Strano destino, quello della speculazione sull’arte. Presente da sempre almeno nelle pieghe delle riflessioni dei grandi pensatori, la filosofia estetica si è configurata in area di ricerca specifica solo a partire dalla metà del Settecento. ? il leibniziano Baumgarten a coniarne il nome: filosofia “estetica”, appunto, da aisthesis, che in greco significa “percezione”. Strano destino, dicevo, perché al meritato ottenimento di uno statuto epistemologico autonomo è storicamente succeduta, fin da subito, la decadenza in senso relativistico e antimetafisico della disciplina. Una delle definizioni che Baumgarten fornisce dell’estetica è, in quest’ottica, rivelatrice: “gnoseologia inferior“, a sancire un incoativo distacco da quella scienza “superior” in cui si radica invece il discorso metafisico. L’estetica, insomma, si configura sul nascere come disciplina dell’immanenza, “sapere della finitezza” deliberatamente emancipatosi da qualsivoglia ancoraggio ontologico, metafisico, religioso. L’antica coincidenza dei trascendentali verum, bonum e pulchrum è, sempre più esplicitamente, ripudiata.
A fine Settecento si registrano le velleità reazionarie di Schiller, che tenta di ridare fondazione ad un’estetica di foggia classica e tradizionale sulla base, però, di una completa accettazione degli assiomi soggettivistici baumgartiani e kantiani. Il necessario fallimento dell’impresa, pur nobile, apre speculativamente la strada alle degenerazioni – prima romantiche, poi avanguardistiche – dell’arte occidentale degli ultimi due secoli. Gli astrattismi anarchici, gli schizzi di colori puri, i guazzabugli insensati di suoni e di forme dell’arte contemporanea sono eloquenti testimonianze terminali, in ogni provincia creativa, del ripudio tutto filosofico della metafisica operato nel Settecento dai primi estetologi. Le dissacrazioni e le profanazioni, poi, a cui gli artisti contemporanei ci hanno abituato sono, a loro volta, persuasive prove di come il rifiuto della metafisica conduca necessariamente al rifiuto di ogni morale e di ogni pietas. L’estetico “sapere della finitezza” genera un’arte astratta, vacua, iconoclasta, brutta e brutale, in ultima analisi empia.
Il libro di Enrico Maria Radaelli, uscito nel 2007 per Fede & Cultura, è stato scritto per rifondare – o addirittura per fondare ex novo, almeno in una forma teoreticamente compiuta – la concezione cattolica e dunque attendibile e autentica della scienza estetica. L’ancoraggio metafisico è immediatamente recuperato, e in modo non banale: a fornire le categorie ultime della teoresi radaelliana è la stessa Santissima Trinità, al di fuori della Quale non si dà vera adorazione, vera conoscenza e vera arte. Come solo san Tommaso d’Aquino ha saputo riconoscere, i Sacri Nomi del Figlio sono due: Verbum e Imago, tra loro correlati – scrive Radaelli – in un rapporto di “supersimmetria” ovvero di ultimativa coincidenza. Il Figlio, in altre parole, è non solo Verbo o Logos del Padre (e in quanto tale presiede all’universo del Linguaggio), ma anche Sua perfettissima Immagine o Eikon, dotato quindi di signoria sul mondo della Rappresentazione.
Dalla predetta supersimmetria in Cristo consegue nelle realtà naturali il fatto che “corrispondenza tra verità e bellezza vi è, tanto quanto ve n’è, ad esempio, tra sillogismo e proporzione aurea. Ciò vuol dire che vi è anche corrispondenza tra pensiero e oggetto pensato, tra logos e res, tra contenuto e forma, tra dottrina e retorica. Tra religione e arte“. Il richiamo ai due Sacri Nomi del Figlio permette a Radaelli di fondare, in perfetta assonanza con il realismo tomistico, una teoria generale del linguaggio (e dell’arte) come “metafora” della realtà naturale. Si fanno a questo punto evidenti, e sono ben sviscerate dall’Autore tramite acute incursioni storico-critiche, le implicazioni estetiche, gnoseologiche e anche morali dell’itinerario teorico fin qui grossomodo delineato.
Implicazioni che, verso la fine del volume, si rivelano anche liturgiche. Come è arguibile speculativamente che fine primario dell’arte è quello adorativo dovuto alla Santissima Trinità, altrettanto è dimostrabile storicamente che da sempre l’arte, e ogni arte, si raccoglie e si esalta attorno all’altare del Sacrificio cattolico. Ci ricorda Radaelli che esiste una liturgia, quella detta di San Pio V dal nome del suo grande sistematore, che pienamente convoglia ogni genere di pulchrum al suo fine ultramondano, rapendo a Dio il cuore e l’anima dell’uomo. Un pur sommario confronto operato con la liturgia attuale, ma anche con l’architettura sacra degli ultimi decenni, è di per sé indicativo della strada da percorrere.
Ingresso alla bellezza è certamente il capolavoro di Radaelli. Esso rappresenta, mi pare, la “via estetica” alla problematica fondamentale di ogni grande filosofia cattolica degli ultimi secoli: come saldare nuovamente, cioè, dopo le arbitrarie scissure cartesiana e kantiana, conoscenza umana e realtà delle cose; ragione e verità; sensazione e bellezza; sentimento e morale. In ultima analisi, uomo e Dio.