Migranti di ieri, migranti di oggi.

Ecco un breve estratto dal discorso che il presidente francese Sarkozy ha pronunciato ieri pomeriggio davanti al Congresso USA. Prodi dovrebbe prenderne giusta ispirazione, la prossima volta che incontra il premier rumeno:

“Il sogno americano voleva dire mettere in pratica ciò che il vecchio mondo aveva sognato. Il sogno americano, era provare a tutti gli uomini che la libertà, la giustizia, i diritti dell’uomo, la democrazia non sono utopie ma la politica più realistica e più capace di migliorare la sorte di ciascuno. A milioni di uomini e di donne venuti da tutti i paesi, che hanno costruito la più grande nazione del mondo con le loro mani, con la loro intelligenza e con la loro cuore, l’America non ha detto: “venite, e vi sarà dato tutto “. Ha detto loro: “venite, e non vi sarà messo limite a quel che potrete fare col vostro coraggio e il vostro talento”. L’America ha la capacità straordinaria di dare a ciascuno una seconda possibilità. Qui, il più famoso come il più umile dei cittadini sanno che nulla è dovuto e che tutto si guadagna. ? ciò che fa il valore morale dell’America. L’America non ha insegnato agli uomini l’idea della libertà. Ne ha insegnato loro la pratica. E si è battuta per questa libertà ogni volta che l’ha sentita minacciata…”

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Vorrei essere don Benzi, quel pretone grassoccio e brutto…

Infatti è proprio così: Dio c’è perché c’è chi fa quel che vuole Lui. Ma non guardare me. Guarda, come modello, a quel prete un po’ ridicolo che è appena morto, don Benzi.

Ho sempre sottovalutato don Benzi, non mi era piaciuto quel suo appello ad arrestare i clienti delle prostitute, perché è contrario al diritto. Ma ora che la polizia romena ci ha spiegato come noi italiani «consumiamo» 30 mila ragazze romene, sbranandole come lupi del sesso, devo dire che aveva ragione lui: è spaventoso questo fondo bestiale, atrocemente lubrico, della società maschile italiota.

Ma non è questo il punto. Don Benzi non era intelligente né colto. Ma pensa che io volevo rispondere alla tua battuta («vorrei essere un Blondet») con la battuta: «E io vorrei essere don Benzi», ma il proposito mi muore in bocca. No, non vorrei essere don Benzi, ed è questo il mio problema come cristiano, il segnale che la mia fede è teorica, anzi non c’è. Non vorrei andare ad occuparmi di prostitute. E’ un ambiente orribile, che non dà soddisfazione, che non diverte affatto. Di più: andare in quell’ambiente significa andarci nudi di tutto. Senza portafoglio in tasca, senza nulla da dover difendere; nemmeno il corpo, perché in quell’ambiente è facile ricevere una coltellata. Per fare don Benzi, bisogna essere come un monaco buddhista, che ha rinunciato a tutto, anche a sé. Più coraggioso di un samurai. Pronto a morire.

E per cosa? Per tirar fuori una prostituta negra dalla fronte bassa, in una sporcizia ributtante. Mettiamoci nei panni della prostituta negra, nella sua piccola mente quasi animalesca. Ogni notte decine di corpi sconosciuti che le pesano addosso e le fiatano sul collo e la penetrano dietro cespugli della brughiera varesotta; è stata portata lì da sfruttatori, che se la sono venduta e comprata chi sa quante volte, in un posto che non conosce e non capisce, così lontano dalla sua savana e dalla sua capanna. Botte, paura, schifo, odio per quelle bestie che le fiatano addosso ogni sera; e il sapere, il capire che sarà sempre così, che questa è la sua vita, che non c’è di meglio che questo inferno lurido e ottuso. Per lei non ci sono uomini. Ci sono bestie umane che la picchiano, la terrorizzano, la usano come una cosa; c’è la sporcizia, il non potersi lavare dall’ultimo sperma estraneo, nella brughiera presso i falò, le malattie. E’ facile che la prima volta che ha visto la mano di quel pretino grassoccio, con quel ridicolo colbacco scalcagnato, avvicinarsi a lei, abbia avuto l’istinto di morderla, e forse l’ha morsa: così fanno le bestie spaventate, i randagi bastonati. Non può credere che quella mano ti vuole portar via di lì, nasconderti dai tuoi padroni bastonatori, portarti al caldo, rispettarti, volerti bene. Invece avviene così, e non possiamo immaginare nemmeno lo sforzo, la fatica di un don Benzi per farlo. Gli ostacoli pratici e quelli interiori, il disgusto, il rischio, la fatica, il voler fare altro, il senso che forse è inutile, che non vale la pena. Invece don Benzi l’ha fatto, e rifatto e rifatto, cento volte e più. Ha portato anche la sua prostituta negra dal Papa, che l’ha accarezzata, ed abbiamo visto le lacrime di quella donna butterata, poco intelligente, cultura nessuna, un niente. Quella donna piange grata: è venuto Cristo e mi ha salvato, proprio me che sono nulla, mi ha tirato fuori dall’inferno bestiale italiota. Era Cristo, anche se la mano era quella di don Benzi.

Hai ragione, caro lettore: la prova dell’esistenza di Dio è che qualcuno ci creda ancora. Ma non come un giornalista che parla e scrive; che ci creda come don Benzi. Che ci creda tanto, da «fare» il Cristo, essendo un pover’uomo. E’ per questo che noi crediamo. Non può essere che Dio non esista, se questa Chiesa esausta e abbandonata produce ancora dei don Benzi. Non ci sono argomenti razionali, accuse sull’antica Inquisizione, critiche ai vescovi giustificatissime, incazzature per la liturgia da loro devastata, che possano smentire questo: che don Benzi è andato nell’inferno degli sfruttatori e dei clienti e ne ha tirato fuori la negra. E perché crediamo? Per una speranza egoistica. Se Cristo ha amato quella negra tanto da mandarle il suo servo Benzi Oreste a tirarla fuori – quella che è niente, che ha l’AIDS, che non vale la pena – magari salverà anche noi, anche te. Anche un giornalista. Magari avrà pietà di un poseur criticone che per Cristo non ha fatto nulla, che nella vita si è solo divertito, che al confronto è ricco e benestante, che ha l’ammirazione di qualche giovane e sa di non meritarla ma si prende le lodi, gongolando. E’ la prova che Dio c’è, e che ci vuol bene. E che cammina nel mondo sulle gambe di uomini, magari grassocci e con il colbacchino schiacciato. C’è, non si può dubitarne. Se non ci fosse, don Benzi l’avrebbe fatto essere. Perché non c’è altro Dio che la Misericordia per chi non la merita. Basta che appaia, anche solo una volta, ed è eterna, invincibile, vittoriosa. Maurizio Blondet

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Giuseppe Mazzini: uno strano tipo di credente

Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali nonché antenato di Indro, il giornalista scomparso da alcuni anni, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, ad una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo.

A lui “debbonsi lodi per alcun bene che fece -sostiene-, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio”. Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati -spesso riusciti- alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: “L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale”.

Massimo D’Azeglio dice di lui che “legato a società bibliche inglesi e americane” cerca “di rendere l’Italia protestante”. Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: “La missione religiosa consiste nella sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia”. Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: “Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità”. Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: “Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso” sia “la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti”.

Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria.

Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile” e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: “raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”. “Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta”, scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di “secondo Maometto”. Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la u maiuscola.

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Un farmacista obiettore

L’appello del Papa Benedetto XVI del 29 ottobre scorso al riconoscimento per i farmacisti del diritto all’obiezione di coscienza, ha scoperto un problema da troppo tempo tenuto nel silenzio, scatenando un intenso dibattito. Evidente l’allusione del Santo Padre al Norlevo, la pillola del giorno dopo, falsamente pubblicizzata come contraccettivo d’emergenza, anche se ora la sentenza del Tar del Lazio ha imposto ai produttori di specificare nel foglio illustrativo la sua possibile azione abortiva.
Dunque il dibattito si è acceso. Nel sito della Federazione nazionale dei titolari di farmacie (Federfarma) si legge: “Se si vuole dare al farmacista la possibilità di rifiutare la consegna di un farmaco per motivi di coscienza è necessario che sia modificata la legge attuale che obbliga il farmacista, dietro presentazione di ricetta medica, a consegnare il farmaco o a procurarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile.” Peccato che la legge “attuale” risale al 1938 (art. n. 38 del RD n. 1706/1938), quando non vi era nemmeno l’ombra di farmaci abortivi e, per giunta, l’aborto era considerato reato. Attuale, invece, è il diritto di esercitare la libertà di obiezione, dichiarando di non voler collaborare a un possibile aborto. La legge 194 lo prevede, ma occorre un intervento legislativo che ne garantisca una corretta interpretazione. D’altra parte la Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi) ha dichiarato che “è pienamente d’accordo con il messaggio di Benedetto XVI”, auspicando però da tempo una precisa regolamentazione in merito. “I farmacisti italiani – ha aggiunto – ribadiscono dunque la loro adesione all’appello del Pontefice, sollecitando il Governo e il Parlamento a un intervento legislativo che regolamenti la delicata questione in via definitiva”.
Purtroppo non sono mancate le proteste indignate di chi è pregiudizialmente impermeabile ad ogni pronunciamento del Papa. Varie e misere le argomentazioni che hanno portato alcuni ad insorgere ancora una volta contro la solita “ingerenza della Chiesa” nella vita civile. Leggete per esempio questa: “Il Papa farebbe bene a rivolgersi ai propri fedeli. Anche gli altri hanno i loro diritti che devono essere garantiti. Chi lavora con il pubblico non può imporre la propria coscienza. Allora se al pronto soccorso troviamo un dottore testimone di Geova che rifiuta le trasfusioni di sangue e io ne avessi bisogno, che succede?” Davvero triste leggere simili commenti. Pare che la capacita di ragionare serenamente abbia ceduto il posto al qualunquismo anticattolico di un popolino senza più valori e dignità. Quando si compara l’obiezione di coscienza contro l’aborto o l’eutanasia (non porre un atto che cooperi all’eliminazione di un essere umano innocente), all’obiezione del testimone di Geova medico o infermiere che si rifiuta di operare una trasfusione di sangue (atto salvavita inderogabile), beh, tutti comprendono che il livore e il pregiudizio contro la Chiesa hanno marcito l’attività corticale dell’encefalo. Nel primo caso l’obiezione è per la vita, nel secondo è per la morte. Anche la mia nipotina di sette anni capisce l’insuperabile differenza. Non ci resta che sperare in un riscatto della ragione e del buon senso degli italiani.
Sta di fatto che nessuna legge mi può imporre di compiere un gesto che va a ledere la vita di un altro, che coopera all’uccisione di un essere umano innocente. Il farmacista non può essere un mero esecutore di prestazioni asettiche. Come diceva il mio professore di farmacologia, egli è spesso l’anello di congiungimento tra il medico e il paziente, e dunque ha una grande responsabilità da esercitare. Per questo il presidente dei farmacisti cattolici, il dottor Uroda, ha dichiarato che “i farmacisti cattolici hanno praticato l’obiezione di coscienza, lo fanno oggi e lo faranno anche domani, perché chi è cattolico non può partecipare ad una azione che sopprime la vita”. Con buona pace dei laicisti, io mi metto tra questi.

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Ad ottobre boom di accessi. 11.410 visite. Un grazie a tutti gli autori e lettori.

E’attivo da poco più di un anno ma nell’ultima settimana di ottobre si è verificato un notevole incremento degli accessi al blog di Libertà e Persona e il trend è stato confermato nella prima settimana di novembre. Non è facile “sopravvivere” con un blog che non presenta contenuti turistici, gossip o notizie sempre aggiornate in tempo reale ma che al contrario pubblica articoli impegnati ed approfondimenti . E’ grazie ai numerosi autori sparsi in giro per l’Italia, che pur non conoscendosi personalmente hanno deciso di aderire a questo progetto, che il blog dell’associazione è riuscito a superare il primo anno, ad incrementare gli autori, gli accessi, le pagine viste e soprattutto il tempo di permanenza all’intero del sito a testimonianza del fatto che chi ci capita anche per caso, rimane interessato dai contenuti che in esso vi trova.

Un grazie quindi a tutti i lettori che hanno letto, seguito e commentato i post durante questi mesi ed a tutti gli autori che con molta professionalità hanno inserito testi ed articoli di notevole interesse.

Di seguito solo alcuni dei dati che trovate in maggior dettaglio al link sottostante.

693 visite il 5 novembre 2007

3.241 visite l’ultima settimana di ottobre 2007

11.410 visite nel mese di ottobre 2007

214.910 le pagine viste.

8 minuti e 21 secondi il tempo medio di ogni visita, sempre nell’ultima settimana di ottobre 2007.

Se volete scrivere sul blog, mandate una mail di richiesta con un breve curriculum all’indirizzo info@libertaepersona.org Nel caso in cui il direttivo lo ritenga, vi verrà fornita una password.

n.b. affinché non ci siano i soliti bontemponi pronti a confutare i dati, il link sottostante presenta le immagini del contatore legato al blog.

DATI ACCESSI AL BLOG

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Dimenticare la legge naturale è smarrire se stessi

Amleto, nel suo celebre monologo, interrogava se stesso così: “se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli”. Il giovane Principe di Danimarca percepiva nelle sue carni il dissidio interiore che è anche uno dei tormenti dell’uomo moderno: lottare o lasciarsi vincere? Vivere prendendo in pugno la propria esistenza o abbandonarsi alla corrente? Appunto: essere o non essere? La legge naturale è proprio questo: un imperioso comando che obbliga ad essere. Ad essere pienamente se stessi e rifiutare recisamente tutto ciò che contrasta con la nostra intima natura di uomini. La legge di natura inscritta nei cuori è tensione alla plenitudo essendi, alla pienezza d’essere e quindi alla felicità. E’ quel grido che scuote le coscienze addormentate: “Morire, dormire; nulla più: e con un sonno dirsi che poniamo fine al dolore e alle infinite miserie, naturale retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente”. Vivere di conserva, sparare qualche colpo dalle retrovie per non esporsi al tiro incrociato delle avversità dell’esistenza oppure saltar fuori dalle barricate, esporsi per essere pienamente chi dobbiamo essere? Cedere alle piacevolezze del male o scorticarsi l’anima per fare il bene?
La legge naturale, se ascoltata, ci costringe ad uscire allo scoperto. Un obbligo che non è fine a se stesso come aveva inteso Kant: devi perché devi. Un obbligo che non nasce neppure dal capriccio di Dio o chi per Lui: leggi Chiesa cattolica. No, nulla di tutto questo. Un obbligo che è invece preludio di felicità. I doveri morali sono tali perché strada necessaria per arrivare ad essere felici. Se vuoi essere te stesso dovrai agire di conseguenza. Un dovere morale che quindi paradossalmente libera. L’uomo, che i sociologi in golfino di cachemire definiscono postmoderno, non ha semplicemente perso il senso morale dei suoi atti, ma ha perso ben di più. Ha smarrito se stesso. Ed è inutile cercarlo in India. Si è addormentato, come ci ricorda Amleto. Ha rinunciato a vivere e persegue chimere. Queste sì che invece lo rendono schiavo. La legge naturale è quel fastidioso e insieme benefico richiamo a svegliarsi, a riappropriarsi di se stessi. E’ una chiave di felicità custodita nella nostra natura, in noi presente ma che ci proietta aldifuori di noi, perché solo le azioni pratiche orientate al bene costruiranno realmente la nostra persona umana. Dire che la chiave della felicità è in noi può suonare un po’ “new age”. Quasi a voler ripetere uno dei tanti slogan in voga oggi dal sapore preconfezionato: “credi in te stesso”, “trova la sorgente della luce che è in te”, “pensa positivo”, “sei energia da vivere”. Il senso è invece altro: ognuno di noi custodisce nell’intimo di sé l’immagine perfetta dell’uomo e della donna che deve diventare. Il progetto c’è già: occorre solo comprenderlo e volerlo applicare.
La strada del bene e della felicità è già indicata dalla nostra natura. Una felicità che alla fine si traduce nel desiderio insopprimibile di amare e di essere amati.
[tratto da T. Scandroglio, La legge naturale. Un ritratto. Edizioni Fede & Cultura, Verona, 2007]

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Il nuovo cerimoniere torna all’antico. La croce sta nel mezzo, non più di lato

L’orientamento prima di tutto. Se manca quello, l’assemblea riunita in preghiera diviene come un circolo chiuso che non sa più andare oltre sé, che non sa più esplodere verso la magnificenza portata da colui che viene, il Signore, il trafitto. Se manca quello, l’assemblea implode e si abbassa in una concezione di comunità autonoma e autosufficiente. E in una siffatta comunità il dialogo con colui che sta oltre non può avvenire e ogni parola diviene autoreferenziale. È un rischio enorme, la mancanza di orientamento all’interno della sacra liturgia.

È un rischio che Benedetto XVI sta cercando di non far più correre al suo popolo. Compito difficile, difficilissimo, soprattutto a causa dei tanti “disobbedienti” che dentro e fuori le sacre mura leggono nella volontà di evitare questo rischio un grottesco ritorno al passato. Eppure è un compito necessario, anzi fondamentale, altrimenti ciò che si prega (lex orandi) altro non diviene se non un qualcosa di diverso da ciò che si dovrebbe credere (lex credendi). Lo scorso primo ottobre Benedetto XVI ha voluto dare l’esempio: al fine di riportare la liturgia a essere ciò che dovrebbe essere, ecco la nomina di un nuovo cerimoniere papale, il genovese e siriano monsignor Guido Marini al posto del più liberal e bugninista monsignor Piero (Marini anch’egli).

Si dice che Marini G. sia benevolo verso il Motu Proprio Summorum Pontificum voluto da Ratzinger per liberalizzare l’antico rito. E in effetti lo è perché – come il Pontefice – anch’egli riconosce l’importanza che in esso viene data all’orientamento verso Oriente. Due giorni fa, lunedì 5 novembre, nel suo esordio in pubblico, Marini G. non ha deluso le aspettative: era la santa messa presieduta dal Papa in suffragio dei cardinali e dei vescovi defunti nel corso dell’anno. Una messa celebrata nel “campo da gioco” più prestigioso, l’altare della Cattedra all’interno della basilica di San Pietro: costruito dal Bernini tra 1656 e il 1665, presenta quattro gigantesche figure di dottori della Chiesa che sostengono un trono di bronzo che contiene il sedile ligneo secondo la tradizione appartenuto a Pietro. Marini ha “condotto le danze” con fare composto, spirituale. Qualche giorno prima aveva dichiarato: «Non sono qui per fare invenzioni ma per applicare scrupolosamente le norme liturgiche». E tanto ha fatto.

Per tutta la messa è stato accanto al Papa tenendo le mani giunte, come si conviene. Indossava un rocchetto (una sorta di camice corto) con tanto di pizzo, rispolverato per l’occasione dopo anni di dimenticatoio. La liturgia è stata un sontuoso ritorno dell’orientamento verso Oriente, verso il Signore veniente, colui che dall’alto risorge e indica la strada della salvezza. Un ritorno che sa di antico, di messa pre conciliare, e che lunedì si è esplicitato prettamente nella presenza della croce nel bel mezzo dell’altare, posta sopra la sacra mensa con accanto – come si conviene – i sei candelieri accesi. Benedetto XVI ha celebrato fronte al popolo ma, grazie allo spostamento della croce dal lato dell’altare al centro di esso, ha ridato un obiettivo comune allo sguardo suo e dell’assemblea, il tutto nel segno di una corretta visione democratica dell’ortoprassi liturgica. Lo aveva detto bene, il cardinale Ratzinger, anche in "Introduzione allo spirito della liturgia": «Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’eucaristia, rappresenta un disturbo?».

Evidentemente no. Anzi, una croce così posizionata significa molto, moltissimo. La cosa è retaggio di un’usanza anticha, da datare alle soglie dell’epoca apostolica. Un’usanza che più d’ogni altra aiuta quel "conversi ad Dominum" di agostiniana memoria, quella conversione dello sguardo che permette di capire che è soltanto da oltre sé che può giungere quella salvezza a cui si tende. Se manca l’orientamento nella liturgia, manca l’orientamento nella vita di fede. La messa di lunedì scorso è stata anche l’occasione per dare lustro ad altre prassi antiche. È stata come una prova generale di una prima celebrazione pubblica con l’antico rito, celebrazione che – si dice – avverrà soltanto tra qualche mese. Intanto, oltre alla croce nel mezzo dell’altare, è bastato il ritorno del camice col pizzo sotto le vesti liturgiche. Benedetto XVI ne ha indossato uno di Giovanni XXIII che da anni giaceva ripiegato nei tesori della sagrestia pontificia. Tesori tutti da riscoprire. (dal sito del vaticanista Rodari)

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La concretezza dello Spirito

Lo Spirito Santo aduna i figli della Chiesa e guida la Sposa verso la verità tutta intera (cfr Gv 16,13). ? lo Spirito che con la forza del Vangelo la ringiovanisce e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo (cfr LG 4). ? lo Spirito il dono dei doni, ottenutoci dalla Pasqua di Cristo, dolce e potente, delicato e impetuoso, capace di sciogliere i lacci del mondo, perché “dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2Cor 3,17). Egli stesso è Signore e dà la vita, proclamiamo ogni domenica, forse senza cogliere la grandezza di ciò che professiamo. Mistero ineffabile, necessario più dell’aria che respiriamo, lo Spirito desidera vivere dentro il nostro corpo come in un tempio (cfr 1Cor 6,19). Ma il corpo, la carne, la concretezza della nostra fisicità, prima ancora di essere la dimora che lo accoglie, è lei stessa costruita, originata, posta in essere dallo Spirito.
Confesso che mi ha sempre affascinato pensare che il Dio creatore “è Spirito” (Gv 3,24) e che dunque lo Spirito fa esistere tutto ciò che è, anche la materia. In effetti noi siamo tentati di dividere, di tenere separato il mondo fisico, corporeo, fatto di particelle atomiche e subatomiche, dal mondo dello spirito. Certo in rapporto alla natura umana, a ciò che io sono, nel mio corpo di carne inscindibilmente unito al mio spirito, ha senso distinguere (non separare) tra l’uno e l’altro, ma poiché “Dio è Spirito”, dobbiamo dedurne che dal suo essere “incorporeo” prende origine tutto ciò che esiste, anche la materia. Questa semplice constatazione mi ha sempre aiutato ad aprirmi allo Spirito come ad un Mistero assolutamente concreto. Infondo, anche io, sebbene prete, sono come tutti imbevuto di materialismo, malato di empirismo. Per questo mi affascina pensare che la personificazione dell’Amore divino, tutt’altro che evanescente e impercettibile, è il fondamento di ogni concretezza e la consistenza di ogni esistente, è reale più di ciò che le mie mani possono toccare, di ciò che la fisica può misurare. Ma ben più della materia, lo Spirito è l’Amore. E dunque che cosa c’è di più concreto, di più essenziale, di più necessario? Tutti lo cerchiamo instancabilmente, spesso disordinatamente, perché senza amore si sa, non si può vivere. Ma quale vita troveremmo senza aprirci a Colui che dà la vita? Gli abbracci che ci doniamo cercano la gioia dell’unione, perché l’amore che gli uomini conoscono desidera l’unione totale, ma i nostri abbracci sono incapaci di realizzarla. ? lo Spirito che porta a compimento il nostro desiderio. Scrive il grande teologo Fran?ois Xavier Durrwell, con un linguaggio misterioso e luminoso al tempo stesso: “Sulla terra nessuno sa amare fino al punto di esistere nell’altro e di farlo esistere in quell’amore, altrimenti i due sarebbero interamente uno in un’alterità totale. Nello Spirito Santo, che è amore infinito, il Padre e il Figlio sono quello che sono: personalizzati nell’amore che li unisce. Dell’unità del Padre e del Figlio si può dire quello che è stato detto della paternità di Dio: chi fosse capace di un amore infinito la comprenderebbe”.
don Massimo Pelliconi

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Gianfranco Fini: ovvero del camaleonte

Il buon Gianfranco Fini ha sette vite…dopo la decadenza degli ultimi tempi, dopo l’uscita di Storace, che ha tutti i difetti del mondo ma almeno ha un po’ di cuore, Fini sembrava in caduta libera…ora è dato in risalita. Perchè? Chi può fidarsi di un uomo che dice e disdice, poche ore più tardi? Chi può credere ad uno che ora fa il duro con gli immigrati, e quando era al governo non ha fatto letteralmente nulla? Uno che ha spiegato per mesi che l’embrione è sacro, e poi dinanzi al referendum ha cambiato idea, senza giustificarlo, perchè i media tiravano da quella…uno che ha definito quel colabrodo della 194 la miglior legge d’Italia…uno che ha detto che metterebbe il Corano nelle scuole, e che darebbe il voto agli extracomunitari, e dopo averlo detto, ovviamente, non ha fatto nulla…uno che se parla di politica estera sembra il duce redivivo, alla ricerca dell’impero, invece sa forse cosa pensa oggi ma non cosa penserà domani… Uno che elogiava Mussolini come grande statista (!), e che poi invece è giunto all’assurdo di definire il fascismo il “male assoluto”, come se non fosse, secondo tutti gli storici, l’unico dei totalitarismi ad essere “imperfetto”…Uno che urla un giorno sì e uno no contro la droga, e ha fatto una legge alla fine della legislatura, consapevole che non sarebbe mai entrata veramente in vigore…e poi ha spiegato, per essere simpatico, di aver fumato anche lui lo spinello…uno che parla di meritocrazia a scuola, e poi abbiamo dovuto aspettare Fioroni per avere un minimo di serietà (cioè buttare a mare parte delle riforme del sinistro Berlinguer)….Ci vorrebbe Grillo, che è più cattivo…di Machiavelli ne abbiamo abbastanza….

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La storia di un altro Novecento…Eugenio Corti.

Gli scrittori impegnati sono fuori moda: passati i postumi del ’68, il tramonto dei Moravia, dei Vittorini e dei Calvino è inesorabile e la letteratura italiana va verso la dolorosa prova dell’analfabetismo di ritorno. Tuttavia, se i giovani di dopodomani leggeranno ancora, scopriranno i libri di Eugenio Corti: avranno cioè oltrepassato il deserto dei falsi maestri e la filosofia del "Dio, se c’è, non c’entra".

Le responsabilità del crollo culturale andrebbero suddivise tra numerosi complici: intellettuali, giornali, editori, artisti, docenti. Sarebbe un gioco al massacro, un passatempo per cattivi maestri, pronti a sfuggire al proprio compito di ricostruire il tessuto civile italiano ed europeo. Il deserto verrà, è già venuto, nella prosa brutale della televisione, nella fatuità di tanto cinema, nel danno dei libri vuoti e presuntuosi. Ci sono anche autori che dedicano la vita all’arte, alla riconciliazione, all’edificazione dei lettori: agiscono nell’ombra, perché la "repubblica delle lettere" li giudica troppo luminosi.

Tra costoro, nell’operosità della sua casa di Besana Brianza (dove è nato nel 1921) Eugenio Corti vive una stagione di creatività: lavora a un romanzo storico su Catone e riceve visite di lettori, soprattutto giovani. Ospite del Meeting di Rimini, dove nell’agosto del 1999 è avvenuta una parziale messinscena della sua tragedia Processo e morte di Stalin, vanta migliaia di lettori che gli scrivono per confortarlo: è uno scrittore ispirato da intelletto d’amore. Finalmente anche in Italia si riconosce il suo valore: il 27 ottobre scorso, Corti ha ricevuto il "Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica", assegnategli dalla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, già tributato a studiosi del calibro di Del Noce, Ratzinger. Biffi, Messori, Giussani. L’ arte di narrareAll’uscita de II cavallo rosso, nell’83, i critici parlarono di "romanzo epico e corale": le edizioni Ares di Cesare Cavalieri avevano pubblicato il manoscritto (milleduecento pagine che i grandi editori avrebbero sfrondato) in tempo per consegnarlo a Giovanni Paolo II in visita in Brianza.

Si parlò di un nuovo Guerra e pace, de II mulino del Po di Bacchelli o del film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli. Straordinaria l’accoglienza dei lettori di ogni estrazione: dieci anni dopo, un sondaggio di "Avvenire" rivela che è Corti lo scrittore cattolico più amato.

Il cavallo rosso, oggi alla tredicesima edizione, circola nel mondo tradotto in spagnolo, lituano, francese, rumeno e inglese: il suo autore condivide destino e magistero con il dissidente Aleksandr Solgeniçyn e indica nell’arte del romanzo una delle vie d’uscita dalla condizione del post-comumsmo. Già due generazioni di lettori si sono affezionate ai personaggi cortiani, nei ritratti che costituiscono dei veri capolavori: cento storie delle quali ognuno segue quella che più gli sta a cuore, sino alla fine. Ma per Corti la morte è morte cristiana cioè una porta aperta su altro. Ecco, è questo senso di una vita oltre la vita, questa percezione completa della promessa di Cristo nel cui regno "c’è tanto posto", a dare carne e sangue alla scrittura: le figure uscite dalla penna dell’autore restano impresse. Don Carlo Gnocchi, padre Gemelli, il comandante partigiano Marco (alias Alfredo di Dio), Mario Apollonio, John Burns, Nilde Jotti, Palmiro Togliatti, sino agli sconosciuti Pierello, Igino, Giulia e Gerardo (patriarca della famiglia Riva, autodidatta, rileggeva sempre il medesimo romanzo, I promessi sposi), alle dolci Colomba e Alma, all’indimenticabile Manno Riva: è la storia di una famiglia, e va dritta all’anima. Processo e morte del comunismoL’élite europea contemporanea, però, ha il cuore inaridito. Solgeniçyn disse, in occasione del Premio Templeton, che "il mondo è giunto oggi a un estremo: se lo si fosse rappresentato alle generazioni dei secoli precedenti, avrebbero sospirato unanimi "l’Apocalisse!". Ma noi ci siamo abituati". Aggiunse poi il punto finale della profezia: all’impatto dell’ideologia comunista è impossibile resistere con le semplici armi del liberalismo, cioè privi della dimensione morale e spirituale. Corti vide il socialismo reale con i suoi occhi, da soldato, durante la campagna dell’inverno ’42-’43 con l’ARMIR; poi, reduce, lo studiò al punto da divenirne conoscitore-avversario: la vocazione di scrittore gli impose di combattere con l’arma dell’arte e della vita. Ne II cavallo rosso le vicende di Michele Tintori (personaggio-controfigura dell’autore) dal gulag di Crinovàia alle elezioni del 18 aprile 1948 rappresentano la scelta di una politica cristiana contro la minaccia di "rivoluzione" preparata dal Fronte Popolare. Eppure, nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, un anticomunismo filosoficamente fondato non fu possibile. L’impostazione dell’antifascismo impedì un serio confronto concettuale e mutilò il naturale sviluppo del Paese sulla base della risoluzione degli errori del passato. Le limitazioni imposte agli autori "non organici", cioè in lotta contro l’egemonia "gramsciana" furono drastiche: si veda il caso del filosofo Augusto Del Noce e del teologo Cornelio Fabro. Uno scrittore tra bellezza e riconoscenzaGià nel toccante diario della ritirata di Russia I più non ritornano (1947), Corti, giovane ufficiale, era sembrato un promettente narratore. Da quell’esperienza terribile, la sua firma resterà per sempre riconoscibile, quella di un uomo che vive e scrive tra bellezza e gratitudine. Lo si nota in altri romanzi. Gli ultimi soldati del re (1951-1994), e nei "racconti per immagini".

La terra dell’indio (’98) e L’isola del paradiso (’00), già pronti in forma di copione per essere portati sullo schermo. Anche l’opera teatrale Processo e morte di Stalin (1962) mostra la decomposizione necessaria dell’utopia comunista solo per aprire un varco nell’animo. Nella crisi degli anni ’60 e ’70, i saggi sulla chiesa cattolica raccolti ne II fumo nel tempio (’96) sono mattoni per le fondamenta di una pastorale che verrà, non modernista. Oggi leggere o rileggere Corti significa desiderare la ricostruzione della cultura cristiana. L’autore stesso descrive questo nostro comune compito di edificatori: "Più tardi, come già le sere precedenti, nella nostra casetta recitammo tutti insieme il rosario. Anche i pochissimi che erano stati increduli. E non per confusa paura: in quei giorni si sentiva il Soprannaturale così vicino al Naturale, che volerne negare l’esistenza sarebbe stato come voler negare l’esistenza di cose materiali e presenti: della neve fuori, oppure del fuoco che scoppiettava sordamente nella stufa, dandoci nostalgia di un po’ di pace, o di noi stessi". Attenzione, dunque: chi ascolta una conferenza di Corti rischia di essere invaso dalla gratitudine, verso la vita, verso Dio, verso i propri genitori o verso questo scrittore brianteo dall’aria coraggiosa e serena. Nel panorama delle lettere, un caso più unico che raro. (Andrea Sciffo)

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