Partiamo da una premessa: l’Unità d’Italia storicamente è stata, ad esser buoni, una schifezza. Non lo dicono anime secessioniste né storici “revisionisti”, bensì coloro che, quell’unità, hanno contribuito in prima a persona a farla. Giuseppe Garibaldi, per esempio, ad Italia unita ammise che «gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali» furono «incommensurabili» e specificò che, se gli fosse stato chiesto di replicare le sue imprese, avrebbe rifiutato «temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
Come mai Garibaldi, l’Eroe dei due mondi, era colto da simili timori? La risposta ce la offre, in una lettera inviata a Vittorio Emanuele II nel 1861, Napoleone III: «I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno». Suggestioni francesi? Nient’affatto. Anche Antonio Gramsci definì lo Stato italiano «una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infangare col marchio di briganti». Più chiaro di così. E pure Montanelli, che non fu mai troppo duro nel giudicare il Risorgimento, riconobbe che il Risorgimento «assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola». Basti ricordare, su tutti, un dato eloquente: nel 1861, solo il 2,5% degli abitanti della nostra penisola – 600mila persone, di cui 400mila toscani – parlava italiano e la lingua ufficiale della Corte sabauda era il francese.
E dire che recentemente Roberto Benigni – pagato 5.000 euro al minuto – ha sostenuto che l’unità d’Italia sarebbe stato un processo popolare, nato “dal basso”. Si certo, come no. Forse ha letto un libro di favole, perché sono molti coloro che hanno visto nell’Italia unita ben altro che un glorioso processo popolare. Scrisse Fëdor Dostoevskij: «È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale». Ma la cosa più interessante – e meno nota ai più – dell’Unità d’Italia è che fu un’americanata. Ma sì, avete letto bene: senza la manina a stelle e strisce l’unificazione del nostro Paese non sarebbe stata la stessa.
La prima incursione attiva degli yankees in Italia fu a ridosso del 1848, quando gli americani coprirono la fuga di Mazzini da Roma fino a concedendogli un passaporto americano. Non male, anche se il vero capolavoro americano si realizza grazie alla politica liberista di Cavour, in conseguenza della quale l’esportazione monetaria a stelle e strisce in Piemonte cresce dai 300.000 dollari del 1851 ai 3.000.000 del 1859. Una decuplicazione resa possibile dal sostegno delle varie lobbies, dalla Massoneria, dai banchieri e dalla Young America, una influente associazione di impronta mazziniana. Tutte realtà, insomma, che con gli italiani di allora c’entravano assai poco, per non dire nulla.
Ulteriori tracce dell’interesse americano per l’Unità d’Italia sono rinvenibili nelle notevoli “donazioni” che la città di New York elargì alla causa garibaldina attraverso l’invio di armi, provviste e denaro per circa centomila dollari. Lo stesso Samuel Colt rifornì l’Eroe dei due mondi con le sue preziose armi. Un legame, quello con Garibaldi, che gli americani non hanno mai rinnegato, al punto che il 23 luglio 2007 l’Amministrazione delle Poste statunitensi, in occasione del bicentenario della nascita dell’Eroe dei due mondi, impresse l’immagine di Giuseppe Garibaldi, con la sua tradizionale giubba rossa, su un valore bollato da 41 centesimi. A questo punto non ci sono dubbi: l’Unità d’Italia, per com’è stata fatta (e finanziata), fu davvero un’americanata. Anche se la maggior parte degli italiani e di americani ne fu (e ne é) all’oscuro.