna può sciogliere il vincolo matrimoniale assunto liberamente, in presenza di testimoni umani e di Dio stesso. L’uomo e la donna diventano veramente, almeno nell’ideale, complementari, “un solo corpo e una sola carne”. Il vincolo che li lega, li unisce tra loro, ed è garante della loro responsabilità verso figli e la comunità. Così, il divorzio, per secoli, non è neppure contemplabile come istituto pubblico. Certo, ci sono delle separazioni, ci sono famiglie che si rompono, e famiglie irregolari, ma comunque la separazione è sempre un’extrema ratio che non cancella del tutto il matrimonio precedente.

Così sino ad Enrico VIII prima e Napoleone poi: costoro sono i primi a legalizzare il divorzio nel loro paese, a ben vedere servendosene come di una nuova forma di ripudio, per sbarazzarsi della loro legittima consorte. Perché dunque per tanti secoli una simile contrarietà all’istituto del divorzio? Perché “in presenza di casi in cui una parte della realtà si svolge in difformità dai principi e dalle norme è socialmente meglio lasciare che questi casi si svolgano fuori della legalità, anziché modificare la legalità per ricomprendere quei casi”.

L’eccezione, che pure è prevedibile, non deve determinare la regola, perché i casi “sfortunati” non possono divenire la norma, neppure da un punto di vista ideale, se non si vuole indebolire l’istituto, la norma stessa. La legalità, ciò che è riconosciuto come bene, il dover essere, infatti, hanno una funzione essenziale nella vita dell’uomo: lo influenzano, lo educano, lo spingono ad assumersi le responsabilità con una certa consapevolezza. Sapere che il matrimonio è una scelta per la vita, porta certamente a darle il giusto peso, a prepararlo con grande attenzione, a viverlo, anche nei momenti di difficoltà, con quella capacità di sacrificio e di rinuncia che possono rimuovere ogni ostacolo e rilanciare l’amore tra due persone.

 E poi il matrimonio non è solamente l’esperienza romantica e sentimentale di due persone: permane anche quando l’amore viene meno: ci sono infatti dei figli, verso i quali gli sposi hanno un dovere e che hanno bisogno di due genitori, di due figure complementari e diverse. La famiglia è infatti la mirabile unione di età, generi, e ruoli diversi: è qui che si imparano il rapporto generazionale, la propria identità sessuale, la solidarietà, la rinuncia, lo stare con gli altri…

Per questo si può essere contrari alla legalizzazione del divorzio anche senza essere credenti, cattolici. Piero Ottone, direttore liberale e laico del Corriere della Sera, nel 1964 scriveva: “Se fossi vissuto sempre in Italia probabilmente sarei un divorzista. Ho invece trascorso una quindicina di anni in paesi nei quali vige il divorzio (sappiamo del resto che vige quasi ovunque). Sulla base di quel che ho visto e sentito, ho acquistato alcune convinzioni che cercherò di riassumere, e che sono, comunque, contrarie al divorzio…non perché contrasti con la morale cristiana, che rispetto, ma che non intendo prendere in considerazione (Ottone si schiererà per l’aborto, ndr) . Bensì perché lo ritengo nocivo, nel complesso, alla società… Il divorzio ha il vantaggio di riparare l’errore di un matrimonio sbagliato e permette di ricominciare. D’accordo. Ma presenta anche uno svantaggio che è, a mio avviso, ancora maggiore. Esso uccide, o riduce fortemente, la volontà dei coniugi di compiere ogni possibile sforzo per salvare un matrimonio pericolante. Dobbiamo ricordare innanzitutto che ogni matrimonio, prima o dopo, corre qualche serio pericolo. Uomini e donne sono troppo diversi gli uni dagli altri per andare costantemente d’accordo…Che cosa succede in questo momento pressoché inevitabile in qualsiasi unione matrimoniale, se esiste la possibilità del divorzio? Quel che succede l’ho visto in Inghilterra, in Germania, in Scandinavia. La possibilità di uscire da una stanza in cui si sta scomodi genera un potente, quasi irresistibile desiderio di uscire, senza tentare di rendere quella stanza, quanto più possibile, comoda e abitabile. E ogni indebolimento della volontà dei coniugi è gravissimo, anzi fatale, perché, nei matrimoni davvero pericolanti, solo un grande sforzo da parte di entrambi, senza indecisioni e incertezze, può salvarli. Ne consegue che l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi…Là dove vige il divorzio è più facile, come in Scandinavia, la gente passa di matrimonio in divorzio tutta la vita. Vi risparmio la descrizione delle conseguenze per i figli, perché furono descritte già migliaia di volte…Sono convinto che l’assenza di divorzio non può salvare tutti i matrimoni, ma ne salva molti che altrimenti finirebbero male. Lo Stato, per la salvezza della famiglia, che è un istituto di importanza ovvia, e per la felicità della maggioranza dei cittadini, fa quindi bene a mio avviso a non permettere il divorzio, anche se questo sacrifica l’esistenza di una minoranza verso i quali tutti sentiamo, si capisce, una profonda comprensione” (citato in Gabrio Lombardi, Perché il referendum sul divorzio?, Ares, 1988).

Nel 1970 viene approvata la legge Fortuna-Baslini, che rende legale il divorzio in Italia. Il mondo cattolico, ormai da un po’ di anni diviso e confuso, non sa come reagire: la Dc non vuole inghippi, non desidera trovarsi in campo aperto, sotto il fuoco della contestazione di quegli anni. Meglio un profilo basso, per non esporsi e non rischiare di perdere potere. Anche la gerarchia ecclesiastica è spaccata: sono in molti gli ecclesiastici di alto e basso grado che non comprendono l’importanza di una battaglia culturale in nome del diritto naturale. Paolo VI stesso, secondo numerose testimonianze, ad esempio di Giulio Andreotti, non vorrebbe che si arrivasse ad uno scontro referendario sul tema.

Abbiamo poi una ampia schiera di cattolici famosi, come Franco Bassanini, Sabino Acquaviva, Pietro Scoppola, Paolo Prodi, Tiziano Treu, Giuseppe Alberigo, Raniero La Valle, Giancarlo Zizola, il rettore della cattolica Giuseppe Lazzati e fratel Carlo Carretto, che in occasione del referendum abrogativo del 1974 si schiereranno in favore del divorzio, sostenuti più o meno silenziosamente da prelati e religiosi, anche di rango. Il divorzio è dunque oggi un dogma intoccabile, ma oggi, dopo 38 anni dalla legge che lo rese legale, è ancora possibile sposare la posizione di Ottone? Certamente, e per farlo si può proporre un bilancio realistico dei fatti. Partirò dalla mia esperienza personale.

Nella mia non lunga carriera di insegnante, capita ormai sempre più spesso. Sono a udienza, si avvicina un genitore, e io mi alzo, gli preparo la sedia, con un po’ di premura, per accogliere il “poveretto”. Dovrò dirgli, penso dentro di me, tutta la verità, perché qua il caso è grave. Spesso, infatti, nicchio, tergiverso, copro anche gli alunni poco studiosi o indisciplinati. Ma quelli che hanno problemi gravi, di personalità, quelli “caratteriali”, mi sembra sia giusto aiutarli, affrontando il problema. Il genitore si siede, e prima che io inizi a spiegare gli strani comportamenti, le anomalie, le tristezze profonde del ragazzo/a, si affretta a dirmi: “Sono venuto io, mio marito (o mia moglie) non c’è, siamo divorziati…ma il ragazzo/a la ha presa bene, ha capito…”.

Ecco, mi è successo troppe volte, ormai, qualcosa di simile, perchè non abbia compreso come stanno le cose: nel 95% dei casi, a stare cauti, i problemi di un ragazzo/a, quelli seri, intendo, sono problemi familiari, dei genitori. I quali in verità, sotto sotto, lo sanno, ma non vogliono ammetterlo. Per questo si consolano dicendo che il figlio ha “capito”, che in fondo è una vicenda ormai diffusa, normale, lo fanno in tanti, come hanno spiegato loro giornali, tv, psicologi e avvocati…Però, quei ragazzi, o ragazze, che magari hanno l’anoressia, un comportamento che sembra schizofrenico, o che addirittura si feriscono e si tagliano sulle braccia o in altre parti del corpo, in verità sono inquieti o apatici, insomma tristi, tristi, talora sino al suicidio. Non hanno “capito” proprio nulla, perché nessuno si rassegna, soprattutto da giovanissimo, a perdere l’affetto di coloro che lo hanno generato, cullato, accudito.

Chi insegna questo lo sa benissimo per esperienza: i casi difficili aumentano sempre di più, proporzionalmente all’aumentare dei divorzi, che, come era prevedibile, crescono di anno in anno (contemporaneamente al diminuire dei matrimoni): il 2006 è stato l’anno dei record nei divorzi, che sono cresciuti del 25%.

 Nel 1975 i divorzi nel Belpaese erano 10.618, nel 1995 erano 27.038, nel 1998 erano 33.510, nel 2002 40.051, nel 2005 47.036 e nel 2006 61.153! Ogni anno che passa sempre più persone stabiliscono di non essere capaci di stare insieme, di condividere lo stesso tetto, di portare avanti uno stesso progetto, di allevare i figli del loro amore. Succede così che negli Usa un terzo dei minori abbia un solo genitore, mentre in Europa del nord, Gran Bretagna e Germania, è un quinto dei figli a non godere del padre o della madre. Senza contare che tra coloro che hanno entrambi i genitori, sempre più spesso uno dei due è semplicemente adottivo. Il divorzio è dunque oggi in Italia una vera emergenza, un’ ecatombe.

Insegnare, ci diciamo spesso tra di noi, diventa sempre più impegnativo e stressante: sempre di più molti ragazzi non sanno concentrarsi, non riescono a stare fermi, non sopportano un minimo di disciplina. Indisciplinati lo diventano, anzitutto, nella testa, piena, purtroppo, di paure, di ansie, di turbamenti, respirati in casa, in famiglia, vivendo accanto a due genitori conflittuali, o passando da una casa all’altra, dalla mamma, alla nonna, al padre, con l’aggiunta, quando va ancora peggio, di nuove figure, nuovi “padri” o “madri”, cioè, secondo un linguaggio antico e ben chiaro, “patrigni” e “matrigne”! E poi, quando succede il patatrac, quando un ragazzo si uccide, quando fugge di casa, quando finisce nella droga, ecco allora che si cercano mille scuse. Sarà questo, sarà quello…

Eppure, anche quando è chiaro che l’unica vera causa è la disgregazione familiare, è la mancanza di amore in cui questi ragazzi sono cresciuti, c’è sempre qualcuno che si affretta a negarlo: no, non si può dire, il divorzio è intoccabile, un “diritto”, una “conquista di civiltà”! Guai solo ad affermare sottovoce che la rottura del vincolo coniugale è anzitutto fonte di infinito dolore e paura nei figli! Guai solo a sussurare che se i giovani esitano a mollare le ancore, se non vogliono affrontare la vita in due, se hanno paura di sposarsi e di fare dei figli, è perché, a loro volta, hanno vissuto sulla loro carne l’insicurezza, l’instabilità, il fallimento dell’amore dei loro genitori.

Come insegnante, questa è la mia esperienza, sempre più triste, e questa anche l’idea che si sono fatti molti colleghi, magari i miei stessi professori di un tempo, incontrati per strada. “Sai, è sempre più dura…c’è qualcosa che non va, un buco nero, in molti giovani”, mi diceva recentemente una vecchia professoressa, che ricordo con simpatia. La stessa esperienza viene oggi raccontata in uno splendido libro, “La fabbrica dei divorzi” (san Paolo, 2008), da un avvocato civilista, Massimiliano Fiorin, del foro di Bologna.

Fiorin descrive con passione, competenza, e logica ferrea, il meccanismo tritacarne dell’individualismo odierno. Avrebbe potuto intitolare il suo libro anche “Come farsi del male”. Al centro della “fabbrica” infatti, c’è la convinzione post sessantottina, per cui il divorzio è un diritto, un bene in sé, un modo per cercare una via alternativa di realizzazione, quando la strada precedentemente imboccata si rivela scomoda e difficile. Il divorzio, spiega Fiorin, fu introdotto in Italia con gli stessi ragionamenti con cui fu legalizzato l’aborto: come estrema ratio, come soluzione a qualche caso difficilissimo, patologico, abnorme. Si può uccidere il figlio, sì, ma solo in determinate e rarissime circostanze. Così fu fatta passare all’opinione pubblica.

Lo stesso col divorzio. La legge entrò così a normare per la prima volta il diritto dei genitori sul figlio, e il diritto dei genitori, indipendentemente dai figli. I deboli, insomma, si videro togliere le tutele, che furono così regalate ai forti, agli adulti. Ma a poco a poco, in brevissimo tempo, l’aborto e il divorzio sono diventati fenomeni di massa, perdendo così il loro carattere di eccezionalità, e divenendo dei veri e propri diritti individuali. Se lo fanno tutti è normale, anzi giusto, sacrosanto, intoccabile…Questo è il ragionamento che c’è dietro alla deriva di fronte a cui oggi ci troviamo.

E come si sa, una volta preso il via, in discesa, il sasso rotola: nascono sempre nuove esigenze, nuovi egoismi, sempre sacralizzati e giustificati, e mai contrastati, e con essi, nuovi drammi. Si diffonde l’idea del figlio perfetto, e l’aborto diventa addirittura una pratica meritoria: si elimina, ma per non far soffrire. Si sgretolano le famiglie, e qualcuno pronto a seminare altra incertezza, altre paure, altri freni, inventa i pacs, i dico, i di-do-re, affinché già la partenza, il momento in cui si decide di stare insieme, sia accompagnata dalla sfiducia. Sì, facciamo una famiglia, ma per poco tempo, a scadenza… con tutti diritti, ma senza doveri…benché tutte le indagini sociologiche dimostrino che “le donne che hanno avuto esperienze di convivenza prematrimoniale, così come quelle che si sono sposate con rito civile e quelle che hanno avuto esperienze di divorzio in famiglia, sono risultate più portate a divorziare a loro volta” .

La realtà della fabbrica dei divorzi, spiega Fiorin, è che nel nostro paese vige una legge amplissima, che permette di fatto il no-fault-divorce, cioè il divorzio senza colpa: basta una genericissima “incompatibilità caratteriale”. Mentre in Inghilterra, ad esempio, la patria di Enrico VIII, che con le mogli non era tenero, e coi divorzi non era parco, “per ottenere il divorzio giudiziale occorre provare l’adulterio, l’abbandono o quantomeno un ‘comportamento irragionevole’ dell’altro coniuge, tale da rendere intollerabile la prosecuzione di un rapporto ormai compromesso”. In Italia invece, nota Fiorin, la magistratura concede il divorzio “senza alcuna indagine di merito, né alcun obbligo di mediazione familiare preventiva”.

Non vi è neppure, insomma, un vago “favor familiae”, ad indirizzare l’operato di mediatori familiari, avvocati e magistrati che si aggirano nella fabbrica. Al contrario, vige un indiscutibile “favor divortii”. Dal momento che il divorzio è diventato un diritto sacrosanto, insindacabile, e non più un dramma, un “oceano di dolore”, una estrema ratio, cosa serve capire, provare a rimediare, facilitare il dialogo tra le coppie, aiutarle in un percorso che potrebbe magari servire alla riappacificazione, al ricongiungimento?

Succede così che ci siano più agevolazioni, in molti casi, per i separati, che per le coppie sposate; accade che aiutare una coppia a ripensarci, da parte dell’avvocato, o di altri, sia visto come una ingerenza indebita e intollerabile; che vi siano persone che non comunicano neppure al coniuge il loro desiderio di abbandonare il tetto coniugale, e lasciano il lavoro sporco all’avvocato. Succede, ancora, che gli avvocati di parte, invece che guardare al bene comune, perfettamente calati nell’ottica di garanti del “diritto”, usino tutti i mezzi possibili per spaccare ancora di più, rivendicando questo e quello per il loro cliente, asetticamente considerato, invece che sforzarsi di favorire un possibile pacificazione…L’importante, per gli abitanti della fabbrica, è che si arrivi a “divorziare bene”, da persone civili, come se questo fosse possibile, umano. Persino l’adulterio, in quest’ottica, può diventare non una colpa, ma un diritto, e il marito che non tollera che i suoi figli vivano col nuovo amante della moglie, può trasformarsi, nelle perizie, nelle sentenze, nel parere dei servizi sociali, in un povero pazzo rozzo, antiquato e immaturo. Eppure qualcuno dovrebbe iniziare a pensarci, a quanti fatti di sangue, a quanti “oceani di sofferenza”, a quante tragedie familiari sono determinati dalle disgregazioni familiari. Forse, se almeno incominciassimo a mettere in dubbio la bellezza e la normalità del divorzio e a riconsiderare la realtà per ciò che è, sarebbe già un bel passo verso una società meno triste, più aperta all’amore, ai figli, alla vita, alla gioia vera, che non è mai l’egoistica affermazione, magari per via legale, di un proprio “diritto”.

La fabbrica dei divorzi, infatti, “uccide assai più della criminalità: in Italia gli episodi accertati di questo tipo sono mediamente più di cinquanta all’anno, con picchi di oltre ottanta, e le vittime sono un numero ancora maggiore. Secondo le statistiche di alcuni istituti nell’ultimo decennio i morti per la violenza connessa alle esigenze della logica divorzista, nel solo nostro paese, sono stati più di un migliaio. Dal 2000 al 2005 invece i suicidi secondo i rapporto dell’Eurispes, sono stati più di 250”.

Analogamente ricerche e studi governativi fatti in America, dove evidentemente è oggi finalmente possibile violare il tabù culturale del divorzio bello e leggero, dicono che “già negli anni ottanta il 63% dei suicidi in età giovanile si era verificato in famiglie col padre assente”, vuoi per colpa sua o per colpa del coniuge, e che i figli di un single soffrono “più frequentemente di disordini psichici”, ed hanno “una probabilità assai maggiore di cadere in abuso precoce di alcool e droghe”. “Una ricerca durata per oltre 34 mesi sui bambini dell’asilo ricoverati negli ospedali di New Orleans negli anni ottanta, quali pazienti del reparto di psichiatria, ha rivelato che nell’80% dei casi la patologia era originata dall’assenza (voluta o imposta, ndr) del padre”.

Ancora: “A detta delle statistiche elaborate dagli appositi dipartimenti del Ministero di Grazia e Giustizia, agli inizi degli anni novanta il 43% dei detenuti americani era infatti cresciuto in casa con un unico genitore, mentre un ulteriore 14% era vissuto senza entrambi i genitori. Un altro 14% aveva trascorso l’ultima parte dell’infanzia presso un collegio, un’agenzia o un altro istituto giovanile…In Texas, nel 1992, l’85% dei giovani carcerati era parimenti proveniente da fatherless homes. Così come lo era l’80% degli autori di stupri motivati da accessi di rabbia incontrollata. Nel Wiscosin, secondo una ricerca del locale dipartimento di giustizia condotta nel 1994, solo il 13% dei giovani delinquenti proveniva da famiglie i cui genitori biologici erano sposati, mentre il 33% aveva dei genitori divorziati o separati e il 44% aveva genitori mai sposati”.

Ebbene, di fronte a questi dati, a questa realtà, che spesso si tenta di nascondere, perché la tecnica degli struzzi è l’unica che permette di non dover ripensare il presunto e conclamato “diritto”, ciò che sconcerta maggiormente è che la cura proposta per la malattia, non essendo più essa concepita e riconosciuta come tale, serve solo a rafforzarla. La famiglia crolla? La legge si limiti a fotografare la realtà, perdendo qualsiasi funzione educativa, culturale, rinunciando a proporre modelli più umani e civili. Ecco quindi che i soliti noti, radicali e membri del Pd, propongono matrimoni più leggeri definiti in vari modi; ecco che i radicali costituiscono la loro ennesima associazione, per sostenere questa volta il “divorzio veloce”, per togliere qualsiasi spazio, tempo e voglia per un ripensamento, deprezzando così ancora un poco, di diritto e di fatto, l’istituto matrimoniale; ecco che persino i “cattolici” più aggiornati spiegano ai loro figli che la convivenza preliminare al matrimonio è assai positiva, quando sappiamo bene “che la convivenza prematrimoniale non è una garanzia di lunga durata dell’unione, anzi essa sembra favorirne lo scioglimento”, perché “secondo recenti ricerche nelle coppie non sposate si verificherebbe una specie di auto-selezione di soggetti meno impegnati nei confronti dell’istituzione, con una visione più individualistica del matrimonio e quindi più propensi ad una eventuale rottura coniugale” (A. Zanatta, Le nuove famiglie, il Mulino).

Concludo con un’altra statistica, che dovrebbe già di per sé far riflettere sul cammino intrapreso: diminuiscono i matrimoni, crescono i divorzi e aumentano contemporaneamente i singles. Nel 2208 si conta che in Italia vi siano 5 milioni e 977 mila single, o “unità unipersonali” come li chiama freddamente l’Istat nell’ultimo censimento, e la loro crescita non accenna ad arrestarsi. Un incremento percentuale del 98,8% dagli anni 70 agli anni 90, una crescita progressiva sino al 2001, 1,7 milioni in più nel 2007! E la situazione, in Svezia, Danimarca, Germania e in genere nei paesi meno cattolici, è ancora più tragica. Che l’egoismo dei cosiddetti “diritti civili” generasse solitudine e dolore era razionalmente prevedibile: ora è definitivamente provato. Al contrario, la “durezza” del dovere, l’intangibilità e la non negoziabilità del principio, per quanto possano spaventare, e sembrare, talvolta, crudeli, sono in realtà l’unico vero ausilio che è dato alla nostra debolezza, e fragilità: l’uomo che conosce bene a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, costruirà meglio la sua vita e il suo rapporto affettivo, e sarà sorretto dalla consapevolezza della responsabilità che si è assunto, nel momento, immancabile, in cui verrà assalito dallo sconforto, dalla propria fragilità e miseria, e dalla conflittualità col coniuge. Avviene così il contrario di ciò che solitamente siamo abituati a pensare: l’eliminazione del principio, in questo caso l’indissolubilità del matrimonio, lungi dal rappresentare un’opportunità in più, una prospettiva di maggior felicità, si rivela sovente, in un momento di debolezza, ciò che ci spinge a gettare la spugna e a dichiararci sconfitti, anche laddove si sarebbe potuto resistere, e vincere. Certo, ciò non toglie che nella vita possa succedere, al di là di qualsiasi colpa, che un matrimonio costruito con le migliori intenzioni e con la massima buona volontà possa fallire: nulla ci garantisce, su questa terra, dalla sofferenza e dall’errore. Ma in questi casi, che dovrebbero essere assai rari in una società consapevole dell’importanza del matrimonio, non dovrebbe essere la legge a trasformare l’eccezione in regola, perché la legge, come non è mai abbastanza ripetere, non ha il compito di normare i casi estremi, ma di riconoscere il bene comune, e possiede in se stessa una fortissima funzione pedagogica. Tanto è vero che l’introduzione di una legge e di una cultura divorzista, ha determinato l’aumentare vertiginoso e progressivo dei divorzi; tanto è vero che l’aumentare dei divorzi ha portato, ad esempio in Spagna, all’introduzione del divorzio veloce, il quale a sua volta ha contribuito a rendere ancora più fragile l’istituto matrimoniale, generando un aumento delle rotture tra coniugi, già dopo il primo anno di applicazione, del 300 % circa! P.S. Oggi ai numeri del divorzio nessuno sembra interessato, neanche per cercare di escogitare qualche piccolo aggiustamento, qualche strategia per porre quantomeno un freno al fenomeno. Prima del 1970 però, il fronte divorzista era assai più attento al fascino dei numeri: si disse e si continuò a ripetere, senza alcuna verità, che le persone coinvolte nelle separazioni erano ben 5 milioni! Il calcolo era palesemente forzato, comprendeva nonni e parenti dei separati sino alla quinta generazione, ma la menzogna ripetuta insistentemente servì ad aprire la strada: se sono così tante le persone coinvolte, in senso lato, si pensò, allora è giusto intervenire, legalizzando il fenomeno. Qualche anno dopo, come vedremo, la stessa strategia della menzogna e dei numeri gonfiati fu utilizzata per far passare l’idea che anche il ricorso all’aborto, essendo assai diffuso, era da considerarsi “normale”. (da: Scritti di un pro life, Fede & Cultura)

Dossier divorzio: idee, cifre, situazione attuale.

Introduzione: negli ultimi anni in Italia e in Europa i divorzi crescono enormemente di numero.

Più si procede più il tessuto familiare e sociale si disgrega. Nel 2006 i divorzi sono cresciuti del 25%. Nel 1975 i divorzi nel Belpaese erano 10.618, nel 1995 erano 27.038, nel 1998 erano 33.510, nel 2002 40.051, nel 2005 47.036 e nel 2006 61.153!

Che uno sia favorevole o meno all’istituto giuridico del divorzio, non si può non riconoscere che esso è sempre un dramma, una ferita, che non si rimargina, e che si ripercuote ogni anno, su migliaia e migliaia di figli. Abbiamo pensato di affrontare l’argomento con:

1) un brano del laico Piero Ottone;

2) una riflessione del filosofo cattolico Samek Lodovici;

3) un brano dal libro Il pianeta delle scimmie, dei mitici Gnocchi-Palmaro

4) alcuni brani del recente libro dell’avvocato familiarista Massimiliano Fiorin, La fabbrica dei divorzi (san Paolo)

 

1) Piero Ottone, direttore liberale e laico del Corriere della Sera, nel 1964 scriveva: “Se fossi vissuto sempre in Italia probabilmente sarei un divorzista. Ho invece trascorso una quindicina di anni in paesi nei quali vige il divorzio (sappiamo del resto che vige quasi ovunque). Sulla base di quel che ho visto e sentito, ho acquistato alcune convinzioni che cercherò di riassumere, e che sono, comunque, contrarie al divorzio…non perché contrasti con la morale cristiana, che rispetto, ma che non intendo prendere in considerazione (Ottone si schiererà per l’aborto, ndr) .

 Bensì perché lo ritengo nocivo, nel complesso, alla società… Il divorzio ha il vantaggio di riparare l’errore di un matrimonio sbagliato e permette di ricominciare. D’accordo. Ma presenta anche uno svantaggio che è, a mio avviso, ancora maggiore. Esso uccide, o riduce fortemente, la volontà dei coniugi di compiere ogni possibile sforzo per salvare un matrimonio pericolante. Dobbiamo ricordare innanzitutto che ogni matrimonio, prima o dopo, corre qualche serio pericolo. Uomini e donne sono troppo diversi gli uni dagli altri per andare costantemente d’accordo…Che cosa succede in questo momento pressoché inevitabile in qualsiasi unione matrimoniale, se esiste la possibilità del divorzio? Quel che succede l’ho visto in Inghilterra, in Germania, in Scandinavia. La possibilità di uscire da una stanza in cui si sta scomodi genera un potente, quasi irresistibile desiderio di uscire, senza tentare di rendere quella stanza, quanto più possibile, comoda e abitabile. E ogni indebolimento della volontà dei coniugi è gravissimo, anzi fatale, perché, nei matrimoni davvero pericolanti, solo un grande sforzo da parte di entrambi, senza indecisioni e incertezze, può salvarli. Ne consegue che l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini.

Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi…Là dove vige il divorzio è più facile, come in Scandinavia, la gente passa di matrimonio in divorzio tutta la vita. Vi risparmio la descrizione delle conseguenze per i figli, perché furono descritte già migliaia di volte…Sono convinto che l’assenza di divorzio non può salvare tutti i matrimoni, ma ne salva molti che altrimenti finirebbero male. Lo Stato, per la salvezza della famiglia, che è un istituto di importanza ovvia, e per la felicità della maggioranza dei cittadini, fa quindi bene a mio avviso a non permettere il divorzio, anche se questo sacrifica l’esistenza di una minoranza verso i quali tutti sentiamo, si capisce, una profonda comprensione” (citato in "Scritti di un pro life", Fede & Cultura, www.fedecultura.com).

 

2) “Famiglia e divorzio: se non è per sempre non è matrimonio”

Nel dibattito sul divorzio che si svolse trent’anni fa’ all’epoca del referendum, e nei discorsi su questo tema che si fanno tutt’oggi, si deve rilevare un grande equivoco, cioè l’erronea convinzione secondo cui solo i credenti, mediante la fede, possono sostenere l’indissolubilità del matrimonio. Quest’opinione è errata, perché l’indissolubilità del matrimonio religioso non è solo una verità di fede, bensì anche una verità che qualunque uomo può comprendere, anche se non è cristiano, anche se è ateo, mediante la sola ragione. Sembra paradossale, ma possiamo dimostrare che non lo è. Per comprenderlo bisogna riflettere sul contenuto del consenso che gli sposi esprimono nel momento del matrimonio.

Infatti il matrimonio nasce dal consenso libero degli sposi che si promettono: a) l’amore esclusivo, la donazione per tutta la vita, qualsiasi cosa accada; b) l’apertura alla generazione/educazione dei figli. Chi non promette queste due cose, o le promette, ma senza essere sincero, o le promette sotto costrizione, non è mai stato sposato. Perciò in casi simili è improprio dire che il matrimonio tra due persone è annullato, perché più propriamente esso è nullo fin dal principio, vale a dire non c’è mai stato. Quindi in questi casi non si verifica una rescissione del legame matrimoniale e dunque non c’è divorzio, bensì solo la presa di consapevolezza che tale legame non è mai sussistito.

Cerchiamo ora di chiarire un altro punto: due coniugi promettono di amarsi, in modo esclusivo, qualsiasi cosa accada, ma che cosa significa amare? Che cos’è l’amore a cui si impegnano vicendevolmente? Amare una persona non significa, almeno non primariamente, provare trasporto verso di essa, avvertirne il fascino, esserne emotivamente attratti, «stare bene insieme». L’amore è accompagnato sovente dal sentimento, dal fascino, dallo stare bene insieme, ma non coincide con il sentimento (che pure è importante, e che non si deve svalutare e che certamente è un elemento molto apprezzabile nella scelta del coniuge), col fascino e con lo stare bene insieme. Il greco e non cristiano Aristotele già nel IV sec. a.C. ha spiegato che l’amore è un atto della volontà, che amare significa volere il bene dell’altro (cfr. Retorica 2,4).

Dire «ti voglio bene» significa «io voglio il tuo bene», cioè io desidero il tuo bene, cerco di realizzare il tuo bene, di procurarlo, di favorirlo. Per es., anche se mio figlio mi disgusta per il suo comportamento, al punto che ne sono emotivamente respinto, io lo amo se cerco di favorire lo stesso il suo bene, la sua crescita, la sua istruzione, ecc. Non solo, ma amare una persona significa amarla nella sua identità, cioè amare il suo io, che è unico e irripetibile, amarla per ciò che è in modo irripetibile, non per delle caratteristiche che anche altre persone possono avere, come la simpatia, la bellezza, la ricchezza, la gradevolezza, la gentilezza, ecc. Amare veramente una persona non significa tendere verso la sua simpatia, bellezza, ricchezza, ecc.; chi ama la simpatia, la bellezza, la ricchezza di una persona, in realtà non sta amando quella persona, ma sta amando se stesso e, consapevolmente o inconsapevolmente, sta usando l’altra persona per il proprio bene: infatti lo scopo con cui coltiva la relazione con l’altra persona è il conseguimento del proprio piacere o della propria utilità, che sono prodotti dalla simpatia, bellezza, ricchezza, e gradevolezza dell’altra persona. È sempre il greco e non cristiano Aristotele (Etica Nicomachea 1156a 14-24) a dirlo.

Ciò significa che due persone sposate, avendo promesso di amarsi per tutta la vita, qualsiasi cosa accada, hanno promesso di cercare il bene del coniuge, di amarlo nella sua identità irripetibile ed unica. Se il contenuto della loro promessa non era questo, essi non sono mai stati sposati. Ebbene, se consideriamo che nel momento del consenso due sposi si sono impegnati liberamente e consapevolmente: a) ad amarsi (cioè a volere e cercare il bene dell’altro) in modo esclusivo, qualsiasi cosa accada; b) ad essere aperti alla vita; possiamo comprendere con la sola ragione, senza ricorrere alla fede, che il matrimonio è indissolubile. Infatti, i coniugi si sono presi l’impegno di volersi reciprocamente bene qualsiasi cosa accada, di donarsi all’altro, al suo io unico e irripetibile, alla sua identità personale.

Ora, le caratteristiche fisiche e psicologiche di un uomo, o il suo status sociale possono mutare: un uomo bello, simpatico ed estroverso, può diventare brutto, antipatico, e introverso; un uomo ricco e famoso può diventare povero, disonorato; ma l’identità personale di un uomo non può mutare: è lo stesso uomo quello che si vede nelle ecografie di concepito, nelle foto da neonato, da bambino, da adolescente, da adulto, da vecchio, anche se le sue caratteristiche fisiche fossero completamente cambiate, anche se da ricco, bello, potente, simpatico, ecc., fosse diventato povero, brutto e antipatico. Ma, allora, se gli sposi si sono impegnati ad amare per tutta la vita il coniuge, qualsiasi cosa accada, in ciò che costituisce la sua identità personale, visto che questa identità non muta mai, la loro promessa non può essere sciolta, qualsiasi cosa accada, dunque il matrimonio è indissolubile e il divorzio è un atto gravemente immorale. Si potrebbe obbiettare: quando tra due coniugi non c’è più il sentimento iniziale il matrimonio non sussiste più, perché il sentimento non si può produrre.

Rispondiamo: a parte il fatto che il sentimento lo si può in parte favorire (per es. cercando di vivere tutta la vita come dei fidanzati, che si fanno sorprese e regali, che escono alla sera, ecc.), comunque, come abbiamo già detto, nel consenso gli sposi non promettono di restare insieme finché provano uno slancio emotivo nei confronti del proprio sposo/a, bensì promettono di cercare il suo bene per tutta la vita. Con ciò possiamo anche comprendere perché la separazione, a certe condizioni, è moralmente ammissibile. Se si giunge ad una situazione in cui la stessa convivenza è diventata veramente insostenibile, i coniugi possono separarsi perché essi non hanno promesso di vivere insieme per tutta la vita, bensì hanno promesso di volere il bene dell’altro per tutta la vita, quindi possono separarsi se la convivenza provoca realmente del male ai coniugi; ma ciascuno dovrà continuare a cercare il bene dell’altro, perciò dovrà sempre mantenere la disponibilità a tornare a vivere insieme, dovrà cercare di restaurare il rapporto, cioè cercare di ripristinare le condizioni della convivenza, in quanto dalla convivenza sortisce per ciascuno degli sposi quel bene che è il mutuo aiuto, il sostegno e la collaborazione reciproca. L’esperienza insegna che con questa disposizione la ricomposizione non è un’utopia, ed esistono dei casi di ricongiungimento. Con ciò abbiamo ricostruito una prima motivazione dell’indissolubilità del matrimonio, che vale per qualsiasi matrimonio.

Ma se ne può indicare una seconda, che vale nel caso in cui dal matrimonio siano nati dei figli. È chiaro che il contesto propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un figlio è quello di una famiglia stabile e solida. Ebbene, il divorzio è una grave ingiustizia nei riguardi dei figli, li fa sempre soffrire molto, li ferisce sempre psicologicamente ed affettivamente (cfr. Wallerstein – Lewis – Blakeslee 2000). La ricercatrice Rebecca O’Neill ha rilevato che se il 40 % dei bambini inglesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75 % tra quelli che vivono con un solo genitore. Il 16 % dei bambini tra i 5 e 15 anni di età, che hanno un solo genitore, soffre di disturbi psichici, contro l’8 % dei loro coetanei che vivono con tutti e due i genitori.

Tali bambini, con un solo genitore, hanno una probabilità tre volte superiore di ottenere cattivi risultati a scuola e il doppio dei rischi di contrarre malattie psicosomatiche. Una ricerca di Bethke Elshtain del 1993 spiega inoltre che negli Usa 3 suicidi su 4 in età adolescenziale coinvolgono ragazzini che vivono con un solo genitore (per i dati che precedono cfr. Pesenti 2004, in bibliografia). In seguito, crescendo, la situazione non migliora. Infatti, all’inizio dell’età adulta i figli dei divorziati presi in esame, in un’importante ricerca, da Wallerstein e Blakeslee (cfr. Wallerstein – Blakeslee 1989), soffrivano per il 50 % di depressione e fornivano prestazioni professionali non all’altezza delle loro capacità.

Questi e altri studi mostrano come sia falso sostenere che quando i genitori non vanno d’accordo è meglio per i figli che essi divorzino: soltanto nelle famiglie dove i conflitti sono fortissimi il bambino può trarre beneficio dalla eliminazione del conflitto, ma (cfr. Amato – Booth 1997) tale tipo di conflittualità è rara, perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di divorziare, rimanessero insieme e affrontassero i loro problemi per cercare di risolverli. Dunque, visto che gli sposi si impegnano nel momento del matrimonio ad educare e a crescere i figli, visto che si sono presi questo impegno, o anche per il solo fatto di aver generato i figli, siccome col divorzio fanno soffrire i figli, essi compiono una grave ingiustizia nei loro riguardi, pertanto il divorzio è immorale. Ci sono poi dei dati interessanti che mostrano che sono molto più felici i coniugi che decidono di non divorziare, rispetto a quelli che decidono di farlo, e che il divorzio è tutt’altro che indolore, ed ha rilevanti ripercussioni penali, compresi molti omicidi. Infatti, il divorzio viene difeso come toccasana per riportare la felicità alle persone infelicemente sposate.

Ma, a parte il fatto che un fine buono (essere felici) non giustifica mezzi immorali (il divorzio), in realtà ricerche sociologiche americane (Waite 2000) mostrano che tra le persone che erano rimaste insieme, pur considerando infelice il loro matrimonio, cinque anni più tardi il 64% ha dichiarato che il loro matrimonio era poi diventato molto felice, mentre si dichiaravano felici solo il 19% di coloro che avevano divorziato e si erano risposati. Anche coloro che consideravano il proprio matrimonio molto infelice in 86 casi su 100 si dichiaravano felici cinque anni dopo, se erano rimasti insieme. Inoltre le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate, soffrono di depressione e stress 2,5 volte di più.

 I padri divorziati, poi, hanno percentuali di mortalità superiori alla norma del 70 % (cfr. sempre O’Neill). I separati, in generale, hanno maggiori probabilità degli sposati di cadere nell’alcolismo e nelle altre dipendenze, o di suicidarsi, di subire incidenti e ammalarsi di molti disturbi psichici. La percentuale dei decessi fra i divorziati è più del doppio rispetto agli uomini sposati e una volta e mezzo rispetto alle donne sposate (cfr. Hu – Goldman 1990, cit. in Willy 1992, p. 7). Perciò Willi afferma (Willy 1992, p. 10): “In molti casi, sulla base della mia esperienza terapeutica, se tra i partner ci sono dei conflitti devastanti non ritengo il divorzio un’idonea soluzione […]. Aspirare al divorzio, dunque, si rivela spesso un errore. E molte volte non solo non risolve i problemi, ma ne crea di nuovi”.

In Italia ci sono poi studi (dati dell’Associazione Ex) che smentiscono la visione del divorzio come una prassi indolore: dal gennaio 1994 all’aprile 2003 la cronaca ha registrato 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni o cessazioni di convivenze e su un campione di 46.096 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza analizzati, 39.919 (l’86,6%) ha avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale. È poi chiaro che la rottura del matrimonio contribuisce alla diffusione della povertà: se prima si era in due nella stessa casa, dopo il divorzio si è da soli in due case diverse. Due case, due affitti, due bollette del telefono elettricità, gas, ecc., e tante altre spese che adesso ognuno dei due ex coniugi deve sostenere in proprio, mentre prima sosteneva a metà. E poi ci sono naturalmente le salatissime spese per gli avvocati.

Lo confermano (cfr. ancora Pesenti 2004) le indagini della O’Neill: queste hanno rilevato che le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate e, come abbiamo già visto, i bambini che vivono con un solo genitore sono più poveri dei loro coetanei. A chi ritiene, come faceva Montaigne, che il divorzio favorisca la durata del matrimonio, perché i mariti amano di più le mogli nel timore di perderle, bisogna ribattere che chi sa di essere unito indissolubilmente cerca in tutti i modi di far andar bene il matrimonio; chi invece sa che il matrimonio si può sciogliere, si impegnerà di meno per assicurarne la riuscita (per esempio avrà meno scrupoli a tradire il coniuge), perché sa che tanto esso non è definitivo (il caso è analogo a quello di uno studente che studia in una scuola difficile, e che si impegna di meno se sa che i suoi genitori lo trasferiranno in una scuola facile per evitargli la bocciatura, nel caso in cui egli vada male). Un’ultima considerazione. Poiché il matrimonio è indissolubile è fondamentale un cammino accurato di preparazione ad esso, e non bisogna farsi scoraggiare dalla rappresentazione offerta dai media circa il matrimonio: non è vero che è impossibile restare insieme tutta la vita e che i matrimoni si sfasciano inesorabilmente. Ci sono moltissimi casi di matrimoni riusciti ed inossidabili, che non vengono però mai rappresentati, dove i problemi che sorgono vengono superati, e dove la fedeltà non è rigidità, perché l’amore ricomincia ogni giorno, e può essere creativamente inventato ogni giorno.

Di questo tipo di amore parla la nota poesia di Montale: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino./ Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede./ Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue.

Perciò il matrimonio non è il porto dell’amore o la sua morte, ma la sua scuola, in cui continuamente si scopre l’inesauribile ricchezza dello sposo: come dice Plutarco l’amore “non solo non va mai soggetto all’autunno, ma fiorisce anche tra i capelli bianchi e le rughe, e si prolunga fino alla morte e alla tomba”.

Giacomo Samek Lodovici

 Bibliografia minima Testi filosofici su amore, matrimonio e divorzio: G. Chalmeta, Etica applicata. L’ordine ideale della vita umana, Le Monnier 1997, pp. 121-144. T. Melendo Granados, Otto lezioni sull’amore umano, Ares 1998. J. Pieper, Sull’amore, Morcelliana 1974. G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero 2002, pp. 39-87, 101-105. K. Woytyla, Amore e responsabilità, Marietti 1968, specialmente pp. 84-89. Per i dati citati: AA.VV., Effects of Parental Divorce on Mental Health Throughout the Life Course, in “American Sociological Review”, 63 (1998), pp. 239-249. P.R. Amato – A. Booth, A Generation at Risk, Harvard University Press 1997. Y. Hu – N. Goldman, Mortality Differentials by Marital Status: An International Comparison, in “Demography”, 27, 2 (1990), pp. 233-50. L. Pesenti, Appello laico per la famiglia, in “Il Domenicale”, 6-03-2004, pp. 1-2. L.G. Waite – M. Gallagher, The Case for Marriage, Doubleday 2000. J. Wallerstein – J.M. Lewis – S. Blakeslee, The Unexpected Legacy of Divorce, Hyperion 2000. J. Willi, Cosa tiene insieme le coppie, Mondadori 1992. Alcuni di questi dati vengono ripresi in un testo italiano: C. Risè, Il padre. L’assente inaccettabile, San Paolo 2003, pp. 91-95, 134-136. Per i dati sugli omicidi e sulle ripercussioni penali: Associazione Ex, www.exonline.it/osserva.htm .

3) Mario Rossi è un astronauta italiano, spedito nello spazio il 10 ottobre del 1962. Rossi si risveglia dopo un lungo viaggio, sono trascorsi molti anni e si ritrova su un pianeta molto strano, nel quale gli abitanti hanno usi e costumi incredibilmente diversi dalla Terra. Solo dopo molte vicissitudini l’astronauta Rossi scoprirà, con sgomento, di essere atterrato in realtà proprio sulla Terra, trasformatasi in pochi decenni nel “pianeta delle scimmie”, dove gli uomini si sono involuti, rinnegando Dio e tutto ciò che di più bello e sacro essi avevano custodito per secoli.

E’ questa la trama del nuovo, provocatorio e inquietante, libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

A partire dal racconto del viaggio immaginario di Mario Rossi, Gnocchi e Palmaro tornano a parlarci dell’uomo e della donna, della Chiesa e della politica, del lavoro e della famiglia, sempre guidati dalla bussola della dottrina cattolica e dalla critica senza sconti alla modernità. Il tutto condito da una vena umoristica che accompagna ogni pagina e che culmina nell’ormai classico “test finale” per conseguire il “brevetto di astronauta cattolico”. Per gentile concessione dell’editore, proponiamo di seguito un capitolo del libro (da totustuus).

 NON TENGO FAMIGLIA Ovvero il suicidio della civiltà occidentale

Cosmonauta Mario Rossi a Pianeta Terra: Oggi sono entrato in un bar per farmi una birra, e ho incontrato un uomo simpatico che ha subito attaccato bottone con me. Siccome teneva in spalla due zainetti colorati, gli ho chiesto se per caso stesse partendo per la montagna. “No, no”, mi ha detto ridendo. “Sono gli zaini di mia figlia, che è salita a prendere una cosa da sua madre”. “Cioè da sua moglie” l’ho corretto io. “Dalla mia ex moglie – ha ridacchiato lui – perché siamo divorziati da quattro anni. La figlia sta con lei dal lunedì al venerdì. Poi, il sabato, io vado a prenderla a scuola, e allora lei viene con due zaini: uno con i libri e i quaderni, l’altro con la biancheria e il pigiama per dormire da me”. “Scusi – gli ho chiesto – ma la ragazzina non soffre di questa situazione?” Allora ha sgranato gli occhi e mi ha guardato con aria meravigliata: “Soffrire? Ma sta scherzando? Per lei è una cuccagna: io la porto sempre al luna park insieme con la mia attuale compagna e ci divertiamo un mondo. Così anche la mia ex nel week-end se la spassa un po’ con il suo uomo. Insomma: alla fine siamo tutti contenti così.”

Ma, nel dire queste parole, non rideva più. Qualcuno potrebbe pensare: vabbè, ma che esagerati, questi due! D’accordo che il nostro non sarà il migliore dei mondi possibili. Però, dipingerlo addirittura come il pianeta delle scimmie, come un posto degradato e imbarbarito, dove gli uomini si sono ridotti a vivere come degli animali, dove la virtù è un vago ricordo; beh, questa è davvero troppo grossa. In fondo, la modernità ci ha dato tante cose utili e belle, che una volta non c’erano. E poi: siamo così sicuri che “si stava meglio quando si stava peggio”, e che la società dei tempi andati fosse migliore di quella odierna? Nulla di nuovo sotto il sole: abbiamo qualche problema, né più né meno che i nostri antenati. Noi uomini del terzo millennio abbiamo qualche problema ma, alla fine, ce la caveremo anche questa volta. Obiezione di tal fatta non vanno assolutamente sottovalutate, perché rappresentano in maniera esemplare il succo della modernità: e cioè, convincere la gente che la storia dell’umanità è sempre evolutiva, che procede in ogni caso verso il progresso, e che la tradizione è una bubbola per gli ignoranti.

Così la gente comincia a pensare che quelli che ci hanno preceduto erano degli zotici, e noi siamo migliori di loro perché siamo “moderni”. Il tutto, corroborato dalle scintillanti conquiste della tecnologia e della scienza. In effetti, vivere nel terzo millennio ha degli indubbi vantaggi: si campa più a lungo, si gode di una salute in genere migliore, si hanno a disposizione cibo e vestiti in abbondanza, si vive in case riscaldate adeguatamente e addirittura rinfrescate e climatizzate.

 A noi queste comodità non dispiacciono, non facciamo la vita dei trappisti e usiamo l’automobile e perfino l’aereo (di linea). Però, c’è un piccolo problemino cui la gente sembra non prestare attenzione. Tutte queste cose magnifiche che il progresso ci ha messo a disposizione servono per migliorare il benessere, letteralmente “lo stare bene” dell’uomo. E non è cosa da poco, né da disprezzare. Ma tutte queste cose non danno la felicità. Nemmeno un granello di felicità. L’uomo è infatti una faccenda complicata, il frutto di una sapienza che solo Dio poteva dimostrare. Se io ho le scarpe bucate, e un vestito liso e consunto, ma ho una donna che mi ama e che mi aspetta a casa, sono felice. Se io ho le scarpe più belle del mondo, abiti firmati, e una Ferrari fiammante, ma la donna che amo mi ha piantato in asso, non sono felice. Sarà un esempio da Novella Tremila, ma rende benissimo il concetto: la modernità, con tutto il suo apparato di confort e di progresso, è impotente di fronte al mistero dell’animo umano e del suo inesauribile desiderio di felicità. Quando noi diciamo che questo posto meraviglioso in cui viviamo si sta trasformando nel “Pianeta delle scimmie”, intendiamo dire proprio questo: che nonostante tutte le ricchezze e le meraviglie di cui ci stiamo circondando, abbiamo imboccato da tempo la strada che porta alla riduzione in schiavitù dell’uomo. Al suo “imbestiamento”.

Siamo circondati di persone più ricche e più eleganti di un tempo; ma queste stesse persone hanno situazioni famigliari che sembrano Dresda dopo il bombardamento americano del ’45: un cumulo di tizzoni fumiganti tra i quali si aggirano alcuni disperati sopravvissuti. Nel maggio del 2008, l’Istituto di Politica Familiare (IPF) ha presentato al Parlamento europeo un rapporto sulla evoluzione della famiglia nel vecchio continente. Il quadro che se ne ricava è il seguente: un aborto ogni 27 secondi, un divorzio ogni 30 secondi. Quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1980.

L’aborto è – insieme al cancro – la principale causa di mortalità in Europa. L’evoluzione demografica dell’Europa vede una crescita di 14,2 milioni di persone tra il 2000 ed il 2007, ma di queste ben 12 milioni, cioè l’84%, sono immigrati. L’Italia ha crescita naturale negativa di -0,2 milioni, ma una immigrazione di 2,9 milioni di persone. Tre nuovi immigrati su cinque vanno in Spagna o in Italia. Le previsioni sono che, nonostante questa immissione di immigrati, dal 2025 la popolazione europea comincerà a scendere. La percentuale di giovani sta calando in maniera enorme. I giovani minori di 14 anni erano 94 milioni nel 1980, e sono 74 milioni nel 2007. Con una perdita netta di 20 milioni di giovani. Al contrario, la popolazione di età superiore ai 65 anni era di 57 milioni nel 1980 ed era di 80 milioni nel 2007. Bulgaria, Germania, Slovenia e Italia sono i paesi con il minor numero di giovani. Allo stesso tempo, Italia, Germania e Grecia sono i paesi con il maggior numero di anziani. Drammatica la situazione delle nuove nascite: nel 2007 le nascite sono inferiori di circa un milione (920.089) a quelle del 1982. In Europa, la fecondità è di 1,56 figli per donna, inferiore a quello di crescita zero che è di 2,1 figli per donna. In termini di confronto, negli Stati Uniti la fecondità è di 2,09 bimbi per donna. A causa dell’aborto si perde ogni anno in Europa una popolazione equivalente a quella di Lussemburgo, Malta, Slovenia e Cipro. Uno ogni cinque bambini concepiti, cioè il 20%, non vede la luce del giorno: delle 6.390.014 gravidanze del 2006, 1.167.683 sono terminate in un aborto.

Gli aborti di Francia, Regno Unito, Romania, Italia, Germania e Spagna rappresentano il 77% del totale. La Spagna da sola ha raddoppiato il numero di aborti tra il 1996 ed il 2006. I matrimoni sono in caduta vertiginosa: tra il 1980 ed il 2006 ci sono stati 737.752 matrimoni in meno. Gli europei si sposano poco e sempre più tardi. La media è di 31 anni per l’uomo e 29 per la donna. Uno ogni tre bambini nasce fuori del matrimonio. Ci sono più di un milione di divorzi all’anno, con una cadenza di un divorzio ogni trenta secondi. Dal 1996 al 2006 i divorzi sono stati circa 10,1 milioni, ed hanno coinvolto 15 milioni di bambini. Belgio, Lussemburgo e Spagna sono i paesi con il maggior numero in percentuale di divorzi. Per ogni due matrimoni c’è un divorzio. Le famiglie sono sempre meno numerose: ci sono 2,4 membri per coppia, mentre 54 milioni di persone vivono sole.

Se questo è il quadro del vecchio continente, lo scenario oltre oceano non deve essere molto diverso, se un senatore degli Stati Uniti, il Colonnello North, ha dichiarato: “Il più grande problema che vedo in questo Paese non è vincere la guerra contro il terrorismo. Il vero problema riguarda gli uomini, che non hanno più la responsabilità per i bambini che hanno generato”. Insomma: torniamo al “teorema delle scarpe bucate”. E’ molto probabile che un statistica sulla situazione delle calzature indossate oggi dagli europei ci direbbe che pochissime presentano delle suole bucate, a differenza di quanto accadeva cent’anni fa. Ma che gli europei siano più felici, o felici almeno quanto lo erano ai tempi in cui indossavano scarpe bucate, beh, abbiamo ragione di dubitarlo fortemente. La nostra civiltà è così sazia e disperata, da inseguire con crescente impegno tutte quelle strade che conducono alla sua autodistruzione. Non paga di attraversare una crisi della famiglia e del matrimonio senza precedenti, l’Europa nichilista e anticristiana si abbandona a un patologico cupio dissolvi che oscilla – paradossalmente – tra la sudditanza alla cultura islamica e l’elogio dello stile di vita gay.

Nel 2007 il Comune di Roma – guidato da Walter Veltroni – ha concesso il suo patrocinio al progetto “Smontiamo i bullismi, impariamo a convivere”. Si tratta di un percorso formativo promosso e realizzato dal circolo di Cultura omosessuale Mario Mieli in sei scuole superiori della Capitale per combattere “il machismo e l’omofobia”. Ovviamente, in cattedra vanno i teorici (e forse anche i pratici…) della normalità e della bellezza dell’essere gay. Saltando dall’altra parte dell’Oceano, precisamente in Nebraska, scopriamo che gli americani hanno prodotto un cartone animato “didattico” per bambini, nel quale entrambe i genitori sono dello stesso sesso. Il cartoon è stato inventato da due esperte del genere: una coppia di mamme simbolo dei diritti gay al femminile. Tornando nel vecchio continente, nel febbraio 2008 il governo laburista inglese ha deliberato il pagamento di assegni familiari ai poligami, in modo che i musulmani residenti sul suolo di Albione possano riscuotere un tot per ogni moglie a carico. E’ la certificazione del riconoscimento legale della poligamia. Al quale si è accodata anche la esangue e moritura chiesa anglicana, visto che l’arcivescovo di Canterbury ha definito “inevitabile” il provvedimento delle autorità britanniche. In effetti, di fronte a questo delirio della ragione innescato dalla secolarizzazione galoppante, ciò che più sconcerta è l’arrendevolezza (o addirittura la complicità) di certi cristiani.

Un esempio in casa cattolica. Nel 2007 l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi ha scritto una lettera pastorale agli sposi in situazioni problematiche: separati, divorziati, risposati. Il documento non contiene errori dottrinali espliciti, ma è certo che presta il fianco a una interpretazione “politica”: la diocesi di Milano vorrebbe fare qualcosa di più per i divorziati risposati, nonostante i “freni” della retrograda posizione cattolica romana. Insomma: con l’argomento (sacrosanto) che bisogna voler bene anche ai divorziati, si legittima il divorzio. Prova ne sia che sul numero di maggio 2008 di un bollettino parrocchiale – prelevato nel duomo di una bella città situata nella diocesi che fu di Ambrogio – si può leggere l’articolino di una donna nel quale si tesse l’elogio della separazione. “Il solo pensiero – scrive la donna – che i miei figli potessero pensare che quello che vedevano tutti i giorni di fronte ai loro occhi fosse un’unione basata sulla stima o sull’amore reciproco, mi faceva rabbrividire. Ho pensato che l’unica cosa che potevo trasmettere loro e che potesse placare la mia insofferenza fosse la lealtà, il senso della pulizia e la gioia di vivere nella lealtà e nella sincerità, la capacità di dire la verità a dispetto di convinzioni, di convenzioni ed anche delle richieste religiose se vogliamo: la capacità di scegliere senza mentire”. Insomma: per separarsi ci vogliono un sacco di virtù; per restare insieme, solo la sudditanza a stupide convinzioni e convenzioni. “Non è stato difficile disfare – prosegue la cattolica-separata-ma-sincera – impegnativo sì, però, sapendo che si fa del male all’altro ma che niente è peggiore che fingere un legame ormai morto”.

Ed eccoci approdati alla riva dei bravi, alla sponda del più vieto e televisivo “politicamente corretto”: al luogocomunista del “non provo più niente per te”, e del “meglio separarsi piuttosto che vivere nell’ipocrisia”. Si aggiunge poi che la separazione è stata raggiunta consensualmente (il che è davvero molto cristiano) e che “oggi i miei figli possono vedere il padre tutte le volte che lo desiderano”. Però, che fortuna. “Per la mia vita – spiega madre-coraggio – certamente desidererei un nuovo compagno, ma credo che non accetterei che qualcun altro, oltre al loro padre naturale, si occupasse dei miei figli”. Insomma: sì a nuovi “legami”, ma senza confusioni di ruoli. Sembra di leggere una rubrica della posta a Maurizio Costanzo. “A volte – dice sempre la signora separata – il confronto con la chiesa (minuscolo) è difficile perché è difficile fare capire la propria posizione a una mentalità, fuori e dentro la visione religiosa, che considera la donna e la maternità come uno stato di debolezza.” “Per quanto mi riguarda – conclude la donna-separata-educatrice – quello che più mi sta a cuore è la consapevolezza dei miei figli di essere uomini del terzo millennio.” Con una madre così, lo hanno capito oltre ogni ragionevole dubbio.

 PUNTO DI RISTOROIl mondo ci infarcisce dalla mattina alla sera; gli uomini sono ormai diventati talmente accumulatori di queste balordaggini che, ad avvicinarne uno, si prende la scossa elettrica. Se riflettete, noi ci troviamo tanti pallini nella testa: ce li ha messi il mondo. Pallini sulla personalità, sulla indipendenza, sulla libertà, sulla democrazia: sono i pallini di oggi. Pallini! Se cominciamo a fare una lista dei pallini, ne vien fuori una lunga lista. Stiamo in guardia! Difendiamo la nostra testa, perché se non si difende la propria testa, non si difende nemmeno la propria fede. Per difendere la fede bisogna difendere la testa, la propria capacità critica, il proprio retto giudizio, la propria indipendenza dai complessi di inferiorità imbibiti dagli altri” Cardinale Giuseppe Siri, Esercizi spirituali, 1978.

(da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il pianeta delle scimmie, Piemme 2008)

4) " … le situazioni di conflitto tra coniugi esistono da quando esiste la famiglia. Cioè, dalla notte dei tempi, in ogni civiltà che sia mai sorta su questa terra, senza alcuna eccezione. Nella nostra società occidentale, così evoluta ed emancipata, oggi sarebbe possibile affrontare questi conflitti con un grado di tutela per il coniuge più debole che ancora cinquant’anni fa – quando ancora si discuteva dell’esistenza di un "diritto di correzione" del marito nei confronti della moglie – sarebbe stato inconcepibile.

E invece, piuttosto che cercare un modello di società che sappia garantire in modo più avanzato l’alleanza naturale tra uomo e donna, l’Occidente divorzista ha costruito un sistema che mette i due sessi l’uno contro l’altro, esaltando le ragioni egoistiche di ciascuno. In fondo, per chi sa osservare la realtà senza pregiudizi, basterebbe un minimo di esperienza per capire che in definitiva la gente oggi divorzia così facilmente soltanto perché può farlo. Sono ormai in pochissimi quelli che riescono a farsi aiutare, in quanto abbiano trovato qualcuno che abbia saputo indicare loro una diversa soluzione.

Peraltro, ai nostri giorni sono ancora meno – in una società dove ormai da due generazioni un giovane su tre, e anche più, cresce assieme alla sola madre – quelli che hanno ricevuto fin da piccoli un’educazione di base sufficiente per saper fare famiglia, per quando nella vita dovrebbe venire il proprio turno. Così, i luoghi comuni… si sono trasformati – non solo per gli interessati ma anche per i loro avvocati, e per tutti gli altri operatori del sistema – nei criteri di fondo che tuttora rendono assai prospera e apparentemente invincibile la fabbrica dei divorzi. In sintesi, possiamo dire con certezza che la teoria del divorzio come male minore, nella maggior parte dei casi, rappresenta solo un falso pregiudizio per offrire un alibi alla coscienza di chi quel divorzio lo vuole, così come delle altre persone che vengono coinvolte. Però è proprio quel pregiudizio che attira milioni di persone e i loro figli nel tritacarne divorzista. Il più delle volte, senza che alcuno di essi riesca mai a incontrare, dall’inizio della crisi fino ai suoi esiti più rovinosi, qualcuno che sia in grado di offrire in modo credibile un’alternativa. O almeno – come si diceva in precedenza – che sia in grado di dirgli qualche "no", che poi è il principio di ogni percorso educativo. Perché, alla fin fine, si tratta solo di un problema di educazione".

"… Da pietosa esigenza per legalizzare situazioni eccezionali, nate da matrimoni tragicamente sbagliati, il divorzio si è dunque trasformato in un diritto insindacabile della persona. Un diritto che l’autorità pubblica si sente tenuta a riconoscere e garantire – e persino favorire – nel modo più ampio possibile. Nel nuovo sistema giudiziario, "la famiglia, in definitiva, tende a porsi in funzione della persona", ha riconosciuto Cesare Massimo Bianca, autore di un trattato di diritto civile che risale agli anni ’80 ed è considerato tuttora tra i più autorevoli. In quest’ottica, la "liberazione" dell’individuo dai legami familiari è stata assecondata come un processo positivo. La visione di fondo è diventata quella del primato dell’individuo, da liberare dalla potenzialità oppressiva della famiglia tradizionale, vista come espressione di un passato autoritario. Se quasi cinquant’anni fa il giurista Arturo Carlo Jemolo, con espressione che fece epoca, sosteneva che la famiglia è un’isola che il mare del diritto dovrebbe solo lambire, oggi invece si può ipotizzare che la prassi giuridica in tema di separazione coniugale, divorzio e affidamento dei figli minori abbia invece contribuito non poco a sommergerla".

Da: Massimiliano Fiorin, "La Fabbrica dei Divorzi", san Paolo.