Risorgimento e congressi scientifici.

L’invasore Napoleone si muove nel nome della scienza. Quello che fa, lo fa per liberare i popoli dal giogo dell’oppressione e dell’ignoranza. Napoleone ritiene giunto il momento in cui tutti debbano riconoscere la bontà, la scientificità ed il valore dei principi massonici da lui incarnati.

E’ così che dovunque arriva li propaganda nel nome della scienza, fondando dappertutto Società di Agricoltura, di Scienza e di Arti. Caduta la stella di Napoleone, in piena Restaurazione, i liberali di tutti gli stati d’Italia tengono vivo il ricordo delle mitiche gesta dell’eroe corso e rinfocolano la speranza di un più roseo avvenire -gli antichi sovrani si sono affrettati a sopprimere le Logge sorte dovunque in epoca napoleonica- organizzando Congressi scientifici. Anima del movimento è un cospiratore legato a Napoleone da stretti vincoli di parentela, Carlo Bonaparte, principe di Canino. Non è un caso che, a cose fatte, a Risorgimento ultimato, il sindaco di Roma Luigi Pianciani inaugurando nel 1873 il penultimo Congresso scientifico, finalmente convocato nella città dei papi, invita i convenuti ad una “profonda, immensa soddisfazione”. “Sì, o signori, -sostiene- a me piace riconoscerlo qui in Roma, grandissima parte del risorgimento italiano è dovuto a voi; giacché ha cominciato il nostro movimento col Congresso scientifico che ebbe luogo in Pisa nel 1839”.

Cosa c’entra un congresso scientifico col processo di unificazione italiana? Per propagandare una religione diversa dal cattolicesimo in un paese profondamente cattolico, non ci si può servire della miriade di confraternite e opere pie in cui la popolazione italiana è capillarmente suddivisa; per scalzare dai propri troni i rispettivi regnanti, non si può agire pubblicamente in qualcuna delle, pur prestigiose, istituzioni culturali e scientifiche dei vari regni. Per propagandare la rivoluzione, cioè l’unità e l’indipendenza d’Italia, bisogna sfruttare tutti gli spazi possibili, creando le occasioni propizie. A questo mira l’Istruzione della carboneria quando prescrive: “Sotto il più futile pretesto, ma mai politico né religioso, fondate voi medesimi, o, meglio, fate fondare da altri, associazioni e società di commercio, d’industria, di musica, di belle arti”. La pratica dei Congressi scientifici che fra feste, fanfare e invocazioni dello Spirito Santo si apre solennemente a Pisa nel 1839, va in questa direzione. Da allora, e fino al 1847, si tiene un congresso all’anno, a turno, nelle diverse città d’Italia. Si prosegue con Torino, poi Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e, infine, Venezia. Un solo stato si rifiuta di ospitare le assise scientifiche di nuovo tipo, ricalcato sul modello dei paesi protestanti: lo Stato della Chiesa. Quale conclusione trarne? Che si tratta di uno stato oscurantista, avverso al progresso e al sapere; uno stato che rende l’Italia, per utilizzare la colorita espressione di Pianciani, “una terra di morti”. Organizzati per sezioni, i lavori dei congressi contemplano, insieme a quelli della medicina e delle scienze naturali, il tema dell’agricoltura. Quest’ultimo soggetto però, visto l’assetto eminentemente agricolo della nazione, non è affrontato solo nei congressi.

La divulgazione capillare dei miglioramenti proposti dalla scienza in agricoltura, è favorita attraverso la costituzione di numerose Associazioni Agrarie, la prima delle quali vede la luce in Piemonte nel 1843. All’associazione, ricorda lo storico massone La Farina nella Storia d’Italia, “si iscrissero non solo gli studiosi delle scienze attinenti all’agricoltura, ma anche tutti gli uomini dotati di generosi e liberi sentimenti”: ben “tremila e seicento” i soci. Il numero sorprendentemente alto degli iscritti diventa comprensibile se si tiene conto che molti di coloro che vogliono modernizzare le colture non hanno alcun campo per tradurre in pratica le teorie. E infatti, è sempre il parere di La Farina, “la parte politica, a volte predominò sulla scientifica”: “ne’ banchetti e festeggiamenti, fra clamorosi applausi invocavasi il nome d’Italia, le sue antiche glorie si rammentavano, nuove glorie e non lontani trionfi le si auguravano”. Anche in questo caso, sottolinea lo storico, la “parte gesuitica” fu decisamente avversa alla vita delle associazioni e, con esse, al necessario sviluppo del progresso in campo agricolo. La Farina confonde l’avversione cattolica alla messa in scena delle Associazioni agrarie con il mancato interesse per i miglioramenti scientifici. Quante cose non si fanno per la scienza. Ieri come oggi il mondo è sempre lo stesso.

Giuseppe Mazzini: uno strano tipo di credente

Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali nonché antenato di Indro, il giornalista scomparso da alcuni anni, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, ad una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo.

A lui “debbonsi lodi per alcun bene che fece -sostiene-, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio”. Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati -spesso riusciti- alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: “L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale”.

Massimo D’Azeglio dice di lui che “legato a società bibliche inglesi e americane” cerca “di rendere l’Italia protestante”. Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: “La missione religiosa consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia”. Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: “Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità”. Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: “Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso” sia “la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti”.

Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria.

Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile” e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: “raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”. “Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta”, scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di “secondo Maometto”. Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la u maiuscola.

Comincia la carboneria.

Passato il ciclone Napoleone, a continuarne la battaglia rivoluzionaria restano i suoi eredi: militari che hanno acquisito ricchezza e potere, borghesi arricchiti con la legale spoliazione dei beni della chiesa, cadetti delle casate nobiliari, studenti romanticamente attratti dall’ideale nazionale.

I membri delle società segrete. “Chi pensava allora all’Italia, alla sua indipendenza, alla sua rigenerazione? Meno poche eccezioni, la schiuma sopraffina della canaglia, che si riuniva misteriosamente nelle vendite dei Carbonari”: in termini così poco lusinghieri Massimo D’Azeglio descrive ne I miei ricordi la società segreta protagonista dei tentativi insurrezionali dei primi decenni dell’Ottocento.

“Figliuola della Frammassoneria”, come scrive nella Storia d’Italia pubblicata nel 1851 lo storico massone Giuseppe La Farina che parla, come sottolinea, con “cognizione di causa”, la carboneria organizza i moti del 1817 a Macerata, del 1820 a Nola, Avellino, Napoli e Milano, del 1821 a Torino, del 1831 a Modena e nelle Legazioni. Gli intenti dell’Alta Vendita, vale a dire della direzione strategica della rivoluzione in quel periodo, sono chiaramente enunciati in documenti caduti in mano della polizia pontificia.

Si tratta di un interessantissimo epistolario e di uno scritto noto col nome di Istruzione permanente redatto nel 1818. Sia l’Istruzione che le lettere sono testi estremamente significativi perché, tenendoli presente, si capisce qualcosa di più del come e del perché si sia giunti alla formazione del Regno d’Italia. Quale lo scopo della carboneria? Detto in parole povere la liberazione dell’Italia dal cattolicesimo. E l’unità e l’indipendenza? Favole, miti per gente semplice e credulona.

Proprio così scrive Felice a Nubio -i nomi di battaglia dei carbonari non sono stati divulgati- l’11 giugno 1829: “l’indipendenza e l’unità d’Italia sono chimere. Pure queste chimere producono un certo effetto sopra le masse e sopra la bollente gioventù. Noi, caro Nubio, noi sappiamo quello che valgono questi principii. Sono palloni vuoti”. Per capire con quali armi i rivoluzionari contassero di stroncare il cattolicesimo in Italia conviene citare per esteso i testi dei carbonari: si tratta di documenti che non è esagerato definire agghiaccianti. La calunnia, la maldicenza, l’infiltrazione nelle file del clero, la disintegrazione della famiglia, la corruzione, sono le armi spregiudicatamente scelte e consigliate per conseguire lo scopo prefisso.

Veniamo ai testi. “Il nostro scopo finale – sostiene l’Istruzione – è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicismo e perfino dell’idea cristiana”; l’Alta Vendita si prefigge una “rigenerazione universale”, inconciliabile con la sopravvivenza del cristianesimo. Vindice scrive a Nubio: “Noi abbiamo intrapresa la fabbrica della corruzione alla grande; della corruzione del popolo per mezzo del clero e del clero per mezzo nostro. Questa corruzione dee condurci al seppellimento della Chiesa cattolica”. L’Istruzione prevede che, dove non si arrivi con la corruzione, si debba supplire con la calunnia: “Schiacciate il nemico, quando è potente, a forza di maldicenze e di calunnie”; una parola ben inventata, “una parola può, qualche volta, uccidere un uomo. Come l’Inghilterra e la Francia, così l’Italia non mancherà mai di penne che sappiano dire bugie utili per la buona causa. Con un giornale in mano, il popolo non avrà bisogno di altre prove”. Ancora: “Dovete sembrare semplici come colombe, ma sarete prudenti come i serpenti. I vostri genitori, i vostri figli, le vostre stesse mogli devono sempre ignorare il segreto che portate in seno, e, se per meglio ingannare l’occhio inquisitore, decideste di andare spesso a confessarvi, siete a ragione autorizzati a conservare il più rigoroso segreto su queste cose”.

Le istruzioni continuano: “dovete presentarvi con tutte le apparenze dell’uomo serio e morale. Una volta che la vostra buona reputazione sia stabilita nei collegi, nei ginnasi, nelle università e nei seminari, una volta che abbiate catturato la confidenza di professori e studenti, fate in modo che a cercare la vostra compagnia siano soprattutto quanti sono arruolati nella milizia clericale. Si tratta di stabilire il regno degli eletti sul trono della prostituta di Babilonia: che il clero marci sotto la vostra bandiera mai dubitando di seguire quella delle chiavi apostoliche”. Da sempre le élites rivoluzionarie, considerando sé stesse migliori del volgo, hanno creduto loro dovere insegnare al popolo cosa pensare. Da sempre lo hanno fatto poco a poco perché la popolazione non si ritraesse inorridita. Da sempre si è trattato di insinuarsi pian piano con abile propaganda per poi venire all’improvviso -e simultaneamente- allo scoperto. Vanno tanto diversamente le cose ai giorni nostri? Solo fino a qualche anno fa sarebbero state pensabili ostentazioni della diversità sessuale, uteri in affitto, sperimentazione sugli embrioni, clonazioni realizzate ed annunciate e via discorrendo?

“Due” parole su Garibaldi, l’eroe dei due mondi, o dei due milioni.

Si è fatta la solenne commemorazione per il bicentenario della nascita a Nizza il 4 luglio 1807 dell'”Eroe dei due mondi”, Giuseppe Garibaldi.
La Massoneria con grande enfasi lo sta celebrando, rivendicandolo come il “primo massone d’Italia” (contenti loro!!!), infatti il generale nel 1862 divenne il primo Gran Maestro dell’Italia unita; i politici e le più alte autorità istituzionali dello Stato ne tessono sperticati elogi, che lasciano allibiti.
Ma ormai lo si sa: su Garibaldi ci hanno raccontato, e continuano a raccontarci, un sacco di menzogne. Sarebbe ora che si cominciasse a ripristinare la verità con decisione.
Nei fatti l'”eroe dei due mondi”, fu pirata e corsaro, mercenario e negriero, artefice di saccheggi omicidi e ruberie varie, probabile complice dell’assassinio di sua moglie Anita, amministratore incapace, massone di alto grado, anticattolico e anticlericale. Solo una propaganda interessata e gigantesca ha potuto trasformarlo in eroe nazionale.
Per capire chi era e come veniva considerato ai suoi tempi Garibaldi, si può leggere, ad esempio, cosa scriveva il 13 settembre 1860 il giornale torinese Piemonte in un articolo intitolato “Il creduto prodigio di Garibaldi”:
“Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parve?ro sinora così strane che i suoi ammiratori han potuto chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo sconfigge eserciti, piglia d’assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz’armi… Altro che Veni, Vedi, Vici! Non havvi Cesare che tenga a petto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma il generale Nunziante e li altri ufficiali dell’esercito che, con infinito onore dell’armata napo?letana, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico; i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa colla sua onorevolissima lettera al nipote; li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi. Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la con?quista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell’universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani […]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquil?lamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l’Austria, caduta l’Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell’Europa, anzi dell’orbe terracqueo. E noi torinesi padroni del mondo!”.
Presento due articoli della prof.ssa Angela Pellicciari e un’intervista a V. Messori che si rivelano particolarmente utili per conoscere meglio la vita e la personalità dell'”eroe della Patria” o “dei due mondi”.
Auguri di ogni bene.
Giuseppe Biffi
Giuseppe Garibaldi
UN UOMO DAL “CUORE TENERO”
Aspetti sconosciuti della vita dell’eroe dei due mondi: amava gli animali, trasportava schiavi e odiava i preti. Che avrebbe mandato volentieri ai lavori forzati.
di Angela Pellicciari
Un tenero di cuore. Ebbene sì; Giuseppe Garibaldi era tenero di cuore. Come spesso capita a chi con gli uomini non ha troppi scrupoli – ci si ricorderà di Hitler -, il cuore del generale batte di amore paterno per gli animali. E dire che oggi quasi nessuno se ne ricorda. Come mai la sorte degli animali sta tanto a cuore all’eroe dei due mondi? Perché la loro situazione nei paesi cattolici, in primis ovviamente l’italia, è letteralmente da compiangere sottoposti come sono dai seguaci di santa romana Chiesa – che non credono di essere loro diretti discendenti – a brutalità di ogni tipo. Da sempre attento alle esigenze del mondo femminile, il cuore del generale è attratto dall’amare sorte toccata agli animali di una nobildonna inglese che, in viaggio per l’Italia, constata di persona i gravi maltrattamenti inflitti dai superstiziosi e ignoranti cattolici alle bestiole. ? così che, sull’onda dello sdegno, il generale fonda nel 1871 la Società per la Protezione degli Animali. Forse che i cattolici del secolo scorso erano davvero così spietati nei confronti delle bestie? A leggere i documenti dell’epoca non si direbbe. Sembrerebbe anzi che fossero proprio i cattolici a farsi paladini delle bestie cadute sotto il bisturi positivista di provetti scienziati umanitari. Un gruppo di scienziati stranieri aveva infatti iniziato a Firenze la pratica della vivisezione “per sorprendere i misteri della vita nei suoi recessi”. Fu proprio una campagna stampa sostenuta dal “partito cattolico” ad impedire che simili sperimentazioni continuassero in Italia. E così chi li faceva continuò il suo lavoro nella più ospitale – calvinista e puritana – Ginevra. Garibaldi, oltre che tenero di cuore, era anche fantasioso romanziere. E pure questo aspetto del poliedrico generale è rimasto praticamente sconosciuto anche perché difficilmente la sua produzione letteraria potrebbe definirsi riuscita. Interessante sì. Perché testimonia, se ce ne fosse bisogno, l’odio che uno dei padri nobili della nostra patria nutre per la Chiesa in generale, i suoi ministri in particolare, i gesuiti in modo speciale. Sì, perché se il prete è “il vero rappresentante della malizia e della vergogna, più atto assai a la corruzione e al tradimento dello schifoso e strisciante abitatore delle paludi”, il gesuita è “il sublimato dei prete”. “Quando sparirà – si chiede, affranto, Garibaldi – dalla taccia della terra questa tetra, scellerata, abominevole setta, che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’esser umano?”. Tanto è lo schifo che il generale nutre per tutto quanto ricorda santa romana Chiesa ed i suoi rappresentanti, che per i preti arriva ad immaginare un rimedio attuato circa un secolo dopo dalla fantasia malata di un altro grande della storia: Mao Tse-Tung. La Cina degli anni Sessanta assiste esterrefatta ad uno straordinario esperimento: come gli odiati “borghesi”, nella fattispecie i boriosi intellettuali – medici, ingegneri, professori -, possano imparare dai contadini l’arte, preziosa, di vivere. La “rivoluzione culturale’ , i cui milioni di morti non si sa quando potranno essere contati, distrugge la vita culturale, e quindi economica oltre che familiare, della nazione cinese. Ebbene Garibaldi questo provvedimento lo aveva anticipato, anche se solo nelle intenzioni. Solo che, invece dei borghesi, nei campi ci voleva mandare i preti. Nelle sue intenzioni “i preti alla vanga” avrebbero realizzato una magnifica bonifica delle paludi pontine. Questo benefattore dell’Umanità (con la U rigorosamente maiuscola come i massoni – di cui Garibaldi èautorevolissimo esponente – scrivono) oltre che tenero di cuore e romanziere è pure commerciante di schiavi. E anche questo aspetto della vita del liberatore d’italia dal giogo pontificio poco si conosce. L’attività di negriero Garibaldi la esercita negli anni eroici passati a combattere per la liberazione dell’America Latina. Convinto di vivere una vita memorabile, è Garibaldi stesso a redigere un resoconto delle proprie azioni in una lunga autobiografia. Solo che, a questo riguardo, le Memorie sono leggermente reticenti e devono essere integrate con altre fonti. Garibaldi non racconta del commercio di carne umana. Si limita a specificare che il 10 gennaio del 1852, da comandante della Carmen, parte dal porto del Callao, in Perù, alla volta della Cina. La nave trasporta un carico di guano che è una qualità di letame molto pregiata. Il generale è in genere molto preciso nel racconto delle proprie gesta che descrive in dettaglio; così dei viaggio Callao-Canton-Lima sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca solo un particolare: non viene specificato con che tipo di merce Garibaldi, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano, faccia ritorno in Perù. A questa dimenticanza provvede fortunatamente l’armatore ligure Pietro Denegri che volendo lodare il capitano della Car men, racconta all’amico di famiglia nonché biografo del generale, tale Vecchj, il dettaglio mancante: Garibaldi “m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie”. Protettore degli animali, romanziere e negriero? Garibaldi non è passato alla storia con questo clichet. Tutti lo conosciamo come impavido eroe dei due mondi, libertador, disinteressato condottiero, esule volontario, uomo puro e scevro da compromessi. Garibaldi con questa immagine è conosciuto e rispettato in tutto il mondo. Basti dire che nella centralissima piazza George Washington di New York, nuova capitale mondiale, la statua di Garibaldi è una delle due che accompagna, con minor magnificenza e con dimensioni molto più ridotte è vero, ma nondimeno con grande valore simbolico, la statua a cavallo del generale Washington, padre della patria americana. Davvero grande e onnipresente è l’odio per santa romana Chiesa. ? stato profetizzato.
Bibliografia
Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale Mon.to 2000.
Artgela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, Ares, Milano 1998.
Patrick Keyes O’Cleary, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, Ares, Milano 2000.
Il Timone – n. 15 Settembre/Ottobre 2001
Garibaldi rovina della Sicilia
di Angela Pellicciari
A servizio di Sua Maestà
Intervista a Vittorio Messori
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Chi fu veramente Giuseppe Garibaldi?
– AA VV, Brigantaggio legittima difesa del Sud, Ed. il Giglio, 2000. Ristampa di tutti gli articoli di Civiltà Cattolica sull’infausto 1860 e post.
– Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, PIEMME, Casale Monferrato 2002, pp.252
– Gennaro De Crescenzo, Contro Garibaldi – Appunti per demolire il mito di un nemico del sud , Editoriale il Giglio, Napoli 2006, pp. 103
– Luciano Salera, Garibaldi, Fauché e i Predatori del Regno del Sud – La vera storia dei piroscafi Piemonte e Lombardo nella spedizione dei Mille , Controcorrente edizioni, Napoli 2006, pp. 542
– Gilberto Oneto, L’iperitaliano, Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi , il Cerchio, Rimini 2006, pp. 324
Si possono anche leggere una serie di interessanti articoli in:
http://www.brigantaggio.net/brigantaggio/Personaggi/Garibaldi01.htm
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Lasciamo la parola all'”Eroe della Patria”:
Definiva lo Stato Pontificio “il più schifoso dei governi”, “il governo di satana” … E il Papa Pio IX: “metro cubo di letame”…
(cf. DE MATTEI Roberto, Pio IX, Piemme, p. 103)
“Per sollevare l’Italia da tanta apatia conviene sostituire il vero alla menzogna; l’Uomo creò dio e non dio l’Uomo”.
(Cit. in L. BRIGUGLIO; Garibaldi e il socialismo, p. 68)
“Se sorgesse una società del demonio che combattesse dispotismo e preti mi arruolerei nelle sue fila”
(GIUSEPPE GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari. Ricordi e pensieri inediti , Ciampoli, Roma 1907, p. 664).
“Nel suo testamento, proclamandosi apostolo della libertà e del vero, Garibaldi chiede la cremazione del proprio cadavere e dichiara di voler rifiutare ogni conforto religioso:
“[…] trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare”
(GIUSEPPE GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. II, p. 316).
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Lasciamo la parola ai suoi “Fratelli Massoni”:
La Gran Loggia d’Italia celebra
il Massone Garibaldi costruttore di Libertà
“Nel momento in cui si celebra il Bicentenario della Nascita di Giuseppe Garibaldi, Uomo costruttore di libertà sotto ogni latitudine, nel nostro Paese assistiamo ancora ad attacchi contro la Massoneria che si configurano come un vero e proprio attentato alla libertà e alla dignità personale”.
Lo ha detto questa mattina il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, Luigi Danesin, illustrando alla stampa, presso la Sede Nazionale dell’Obbedienza in Roma, il Programma di Convegni destinato a celebrare Garibaldi uomo e massone.
All’appuntamento hanno partecipato numerosi esponenti dei vertici della Gran Loggia d’Italia,oltre al prof. Aldo A. Mola unanimamente considerato il massimo esperto della storia massonica nel nostro Paese.
In particolare è stato ricordato come Garibaldi fu massone regolarmente iniziato, insignito del massimo grado 33? del Rito Scozzese Antico ed Accettato, e come, tra l’altro, a Palermo,nel 1867, nella sua veste di Gran Maestro, fu tra i primi in Italia a favorire l’ingresso delle donne in Massoneria. Ingresso che celebra proprio nel 2007 i suoi primi 50 anni.
Garibaldi massone lo fu dall’età di 37 anni; ciò nonostante, della sua appartenenza alla Libera Muratoria i libri di storia quasi non danno cenno alcuno.
Il tutto si inserisce in quel processo di grave omissione operato dai nostri storici ufficiali, inquadrabile in un pregiudizio antimassonico mai realmente scomparso nella società italiana.
Pregiudizio che si riscontra nei recenti attacchi di parti del clero e di alcuni esponenti politici, attacchi che vengono respinti con forza dalla Gran Loggia d’Italia intenzionata a ricorrere alla Corte di Giustizia Europea di Strasburgo per far riconoscere i reali diritti civili dei Fratelli Liberi Muratori.
http://www.granloggia.it/documenti/comunicato_25_01_07_garibaldi.pdf
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EDITORIALE
Garibaldi Massone
di Gustavo Raffi
Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia
Palazzo Giustiniani
Il 13 marzo 1848, all’atto di abbandonare quell’America Latina che lo aveva visto per quindici anni protagonista delle lotte per la libertà, l’ultimo saluto di Garibaldi fu per i Fratelli della Loggia “Les Amis de la Patrie” di Montevideo. Mio caro fratello – scrisse ad Adolphe Vaillant – poiché i miei impegni m’impediscono di soddisfare il desiderio di andarmi a congedare di persona dai miei carissimi fratelli della loggia, vi prego di voler avere la bontà di presentare voi stesso al loro rispettabile consesso i miei addii, i miei auguri per la loro felicità e la mia speranza di conservarmi, in qualunque parte del mondo io mi trovi, loro devoto fratello e sempre pronto a dedicarmi al sacro rito, al quale ho l’onore di appartenere . Mai parole potevano essere più rivelatrici e profetiche; poiché l’adesione alla Massoneria fu per Garibaldi non certo un episodio casuale ed effimero ma una scelta meditata e vincolante, che egli maturò a metà della sua esistenza e mantenne in modo consapevole fino alla morte. Sfrondata di taluni orpelli esoterici e rituali, che egli mostrò di non tenere in grande considerazione, la Massoneria fu per Garibaldi, specie dopo il 1860, un luogo di aggregazione e uno strumento organizzativo del quale cercò a più riprese di avvalersi per realizzare i propri progetti politici e culturali. L’organizzazione massonica – ha scritto Mola – fu dunque pensata da Garibaldi quale rete atta a ricondurre all’unità le altrimenti disperse forze del rinnovamento italiano: all’interno, con la formazione di una dirigenza nuova, capace di guarda – re agli sconfinati orizzonti aperti dallo sviluppo delle scienze (medicina, chimica, fisica, antropologia, etc.), invece di rimpicciolirsi nelle meschine gare per il potere; verso l’esterno, con l’inserimento di quella dirigenza in un circuito intellettuale le cui colonne d’Ercole, unificata l’Italia, erano la federazione d’Europa, la formazione dei grandi sistemi etnico-linguistici (slavi, anglosassoni, latini etc.) e, infine, l”unità mondiale’ dell’umanità affratellata da un empito costruttivo. E la Massoneria a sua volta – vale la pena sottolinearlo – utilizzò Garibaldi, sia prima che dopo la sua morte, come straordinario testimonial e come veicolo di propaganda dei propri ideali. Garibaldi – come ricorda Fulvio Conti in un articolo apparso su Hiram nel 2002, in occasione del centoventesimo anniversario della morte – venne iniziato alla Massoneria nel 1844, all’età di trentasette anni, nella Loggia “L’Asil de la Vertud” di Montevideo, una Loggia irregolare; emanazione della Massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali Obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844 egli regolarizzò tuttavia la sua posizione presso la Loggia “Les Amis de la Patrie” di Montevideo posta all’obbedienza del Grande Oriente di Parigi. Anch’egli entrò quindi in Massoneria durante l’esperienza dell’esilio, profittando dell’asilo che trovarono nelle Logge tutti quei rifugiati politici dei paesi europei governati da regimi dispotici e ostili a ogni apertura in direzione democratica e nazionalistica. Garibaldi frequentò poi le Logge massoniche di New York nel 1850 e quelle di Londra intorno al 1853-’54, dove entrò in contatto con alcuni esponenti dell’internazionalismo democratico aperti ai contributi del pensiero socialista e inclini a collocare la Massoneria su posizioni fortemente antipapiste. Soltanto nel giugno 1860, nella Palermo appena conquistata, Garibaldi venne elevato al grado di Maestro Massone e sempre a Palermo, nel 1862, il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato, luogo di raccolta di Massoni italiani di fede repubblicana e radicale, gli affidò il titolo di Gran Maestro. Il Grande Oriente Italiano, ricostituito a Torino nel 1859 e inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, affidò invece la carica di Gran Maestro a Costantino Nigra e conferì a Garibaldi soltanto il titolo onorifico di “primo Libero Muratore italiano”. Accettando il titolo di Gran Maestro dell’obbedienza siciliana Garibaldi scrisse: Assumo di gran cuore il supremo ufficio di capo della Massoneria Italiana costituita secondo il Rito Scozzese Riformato ed Accettato. Lo assumo perché mi viene conferito dal libero voto di uomini liberi, a cui devo la mia gratitudine non solamente per l’espressione della loro fiducia in me nello avermi elevato a così altissimo posto, quanto per l’appoggio che essi mi diedero da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle province meridionali. Codesta nomina a Gran Maestro è la più solenne interpretazione delle tendenze dell’animo mio, de’ miei voti; dello scopo cui ho mirato in tutta la mia vita. Ed io vi do sicurtà che mercé vostra e col – la cooperazione di tutti i nostri fratelli, la bandiera d’Italia, ch’è quella dell’umanità, sarà il faro da cui partirà per tutto il mondo la luce del vero progresso. Si stava preparando, in quello scorcio del 1862, la spedizione per la liberazione di Roma che sarebbe stata interrotta il 29 agosto dalle fucilate di Aspromonte. Garibaldi, accettando la carica offertagli dall’obbedienza scozzesista siciliana, dimostrò che in quella fase egli identificava la Massoneria con il programma nazionale e intendeva avvalersi di essa quale strumento organizzativo e di raccordo fra le varie correnti democratiche. Non a caso, appena giunto in Sicilia, presenziò all’iniziazione del figlio Menotti (il l luglio) e firmò egli stesso (il 3 luglio) la proposta di affiliazione dell’intero suo stato maggiore (Pietro Ripari, Giacinto Bruzzesi, Francesco Nullo, Giuseppe Guerzoni, Enrico Guastalla e gli altri). In prospettiva, una volta completata la lotta per l’indipendenza nazionale, il progetto politico della Massoneria doveva però identificarsi con un disegno più ampio e più ambizioso, quello del riscatto e dell’emancipazione dell’intera umanità. Fu il fallimento dell’impresa dell’agosto 1862 – ha osservato Aldo Alessandro Mola – a spingere Garibaldi su posizioni di anticlericalismo intransigente. In effetti, da quel momento in poi il generale manifestò una sempre più convinta adesione alle posizioni della Massoneria, che fu la principale sostenitrice nella penisola di un laicismo inflessibile e di una guerra a oltranza contro la Chiesa cattolica. L’obiettivo politico della liberazione di Roma dal dominio pontificio ben si coniugava evidentemente con l’obiettivo di dar vita a uno Stato laico e democratico, ove il potere temporale dei papi fosse soltanto un ricordo. D’altro canto – come scrive Fulvio Conti – anche dentro il Grande Oriente d’Italia la componente democratica di provenienza garibaldina cominciava a consolidare la propria presenza e a imporre le proprie scelte politiche e ideologiche. Non stupisce perciò che la prima vera Costituente massonica italiana, quella che si tenne a Firenze nel maggio 1864 con la partecipazione di 72 delegati, riuscisse finalmente a eleggere Garibaldi, a larghissima maggioranza, come nuovo gran maestro . Come è noto, egli detenne questa carica solo per pochi mesi. Troppo vivaci erano gli scontri in atto proprio in quel periodo fra i vari gruppi della sinistra italiana perché questi potessero riconoscersi nella leadership unificante di Garibaldi, come era accaduto nel recente passato. Il futuro Gran Maestro Lodovico Frapolli vide nella nomina di Garibaldi un passo indietro rispetto al progetto di depoliticizzazione della Massoneria che tanto gli stava a cuore, un progetto che mirava a impiantare anche in Italia una Massoneria di modello anglosassone, estranea alle beghe di partito. ? già una fatalità – scrisse Frapolli a Mordini, commentando l’elezione di Garibaldi – che le circostanze ci abbiano forzati a scegliere per l’Italia, a gran maestro, un uomo politico. Inconveniente che non
può essere tollerato, se non ammettendo la funzione che Garibaldi sia la bandiera del popolo, il mito incar-nato dell’umanitarismo, mentre d’altronde, se quel nome è da tutti accettato, egli è perché ognuno presume che il generale si contenti di questo r?le eccezionale e non se ne mescoli altrimenti . In realtà Garibaldi, come si è già detto, non pensava affatto che la Massoneria dovesse estraniarsi dalle vicende politiche nazionali, almeno fino a quando Roma fosse rimasta sotto la dominazione dei papi. Così nel maggio 1867, alla vigilia della Costituente Massonica di Napoli, egli lanciò un celebre appello a tutti i “fratelli” della penisola: Come non abbiamo ancora patria perché non abbiamo Roma, così non abbiamo Massoneria perché divisi. […] Io sono di parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia. Facciasi in massoneria quel fascio Romano che ad onta di tanti sforzi non si è potuto ancora ottenere in politica. Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano. Essi pongano da parte le passioni profane e con la coscienza dell’alta missione che dalla nobile istituzione massonica gli è affidata, creino l’unità morale della Nazione. Noi non abbiamo ancora l’unità morale; che la massoneria faccia questa, e quella [l’unità della nazione] sarà subito fatta. […] L’astensione è inerzia, è morte. Urge l’intendersi, e nell’unità degli intendimenti avremo l’unità di azione . La Costituente napoletana del 1867 elesse Garibaldi Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia, obbedienza ormai conquistata dagli esponenti della sinistra di orientamento democratico. Il legame con l’istituzione liberomuratoria divenne quindi saldissimo, e altrettanto profonda fu l’identificazione con gli ideali e i valori culturali di cui essa si faceva portavoce. E non incrinarono questo rapporto neppure i dissapori manifestatisi in occasione dell’Anticoncilio di Napoli del 1869, a cui egli aderì con grande entusiasmo e dal quale la Massoneria, per volere di Frapolli, rimase invece sostanzialmente estranea.
Nel 1872 Garibaldi rilanciò con estrema chiarezza quello che sarebbe divenuto il principale progetto politico dei suoi ultimi anni di vita e il testamento ideale che egli avrebbe lasciato alla sinistra italiana post-risorgimentale: l’idea cioè – rileva ancora Conti – di riunire in un fascio comune tutte le correnti della democrazia, tutte le forze impegnate nella diffusione dei valori della cultura laica, della libertà, del progresso, di un riformismo che accettava di muoversi all’interno del quadro istituzionale vigente pur non rinunciando alla prospettiva di cambiamenti più radicali in un lontano futuro . La Massoneria doveva farsi promotrice di questo progetto e fornire il collante ideologico e organizzativo di cui esso necessitava per essere coronato dal successo. Perché tutte le associazioni italiane tendenti al bene – si domandava nel 1873 – non si affratellano e non si pongono per amore d’indispensabile disciplina sotto il vessillo democratico del Patto di Roma? […] La più antica e la più veneranda delle società democratiche, la Massoneria; non darà essa l’esempio di aggregazione al fascio italiano? Le società operaie, internazionali, artigiane, etc. non portano esse nel loro emblema la fratellanza universale, quanto la Massoneria? Formate il fascio, adunque, repubblicani ringhiosi; stringetevi intorno al Patto di Roma . Nell’ultimo scorcio della vita la coincidenza fra le sue posizioni e quelle della Massoneria fu pressoché totale. Basterà ricordare il suo impegno nelle file del movimento pacifista e la battaglia, che vide ovunque i Massoni in prima fila, per promuovere la costituzione di organismi di arbitrato a livello internazionale che scongiurassero il ricorso alle guerre. Oppure le sue battaglie per il suffragio universale, per l’emancipazione femminile, per la diffusione dell’istruzione obbligatoria, laica e gratuita: tutti temi che costituivano il patrimonio comune della sinistra democratica italiana di matrice risorgimentale e che la Massoneria inserì nel proprio programma e decise di sostenere con le modalità più diverse. Quanto alla questione dell’emancipazione della donna, egli dimostrò di darne un’interpretazione molto concreta e spregiudicata anche all’interno del mondo massonico: nell’archivio storico del Grande Oriente d’Italia si conservano documenti del 1867 con i quali egli conferiva i gradi massonici anche alle donne. Un tema, allora come oggi, oggetto di accesi dibattiti e di contrastanti visioni all’interno delle varie obbedienze liberomuratorie. Ma si pensi, per avere una conferma della forte consonanza di vedute che vi fu anche sul versante del razionalismo positivistico e della militanza anticlericale, all’adesione che Garibaldi dette al movimento per diffondere in Italia l’idea e la pratica della cremazione: movimento che fu direttamente promosso dalle Logge massoniche e che ebbe fra i suoi maggiori dirigenti molte figure di primo piano della Massoneria. E molto fece discutere in Italia, dopo la morte di Garibaldi, il mancato rispetto delle sue ultime volontà, che erano quelle appunto di vedere il suo corpo ritornare cenere. Quando Garibaldi morì la Massoneria fu tra le forze politiche e sociali italiane quella che più di altre si incaricò di conservarne la memoria e di alimentarne il mito. Specialmente negli anni di Crispi, intorno alla figura di Garibaldi si cercò di costruire una religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento, e la Massoneria, all’epoca sotto la guida di Adriano Lemmi, ebbe un ruolo notevolissimo nel favorire la riuscita dell’operazione. “Garibaldi” fu il nome di gran lunga più diffuso fra quelli dati alle Logge della penisola o alle Logge italiane d’oltremare (in America Latina, in Africa del Nord, etc.); altre denominazioni, come “Caprera”, “Luce di Caprera”, “Leone di Caprera”, erano ispirate dalla medesima volontà di rendere omaggio all’eroe nizzardo. La Massoneria promosse inoltre innumerevoli cerimonie, commemorazioni, inaugurazioni di lapidi e monumenti alla memoria di Garibaldi. La più importante di queste iniziative fu l’inaugurazione a Roma del monumento sul Gianicolo, che si tenne emblematicamente il 20 settembre 1895, nel venticinquesimo anniversario di Porta Pia, quando quella data memorabile venne per la prima volta celebrata come festa civile della nazione italiana. Una ricorrenza che solo il patto scellerato fra fascismo e Chiesa cattolica del 1929 avrebbe cancellato dal calendario delle festività nazionali, simbolo di una patria finalmente costruita nel segno della democrazia e della laicità, alla quale sia Garibaldi che la Massoneria avevano dato un contributo determinante.
http://www.grandeoriente.it/riviste/Hiram/2007/0701.pdf
HIRAM, Rivista del Grande Oriente d’Italia, n. 1/2007
“Garibaldi fu forse il Massone italiano dell’Ottocento più noto e autorevole. La sua adesione alla Massoneria fu una scelta meditata e vincolante, che egli maturò a metà della sua esistenza e che mantenne in modo consapevole fino alla morte. Un’adesione che divenne ancor più convinta nel 1862, dopo i fatti di Aspromonte, quando gli obiettivi di costruire uno stato laico e democratico e di liberare Roma dal dominio temporale dei Papi si identificano, di fatto, con quelli della Massoneria”.
Così il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, Gustavo Raffi, traccia la figura di Garibaldi massone che sarà ricordata nel corso della Gran Loggia Pedagogia delle libertà, in programma a Rimini dal 13 al 15 aprile. (…)
(Da il Giornale del 6 aprile 2007).
“Un Massone che seppe coniugare i principi con l’azione; un grande promotore di libertà; un grande educatore; un uomo coerente mai disposto a transigere sui valori. Fu Gran Maestro e per noi Liberi Muratori è un grande onore averlo annoverato nel Grande Oriente “.
Così il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, avvocato Gustavo Raffi, delinea la figura di Garibaldi massone.

Bicentenario Garibaldi: a Reggio Calabria l’omaggio del Grande Oriente d’Italia al Gran Maestro Garibaldi


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Lasciamo la parola alle più alte cariche della Repubblica italiana:
NAPOLITANO: L’EROE ESPRIME IDEALIT? ANCORA VIVE
Il Parlamento ha celebrato Garibaldi: il 4 di luglio, giorno della nascita, duecento anni fa, dell’eroe dei due mondi, a Roma, prima una solenne cerimonia si è tenuta al Gianicolo. Alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stata deposta deposta una corona presso il monumento dedicato all’Eroe dei Due Mondi, proprio mentre le Frecce Tricolore dell’Aeronautica hanno sorvolato la capitale. Quindi, le celebrazioni sono proseguite al Senato: nell’Aula di Palazzo Madama, sempre alla presenza del Capo dello Stato, si è svolta la solenne cerimonia di commemorazione, introdotta dai saluti del Presidente del Senato, Franco Marini, e del Presidente della Camera, Fausto Bertinotti; hanno preso poi la parola il Sottosegretario Andrea Marcucci, Presidente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni della nascita di Giuseppe Garibaldi e il senatore Valerio Zanone che ha svolto il discorso commemorativo. Giorgio Napolitano ha reso anche omaggio al busto di Giuseppe Garibaldi “restituito” al luogo solenne del Salone Italia di Palazzo Madama e ha detto che la sua figura di Garibaldi non è tanto “una figura del passato storico ma a una espressione di idealità ancora vive della democrazia italiana. Sono molto contento di questa cerimonia e della restituzione del busto di Garibaldi al luogo piu’ solenne del Senato”. In serata, in 3 diverse piazze della Città, il concerto delle bande centrali dell’Esercito, della Marina Militare e dei Carabinieri. Inoltre, per tutta la giornata del 4 luglio, per iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, i musei e i siti statali sono accessibili gratuitamente.
A cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per i Beni e le attività culturali, è stato pubblicato a tutta pagina sui principali quotidiani italiani l’ordine del giorno che l’eroe dei due mondi diffuse da Calatafimi, all’indomani della vittoriosa battaglia. “Soldati della libertà Italiana! – comincia il testo datato 16 maggio 1860 – Con compagni come voi, io posso tentare ogni cosa, e ve l’ho provato ieri portandovi ad una impresa ben ardua, pel numero dei nemici, e per le loro forti posizioni. Io contavo nelle vostre fatali bajonette, e credete che non mi sono ingannato”.
MARINI: ERA UN RIVOLUZIONARIO ENTUSIASTA E DISCIPLINATO
Il presidente del Senato, Franco Marini, nell’aprire la commemorazione di Giuseppe Garibaldi, in occasione del 200/mo anniversario della nascita, ha parlato di una “straordinaria figura che ha percorso tutto il nostro Risorgimento, fino all’unita’ dell’Italia, e che proprio nel lavoro parlamentare ha concluso la sua vita, prima del definitivo ritiro nell’isola di Caprera. La personalità di Garibaldi – ha osservato Marini – è multiforme, come i suoi interessi in molteplici campi, e, soprattutto, come le sue azioni in molte regioni del mondo a sostegno dell’emancipazione e della libertà dei popoli. Forse nessun’altra figura riassume come lui le passioni, gli entusiasmi, le speranze, le idee del primo Ottocento. Garibaldi – ricorda il presidente del Senato – è stato definito, da un autorevole storico ‘un rivoluzionario disciplinato’. Mi sembra un’espressione efficace che riassume il suo movimentismo, la sua fede nell’azione, nel fare, con il suo senso radicato delle istituzioni. Lui, repubblicano, che consegna l’Italia meridionale al re Vittorio Emanuele II. Lui che pronuncia il celebre ‘Obbedisco’ frenando il suo impeto per la liberazione di Roma prima del tempo”. Secondo Marini, la figura e l’impegno dell’eroe del Risorgimento “dovrebbero essere riletti, senza pregiudizi ideologici, senza occhiali interessati a parziali verità storiche. Comprendere a fondo Garibaldi – ha sottolineato Marini – vuol dire, infatti, comprendere e amare il nostro straordinario e multiforme Paese, le nostre tante identità locali di Paese non centralista, le nostre diversità culturali, le nostre tradizioni”.
BERTINOTTI: UN EROE PER LA DIGNIT? DEGLI OPPRESSI
“L’opera di Giuseppe Garibaldi resta consegnata alla memoria nazionale da un dato di valore: l’aver vissuto l’unità d’Italia non come idea letteraria ma come condizione per l’esistenza di un popolo, per l’affermazione della sua dignità, per la costruzione delle basi materiali del suo sviluppo e del miglioramento delle sue condizioni'”. E’ quanto ha sostenuto il presidente della Camera Fausto Bertinotti nel suo intervento nell’aula del Senato per le celebrazioni del bicentenario della nascita dell’eroe risorgimentale, insieme al presidente del Senato Franco Marini e alla presenza del Capo dello Stato e di rappresentanti del governo. “La lotta per la causa nazionale – ha sottolineato Bertinotti – è stata per Garibaldi soprattutto lotta per la liberazione dall’oppressione politica e sociale. Per Garibaldi – ha aggiunto il presidente della Camera – il riscatto del popolo e dei lavoratori avrebbe dovuto essere il naturale corollario della condizione di indipendenza. Ha aderito a tutte le battaglie progressiste del suo tempo nell’ottica di un socialismo umanitario alimentato, piuttosto che dagli schemi dell’ideologia, dall’immediata consapevolezza dell’uguaglianza e della pari dignità di tutti gli esseri umani”. Secondo Bertinotti, “non è un caso che Garibaldi sia stato in prima fila nelle iniziative per la pace universale, la federazione europea, l’abolizione della pena di morte, l’antischiavismo, il libero pensiero, l’emancipazione femminile”. Dopo aver dipinto Garibaldi come “eroe degli oppressi”, Bertinotti annuncia che la Camera renderà il “dovuto riconoscimento ospitando una giornata di studio, da promuoversi d’intesa con il comitato nazionale, che potrà concludere l’anno garibaldino. Sarà l’occasione per ricordare come Garibaldi abbia arricchito l’esperienza del Risorgimento italiano di valori etici e politici di portata universale, che hanno unito gli italiani tra loro e il popolo italiano agli altri popoli oppressi del suo tempo e che lo hanno condotto a valicare più volte l’Atlantico per combattere a fianco dei popoli dell’America latina, anch’essi allora impegnati per la democrazia e l’indipendenza. Un messaggio di libertà, giustizia e solidarietà – ha concluso Bertinotti – iscritto nella coscienza nazionale grazie alla testimonianza dello stesso Garibaldi, ma anche di tutti gli italiani che dal suo esempio sono stati guidati perché ne hanno condiviso i sentimenti e le aspirazioni”.
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