Il volto oscuro di un “padre della Patria”

Da quanto si può capire dai preamboli, sul palcoscenico del 150° dell’Unità a Giuseppe Mazzini sarà riservato un ruolo importante soprattutto per essere stato nel 1849 il primo dei Triumviri della Repubblica Romana, ma un po’ defilato rispetto a quello dei principali protagonisti: il solito Garibaldi, che, pur se un po’ ammaccato, conserva il fascino romantico delle sanguinose cariche alla baionetta e delle fanfare, e Cavour, inizialmente accantonato, ma poi recuperato per le sollecitazioni della stampa “moderata” (le celebrazioni del 150° sono prima di tutto un affare politico) quale autentico autore dell’unificazione politica dell’Italia sotto Casa Savoia.

 Ciò non toglie che Mazzini resti l’Apostolo dell’indipendenza italiana e della democrazia. Ancora un mostro sacro, ma in parziale disarmo a causa anche dei danni causati alla sua immagine dall’attuale contesto politico-culturale, dominato dalla minaccia del terrorismo globale, dall’incubo dei Signori del Terrore, che da occulti rifugi programmano attentati nei vari angoli del mondo.

Un maestro di terrorismo

D’altra parte già in vita, anche nei momenti di maggior fulgore (il 1849 ne fu l’apice) Giuseppe Mazzini fu oggetto, anche all’interno del partito nazionale e dello stesso movimento democratico-repubblicano, oltre che di grandi amori, di furibondi odi e violente contestazioni a causa del suo autoritarismo, del suo smisurato orgoglio (il liberale Gino Capponi cambiò il suo motto “Dio e Popolo” in “Io e il Popolo”), del suo egocentrismo, del rifiuto di ogni consiglio e di ogni confronto. Opposte, quindi, le valutazioni: la più pura icona del Risorgimento e delle aspirazioni repubblicane, appunto l’Apostolo, per gli uni, fanatico dottrinario per gli altri. In seguito la stessa storiografia ufficiale ha spesso preferito lasciarne in ombra la figura, come, con sdegnato rammarico, scrive uno dei suoi tanti biografi, Romano Bracalini.

Di recente lo storico siciliano Mario Moncada di Monforte è andato oltre, proponendo la tesi di Mazzini bin Laden del XIX secolo, subito liquidata come provocatoria e che tuttavia ha lasciato echi e strascichi a conferma dei dubbi da sempre suscitati da un personaggio che, al sicuro nella fumosa Londra, alternava la promulgazione di encicliche repubblicane all’organizzazione di trame sanguinose. Echi ripresi, sul Riformista del 16 settembre 2010, da Luca Mastrantonio, che, dopo avere ricordato che «con Mario Martone e il suo convincente affresco cinematografico sul Risorgimento, “Noi credevamo”, molte zone d’ombra del Risorgimento italiano vengono indagate, fino a mostrare un Mazzini “terrorista”, per molti simile a Bin Laden o Toni Negri», riporta l’opinione di Vittorio Messori, che, pur rifiutando paragoni con bin Laden, lo definisce «un terrorista che viveva agiatamente a Londra, dove decideva della vita e della morte di molte persone. Un capo da Brigate rosse… un cattivo maestro».

Comunque, terrorismo o non terrorismo (nemmeno in sede giudiziaria si è raggiunto l’accordo sugli elementi costitutivi del reato), è indubbio che Mazzini considerava la violenza legittimo strumento di lotta politica e non solo per liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Lo provano le congiure del 1870, che, rivolte non più contro l’occupante austriaco, ma il regime monarchico, presentano il medesimo schema, l’unico a lui congeniale: una violenta sollevazione popolare appoggiata da volontari armati provenienti d’oltre confine. Identico anche l’esito: niente popolo, pochi soldati che tentano di impadronirsi, a Pavia e Piacenza, delle caserme, la proclamazione in Calabria di una Repubblica morta al primo vagito, qualche inutile morto.

 “Ammiratore del pugnale”

 Si tratta di un vizio d’origine, di convinzioni derivate dalle militanze giovanili, quando Mazzini, pur presumendo già moltissimo di sé, era ancora, suo malgrado, nella fase dell’apprendistato.

La storiografia non ha mai concesso troppo spazio al periodo carbonaro di Mazzini, accentuando invece l’insoddisfazione che lo spinse a lasciare la setta. Tuttavia la militanza nella Carboneria non fu così effimera. Affiliatosi nel 1827 vi rimase almeno fino al 1831. Quattro anni durante i quali dovette dare prova di dedizione se nel 1830 venne incaricato di recarsi a Livorno per riorganizzarvi la locale Vendita, munito di ampi poteri, che gli consentirono di sostituire con uno di sua fiducia un personaggio importante come lo scrittore Francesco Domenico Guerrazzi. Frutto dell’imprinting carbonaro anche la propensione per l’uso del pugnale, lo strumento preferito dai settari per uccidere i nemici e punire gli spergiuri.

Se a volte ostentò di prenderne le distanze, Mazzini rimase per tutta la sua carriera sotto il fascino del coltello: dall’incarico, nel 1833 a un certo Gallenga (che poi nemmeno tentò il colpo) di assassinare Carlo Alberto con uno stiletto dal manico di lapislazzuli, all’insurrezione milanese del ‘53, che prevedeva lo sgozzamento dell’intera guarnigione austriaca. La pratica dell’omicidio politico e l’uso del coltello, da sempre considerata l’arma dei vili, allontanarono da lui più di un seguace (fra gli altri il difensore di Venezia nel 1848-49 Daniele Manin, che gli addebitò la “teorica del pugnale”) e, soprattutto dopo il fallimento dell’insurrezione milanese del ‘53, ne diminuirono di molto l’autorità morale.

Per quanto replicasse che «a emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme – se lunga o breve non monta – è santa», prevalsero i giudizi del repubblicano Cattaneo, convinto che vi sono modi di uccidere il nemico che «la consuetudine e la coscienza delle nazioni incivilite condanna e che nessun coraggio riabilita», e l’accusa del monarchico Il Risorgimento, di avere mandato «dalla vigliacca securità dell’esilio tanti generosi giovani a certa inutile morte con improvvidi scritti ed eccitamenti».

Massone

L’influenza, enorme, che Mazzini esercitò a lungo in tutta Italia e anche in Europa non va, quindi, attribuita alle sue congiure ed alle imprese, tutte fallite, dei suoi seguaci, ma agli scritti, alle lettere, alle parole d’ordine testardamente ripetute, che ebbero una diffusione per l’epoca incredibile. Tuttavia agli occhi dei posteri questo mare magnum di scritti accresce l’ambiguità del personaggio, perché molte sono le contraddizioni, molti i punti oscuri. A cominciare dal motto “Dio e Popolo”, causa di molti equivoci, che Mazzini si guardò bene dal dissipare. Ancora oggi biografi e studiosi si dividono fra chi ritiene il Dio del motto mazziniano nulla più di “un Dio morale e laico”, cioè un termine per indicare l’essenza morale dell’Umanità, e chi, attenendosi alla lettera dei suoi scritti, lo ritiene convinto dell’«esistenza d’una prima causa intelligente», senza la quale «è cancellata l’esistenza di una legge morale suprema su tutti gli uomini e costituente per tutti un obbligo».

Molti si sono chiesti se questa “Prima Causa”, che certamente non è il Dio cristiano, si identifichi con l’Architetto dell’Universo, cioè se Mazzini fosse massone. La militanza massonica di Mazzini resta controversa a dispetto dei tentativi di accaparrarselo dei Fratelli, sempre pronti a definirlo “nostro Sommo Fratello” e, assieme al Gran Maestro Garibaldi, “Stelle massime della italiana Massoneria”. Dato che massone era il padre, è probabile una iniziazione in età giovanile, e certamente al momento di aderire alla Carboneria il giovane genovese conosceva la setta degli “Illuminati di Baviera” e doveva apprezzarne il programma se assunse lo pseudonimo di Filippo Strozzi già adottato da Xavier Karl Zwack, braccio destro del fondatore Johann-Adam Weishaupt.

Vi sono autori, in particolare inglesi e americani, che ne fanno addirittura il capo della setta sopravvissuta alla soppressione del 1787, ma, in mancanza di riscontri oggettivi, se appare evidente una certa vicinanza spirituale e politica con la massoneria, con la quale condivideva l’avversione per il cattolicesimo e il papato, resta il fatto che il suo carattere altero, l’altissima, stima di sé, l’incrollabile ostinazione nelle proprie idee, la stessa indifferenza per il profitto personale lo rendevano inadatto all’obbedienza massonica. Forse avrebbe potuto accettarne la Suprema Maestranza, certamente non avrebbe accettato di sottostare a quella di Garibaldi. È verosimile che queste ragioni e la conseguente incapacità di accettare la leadership di Carlo Marx, abbiano altresì concorso, assieme all’avversione per l’ideologia della lotta di classe, a fargli lasciare la Prima Internazionale, che pure aveva concorso a fondare in quello stesso 1864. Va però detto che nella polemica con Marx, Mazzini, solo in apparenza soccombente, seppe prevedere con singolare lucidità che l’ideologia comunista avrebbe inevitabilmente portato al dispotismo dello stato totalitario. (RC n. 62 – Febb/Marzo 2011)

A Sanremo Benigni interpreta Pinocchio

Diciamola tutta e subito: il nostro caro Benigni, comico un tempo irriverente con gli uomini di potere, ha detto molte bischerate. Anzi, memorabili bischerate. E a lui che è un toscanaccio questa espressione dovrebbe arrivare diretta al cuore. Ci riferiamo alla seconda parte del suo intervento all’ultimo festival di Sanremo: 250 mila euro per una orazione civile sul Risorgimento che qualcuno ha definito da scuola elementare di cento anni fa. Non si ha la pretesa di smascherarle tutte, ma su quelle più eclatanti vale la pena di soffermarsi, se non altro per quella sete di Verità che caratterizza l’uomo onesto e umile di ogni latitudine.
Parlando di Cavour, Mazzini e Garibaldi il Nostro ha asserito che siano usciti dalla vita politica più poveri di quando erano entrati.

In realtà gli storici, Viglione e Messori, per citarne due, ci dicono che una volta consegnato il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II con il famoso incontro di Teano, l’eroe dei due mondi si ritirò a Caprera, isola donatagli da un gruppo di ammiratori e dove possedeva una azienda agricola che contava una trentina di dipendenti, oltre 500 capi di bestiame, un asino che aveva voluto chiamare come il Papa suo contemporaneo e un panfilo regalatogli da un fan inglese. Tutto questo dovrebbe essere, secondo Benigni, il segno dell’indigenza di un cinquantatreenne figlio di un capitano della marina mercantile? Certo, gli ultimi anni della sua avventurosa vita furono amareggiati da difficoltà economiche che, però, furono causate dalla disonestà di molti suoi collaboratori di cui si era fidato e in particolare dei suoi due figli, Ricciotti e Menotti, che avevano tentato di speculare sul boom edilizio di Roma, neo-capitale. E quindi, per aiutarlo e forse tenerlo buono, si mosse il Governo italiano con l’offerta di una rendita annua di cinquantamila lire: pari alla rendita di due milioni di lire-oro, il Gran Maestro della massoneria italiana (da quel momento chiamato beffardamente “l’Eroe dei due Milioni” dalla rivista Civiltà Cattolica) incassò quella enorme somma dal 1876 al 1882, anno della sua morte.

Forse allora il Comico alludeva a Cavour, quando ha parlato di povertà? In realtà per il rampollo della famiglia aristocratica piemontese si può delineare il primo caso di conflitto d’interesse della storia della nostra Repubblica. Un’occasione ghiotta per una trascinante e attuale satira: perché non ne ha approfittato l’irriverente Benigni?

Il Conte era in realtà ricchissimo, come dice la Pellicciari. Proprietario, tra l’altro, di 900 ettari appartenuti un tempo all’abbazia vercellese di Lucedio, ettari da suo padre Michele acquistati per pochi soldi ai tempi dell’occupazione napoleonica, durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, era anche il maggior azionista del più grande ente privato granario della penisola, la “Società Anonima Molini Anglo-Americani” di Collegno. Ebbene, un anno prima della guerra in Crimea, mentre infuria la carestia in tutta Europa, anziché vietare l’esportazione del grano e nutrire così la propria popolazione come avevano deciso gli altri stati europei, il governo liberista di Cavour la permette, consentendo così ai produttori piemontesi, e fra questi lo stesso Benso, di rincarare il prezzo della farina e realizzare quindi forti profitti. Con l’esecutivo di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, gli speculatori, gridava dai banchi della sinistra il deputato Brofferio. Sarà davvero morto in odore di povertà l’uomo che per tutta la sua vita politica aveva confiscato, a beneficio delle malandate casse dello Stato, i beni di quasi tutti gli ordini religiosi cattolici piemontesi e poi italiani?
Ma Benigni non si è fermato a queste corbellerie. Durante tutto l’intervento nazional-popolare (che ho ascoltato via radio non avendo, per scelta personale, il televisore in casa) il premio Oscar ha ripetuto più volte che l’Italia pre-unitaria era un corpo fatto a pezzi, dilaniato, posseduto, stuprato, saccheggiato, oppresso e sventrato da stranieri. Tale è stata la mia incredulità per la violenza di tali affermazione che il giorno seguente la trasmissione ho voluto verificare se avevo ben compreso il discorso guardando la registrazione postata su un noto sito di video.
Partiamo dal concetto di straniero. Dei sette stati in cui l’Italia era divisa solo uno era ancora soggetto allo straniero. Sicuramente non era soggetto allo “straniero” lo Stato Pontificio al cui comando, a partire dal 1523, anno della morte di Adriano VI di Utrecht, si erano succeduti solo Papi italianissimi: Pio IX, vale la pena ricordarlo, si chiamava Giovanni Maria Mastai Ferretti, era nato a Senigallia e, dato importante, era anche lui fautore dell’unificazione dell’Italia, ma non a scapito dei legittimi sovrani e della perdita delle peculiarità della nostra millenaria civiltà e identità!

Sicuramente non era soggetto allo “straniero” il Regno delle Due Sicilie (libero e indipendente fin dal 1734, seppur con un’altra denominazione) il cui ultimo re, Francesco II di Borbone, amava ripetere ai suoi cittadini: “io sono napoletano. I vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni”. Nato e vissuto, finché Garibaldi glielo permise, a Napoli, sposò la sorella dell’imperatrice Sissi e morì ad Arco di Trento durante uno di quei suoi numerosi viaggi nelle tenute della famiglia della moglie a cui fu costretto dopo che i Savoia gli sequestrarono tutti i beni immobili. Per ironia della sorte, insomma, un re di origine e di lingua francese, tale era l’idioma della corte sabauda, aveva inviato un nizzardo a “liberare”, con il sostegno materiale dell’Inghilterra di Palmerston, una terra governata da un re più italiano del primo.

A ben guardare, è proprio contro la casata dei Borbone che si scaglia la vis risorgimentale; allora come ora, a riascoltare le parole del comico toscano. In un passaggio del suo intervento Benigni infatti allude all’oppressione mostruosa dei Borbone sulla popolazione meridionale. Terrificanti, vengono definiti.
Eppure gli storici, ci descrivono una terra con meno poveri, in proporzione, che a Parigi e Londra, con la pressione fiscale più lieve d’Europa e con un debito pubblico di 500 milioni di lire per una popolazione di 9 milioni contro un Piemonte che aveva più di mille milioni di debito per 4 milioni di abitanti!
Eppure il popolo del Sud, una volta liberato dall’oppressore, non festeggia! Evidentemente non doveva sentirsi così oppresso se è vero, come è vero, che nei giorni immediatamente successivi al 17 marzo si formarono bande di briganti che, composte in prevalenza da poveri contadini, da ufficiali e soldati dell’ex esercito borbonico, ma anche da esponenti della nobiltà e del clero, espressero con le armi il loro malcontento nei confronti della dominazione sabauda. Un brigantaggio che, con le sue 350 bande, per assonanza, ci riporta alla memoria le Insorgenze anti-napoleoniche dei sanfedisti.

Di fatto metà del nuovo Stato era contrario all’unificazione. Il governo, per reprimere la guerriglia, dovette prima inviare un esercito composto da 120.000 soldati e poi proclamare lo stato d’assedio mettendo sotto legge marziale tutto l’ex regno borbonico: libertà personale e tutela della proprietà privata furono completamente bandite. Tali e tante furono le atrocità commesse dai “piemontesi” che persino Napoleone III ebbe a scrivere: “[…] i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana. […] I Borboni non hanno mai fatto cose simili.” Lo scontro assunse così le dimensioni di una guerra civile che si protrasse fino al 1865, con strascichi fino al 1870: i dati parlano di 60.000 mila caduti. Conseguenza di tutto ciò, fu la rovina dell’economia meridionale e il prospettarsi di un fenomeno nuovo, sconosciuto ai tempi dei Borbone: l’emigrazione di massa di milioni di italiani del sud.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: il Risorgimento è stato fatto dalle classi colte oppure dal popolo, come ha urlato il Roberto nazionale? Siamo probabilmente in presenza di una delle 250 mila bischerate pronunciate nell’intervento sanremese, una per ogni euro ricevuto come compenso per la serata.
In effetti, sempre i soliti storici e non i comici, ci avvertono che la partecipazione popolare al Risorgimento, ad esclusione delle rivolte del 1848, fu limitata. Se è vero che gli ideali erano diffusi presso buona parte della borghesia, della nobiltà e tra gli studenti, è altrettanto vero che la maggior parte della popolazione, costituita dagli abitanti delle campagne, era e rimase ostile al processo di unificazione sia in quanto, di sentimenti cattolici, non accettavano un processo di unificazione attuato deliberatamente in contrasto col Papato, sia in quanto devoti sudditi delle antiche legittime dinastie. Di tale devozione e di tale cattolicità del ceto popolare ne è sicura testimonianza la rivolta popolare antiunitaria del meridione sopra descritta per sommi capi.

Forse allora nell’intervento del comico si alludeva alla vittoria schiacciante dei plebisciti indetti tra marzo e novembre del 1860 per conferire legalità al nuovo regno di Vittorio Emanuele II? In effetti il 98% dei votanti si esprimerà a favore del re-galantuomo (così definito nonostante avesse avuto, oltre alla moglie, numerosissime amanti tra le quali un’attrice di teatro e la quattordicenne Rosina da cui ebbe due figli!): una valanga di voti che conferma l’adesione in massa del popolo agli ideali del Risorgimento? Certo il dato ufficiale è impressionante: chiamati ad esprimersi a suffragio universale maschile, poco meno di tre milioni di persone si recarono alle urne, nonostante l’analfabetismo diffuso e nonostante la prassi del voto fosse pressoché una novità. Il dato dell’affluenza è ancora più impressionante se lo si confronta con quello delle prime elezioni politiche del 1861:circa 240 mila votanti su poco più di 400 mila cittadini aventi diritto, questa volta però, su base censitaria. Vale a dire i proprietari terrieri, industriali, ricchi commercianti, professionisti, aristocratici e militari di alto grado. Era forse questo il ceto popolare di cui parlava Benigni?

Il motivo, in realtà, della massiccia partecipazione “popolare” ai plebisciti ce lo spiega la storica Pellicciari attraverso la testimonianza dell’allora prefetto di polizia Filippo Curletti, sotto la cui direzione diretta si svolsero le votazioni. Presi i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori e preparate le schede “un picciol numero di elettori – racconta il prefetto – si presentarono a prendervi parte: ma al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti”. L’operazione venne condotta così senza scrupolo che lo spoglio, aggiunge il Curletti, diede un numero maggiore di votanti che di elettori iscritti. Poche parole, queste, che riescono a mettere in crisi il concetto di democrazia: c’è il potere, quello più bieco, ma manca il popolo! Della volontà del popolo d’altra parte non interessava a nessuno: non essendo il voto segreto (c’erano due urne distinte, una per il SI e l’altra per il NO) la gente umile, i contadini ebbero difficoltà ad esprimere la propria idea. Infatti molti commissari piemontesi, anziché verificare la correttezza delle procedure minacciarono pesantemente chi mostrava intenzione di votare per il NO. E come se tutto ciò non bastasse, votarono anche, pur non essendo residenti, i soldati piemontesi e i garibaldini di presidio! Insomma, minacce e brogli elettorali senza i quali il corso della storia avrebbe potuto prendere un’altra piega.

Ma allora, se non è stato il popolo a “fare” il Risorgimento chi è stato? Per trovare una risposta potremmo dare la parola a Gramsci, fondatore di quel partito comunista tanto caro al nostro comico. Il politico affermava che il Risorgimento non fu “un movimento nazionale dal basso” perché esso fu ideato e gestito da un’elite di borghesi e ricchi liberal-massoni che agì contro gli interessi del popolo italiano. Parole come macigni, queste di Gramsci. D’altra parte a reclamare la paternità dell’epopea risorgimentale è la stessa Massoneria ufficiale che, per fare un solo esempio fra le molte testimonianze, nel 1988, attraverso le parole del Gran Maestro Armando Corona, arriva a dire che “La liberazione d’Italia – opera eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dall’iniziativa delle Comunioni massoniche d’oltralpe”. Insomma, ispiratrice e animatrice. Serve altro, caro Benigni?

E così siamo giunti all’ultimo punto della nostra parziale disanima. E l’ultima bischerata del Nostro è dello stesso calibro degli strafalcioni che gli studenti, poco preparati e presuntuosi, commettono durante le interrogazioni scolastiche: i colori della bandiera italiana – ha detto Benigni – sono stati scelti da Mazzini. Pubblico sanremese in deliquio e applausi scroscianti in platea. Eppure al nostro somarello, per evitare uno scivolone così ridicolo, sarebbe bastato almeno leggere qualche pubblicazione ufficiale, come quella della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 2005, incentrata proprio sulla storia del Tricolore. Oppure l’articolo pubblicato qualche giorno prima da Antonio Socci che, sebbene sia un giornalista, è certamente più titolato del comico o dei suoi inattendibili collaboratori.

Il tricolore fu concepito da due studenti patrioti di Bologna, Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, che nel 1794 unirono i colori delle loro rispettive città d’origine, Bologna e Asti, al verde, colore della speranza. Il loro intento era quello di organizzare una rivoluzione per restituire al comune di Bologna l’indipendenza perduta. La sommossa tuttavia fallì e loro, insieme ad altri, furono scoperti e arrestati. Ma la loro bandiera rimase, tanto è vero che fu adottata da Napoleone: “les couleurs nationals qu’ils ont adoptés son le vert, le blanc et le rouge”, disse il Generale nel messaggio con il quale informava il Direttorio, supremo organo della rivoluzione francese, della costituzione di una “Legion Lombarde” nel 1796. Data in cui Mazzini non era ancora nato.

Il Risorgimento e la marchesa di Barolo

Il 2 marzo 1848 la I guerra d’Indipendenza non è ancora scoppiata: però manca poco a quella sconfitta, causata, come ricordava Antonio Gramsci, dall’aver concepito l’unità “come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso …”.

A questa data il papa Pio IX è sostenitore di un’unità confederale, incline a collaborare con gli altri stati italiani, maldisposto verso la presenza austriaca in Italia. Nel Regno di Sardegna Carlo Alberto è in procinto di promulgare lo Statuto Albertino, in cui si dichiara la religione cattolica come “religione di Stato” e si proclamano solennemente le libertà liberali.

Eppure, il 2 marzo Carlo Alberto comanda dispoticamente “l’espulsione dal Regno di tutti i Gesuiti di nazionalità non italiana” e ingiunge “l’incameramento dei loro beni”. E’ solo il primo atto, racconta Angela Pellicciari, nel suo “Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa”, di una guerra duratura. Da allora in poi il Parlamento subalpino sarà impegnato in una lotta spietata alla Chiesa: una lotta ideologica, condotta con le armi della calunnia, e con astuto spirito machiavellico.

Espropriare i beni della Chiesa, trasformare scuole e ospedali in caserme, uffici e ospedali militari, sarà infatti il modo con cui anche Cavour finanzierà le folli spese del piccolo stato sabaudo, in Crimea e in centro e sud Italia, per raggiungere i suoi obiettivi. A partire dal 1860, alla politica di rapina ai danni della Chiesa, estesa a tutto il territorio nazionale, si aggiungerà, per ripianare i debiti, una feroce ed inaudita tassazione sulla plebi meridionali. I fatti del 1848 hanno un precedente importante: una lunga campagna di odio contro i Gesuiti condotta dagli ambienti settari e dall’abate Vincenzo Gioberti, autore di violentissimi scritti contro quell’ordine influente.

Sotto l’accusa generica di “gesuitanti” o “gesuitesse”, nella Torino “liberale”, cadono un po’ tutti, anche personaggi come san Giovanni Bosco e la marchesa di Barolo. Se le vicende del primo sono famose, meno conosciute ma assai emblematiche quelle della seconda, raccontate da Cristina Siccardi in una bella biografia: “Giulia dei poveri e dei re”.

Chi è la marchesa di Barolo? Giulia Colbert de Maulèvrier, ricca aristocratica di Vandea, lontana parente del celebre ministro di Luigi XVI, dopo essere stata “amica di principi e di re, ammirata giovanissima ai balli di Napoleone”, conosce e sposa il ricchissimo Carlo Tancredi dei marchesi Faletti di Barolo.

Di famiglia cattolica, controrivoluzionaria, parenti ghigliottinati al tempo della rivoluzione, Giulia è donna estremamente colta, intelligente e devota. Con lei il palazzo dei Barolo, nel centro di Torino, si apre ogni giorno, a pranzo, per ospitare i poveri. La sera lo stesso palazzo diviene luogo d’incontro per i grandi del regno. Lo frequentano il giovane Cavour, con cui Giulia ha un rapporto speciale, ma dissensi in tema di politica, Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio, il conte Solaro della Margherita, de Maistre, ambasciatori, letterati…

Nelle sue giornate Giulia, degna contemporanea di don Bosco, a cui non lesina favori e denari, si dedica alle carcerate, alle ragazze a rischio o già cadute nella prostituzione, alla cura dei bambini dai 3 ai 12 anni, poveri e disabili; fonda, insieme al marito, scuole, orfanotrofi, l’asilo Barolo, per i figli degli operai, e, nel 1827, la prima Cassa di Risparmio torinese per piccoli risparmiatori. Accanto alle numerose opere di carità, per le quali trova l’appoggio entusiasta della regina Maria Teresa, moglie di Carlo Alberto, Giulia si dedica alla letteratura, studia le legislazioni sulle carceri degli altri paesi, finanzia la costruzione di giardini e fontane…

Ma nel 1848 anche lei, pur così stimata in ambienti tanto diversi, viene travolta dalla propaganda anticristiana: il suo pensiero è conosciuto, arriva a nascondere dei gesuiti per salvarli alla persecuzione, e per questo viene additata da alcuni giornali come “clericale”. La sua casa viene persino presa d’assalto, “nella città dove sono pochi quelli che non le devono qualcosa”.

A farle forza, in questi frangenti, vi è anche Silvio Pellico, il celebre carbonaro, incarcerato dall’Austria allo Spielberg dopo i moti del 1820, autore di un’opera di straordinario successo come “Le mie prigioni”: un libro che valse all’Austria “più di una battaglia persa”. Il Pellico che affianca e segue Giulia, è un uomo nuovo: ha preso le distanze dalla sua fede deista, dalla “fallacia” dello “spirito volterriano”, rinnega i rituali massonici, condanna le rivoluzioni violente, e, nel disprezzo dei vecchi compagni, preferisce dedicarsi a rinvigorire la fede ritrovata e ad aiutare la marchesa, che considera “un angelo di bontà, spirito e buon umore”, che “non sa darsi riposo, non dorme abbastanza” per star dietro alle sue molteplici opere di carità.

Giulia attraverserà ogni burrasca imperterrita, come faranno gli altri grandi santi sociali piemontesi. Sino alla morte, nel 1864, dieci dopo il Pellico. “Esimia benefattrice dei poveri”, scriveranno i giornali, anche quelli che la avevano abbondantemente infangata. Il Foglio, 17 febbraio 2011 continua

17 marzo: più divisi che mai

Stiamo tutti assistendo in questi giorni, proprio a poche settimane dall’anniversario dei 150 dell’unificazione statuale, a un ennesimo patetico (oltre che assolutamente fuori tempo massimo) “litigio” fra le cariche istituzionali, gli esponenti della cultura nazionale, gli intellettuali, a causa di un serissimo problema che li assilla: il 17 marzo p.v., deve essere festa nazionale (quindi scuole e uffici chiusi) o va “festeggiato” – non si sa bene come – mantenendo tutto aperto come un qualsiasi altro giorno lavorativo? Sfortuna vuole peraltro che cada infrasettimanale (una buona domenica sarebbe stata la panacea…).

Tremendo dilemma. Dilemma non solo storico, ma anche politico, economico, sociale. Per capire meglio il senso di ciò che accade, occorre risalire un po’ indietro nel tempo. In realtà, la preparazione della commemorazione del 150° anniversario della costituzione del Regno d’Italia non è stata concepita né vissuta serenamente dalla nostra classe politica e dai ceti intellettuali e culturali fin dall’inizio. In teoria, ciò dovrebbe essere strano, in quanto non solo si tratta di un elemento positivo, anzi, basilare, nella storia di un popolo (l’unificazione nazionale), che in ogni altra nazione sarebbe vissuto come momento di grande festa popolare, ma, specificamente per il popolo italiano, a causa delle sua stessa storia e dell’attuale congerie politica e culturale di profonda divisione, sarebbe dovuto essere realmente “la grande occasione”, atta a ricreare una realtà aggregante – una medicina ricostituiva – per uno Stato sempre meno amato e sentito amico dalla popolazione, come largamente riconosciuto da ognuno.

 Ma in realtà non è affatto strano. È anzi la normale e inevitabile conseguenza della storia stessa d’Italia degli ultimi duecento e passa anni, della storia stessa della nostra unificazione politica e delle sue drammatiche conseguenze nel corso del XX secolo.

Molti forse ricorderanno che il problema sorse a livello di dibattito nazionale nell’estate del 2009, suscitato da un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 20 luglio, intitolato “Noi, italiani senza memoria”, dove l’autore, proprio in riferimento a quelli che sarebbero dovuti essere i preparativi per i solenni festeggiamenti nazionali, denunciava in termini amari il fallimento di una vera e viva coscienza nazionale nella nostra classe politica e culturale e, quindi, in gran parte degli italiani. Credo sia utile, per entrare nel vivo del problema, riproporre direttamente le parole stesse di Galli della Loggia, che svelano pienamente il cuore del problema : «Il modo in cui il Paese si appresta a celebrare nel 2011 il 150??anniversario della sua Unità indica alla perfezione quale sia l’immagine che la classe politica – tutta, di destra e di sinistra, senza eccezioni (nonché, temo, anche la maggioranza dell’opinione pubblica) – ha ormai dell’Italia in quanto Stato nazionale e della sua storia. Un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa».

 L’autore rivela poi che tanto il governo Prodi quanto quello Berlusconi hanno utilizzato tutti i soldi stanziati per il centocinquatenario per costruire infrastrutture pubbliche un po’ ovunque in Italia. E continua: «Il punto drammatico sta nella premessa di tutto ciò. Nel fatto evidente che la classe politica sia di destra sia di sinistra, messa di fronte a uno snodo decisivo della storia d’Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore – e dunque dovendosi fare un’idea dell’uno e dell’altro, nonché di assumersi la responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi in essa – non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea pensare. E non sa farlo, per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi l’Italia, e l’essere italiani. (…) l’unico scopo che ci tiene insieme sembra essere oramai quello di spartirci il bilancio dello Stato, di dividerci una spoglia. M’immagino come se la deve ridere tra sé e sé il vecchio principe di Metternich, osservando lo spettacolo: non l’aveva sempre detto, lui, che l’Italia non è altro che un’espressione geografica?».

L’amara e spietata denuncia di Galli della Loggia ha, come naturale, suscitato un dibattito generale nei giorni seguenti. Troppo forte è l’“urlo di dolore” provocato dal coltello messo nella piaga per non essere sentito, per non meritare seria risposta: Metternich aveva dunque ragione? Se fosse ancora vivo, sarebbe lui, lo sconfitto di allora – e a Metternich si potrebbero aggiungere tanti altri sconfitti, tutte le vittime non tanto dell’unità italiana, quanto dei metodi utilizzati per ottenerla e dell’ideologia che ha spinto tali metodi, a partire dal Papa vittima sacrificale di tali metodi e ideologia – a ridere per ultimo? Siamo ancora italiani (non naturalmente nel senso genetico, ma politico e culturale)? E lo siamo mai stati? Cosa ha significato allora nella realtà tutto quanto avvenuto durante il Risorgimento? Cosa dovremmo festeggiare realmente nei prossimi giorni? Ben più duro fu a riguardo il giudizio (su Libero, 21 luglio) di Vittorio Feltri: «la nostra è una nazione soltanto formalmente, e il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini e dai loro rappresentanti eletti per spirito di parte più che per amministrare il bene comune. Se del 150° anniversario dell’Unità neppure si parla, e se per celebrarlo non esistono progetti all’altezza, il motivo è tristemente semplice: la maggioranza degli italiani lo considera una iattura da non festeggiare».

Inoltre, Feltri accenna anche al ruolo disgregatore delle forze politiche localistiche: «La Lega Nord punta al federalismo non potendo dichiarare di ambire alla secessione. Il Mezzogiorno, terrorizzato sia dal federalismo sia dalla secessione, si organizza: sta dando corpo a una Lega Sud il cui mandato è arraffare milioni per contrastare i piani di Bossi e garantirsi contributi europei e sovvenzioni romane (…) La politica si barcamena; è una specie di pendolo che oscilla tra due esigenze: dare al Sud per non perderne i voti e non togliere troppo al Nord per non accelerarne il processo centrifugo. Il Triveneto, dove la Lega bossiana si accinge a diventare, se non lo è già, il primo partito, ha un piede nella Mitteleuropa e cerca con rabbia di metterci anche l’altro con tanti saluti all’odiata Patria».

E al contempo anche Alessandro Campi su Il riformista (22 luglio) denunciava la vittoria del particolarismo leghista, prova provata del fallimento del sentimento unitario in Italia. Senza voler avventurarsi nelle vicende politiche attuali, anche in questo caso occorre dire che la denuncia di Feltri è lucida, anche più schietta delle altre, ma manca l’approfondimento delle cause del male.

Perché “la nostra è una nazione soltanto formalmente”? e gli italiani sentono l’anniversario “come una iattura”? Perché l’azione antiunitaria della Lega Nord ha successo, per di più proprio in quei territori che furono gli artefici del Risorgimento (perché, non dimentichiamolo, il Sud – a parte sparuti gruppi di intellettuali – l’unificazione l’ha subita, non voluta)? Perché di contro sta nascendo una sorta di “Lega Sud” e dove condurrà negli anni futuri tale deriva decentralista? Perché – e qui Feltri denuncia la più evidente e innegabile di tutte le verità su queste problematiche – “il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini”?

 Perché Campi può concludere con questa drammatica affermazione: «L’Italia sta scomparendo, senza che nessuno lo voglia ammettere apertamente»? Quale Italia sta scomparendo? L’Italia degli italiani, ovvero l’italianità intesa come senso profondo di un’identità comune secolare, anzi, millenaria, o l’Italia nata 150 or sono? E perché sta scomparendo? E in che senso? Il problema è serio, se tali denuncie sono vere. Ne va del senso stesso del nostro essere uno Stato, monarchico prima, repubblicano ora. E che dire del nostro essere “nazione”? Siamo e siamo mai stati una “nazione”?

In realtà, uno Stato lo siamo, nel senso che l’Italia è stata unificata fra il 1859 e il 1918 ed è entità politica unitaria dal 1861. Insomma, c’è. E, di certo, la grande maggioranza degli italiani – al di là delle estremizzazioni di Feltri – ancora attualmente preferisce che, nonostante tutti i mali odierni e trascorsi, lo Stato unitario rimanga, se non altro per il timore del vuoto politico e del disastro economico che ne verrebbe dalla sua scomparsa. Ma, detto questo, tale Stato, che esiste politicamente, esiste anche – e in che misura – nei cuori dei suoi cittadini? Quanti italiani oggi si riconoscono in questo Stato? Quanti italiani oggi si sentono italiani prima che lombardi, veneti, trentini, toscani, siciliani, napoletani, sardi, ecc.? Quanti lombardi vedono nel napoletano un “fratello d’Italia”? E quanti calabresi lo vedono nel piemontese? Ci si può accusare – nel fare tali ragionamenti – quanto si vuole di qualunquismo e banalità, chiunque potrebbe affermare: “ciò non vale per me” o “conosco tanta gente di Bergamo che vede nel napoletano o nel cosentino un ‘fratello d’Italia’”…

Ma, al di là delle istanze buoniste e/o ideologizzate (o anche di meritevoli casi che non mancano mai), chi può negare in piena onestà intellettuale la profonda realtà di tali qualunquistiche e banali domande per un numero non secondario di italiani? Ben sapendo che la lista delle banalità potrebbe continuare molto a lungo. Nonostante la televisione, il cinema e i massmedia in generale, che promuovono ogni giorno la lingua nazionale, come si può negare che milioni di italiani ancora parlino in dialetto e sovente non si comprendano tra loro? Come negare le profonde differenze di mentalità “operativa” e comportamentale ancor prima che intellettuale e morale fra un qualsiasi italiano del Nord e uno del Sud?

Come negare la presenza della faziosità localistica in quasi ogni provincia dello Stato italiano? Il pregiudizio antimeridionale e, soprattutto, antiromano? Chi può negare che la drastica affermazione di Galli della Loggia sull’immagine che gli italiani (sia la classe dirigente e culturale che le popolazioni) hanno del proprio Stato (che pur esiste e continuerà a esistere anche proprio per paura e convenienza) sia vera nella sua essenza?: “Un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa”. Lo Stato continuerà probabilmente a esistere a lungo e gli italiani lo vedono come una sorta di scoglio cui aggrapparsi per provare almeno a trovare lavoro, per sperare un giorno di poter ricevere la pensione, per usufruire (dove e quando possibile) negli aiuti sociali, ma con sempre maggiore e crescente scetticismo. Uno “Stato-scoglio” appunto, per di più sempre più pericolante e viscido, al quale ci si attacca per paura e per la sopravvivenza, non certo per amor di patria e tanto meno per orgoglio del proprio retaggio storico e culturale . Vedere il proprio Stato come uno scoglio cui aggrapparsi significa avere una concezione utilitaristica di esso, scettica, in certi casi “furbesca”.

Significa non averlo nel cuore, non sentirlo cosa propria, ideale da amare e difendere, anche a costo della propria vita, non vederlo come “Patria”, non riconoscervi in esso la presenza di altri 55 milioni di “fratelli d’Italia”. Esso è un contenitore di cui usufruire – finché e per quanto possibile – per sopravvivere nella drammatica e prosastica lotta quotidiana del cosiddetto “italiano medio”, il quale, unica concessione all’“amor di patria”, gli riconosce dignità sventolando il tricolore nelle vittorie sportive.

Dimentichi completamente o quasi di quanto le generazioni passate hanno fatto per quel tricolore in terra d’Africa, sul Carso o sulle Dolomiti, nel Mediterraneo, nei Balcani, ovunque in patria. Ancora banalità, si dirà. Sì, sono banalità proprio ed esattamente perché vere, reali. Come già detto, di queste banalità se ne potrebbero elencare a iosa. Non lo farò, il concetto appare evidente, e quindi inizio a trarre qualche conclusione. Uno Stato sentito come “strumento d’aiuto” e per di più quasi sempre inefficace, assente e perfino nemico, può considerarsi come base sostanziale di un popolo che si senta – e costituisca – una nazione? Eccoci alla questione-chiave già fugacemente accennata in precedenza: noi italiani, dopo 150 dalla costituzione dell’unità nazionale, siamo una “nazione”? O siamo solo e ancora cittadini di uno Stato? Uno Stato che prima del 1861 poteva chiamarsi “Granducato di Toscana”, o “Regno delle Due Sicilie”, o “Stato Pontificio”, e che dopo, in seguito a una guerra di conquista da parte di uno di quegli Stati preunitari, prese il nome di “Regno d’Italia”? E, ancor peggio e più provocatoriamente, arrivo a chiedermi: siamo sicuri che gli italiani della metà del XIX secolo vedessero lo Stato Pontificio, il Regno delle Due Sicilie, il Granducato di Toscana e gli altri Stati preunitari solo come “Stati” (scogli cui aggrapparsi) e non anche come la propria “nazione”? Siamo sicuri che tutti nel cuore e nella mente cantassero “perché non siam popolo perché siam divisi”? O invece si sentissero “popolo”, quindi nazione, nel loro essere toscani, sabaudi, “duo-siciliani”?

 E se anche si fosse sentita a livello popolare la lecita e nobile esigenza di una sorta di processo unificante degli Stati italiani del tempo, siamo certi che ciò che volevano era che la monarchia sabauda spodestasse gli altri legittimi sovrani per creare uno Stato unitario alternativo? E per di più centralista, piemontesista, sacrilego e anticattolico come di fatto fu? Queste non sono domande retoriche o legate a improponibili sentimenti “nostalgici”, sono al contrario proprio il nocciolo della questione, della “questione italiana”, la questione irrisolta per eccellenza della nostra storia: l’italiano di oggi è più legato allo Stato di quanto lo fosse l’italiano preunitario al proprio Stato? Se non è così (e ci sono buone ragioni per pensarlo, dove si è sbagliato? Quale “nazione” si è creata in questi 150 anni?

E, di conseguenza, cosa ci sarebbe mai da festeggiare in questo 2011, visto che gli italiani di oggi sarebbero meno “nazione” degli italiani preunitari? Insomma, la denuncia di Galli della Loggia e degli altri intervenuti nel dibattito è giusta e sacrosanta. Ma la realtà è che occorre iniziare a trarre le conseguenze da tale situazione individuandone correttamente le cause. Tutto ciò non può non far venire alla mente l’assunto per eccellenza dell’unificazione, che può paradigmaticamente essere espresso nella più celebre affermazione della storia italiana: “Fatta l’Italia, restano a fare gli italiani”, come notò non senza ironia l’acuta mente di Massimo d’Azeglio, protagonista alquanto disilluso degli anni risorgimentali. Sono stati fatti gli italiani in questi 150 anni? E, soprattutto, gli italiani, “si fanno”? O ci sono? E i 22 milioni di individui in quei giorni abitanti la Penisola e le isole oggi componenti l’Italia, che cosa erano se non erano italiani? O forse erano loro i veri italiani? In questo caso, di quale “italiano” parla d’Azeglio? Evidentemente di un diverso italiano, di un italiano da cambiare, da modificare nella sua secolare italianità, di un “nuovo italiano” con una nuova identità per una “nuova Italia”.

 L’Italia de-cristianizzata, laicista e nazionalista che era il sogno di Mazzini come di Cavour, di Sella come di De Sanctis, di Rattazzi come di Crispi e Depretis. L’Italia della Guerra Civile Meridionale e di milioni di emigranti, della corruzione morale e politica e del disastro economico, quell’Italia che precipitò nella dittatura, nella guerra civile e nell’8 settembre del ’43, “morte della patria”, come Galli della Loggia e tanti altri storici e intellettuali lo hanno definito. Questa fu la grande sfida del Risorgimento che noi dovremmo festeggiare nel 2011: l’italiano nuovo, figlio appunto del Risorgimento laicista e nazionalista prima, dell’Italia fascista poi (perché, inutile nascondercelo, 23 anni su 150 complessivi non sono pochi, tanto più se hanno comportato, oltre a varie riforme sociali, una dittatura, una conquista di un “impero”, l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale, la guerra civile e la disfatta militare e politica dello Stato) e della repubblica partigiana poi, nuovo in quanto antitetico a quello precedente, all’italiano figlio dei secoli cristiani e della Chiesa. Ci sono riusciti i nostri governanti in questi 150 anni, ognuno al proprio turno, a fare l’“italiano nuovo”? E, se sì, anche parzialmente, ci è convenuto? Dobbiamo veramente festeggiare? Non potrebbe risiedere forse proprio nella risposta a tali quesiti la chiave di interpretazione dei mali denunciati nel dibattito prima riportato?

Puttanieri e moralisti d’Italia

La stessa cultura che ha sostenuto il divorzio e l’aborto, eliminazione cruenta di una creatura innocente, e che ha veicolato la pornografia, il “libero amore” e quant’altro; quella stessa cultura che ha portato in Parlamento, come simboli di una visione “aperta”, e non “sessuofobica” della vita, Cicciolina e Luxuria, e che ogni giorno che Dio manda in terra combatte la morale cristiana della famiglia e degli affetti, oggi, improvvisamente, riscopre nientemeno che la purezza verginale, e marcia con sciarpe bianche come gigli, urlando contro il mercimonio, la promiscuità e ogni altra morale nefandezza.

 Potenza dell’ipocrisia. Onnipotenza della mentalità giacobina, che utilizza tutto e il contrario di tutto, senza vergogna, pur di demonizzare il Nemico, trasformandolo nell’ostacolo, metafisico, all’avvento del Bene e della Giustizia. Ebbene, questa breve riflessione, mi apre ad un invito, a tutti i partecipanti alla manifestazione di indignati/e sciarpati di bianco: passando lungo le strade e le piazze che vi porteranno al grande raduno catartico, in preda al furore sacro che vi anima, abbattete le lapidi e i simboli che ancora ricordano i “padri della patria”!

 Fate un lavoro completo, per favore, contro i satiri di oggi e di ieri, negandovi solo, se la coscienza richiamasse, improvvisa, il suicidio. Troverete sicuramente, lungo la strada, almeno una statua equestre di Garibaldi: abbattetela.

L’eroe dei due mondi, è ora finalmente di dirlo, era un grande puttaniere, anche se per “Repubblica” di allora era un eroe, del libero pensiero, dell’anticlericalismo, dell’odio alla Chiesa “sessuofobica”. Lo raccontano i suoi biografi, anche i suoi entusiasti celebratori. Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi”, ricorda solo alcune delle sue amanti: Anita, Emma Roberts, la serva Francesca Armosino, la baronessa Maria Esperance von Schwatrz, la contadina analfabeta Battistina Raveo, “tra i pochi abitanti dell’isola (Caprera) l’unica donna cui può rivolgere la sua virilità”; e poi la trentenne Paolina Pepoli, vedova del conte Zucchini, la diciassettenne marchesina Giuseppina Raimondi…

 Senza contare le innumerevoli avventure lampo. Scrive infatti Scirocco che Garibaldi, già anziano, “da vecchio marinaio coglie facili occasioni quando va alla Maddalena e in Sardegna, per la caccia e gli acquisti. La presenza di una donna giovane, senza pretese, è una tentazione cui cede volentieri. Non è abituato a precauzioni”, e sparge a destra e a manca figli cui non dedicherà alcuna attenzione. Sulle avventure sentimentali di Garibaldi, Luca Goldoni ha scritto un intero libro, “Garibaldi, l’amante dei due mondi”, da cui emerge il ritratto di un donnaiolo senza scrupoli, capace di consumare amori furibondi tra una battaglia e l’altra come pure nei periodi di noia e di inattività, sino alla fine.

 Eppure Garibaldi era anche un perfetto moralista: distruggerne la statua, o invitarlo alla manifestazione? Ricorda Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita”, che “l’ultimo suo ventennio di vita l’eroe dei due mondi lo impiegò anche a scrivere, dedicandosi alla letteratura. Si mise a comporre patetiche opere anticattoliche, tutte a sfondo sessuale, con gesuiti depravati e assassini che si innamoravano di belle donne, le violentavano e poi venivano puniti dai patrioti”.

 Ma non c’è solo Garibaldi tra i tombeur de femmes, magari moralisti, che hanno creato l’Italia risorgimentale.

Camillo Benso, conte di Cavour, il re Vittorio Emanuele II, Mazzini, Crispi, e tanti altri, non erano da meno. Racconta le loro gesta Gilberto Oneto nel suo “La strana unità”. Se Garibaldi “ha tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti” e di figli, “anche Mazzini miete successi amorosi” in gran numero, approfittando della sua aria di profeta e di rivoluzionario misterioso: “al suo fascino soggiacciono Adelaide Zoagli, madre di Goffredo Mameli; Giuditta Bellerio, vedova del cospiratore reggiano Giovanni Sidoli; Susan, moglie inglese del patriota Pio Tancioni: Emile, moglie del carbonaro Carlo Venturi; l’inevitabile Jessie White, che tanto ama l’Italia da frequentarne appassionatamente tutti gli eroi più indomiti…”.

E Cavour? Il conte, ricorda Oneto, “ha un debole per le signore un po’ attempate, ovviamente mogli di altri, come la Marchesa Clementina Guasco di Castelletto e la contessa Emilia Nomis di Pollone, ed ha una lunga relazione con la ballerina ungherese Bianca Sovertzy, moglie di Domenico Ronzani…”.

Vito Di Dario, nel suo “Oh, mia patria!” rammenta che le numerose lettere d’amore a svariate donne di Cavour erano così “sconvenienti” che vennero distrutte dagli eredi. Il conte era l’uomo, ricordiamolo, che non esitò ad inviare a Parigi la cugina diciottenne, già amante di Vittorio Emanuele – anche lui un vero puttaniere alla caccia continua di donne di corte e di bordello, di cui Cavour teneva nota per poterlo ricattare- , per sedurre Napoleone!

E Crispi, il feroce nemico della Roma papale, vagheggiatori di imperi africani? “Neppure in età avanzata smette di essere un impenitente donnaiolo”, tanto che la moglie Lina Barbagallo deve scrivere al vecchio servitore di famiglia: “Vi ordino di non portare più puttane a don Ciccio”. Il Foglio, 10/2/2011 continua

La storica Angela Pellicciari a Rovereto

La studiosa Angela Pellicciari, una della massime esperte sul panorama italiano in tema di Risorgimento e collaboratrice del nostro sito Libertà e Persona, l’11 febbraio terrà a Rovereto una conferenza dal titolo: “Risorgimento da riscrivere“.

L’appuntamento è per le 17.30 presso il Palazzo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto in Piazza Rosmini numero 6.

L’incontro è promosso dall’Associazione Conventus.

Quando Pio IX voleva un’Italia unita e federale

Il 1848 è l’anno delle rivoluzioni. A questa data sul soglio pontificio siede Pio IX. I moti del 1820-21, guidati dalle sette, si sono rivelati un flop. Lo stesso può dirsi dei moti del 1831. Qual è la posizione del nuovo papa? Pio IX è convinto che sia giunto il tempo di unificare l’Italia, senza spargimento di sangue e senza rivoluzioni: il suo desiderio è una Confederazione.

 A questa data sono in auge le idee dell’abate Vincenzo Gioberti, che col suo neoguelfismo, probabilmente machiavellico, ottiene ascolto non solo in Vaticano ma presso un pubblico piuttosto ampio di moderati e cattolici che vedono nelle sue proposte la possibilità di unificare il paese senza passare da una rivoluzione. Secondo Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita”, Gioberti è l’uomo che volutamente avvicina alle masse il programma nazionale borghese che altrimenti non avrebbe avuto alcun successo. Il suo scopo non sarebbe dunque quello di una confederazione neoguelfa, con a capo il papa, ma la strumentalizzazione del papa stesso per avvicinare i cattolici ad una rivoluzione che altrimenti li spaventerebbe.

Fatto sta che Pio IX, anche su consiglio dell’abate Rosmini, aspira ad una Italia confederata. L’idea federale è così chiara a Pio IX che egli lavora ad una Lega doganale, ostacolata dai Savoia, e chiama, come I ministro pontificio, Pellegrino Rossi, giurista di fama e redattore della Carta Costituzionale della Confederazione Elvetica. Si può tranquillamente dire che nel 1848, oltre al papa, buona parte del clero parteggi per quella che il gesuita Giuseppe Romano chiama una “Lega federativa, diretta a tutelare a ciascuno dei popoli federati i suoi diritti, gli istituti, le proprietà, le franchigie…”.

 Allo scoppio della I guerra di indipendenza, nello stesso 1848, Pio IX, piuttosto ingenuamente, concede l’invio di un corpo di spedizione, guidato dal generale Durando, “come partecipazione simbolica allo sforzo congiunto di quasi tutti i monarchi italiani contro l’Austria”. Durando va ben oltre gli ordini ricevuti, mettendo il papa in grosse difficoltà. In Curia infatti c’è chi, come Corboli Bussi, intimo del pontefice, paragona la ribellione lombarda a quella americana e la ritiene giusta e motivata, e chi invece frena perché ha meglio del papa compreso le mire di Carlo Alberto.

 Pio IX, scrive Giacomo Martina nel suo “Pio IX”, si trova dunque tra più fuochi: “il suo stesso entusiasmo nazionale, vivissimo in quelle infuocate giornate”, che gli fa credere di rivivere i fasti dell’antica alleanza tra i comuni lombardi e Alessandro III contro i tedeschi, e una serie di altre considerazioni che lo spaventano. Anzitutto: può un pontefice partecipare ad una guerra contro una nazione cattolica, senza che vi sia una iusta causa? In secondo luogo: quanto sono forti le spinte anticristiane nel movimento unitario? Soprattutto è presto chiaro, al papa come agli altri sovrani italiani, che Carlo Alberto è disinteressato ad una Lega italiana e non persegue altro che la propria espansione.

Egli, inoltre, mentre da una parte perseguita i Gesuiti, dall’altra cerca di fare del papa il cappellano della sua guerra sabauda. Mentre dunque i piemontesi strumentalizzano il patriottismo di Pio IX, sino a volerlo banditore di una guerra santa antiaustriaca, dall’altra, in Austria, il papa, le cui simpatie italiane non sono ignote, viene al contrario presentato come un perfido nemico del paese. Addirittura come il fomentatore della ribellione lombarda.

 In Austria comincia una campagna di stampa molto violenta contro Pio IX i cui soldati sono accusati di “uccidere gli austriaci”. Le forze anticristiane ne approfittano per andare all’attacco, facendo leva sulle vecchie tendenze giuseppiniste e sui protestanti. Si chiede a gran voce la separazione da Roma, la soppressione di vari ordini religiosi. Mentre in Italia i Gesuiti vengono attaccati con violenza, in Austria il 7 aprile i Redentoristi vengono espulsi da Vienna. Se non bastasse il primate d’Austria minaccia lo scisma.

 In questa condizione Pio IX corre ai ripari: stende un abbozzo di Allocuzione, che viene pubblicata il 29 aprile del 1848, in cui dichiara sia la propria neutralità sia il carattere religioso e non politico della missione della Santa Sede, senza però nascondere la sua simpatia per la causa italiana. Ma l’Allocuzione, che condanna anche l’idea di mettere il papa a capo di un futuro Stato italiano, viene rimaneggiata dalla Segreteria di Stato, che sfuma la simpatia di Pio IX verso la causa italiana: ne esce un proclama, giusto ma “mediaticamente” improvvido, che non soddisfa né l’Austria, né i suoi nemici, ed anzi dà il fiato agli avversari italiani della Chiesa, che colgono al balzo la possibilità di additare la neutralità non indifferente di Pio IX come complicità con il “tiranno straniero” .

 E’ l’uccisione di Pellegrino Rossi, il 15 novembre 1848, accoltellato da un carbonaro, a precipitare le cose, segnando la vittoria dei facinorosi e dei violenti, la fine delle speranze federaliste e l’allontanamento definitivo di Pio IX, costretto alla fuga, da Roma prima e dalla causa unitaria, così come si era delineata, poi. continua Il Foglio, 3 febbraio 2011

Risorgimento e società segrete

Il movimento risorgimentale, si dice spesso, prese una direzione anticattolica soprattutto dopo il 1849 e la decisione di Pio IX di non partecipare alla cacciata dell’austriaco. Questo è in parte vero, e ci torneremo, ma incompleto.

Una forte carica di odio verso il cristianesimo è presente sin dall’origine dei moti liberali. Essa è infatti implicita nella “religione della patria” promossa da svariati personaggi di tendenze romantiche. Quando un Foscolo o un Mazzini, parlano di Patria e di Nazione, si sente nei loro accenti il fanatismo, una eccitazione irrazionale, un furore passionale privo di qualsiasi profondità speculativa, che agli occhi dell’uomo contemporaneo, che del nazionalismo ha visto i frutti, risulta, oltre che retorico, ridicolo. Questa “nuova divinità del mondo moderno” (F.Chabod), la Nazione, più costruzione culturale che dato reale, alla quale si sarebbe costruiti altari e immolati i popoli, non può piacere a molti cattolici, anche a coloro che desiderino un’ Italia senza gli austriaci. Inoltre questa mentalità “patriottica” si afferma, oltre che tramite la fumosità della letteratura, nelle logge e nelle società segrete.

L’Italia dei moti liberali del 1820-1821 è brulicante di sette: i Federati lombardi, la Carboneria, gli Adelfi, i Sublimi Maestri Perfetti

Queste società segrete non sono tali solo per sfuggire alle polizie dell’epoca, come spesso si vuol far credere. Sono segrete come concezione. Sono gli stessi adepti che non ne conoscono gli scopi, se non strada facendo. I Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonaroti, per esempio, professano il deismo e la monarchia costituzionale, al primo grado; la repubblica, al secondo; una società di stampo comunista, al terzo. Ogni grado, ricorda il Candeloro, ha “un proprio fine senza conoscere il fine del grado superiore e in particolare quello del terzo, che era segretissimo e composto certo di pochissime persone”.

 Il tutto, come scrive Buonarroti stesso, il cui testo sulla cospirazione comunista di Babeuf viene pubblicato in Italia nel 1829 con grande successo, con una ulteriore ambiguità: una “società segreta è democratica nei suoi principi e obiettivi, ma le sue forme e la sua organizzazione non possono essere quelle della democrazia”. Esattamente come sostiene Garibaldi, che al principio delle sue Memorie, si definisce “repubblicano ma sempre più convinto della necessità di una dittatura onesta e temporaria”, per Italia, Spagna e Francia.

 Nelle logge, da cui anche Garibaldi proviene, si urla da mane a sera contro la tirannia e per la “libertà”, come usava nei club giacobini, mentre è proprio la struttura di queste società segrete, come lo era quella del partito giacobino, ad essere del tutto tirannica ed antidemocratica.

Chi fa parte delle società segrete? Chi scorra la storia di quegli anni non trova il popolo, quanto conti e marchesi (i Porro, i Confalonieri, i Santorre di Santarosa), ricchi borghesi, e militari filonapoleonici (i Pepe, i Morelli e i Silvati, i fratelli Bandiera…). Infine queste società segrete, che spesso lottano apertamente contro la Chiesa cattolica, costituiscono, esse stesse, una chiesa.

La Carboneria meridionale, ricorda lo storico M. Themelly, è composta soprattutto dalla nobiltà e dalla borghesia fondiaria, e prevede, oltre alla segretezza, giuramenti terribili, rituali macabri, persino “omicidi rituali” , “espropri e rapine”, accanto a parole d’ordine come “Filantropia”, “Libertà o morte”, ma anche “Tristezza, morte, terrore, lutto”.

 La retorica carbonara mescola poi “il linguaggio evangelico con quello democratico”, religione e politica, deismo e superstizioni popolari. “Al centro dell’esperienza settaria è il grande mito della rigenerazione che la Carboneria esprime assimilando lo schema cristiano della salvezza. Di questo processo di rigenerazione o ‘carbonizzazione’ il simbolo più alto è il Calvario, la passione, morte e risurrezione che diventano momenti centrali del mistero settario. Cristo diviene il simbolo del carbonaro…ma la salvezza carbonica non è come quella cristiana rigenerazione morale e perfezionamento morale, bensì ‘cambiamento politico’” (Themelly, introduzione a L. Minichini, “Luglio 1820: cronaca di una rivoluzione”, Roma, 1979).

 La Carboneria, che non disdegna l’ assassinio politico e l’attentato terroristico (vedi l’uccisione di Pellegrino Rossi o l’attentato alla caserma Serristori), ha infine le sue Iniziazioni, i suoi calendari, i suoi Catechismi e le sue Istruzioni.

Recita una di queste: “Vi ha un pensiero che ha sempre preoccupato gli uomini che aspirano alla rigenerazione universale. Il pensiero è quello della liberazione dell’Italia, da cui deve uscire, in un dato giorno, la liberazione del mondo intero, la Repubblica fraterna e l’armonia dell’umanità”.

Non è dunque difficile scorgere, nello spirito patriottico dei settari e di molti romantici risorgimentali, la violenza ed il furore del nazionalismo; nella loro “democrazia” settaria, l’embrione delle dittature “popolari”; nella loro “rigenerazione universale”, il messianismo e l’utopismo proprio delle ideologie di morte novecentesche. continua Il Foglio, 27 gennaio 2011

150 anni dell’Italia unita…dagli erotomani

Nelle celebrazioni della ricorrenza unitaria, si sa, per la storia non c’è posto: per la retorica ufficiale e soporifera sì, ma per la memoria degli eventi e dei protagonisti no. Ed è un vero peccato, soprattutto alla luce del caso Ruby, lo scandalo di questi giorni e – Dio non voglia – anche dei prossimi mesi. Una rivisitazione storica anche sommaria, infatti, svelerebbe interessanti paralleli tra le ormai conclamate debolezze del Cavaliere per il gentil sesso e le imprese di Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour, rispettivamente l’Eroe dei due Mondi e i primi Re e Premier dell’Italia Unita. E tutti e tre, per la cronaca, assatanati di sesso o sciupafemmine che dir si voglia. Cominciamo con Garibaldi, l’italiano più popolare del globo.

Tutti conoscono lo sbarco dei Mille a Marsala, antipasto di quelle battaglie che furono la rovina del Regno delle Due Sicilie. Ebbene, mille fu un numero caro a Garibaldi anche per un’altra ragione: il conteggio totale delle amanti. Non è uno scherzo: lo racconta Luca Goldoni in L’ amante dei Due Mondi (Bur – Rizzoli), biografia erotico-sentimentale del Generale in camicia rossa dove si spiega come, oltre alle tre mogli e agli otto figli, costui fece strage continua di cuori. Anche di donne sposate s’intende: la contessa Maria Martini della Torre abbandonò il marito e gli si offrì come compagna «indivisibile nella gloria e nella sventura», mentre la moglie di Lord Byron, pure lei ipnotizzata dal fascino garibaldino, usò la propria influenza nei salotti londinesi per procurare all’amato finanze per la spedizione dei Mille. Oltre a loro, baronesse, contadine, scrittrici, lavandaie, nobili e popolane. l’Eroe dei due Mondi, insomma, vantava un palmarès di tutto rispetto; da pornodivo, diremmo oggi.

Ancora più incredibili, se possibile, furon le imprese di Vittorio Emanuele II, chiamato “padre della patria” non solo in quanto, come ricordavamo poc’anzi, primo sovrano dell’Italia unita, ma anche perché disseminò lo Stivale di figli legittimi e soprattutto illegittimi. Tanto per dare un’idea dell’uomo, possiamo ricordare quanto scrisse Carlo Dossi: «Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo all’anno. A volte di notte, svegliavasi di soprasalto, chiamava l’ajutante di servizio, gridando “una fumna, una fumna!”, e l’ajutante doveva girare i casini della città finché ne avesse una trovata, fresca abbastanza per essere presentata a S.M». Una volta convocate a corte, le fanciulle erano preda della passione del baffuto monarca, che «si divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano intorno. Ma a un tratto lo piglia l’estro venereo e le sfondava tutte». E quando i fuochi d’artificio finivano, continua Dossi, «il suo dottore di corte aveva una gran da fare per riccomodare uteri spostati».

L’aria nobile e distinta con cui viene spesso ritratto non tragga in inganno: anche Camillo Benso di Cavour fu uno spietato dongiovanni. E, come ogni talento che si rispetti, cominciò la carriera presto, quand’era cadetto della Regia Accademia militare. Pare avesse un debole per le signore maritate, particolare che irritò non poco la madre Adele che arrivò più volte ad ammonirlo: «Camillo, vai sempre sulle terre degli altri! Smettila una volta per tutte!». Il primo grande amore del futuro Premier fu la marchesa Anna Schiaffino Giustiniani. Fu una storia tormentata dall’epilogo tragico, giacché, quando il conte di Cavour decise di lasciare nobildonna, questa, falliti i tentati di riavvicinamento all’amato, si suicidò. Tutto questo tuttavia non arrestò né la carriera politica, né, tantomeno, quella di donnaiolo di Camillo. E quando qualcuno gli chiedeva perché non si facesse una famiglia, furbescamente rispondeva: «Non posso farmi una famiglia perché devo fare prima l’Italia. E poi sposarmi significherebbe avere una costrizione».

La tirannia dello spazio ci impedisce, purtroppo, ulteriori divagazioni rosa sugli autori dell’Italia unita e sulle loro conquiste. Ma una cosa appare certa: fossero stati invitati ai festini di Arcore che tanto scandalo stanno procurando, tutti e tre avrebbero accettato volentieri. Eccome, se avrebbero accettato. E sarebbero certamente finiti – possiamo scommetterci – nel mirino del puritanesimo inquirente. Meno male che nel 1861 i magistrati s’occupavano d’altro , altrimenti avremmo avuto assai più indiziati e magari pure qualche condannato, ma forse non avremmo avuto l’Italia. Un Paese che, piaccia o meno, è stata unito da tre sciupafemmine incalliti. I quali, però, vengono celebrati  da intellettuali e rappresentanti delle istituzioni mentre altri, rei d’avere la loro stessa mania, passano per pervertiti. E la par condicio?

Un’ altra storia

Sono un figlio dell’Italia unita: un nonno di Genova, ex regno di Sardegna, due nonni siciliani, ex regno delle Due Sicilie, e una nonna romagnola, del fu Stato Pontificio. Vivo da sempre a Trento, città che fu asburgica, ultimo acquisto dell’Italia unita. Impossibile non sentirsi italiano. Ma italiano, penso, mi sarei sentito anche se fossi nato prima della data fatidica del cosiddetto Risorgimento.

 L’Italia, per me culla dell’impero romano e della cristianità; sede dei papi, di innumerevoli santi come Tommaso e Francesco, patria dei comuni, delle università, degli ospedali, di Dante, Petrarca, Giotto, Michelangelo, dell’arte e della musica…: senza bisogno né di Cavour, né di Garibaldi, né di alcun “risorgimento”. Mi sembra dunque inevitabile, in questo centocinquantesimo anniversario dell’ unità politica d’Italia, reagire alla retorica ufficiale, più blanda, certamente di un tempo, chè le rughe non si possono tener nascoste per sempre, ma ciononostante fastidiosa e petulante.

Se il Risorgimento non piacque ai cattolici, ma neppure ai comunisti come Gramsci; se Gobetti scrisse sul “Risorgimento senza eroi” e Tommasi di Lampedusa parlò dell’Italia degli sciacalli e delle iene…mi sarà permesso, sulla scia di altri, e non per puro gusto della polemica, intraprendere un piccolo viaggio, a puntate, sull’ “altro Risorgimento”. Non quello ufficiale, appunto, tutto eroi di cartapesta, magniloquenza romantica e ideologia, ma quello vero, con i suoi immensi difetti. Così immensi che 150 anni dopo un grande partito italiano del nord, propone una revisione della storia, mentre un astro della politica del sud, solo di nome Lombardo, toglie dalle strade della sua Sicilia i nomi degli eroi patri, che compaiono ancora, ossessivi, assillanti, dovunque. Come se la storia della Sicilia iniziasse nel 1861 e fosse fatta solo da un Nizzardo o da qualche piemontese che parlava meglio il francese dell’italiano.

Non avrò altro intento che dare un’altra visione della storia, non per dividere, come direbbe qualcuno: sia perché sono, come ripeto, italianissimo, e desidero rimanerlo, sia perché le divisioni che vi sono tutt’oggi non le produce chi le ricorda, ma le ha create, appunto, in buona parte, proprio il cosiddetto Risorgimento. Per parlare di questo periodo è giocoforza cominciar dalla Restaurazione, cioè da quell’avvenimento che, nella storia ufficiale, viene descritto a tinte fosche, perché funga da contraltare per le presunte grandezze successive.

Cosa fu la Restaurazione? Oggi ne conosciamo i limiti. Il più clamoroso dei quali fu forse che i restauratori violarono i loro stessi principi, “dimenticandosi”, su pressioni dell’Inghilterra, di restaurare due antichissime repubbliche: quella di Genova, regalata ai Savoia, e quella di Venezia, presa dagli austriaci. Errore gravissimo che costò all’Austria da una parte il rafforzamento di quello che sarebbe stato il suo principale nemico, il Piemonte sabaudo, dall’altra una occupazione che seppur ricca di buoni frutti, portò agli Asburgo l’odio di tanti italiani.
 Chissà se il Risorgimento ci sarebbe mai stato, se la Restaurazione non avesse fatto tali errori; se avesse limitato il potere della borghesia illuminista che aveva fatto man bassa di beni comuni e della Chiesa nell’epoca di Napoleone; se l’elite militare filo napoleonica, assetata di guerra e nutrita della “fraternità” delle baionette, fosse stata messa all’angolo… Fatto sta che la Restaurazione venne dopo gli orrori della rivoluzione francese, il genocidio vandeano, le migliaia e migliaia di ghigliottinati in nome della fraternitè rivoluzionaria.

Venne dopo ben 19 anni di guerre napoleoniche e dopo i suoi saccheggi – soprattutto, ma non solo, in Italia-, di opere d’arte, ricchezze, uomini. Ricordiamo almeno i 500.000 morti, mai strage simile si era vista prima, sacrificati nella campagna di Russia da quell’uomo che era stato giacobino e repubblicano e che si era poi messo in testa la corona, da solo, a significare che non vi era altro autore della legge che lui stesso: Napoleone, colui che, come aveva capito Dostoevskj, annunciava le dittature atee del Novecento… Il tanto vituperato Congresso di Vienna, dicevo, ebbe il grande merito di non umiliare la Francia, colpevole e vinta, e di permettere così numerosi anni di pace.

Come ricorda Massimo de Leonardis infatti non vi fu “nessuna guerra tra stati europei fino al 1853, quando scoppiò la guerra cosiddetta di Crimea, nessun conflitto su scala continentale per un secolo, fino al 1914”.

 Ma la Restaurazione sarebbe stata battuta dal principio di nazionalità, anticamera del nazionalismo, dalla santa “sovranità popolare” e dall’idea dello Stato centralizzato, giacobino e, appunto, nazionalista, tutte idee cavalcate dal Risorgimento, che avrebbero generato le dittature (proprio nei due paesi di più tardo “risorgimento”) e ben due guerre mondiali. Quanto superiore, il Congresso di Vienna, ai trattati iniqui, cent’anni più tardi, di Versailles, che, sancendo la morte dell’Impero multinazionale asburgico, segnarono la vittoria definitiva del Risorgimento e del nazionalismo e favorirono, solo vent’anni dopo, lo scoppio del secondo conflitto mondiale! Il Foglio, 20/1/2011  continua