“Cose che nessuno sa”: un romanzo con una marcia in più


C’è chi non può farne a meno e chi li tiene più distanti che può dalla propria vista.
C’è chi li tiene immacolati e non vi scrive sopra nulla e chi li sottolineava, vi fa “le orecchiette” e li sgualcisce, perché renderli consunti è sinonimo di averli amati.
C’è chi ne ha uno preferito e chi non sa scegliere, gliene piacciono tanti…


C’è chi non può farne a meno e chi li tiene più distanti che può dalla propria vista.
C’è chi li tiene immacolati e non vi scrive sopra nulla e chi li sottolineava, vi fa “le orecchiette” e li sgualcisce, perché renderli consunti è sinonimo di averli amati.
C’è chi ne ha uno preferito e chi non sa scegliere, gliene piacciono tanti…
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Il Risorgimento, la “patria” e la “scimmia”

Nel libro di Antonio De Lauri un pezzo di storia dimenticata che permette di decifrare il presente.
Siamo ormai giunti quasi alla fine dell’anno che ha visto le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, quelli passati sono stati mesi nel corso dei quali abbiamo assistito alla riproposizione di avvenimenti e personaggi della nostra storia, episodi e nomi spesso mitizzati, che sono stati protagonisti di quel periodo che va appunto sotto il nome di “Risorgimento”.

Risorgimento” è un termine che nella sua etimologia sta ad indicare un momento storico nel quale un paese “risorgeva”, si risollevava da una condizione evidentemente ritenuta di “morte”. Ma in realtà per descrivere quel periodo storico si tratta di un termine improprio, l’Italia aveva bisogno di essere unita, non di “risorgere”, la sua storia lontana e quella più recente era stata ricca di cultura e arte, nelle sue Università era nata la rivoluzione scientifica mentre a Roma sorgeva l’ Accademia dei Lincei, una delle prime al mondo.

La teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Darwin, essendo stata pubblicata nel 1859, si inserì nel contesto risorgimentale finendo con l’essere però subito strumentalizzata in funzione antitradizionalista. La rottura col passato veniva vista in determinati ambienti come una premessa necessaria per la nascita della nuova patria, e la teoria darwiniana sembrava prestarsi bene a tal fine.

Nascevano così i circoli dei “Liberi pensatori”, nei quali si diffondeva l’idea che si dovesse combattere la religione per conquistare la libertà. Venivano così riprese e diffuse le idee del biologo e filosofo tedesco Ernst H. Haeckel, per il quale la storia delle nazioni seguiva le leggi biologiche dell’evoluzione degli organismi, ma a quelle idee si opponeva fortemente il pensiero di Benedetto Croce che invece affermava con convinzione la separazione tra “storia” e “natura”. Il dibattito infine si esaurì e giunse il ‘900, con il suo carico di scontri tra nazioni, col trionfo delle ideologie razziali e dei sistemi atei o comunque materialisti.

Il saggio di Antonio De Lauri, per usare una sua espressione, ci offre la possibilità di riascoltare le “voci dei vinti”, di quegli uomini, spesso di grandissima levatura, che si impegnarono per una visione del mondo in cui la scienza non fosse sinonimo di scientismo e materialismo, in cui lo studio dell’evoluzione non fosse strumentalizzato contro la religione.

Uomini che proponevano la visione di un mondo in cui l’uomo fosse ontologicamente diverso dagli animali e che quindi non dovesse seguire la legge di una natura dai “denti e artigli insanguinati”, per usare le parole di Tennyson.

Ma come sappiamo le cose andarono diversamente, e oggi quelle “voci dei vinti” sono diventate un patrimonio da recuperare, una testimonianza di grandissimo valore che non solo ci parla di come sarebbero potute essere le cose se fosse prevalsa una visione diversa dell’uomo, ma che ci fornisce un materiale preziosissimo per affrontare le grandi questioni intellettuali, scientifiche e sociali del presente.

Antonio De Lauri, La “patria” e la “scimmia” Il dibattito sul darwinismo in Italia dop l’Unità – ed. Biblion 2010

(Fonte:  Critica Scientifica)

Padre dove vai?

Basta entrare in una libreria qualunque per vedere quante proposte editoriali stiano mettendo a tema la funzione paterna oggi. E in genere i titoli non fanno presagire nulla di positivo: si va dal padre assente a una società senza padri.
Il risultato è quello di confermare uomini e donne nello scoraggiamento rispetto a una situazione che “è stata consegnata” da molti eventi storici e sociologici che ci hanno preceduto e rispetto ai quali ci si sente impotenti, quando non giustificati in uno stato di inerzia riflessiva.
Eppure tutto il mondo dell’educazione – dalla stessa famiglia, alla scuola, alle diverse agenzie del territorio – avverte la necessità di trovare un diverso equilibrio tra il codice materno e il codice paterno. Affrontare questa questione risulta ormai indispensabile per poter accompagnare, forse meglio di quanto si stia già facendo con tanto impegno e fatica, la crescita delle giovani generazioni, nel rispetto di bisogni evolutivi che non possono può prescindere dalle respons-abilità (ossia abilità nel rispondere/corrispondere) degli adulti verso i bambini e i ragazzi.

Il volume che suggeriamo, Padre dove vai? Come vivere la paternità oggi di Marco Tuggia, edito da Armando-Roma, ha un grande pregio. Non si ferma a sottolineare dove siamo arrivati e perché, bensì offre una prospettiva molto concreta per provare a cambiare. E lo fa rivolgendosi ai padri e alle madri di famiglia ma, contemporaneamente, anche a tutti gli uomini e le donne impegnati nell’educazione.
Sulla questione lo sguardo dell’autore è scevro da giudizi e critiche deprimenti, mentre è carico di fiducia e capace di trasmettere un senso di possibilità nella ricerca di un altro dialogo tra il maschile e il femminile. Poste alcune premesse, nel riconoscimento e nel rispetto delle differenze e delle produttive alleanze tra gli uomini e le donne, essere genitori oggi potrebbe diventare, ancor più di quanto già lo sia, una grande occasione di crescita per tutti.

“Evoluzionismo e cosmologia”: finalmente si parla di scienza

Evoluzionismo e cosmologia, ovvero cosa c’entra Darwin con la vita, l’universo e tutto quanto?” Il libro di Michele Forastiere fa luce su una serie di argomenti che sono continuamente oggetto di una divulgazione fuorviante.

Chi si occupa di scienza a qualsiasi livello, sia che ci lavori in modo diretto, sia che si tratti di insegnarla nelle scuole, o che ci si occupi di essa per un interesse culturale, sa bene che esistono una serie di argomenti che costituiscono ormai dei veri e propri dogmi che quasi mai vengono messi in discussione. Ma molto spesso, anche quando uno di questi temi viene affrontato in modo critico, gli argomenti usati sono a loro volta deboli o, peggio ancora, si cade in errori di diverso segno che finiscono col peggiorare le cose e dare sostegno agli errori che si volevano denunciare.

E così chi volesse avere un riferimento per documentarsi sui luoghi comuni della scienza, si trova senza uno strumento adatto allo scopo. Dopo molti anni passati nell’istruzione e nella formazione scientifica mi sono però finalmente imbattuto in un lavoro che risponde in modo corretto ed efficace ai dubbi sui principali argomenti che sono al centro del confronto sulla scienza. Scorrendo l’indice di Evoluzionismo e cosmologia troviamo subito un argomento particolarmente importante: Come l’evoluzione viene raccontata a scuola.

Solo pochi giorni fa su Libertà e persona in Testi scolastici: è ora di parlarne, si è affrontato proprio il tema della disinformazione nei libri scolastici e di come l’evoluzione sia al primo posto tra gli argomenti presentati secondo una vera e propria mitologia che tende a ignorare i punti deboli della teoria darwiniana e presentarla come se fosse invece ormai superata ogni critica.

Dopo aver fornito abbondanti strumenti per capire come stiano effettivamente le cose sul darwinismo, il libro di Forastiere passa ad affrontare la questione della vita nell’Universo e della presenza di quell’evento altamente improbabile che è l’Uomo, la questione nota come “principio antropico“, che nella formulazione “forte” dei fisici John Barrow e Frank Tipler recita:”L’universo deve avere quelle proprietà che permettono alla vita di svilupparsi al suo interno ad un certo punto della sua storia.”

E proprio in relazione alla questione sollevata dal principio antropico, l’analisi approda infine a quella che è l’ultima frontiera delle pseudo scienze, quella teoria degli innumerevoli universi paralleli che vuole passare per scienza e che va sotto il nome di teoria del Multiverso, una teoria nata per non dover ammettere che il nostro universo sembra proprio pensato perché comparisse la vita e la specie umana.

La modalità espositiva di Michele Forastiere, nel pieno rigore scientifico, è tale da poter permettere una facile comprensione anche da parte di un lettore che non abbia una formazione specifica sull’argomento. Nell’insieme le caratteristiche del libro sono tali che personalmente proporrei di usare Evoluzionismo e cosmologia come una grande “errata corrige” dei manuali scolastici.

Dovrebbero essere proprio gli insegnanti di scienze a prendere coscienza di questi autentici miti contemporanei.

E se loro non lo fanno, dovrebbero essere gli studenti e le loro famiglie ad iniziare a prenderne coscienza.

(da Critica Scientifica)


Dietrologia?

Il brano seguente è tratto da un articolo di Daniel Estulin autore di un famoso best-seller tradotto in 50 lingue: “Il Club Bildergberg. La storia segreta dei padroni del mondo” (Arianna editrice, 2009). La data dell’articolo è 17 giugno 2011 esattamente 5 giorni dopo l’incontro annuale del gruppo Bilderberg tenutosi a St. Moritz (CH), ovviamente a porte chiuse e ben protetti. L’articolo vuol fornire un resoconto dell’incontro.

Italiani presenti: John Elkann (Fiat), Mario Monti, Franco Bernbè (Telecom), Giulio Tremonti e Paolo Scaroni (Eni)

“Se vivessimo in un mondo reale, i titoli dei giornali che meglio descrivono la situazione finanziaria odierna dovrebbero recitare: “La fine è vicina. Siamo nel mezzo di un collasso finanziario dell’economia.” Il problema dei manager finanziari di alto livello del Bilderberg è quello di posticipare i default più a lungo possibile per poi effettuare i salvataggi, lasciando ai governi (gli elettori) la patata bollente e subentrando nelle obbligazioni dei debitori insolventi. Con la stragrande maggioranza della popolazione che si oppone a tutto questo, il trucco è quello di aggirare le politiche democratiche.

E come è nelle intenzioni del Bilderberg, le politiche economiche devono essere trasferite dalle istituzioni democraticamente elette ai pianificatori finanziari, rendendo così l’economia interamente dipendente da essi, con il debito pubblico che crea un enorme mercato “libero dal rischio” per i prestiti gravati dagli interessi. (…)

Questo è il modo in cui l’oligarchia finanziaria rimpiazza le democrazie. Il ruolo della Banca Centrale Europea, del FMI, della Banca Mondiale, della Banca dei Regolamenti Internazionali, della Federal Reserve e di altre agenzie finanziarie che tralascio è stato quello di assicurarsi che i banchieri venissero ben pagati.

Il problema con la situazione attuale è che il mondo è guidato dal sistema monetario, non dai sistemi nazionali del credito. Se hai le idee chiare, non vorrai di certo un sistema monetario che governi il mondo. Vorrai che esistano Stati-nazione sovrani che abbiano i loro sistemi creditizi, basati sulla propria moneta. L’aspetto determinante è che la possibilità della creazione del credito produttivo e non inflattivo, cosa chiaramente stabilita dalla Costituzione degli Stati Uniti, è stata esclusa dal Trattato di Maastricht in modo da determinare le politiche finanziarie ed economiche.”

Estulin con il suo lavoro colpisce questa organizzazione proprio dove fa più male: la priva della segretezza, della discrezione e dell’ombra di cui si è sempre servita e di cui necessita per attuare i suoi piani. 
La prova di ciò ce la fornisce lo stesso autore con la frase che fa da intestazione a "Il Club Bilderberg": «Nel 1996 cercarono di uccidermi, nel 1998 di sequestrarmi, nel 1999 di corrompermi, nel 2000 di arrestarmi e l’anno dopo mi offrirono un assegno in bianco se avessi taciuto una volta per tutte”.

La crisi di fede c’è, ma finirà

La Bella Addormentata – Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà. E’ questo il titolo dell’ultimo libro della premiata ditta Gnocchi e Palmaro: un agile saggio edito da Vallecchi (settembre 2011), che tenta di fornire una spiegazione del perché la Chiesa, oggi, si trovi in una situazione di difficoltà che è sotto gli occhi di tutti.
Solo per fare qualche esempio: vescovi che non obbediscono al Papa; preti che girano con vestiti di marca e con cellulari all’ultima moda; chiese in cui il Santissimo è nascosto in qualche nicchia laterale; Messe dove il prete ricopre il ruolo di attore-protagonista; la disarmante incoscienza dei fedeli rispetto l’importanza di sacramenti quali la confessione e la comunione (per non parlare del matrimonio! Ormai celebrato in chiesa solo perché la location è di gran lunga esteticamente migliore rispetto ad un ufficio del Comune)… e via di questo passo.

Come mai siamo arrivati a questo punto?
Nel rispondere, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro si appoggiano in particolare ai pregevoli lavori di Gherardini, De Mattei e padre Serafino Maria Lanzetta, i quali negli ultimi anni si sono impegnati nello studiare il Concilio Vaticano II nei suoi preparativi, nel suo svolgimento e, soprattutto, nella sue conseguenze.
Di capitolo in capitolo, La Bella Addormentata analizza vari aspetti delle assise conciliari: il clima culturale in cui si svolse; il ruolo determinante giocato dai mezzi di comunicazione di massa; l’apertura della Chiesa al mondo; l’attacco al latino e all’autorità stessa del Papa; la crisi liturgica che è derivata dall’oscuramento della Croce; la creazione di una vera e propria neolingua postconciliare, fondata sull’ambiguità; eccetera.

L’intera indagine di Gnocchi e Palmaro è svolta facendo affidamento sui documenti conciliari stessi e non mira a distruggere o criticare per il puro gusto di farlo, anzi. Leggendo il libro si coglie infatti molto bene come i due autori siano mossi esclusivamente da un profondo amore per la Chiesa. Una Chiesa che è oggigiorno innegabilmente in difficoltà e che ha bisogno di risollevarsi; ma per fare questo necessita di persone che ribadiscano la Verità, che è una sola da duemila anni a questa parte.

La Chiesa è addormentata, ma si risveglierà: dobbiamo solo amarla.

Un contributo importante al dibattito sul Concilio


Leggere gli atti di un convegno di solito è qualcosa per  addetti ai lavori, il lettore medio, per quanto interessato,  tende a schivare.  Invece, questo libro – Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio Pastorale (Casa Mariana Editrice, 2011) – pur essendo la pubblicazione degli atti di un convegno merita davvero la lettura. Per diversi motivi.

Il primo riguarda la natura dei lavori di cui si pubblicano gli atti; nel dicembre 2010, a Roma, i Francescani dell’Immacolata hanno organizzato questo convegno nell’intento di fare un analisi storico-filosofico-teologica del XXI Concilio della Chiesa Cattolica. Il carattere innovativo di questa giornata si colloca nel punto di vista da cui prende le mosse: un orizzonte che, nel rispetto dell’assise conciliare, non esita nell’approccio critico. Non che mancassero voci allarmate rispetto al Concilio e alla sua ricezione, anzi, ma in questo lavoro si avverte un primo tentativo sistematico per uscire da una confusione che perdura da troppo tempo.

Inutile ricordare che tutto ciò prende origine dal magistero di Benedetto XVI, un indirizzo che di fatto ha permesso una via d’uscita da una continua celebrazione un po’ stereotipata dell’evento conciliare. La strada da fare è ancora molta, ma non si può negare che il cammino sia iniziato.

I contributi presenti nel libro sono tutti assolutamente autorevoli, ne sottolineo tre:

1) il contributo di don Ignacio Andereggen che riguarda la prospettiva filosofica. Venti pagine straordinarie per capacità di sintesi e analisi, dalla loro lettura, infatti, emerge un “virus” che ha infettato il pensiero e ha manifestato la sua influenza soprattutto da Kant in poi. “L’introduzione delle filosofie che si basano sull’atteggiamento e sulle dottrine kantiane è una vera catastrofe nella vita della Chiesa; e noi siamo immersi in mezzo a questa catastrofe” (pag. 146).

2) il “vademecum pastorale” proposto da S.E. Mons. Athanasius Schneider, sette punti tratti dalla Sacrosantum Concilium (n°9) per fare chiarezza su di una teoria e prassi pastorale veramente in continuità con la Dottrina di sempre. E’ ormai celebre la proposta di Mons. Schneider sulla necessità di un Syllabus errorum circa interpretationem Concili Vaticani II. In sostanza, dice Mons. Schneider “tenendo conto dell’ormai pluri-decennale esperienza delle interpretazioni dottrinalmente e pastoralmente sbagliate e contrarie alla continuità bimillenaria, sorge la necessità e l’urgenza di un intervento specifico ed autorevole del Magistero pontificio per un interpretazione autentica dei testi conciliari con completamenti e precisazioni dottrinali” (pag. 185-186).

3) L’acuta riflessione di don Florian Kolfhaus rispetto all’orientamento pastorale del Vaticano II. Sottolinea Kolfhaus: “chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con “una nuova realtà pastorale” si sviluppi una “nuova” dottrina” (pag. 235).

Se la regola imperante diviene il “dire le cose in modo nuovo”, si finisce poi per “credere in modo nuovo”, se poi questo modo nuovo sia anche cattolico è un problema di non poco conto. Almeno per i cattolici.

Per chi vuol capire qualcosa del dibattito sul Concilio, questo è un libro che non può mancare.

Solo i “limoni” di Montale e Tolkien possono guarirci dalla Facebook-mania

di Monica Mondo

Che c’entrano i limoni con le nuove tecnologie? Quando si mostra un segno della bellezza da toccare, odorare, gustare, ci rendiamo conto che è della realtà che abbiamo bisogno, che il virtuale può essere utile, non sostitutivo. Jonah Lynch, sacerdote, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, è un divoratore di libri e una mente “filosofica”. Ciò che legge, vede, osserva diventa domanda e ricerca, metro di paragone e giudizio. Per questo parte dalla splendida poesia di Montale per ragionare sulle tecnologie che sempre più accompagnano e determinano le nostre giornate.

La questione è urgente soprattutto se si ha una responsabilità educativa: lo sanno i padri e le madri, lo sa bene chi, vicerettore di un seminario, si trova a far maturare una libertà orientata al bene in giovani “nativi digitali”. Abituati a convivere con Facebook, Google, cellulari, a scaricare film e ingozzarsi di notizie solo apparentemente non filtrate. L’abbondanza, l’infinità possibilità ci riempie di ebbrezza, il multitasking ci illude di risparmiare tempo, posso fare più cose insieme, l’istantaneità domina i nostri atti e i nostri pensieri. Compro, guardo, parlo, scrivo, contemporaneamente se voglio, con una tastiera e uno schermo davanti. Ma quanto perdiamo in profondità, in capacità di assimilazione, in memoria a lungo termine? E la possibilità di non avere intermediari, di fare tutto da soli, ci fa ricordare il nostro limite, il bisogno di fidarsi di qualcuno? Avere un profilo facebook permette contatti lontani, dibattiti allargati, libera da timidezze ed esitazioni. Perché rende finti, insinceri. Quanto paghiamo questa vanità, quanto incide sulla concezione di sé? Eppure per vivere i rapporti umani abbiamo bisogno di carne, non di schermi. Lynch, che è un fisico, e ha vissuto una giovinezza americana e ipertecnologica, non ha rigurgiti neoluddisti, non demonizza la téchne (e soprattutto non la isola, non la contrappone all’arte), non fa prediche. Solo una proposta più affascinante è in grado di spostare il baricentro dell’essere.

Tutto è buono, se è strumento, a servizio dell’uomo e del bene. Però, la tecnologia non è neutrale, ci spiega, porta con sé un mutamento radicale nel rapporto col mondo. Si citano fisici, psichiatri, filosofi, il rischio di un cambiamento antropologico è reale, e non è affatto detto che sia positivo.
Per il giovane sacerdote americano, che suona il violino e ama la poesia, è stato possibile rendersi conto che il tempo e il suo trascorrere sono qualcosa di positivo, che lo stare su una parola, una frase aiuta il pensiero, stimola connessioni neuronali, che una birra con gli amici è insostituibile e l’affetto ha bisogno di sguardi e di strette di mano. L’incontro con il Cristianesimo, il suo amore scandaloso per la carne, per la materia offre la risposta per educare i ragazzi di un seminario, per mostrare la strada a chi legge.
Per “vagliare tutto, e trattenere il valore”, ci vuole una libertà adulta, consapevole, educata. Anche esercitando il sacrificio del distacco, il digiuno, sapienti e potenti mezzi pedagogici della tradizione della Chiesa. Essa ha una novità da offrire che supera ogni progresso e che da duemila anni si trasmette per contagio, da uomo a uomo. Come ci insegna Tolkien, gli anelli più potenti e magici non si lasciano usare, usano chi li porta, fino a dominarlo. Mentre nulla può ordinare la vita, neppure la tecnica, semmai dev’essere il contrario.

Jonah Lynch, Il profumo dei limoni. Tecnologie e rapporti umani nell’era di facebook. Prefazione di Aldo Cazzullo. Lindau, pp.136, 11 euro.

Da Il Sussidiario.net, 10 maggio 2011

Il Cardinale Guglielmo Massaja, missionario in Africa

Cristina Siccardi ha da poco pubblicato per le Paoline un saggio dedicato ad una figura luminosa di missionario ed esploratore ottocentesco: il grande cardinale Massaia, il famoso abuna Messias che è stato immortalato in un bel film di Alessandrini del 1939 (coppa Mussolini al Festival di Venezia di quell’anno, per l’implicita esaltazione dell’avventura coloniale in Africa Orientale). Ecco un brano dalla presentazione del libro:

Vocazione precoce, preghiera assidua, Santo Sacrificio come centro della sua vita, il Crocifisso come pilastro, Guglielmo Massaja, frate, missionario, Vescovo, Cardinale, ha lottano fino all’estremo per riuscire a fondare e a consolidare la missione fra la popolazione etiope degli Oromo. Si potrebbe paradossalmente definirlo “martire vivo” questo Homo Dei che non ha fatto nient’altro che eseguire alla lettera gli insegnamenti di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno” . Diciotto volte in punto di morte, eppure la morte lo risparmiò e rimase in vita, là, in Etiopia, sotto le asprezze di un territorio insidioso, sia per la natura in sé, sia per le persecuzioni contro di lui scatenate dalle autorità religiose copte e da quelle civili. Avrebbe desiderato perire da martire, versare il sangue per Cristo, ma si riteneva indegno di coronare la sua esistenza con la palma del martirio… Visse sempre in estrema umiltà e povertà: il suo saio, nei trentacinque anni di missione, lo confezionava con le proprie mani e non era di panno, bensì di ruvida tela. I suoi modelli erano san Paolo e san Francesco, suoi insegnanti sant’Agostino e san Tommaso e li incarnò tutti e quattro, portando in Africa, in condizioni a volte disperate, la luce del Vangelo. Sacerdote prima di tutto, ma le sue mani, oltre a trasformare il pane e il vino in Corpo e Sangue di Nostro Signore Gesù, erano in grado di diventare anche le mani di un medico, di un farmacista, di un sarto, di un calzolaio, di un falegname… Pioniere missionario, attraverso la sua solida Fede, la sua indefettibile dottrina, le virtù praticate giorno dopo giorno e la Grazia che gli era infusa, ha saputo risolvere situazioni umanamente impossibili ed è per queste ragioni che oggi il nome di Guglielmo Massaja, Servo di Dio, attende di essere inserito fra i santi della Chiesa . “Nessun viaggiatore ed esploratore, nessun missionario in sette secoli lo ha sorpassato nell’ardimento e nelle difficoltà delle sue peregrinazioni attraverso l’Africa orientale. […] propriamente egli è l’apostolo dell’Etiopia, perché nessuna regione di quella nazione è sfuggita al suo sguardo d’aquila e al suo cuore di apostolo” .
Maestro di religione, di astronomia, di botanica, di zoologia, insegnava ai suoi figli africani l’artigianato che si era industriato ad imparare; infatti considerava l’istruzione ottima strada per guidare le anime alla Fede ed essa stessa favoriva l’istruzione in una sorta di circolo virtuoso, così come è sempre accaduto nella civiltà cristiana, che nel portare la Buona Novella ha garantito la promozione umana.

Attento alle dinamiche della storia, della quale aveva una lettura provvidenziale, guardava con estrema preoccupazione agli europei, imbevuti di positivismo, razionalismo e demagogia, al dilagare delle idee del liberalismo che si stavano impossessando degli Stati e della cultura, agli assalti dell’indifferentismo e dell’ateismo, prodotti da quella che considerava un’equazione: protestantesimo-razionalismo-ateismo-massoneria.

L’ateismo, diceva, era una realtà inconcepibile fra gli indigeni delle tribù etiopi, infatti ai “miei africani” pareva impossibile che esistesse al mondo gente che non credesse in Dio. Sosteneva che l’opera apostolica è opera di secoli, non di un giorno, né di un anno, né di un solo uomo e la pazienza, la costanza e la fedeltà, che ricordano quelle della provata figura biblica di Giobbe (che significa “perseguitato”, “sopporta le avversità”), erano sue compagne quotidiane.

Da http://blog.messainlatino.it/2011/05/labuna-messias.html

Donna: sii sottomessa

“Non c’è niente di più trasgressivo ed eccitante dell’ortodossia”, scriveva Chesterton qualche decennio fa… e Costanza Miriano ha preso questa sua affermazione (quasi) alla lettera.
Con il suo Sposati e sii sottomessa – Pratica estrema per donne senza paura (Vallecchi, Milano, 2011, euro 12,50), la Miriano ha scritto un libro che è diventato uno scomodo caso editoriale. Scomodo perché quello che dice è controcorrente. E’ vero che – parole sue – “[…] parlare male della Chiesa è come il nero: va bene su tutto e non passa mai di moda” (op. cit., p. 10), ma lei ha preferito uscire allo scoperto e raccontare di come avere quattro figli, un marito che ti/si ama, fare la giornalista al Tg3, andare tutti i giorni a Messa e correre anche qualche maratona sia possibile e, anzi, renda pure felici.
La Miriano non è una donna fuori dal comune, dotata di poteri straordinari. E’ semplicemente una mamma-lavoratrice che con alcune regole fisse (poche, a suo dire, ma ben chiare) riesce a mandare avanti egregiamente baracca e burattini, e anche a ritagliarsi qualche spazio per sé.
Qual è il segreto? Quali sono le “regolette magiche” della Miriano?

Leggendo Sposati e sii sottomessa, il concetto che viene maggiormente sottolineato dall’Autrice è che la donna ha una sua identità ed un suo genio, che è necessariamente diverso da quello maschile: dire che i due sessi sono uguali è un abominio. Il gentil sesso è fatto per accogliere e ha insita in sé la vocazione alla maternità; gli uomini hanno altre peculiarità e, soprattutto, compiti diversi. A ognuno il suo.
Scrive a questo proposito la Miriano: “Il femminismo è stato, a suo modo, una fioritura. E’ stato un’esplosione dell’esigenza di sentirsi amate, capite, valorizzate. Solo che ha preso la strada sbagliata, quella dell’affermazione di sé. […] L’emancipazione – che è partita da un’esigenza di giustizia – ha portato a un’idea distorta della parità. La parità non è uguaglianza. E’ dare pari dignità a due identità che non potrebbero essere più diverse” (op. cit., p. 59).

“La donna si perde quando dimentica chi è. La donna è principalmente sposa e madre. Deve offrire spazio e protezione. Non solo negli stretti confini della famiglia […]” (op. cit., p. 65).
Alcune donne “moderne”, leggendo queste affermazioni, probabilmente inorridiranno. Ma è così: la donna ha il compito di accogliere il proprio uomo e i propri figli, di prevenire i desideri, di “sacrificarsi” per il bene della società. Sii sottomessa, appunto: perché è dalla base che si costruisce tutto! Agli uomini, invece, va lasciato il compito di incarnare l’auctoritas, incombenza che oggigiorno viene spesso dimenticata, con conseguenze devastanti: “[…] questo principalmente dovrebbe essere il padre. E’ un compito importante e anche faticoso, perché quasi sempre è più facile dire sì che no alle richieste dei figli” (op. cit., p. 203).
Per far funzionare il matrimonio occorre non farsi prendere dalle emozioni del momento, accettare i difetti dell’altro (e i propri!, magari anche ridendoci sopra) e donarsi. Così, con un pizzico di buona volontà, il tanto bistrattato “fin che morte non ci separi” non sarà più una lontana utopia, bensì un obiettivo realizzabile. Il matrimonio non è un’azienda che apre o chiude a seconda delle esigenze di mercato: è per sempre.

Certo, oggi è tutto più difficile. La gente non è più abituata alla fatica e al sacrificarsi per gli altri: non si è in grado di rinunciare a niente; molti non sono in grado di scegliere un amore per tutta la vita; tutti vogliono dominare, e nessuno accetta di obbedire; la gravidanza e la maternità sono viste come una malattia; alle donne è chiesto di essere sempre perfette, in qualsiasi ambito… e via discorrendo.

Ecco, quindi, che occorre mettere alcuni paletti. Pochi, ma chiari.
Quando la donna si sposa deve essere disponibile ad accogliere il marito e i figli che verranno. Nel contempo, è necessario che sia in grado di parlare il linguaggio del marito (che “[…] se ti dice che non pensa niente, fidati: non pensa niente”) e deve fidarsi di lui, delegare, avere fiducia nel suo modo di fare. E, in questo modo, riuscire a ritagliare del tempo per sé.
Da ultimo, fatto spesso celato, occorre affidarsi a Dio. Essere perfette è umanamente impossibile e alle donne oggi è chiesto tanto, troppo. Occorre abbassare l’asticella, essere più umili, e cominciare a vivere non misurando tutto su di sé, perché solo in questo modo è possibile essere felici.