Eugenio Scalfari e la massoneria.

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L’appartenenza di Berlusconi alla loggia p2 in Italia la conoscono tutti, benchè non sia chiaro quanto veramente vi fosse inserito e quanto sia servita alla sua carriera ( sembra siano stati più utili i rapporti coi socialisti).

Molto più reticenza, invece, c’è sul suo grande avversario politico e mediatico, Leggi tutto “Eugenio Scalfari e la massoneria.”

Anche Eco copia e incolla…

Dopo Galimberti ed Augias, anche Umberto Eco, della premiata ditta Repubblica (ribattezzata Ripubblica), viene preso con le mani della marmellata: nel suo ultimo romanzo ha copiato senza citare. Stessa accusa era stata già fatta per "Il nome della rosa".

Leggiamo cosa scrive Silvia Guidi:

Non possono essere definiti licenze poetiche, o vezzi stilistici, modalità espressive bizzarre ma legittime, perché non lo sono. Meglio chiamare le cose con il loro nome, ripetono a più riprese Howard Mittelmark e Sandra Newman, gli autori di Come non scrivere un romanzo (Milano, Corbaccio, 2010, pagine 224, euro 18,60); se c’è qualcosa che rallenta il ritmo di un racconto, rende scialbo un personaggio, rende stonato un incipit o una conclusione, toglie gusto e mordente alle pagine, questo qualcosa si chiama «errore narrativo». Spesso solo oscuramente percepito come tale da chi scrive, ma immediatamente registrato come tale da chi legge, chiosano con sottile perfidia Mittelmark e Newman nell’introduzione.

Davvero utili e divertenti gli esempi di scrittura infelice e di cose da non fare mai se si vuole evitare di essere cestinati (regola che dovrebbe valere per gli esordienti come per gli scrittori affermati, ma purtroppo anche nella repubblica delle lettere spesso ci sono cittadini «più uguali degli altri»): da chi, non sapendo descrivere una scena, si limita a un elenco del telefono di azioni, a chi si crede Proust o Gadda, a chi plagia inconsapevolmente film o libri più o meno famosi.
Tra i 200 esempi di errori da matita rossa e blu elencati con un pizzico di sadismo dai due editor non c’è il «copiaincolla» non dichiarato, perché troppo ovvio per meritare una menzione; nonostante questo, la lettura di Come non scrivere un romanzo può comunque fornire spunti interessanti alla recente riflessione sul plagio (o sulla «difficile arte della copiatura», che dir si voglia) nata dalla lettera a «La Stampa» di una lettrice, la signora Pina Pagano, che ha individuato tra le pagine de Il cimitero di Praga di Umberto Eco brani tratti dal romanzo Da Quarto al Volturno di Giuseppe Cesare Abba.

L’errore grave, da evitare sempre e comunque, senza se e senza ma — si ripete più volte nel libro di Howard Mittelmark e Sandra Newman — è sottovalutare il lettore, dare implicitamente per scontato che sia meno attrezzato culturalmente, meno perspicace, in una parola, meno «intelligente» di noi.
«Il personaggio si chiama Giuseppe Cesare Abba e dice quello che ha scritto» ha risposto Eco alle accuse. Chi ribatte che le cose non stanno esattamente così («a pagina 153 non è certo Abba a parlare, ma il protagonista del romanzo, cioè Simonini» insiste la signora Pagano) rischia di fare la figura del pedante; la passione dell’autore per il centone, il florilegio e il pastiche più o meno mascherato non è una novità, come l’assunto che tutto è falsificabile e i «segni» stessi della semiotica servono per mentire.

Lo stesso celeberrimo Il nome della rosa ne è un esempio; già negli anni Novanta, all’università di Firenze un docente di filosofia medievale era solito assegnare agli studenti (come può testimoniare chi scrive) il compito a casa di rintracciare le fonti del libro, un centone di testi medievali riassemblati sotto forma di bestseller, innescando un’appassionante (e didatticamente efficacissima) caccia all’autore copiato, tradotto, parafrasato, parodiato.
Probabilmente è per questo che il professor Eco ha evitato di citare le sue fonti (anche in carattere 8 in una nota sperduta a piè di pagina, o in una post fazione relegata dopo l’indice) ne Il cimitero di Praga. L’apparente trascuratezza nasconde una preoccupazione didattica: non vuole privare i colleghi docenti universitari di un utile strumento di lavoro e gli studenti del gusto di scoprire da soli le tessere del mosaico del principe dei falsari Simonini.

Silvia Guidi, Osservatore romano, 23 dicembre 2010

 

 

 

PIÙ CHE PRAGA QUARTO E IL VOLTURNO…
Lettera di Pina Pagano a "La Stampa" del 18 dicembre 2010

 

 

 

 

Sto leggendo «Il cimitero di Praga». Premetto che ho sentito l’autore affermare, in alcune interviste, di aver attinto a varie fonti e documenti, di aver operato dei «copia e incolla», ma quello che ho letto a pagina 153 mi ha lasciata piuttosto perplessa: in pratica, l’episodio riportato lo si ritrova pari pari e, a tratti, parola per parola, nel romanzo «Da Quarto al Volturno» di Giuseppe Cesare Abba (cap. 22 maggio. Ancora a Parco).

 

 

Per me è stato facile riconoscere il brano perché l’ho proposto spesso ai miei alunni insieme alla novella «Libertà» di Verga, ma mi chiedo come sia possibile che nessuno se ne sia accorto. È pur vero che sono un’insegnante di letteratura italiana del buon tempo antico laureatasi con lode con uno dei più grandi dantisti italiani, ma… Ma forse Eco, con la sua ironica facondia, saprà trovare una spiegazione.

 

 

 

 

 

 Per i copia e incolla di Augias e Galimberti:

https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=1275

https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=907

 

 

 

Mancuso contro Benedetto XVI

L’articolo di Mancuso sulla questione Sodano-Schoenborn-Bendetto XVI tira sempre nella stessa direzione: una critica totale, assoluta, alla Chiesa come istituzione.

Come al solito si scorge molto bene una cosa: non è la lotta alla pedofilia che interessa, ma l’utilizzazione delle colpe degli uomini di Chiesa che diventa utile per proporre una critica radicale, totalmente distruttiva. Il papa deve smettere di fare il papa, i cardinali i cardinali e la Chiesa deve auto-sciogliersi, perché il peccato è alla radice, nella sua struttura, non nei suoi uomini. Questo è quello che chiede Repubblica, e lo fa attraverso le parole di una sacerdote che oggi non esercita più, ma che rimane, per la teologia cattolica, “sacerdos in eternum”: Vito Mancuso. Ribadisco questa appartenenza dell’autore dell’articolo, non, come si potrebbe pensare, per denigrare il voltagabbana, ma per far meglio capire cosa vi sia dietro: i peggiori nemici della Chiesa, il papa lo ha ribadito più volte, vengono dal suo interno.

Sin dai tempi del vescovo Giuda, senza il quale i nemici esterni non avrebbero avuto chi desse loro il la. E questi nemici non sono necessariamente o solamente i preti pedofili: quelli sono dei poveretti, dei miserabili, se vogliamo, di una miseria che oggi è purtroppo sempre più diffusa in tutti gli ambienti. Sono, come dicono le indagini scientifiche, persone incapaci di relazioni con adulti della loro età; spesso, come nel caso di tantissimi laici abusatori, persone che hanno subito a loro volta delle violenze; sovente hanno avuto una vita familiare affettivamente complicata e desolante. Certamente costoro minano la fede di tante persone, fanno tanto male, ma il loro è un peccato personale individuale, che desta immensa rabbia e nello stesso tempo, profonda pena.

Diversa la posizione dei Mancuso, dei Kung, dei Martini, degli Scohenborn: anche loro stanno in qualche modo all’interno della Chiesa, ma come confessava il sacerdote modernista Ernesto Bonaiuti, al solo scopo di distruggerla, di stravolgerla dall’interno. Ci provano da venti secoli, senza successo. Ci provano proprio perché nella Chiesa hanno vissuto e di essa hanno visto le miserie e i peccati, ma, invece che comprenderne l’origine, umana, solo umana, ritengono di addossare le colpe delle singole persone all’Istituzione in quanto tale.

Ritengono, nella loro ubris, che la salvezza possa essere una questione personale, come se Cristo non avesse egli stesso voluto una Chiesa, una compagnia, divina ed umana insieme. Cerco di spiegarmi meglio: da tanti anni, forse da sempre, si confrontano nella Chiesa due anime. Una, diciamo così, tradizionalista, l’altra progressista. Entrambe partono da una idea: vorrebbero una Chiesa più santa, benché sia ben diversa la santità cui si riferiscono.

Gli uni, i primi, denunciano quindi la perdita di senso di sacro, il carrierismo di tanti vescovi, la simonia, la “sporcizia” che c’è nella Chiesa. Ma vi rimangono attaccati, come ad uno scoglio, perché sanno di non poter solcare, da soli, i mari della salvezza. Perché sanno che lo Spirito Santo è stato promesso a Pietro, e che, nonostante tutto, “le porte dell’inferno non prevarranno mai”. I Siri, gli Ottaviani, i Ruffini, i Bacci, anche i Lefebvre, non hanno mai criticato la Chiesa come Chiesa, il papa in quanto papa. Hanno criticato singoli errori, veri o presunti tali, dei singoli papi; hanno lottato, discusso, si sono indignati, con una consapevolezza: che Cristo ci ha dato la Chiesa, che essa, nonostante tutto, è l’Istituzione che da duemila anni dimostra la sua forza, che è la sua miseria che regge di fronte a tutte le tempeste, che si riforma di continuo e che produce, essa sola, santi, e civiltà. Perché il Vangelo, senza Chiesa, è un insieme di fogli che non serve a nulla, è parola morta, senza carne, senza vita. La fede del credente non vive di letture, ma di Eucaristia, di confessione, di adorazione, di sacramenti.

Poi c’è l’ala progressista, di Mancuso, Kung, Martini, don Gallo e chi più ne ha più ne metta . Quest’ala ha prodotto, nei secoli, milioni di eresie, di ricette personali, di riforme salvatrici, tutte sterili e brevi: fondate da uomini che magari scorgevano anche abusi ed errori veri, ma che poi, presi dalla superbia, finivano per ritenersi loro i depositari della Verità di Cristo, gli illuminati dallo Spirito Santo. Contro la Chiesa, come Calvino, fondarono altre chiese, perché non si dà fede senza vita quotidiana, senza sacramenti, senza rito, senza condivisione. Con effetti veramente scarsi: cosa è rimasto dei pelagiani, dei dolciniani, dei socianiani, ma anche dei luterani, dei calvinisti o degli anglicani? Poche persone e tante divisioni… perché non si può dimenticare che Cristo ha scelto Pietro, pur sapendo bene che l’apostolo lo avrebbe rinnegato, di lì a poco. Pur sapendo che era un pescatore e un peccatore, con i suoi difetti. Insomma: un uomo. Mancuso dunque, inizia criticando la scelta del papa di riportare il collegio cardinalizio all’ordine (la critica, anche la più dura, non può essere fatta, nella Chiesa, come in una famiglia, via stampa, al di fuori di qualsiasi gerarchia e carità…), e finisce per distruggere il ruolo stesso del papa.

Mentre lo fa, chiama a suoi testimoni, a confortare la sua tesi, nientemeno che San Paolo, colui che resistette in faccia a san Pietro, e Dante. Evidentemente a sproposito, visto che Paolo contraddisse il papa, e lo portò dalla sua parte, senza mai negare la sua autorità. Anche l’aver citato Dante, quasi si ritenesse, povero Mancuso, un suo erede, risulta ridicolo: Dante può essere l’Ottaviani, il Siri, magari il Lefebvre del Medioevo, come tanti ce ne furono. Mise papi e cardinali, all’inferno, tuonò contro la corruzione, ma mai neppure per un attimo pensò che la Chiesa non fosse l’istituzione che Dio aveva scelto per i suoi seguaci. Non credette mai che il credente possa fare parte a sé, al di fuori del corpo mistico di Cristo. Accusava uomini di Chiesa, ma di non essere fedeli alla Chiesa stessa! Come faceva ogni giorno santa Caterina col papa, che pure chiamava “dolce Cristo in terra”, dopo averlo sonoramente bastonato. Ma erano altri uomini, caro Mancuso, non intellettuali che credono di rifondare, loro, la Fede, magari con articoli di giornale: in loro, la critica nasceva dall’amore, non dalla superbia, il peccato più grave di tutti, per la teologia cattolica. (parte di questo articolo è oggi su Il Foglio)

Caro Lerner, 700 mila euro l’anno sono troppi per fare il proletario…

Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco…”: così iniziava un articolo comparso su Repubblica il 26 giugno, a firma Gad Lerner, il quale continuava spiegando che Marchionne, ad di Fiat, guadagna ben 4.782.000 euro.

In Italia, in particolare grazie alla cultura comunista, parlare dei soldi degli altri è sempre un buon metodo per fare “politica”, cioè per nutrire rancori e invidie. I popoli alla frutta si scaldano solo quando si tratta di soldi…E’ per questo che il discorso, anche quando avrebbe un suo significato, mi rende perplesso: non si sa cosa ci sia dietro…

Il giorno dopo le dichiarazioni di Gad Lerner, Libero gli faceva notare che per qualche trasmissione in tv, lui, Lerner, guadagna 700.000 mila euro all’anno, cioè come 72 tute blu. E Lerner non ha responsabilità, lavora qualche ora al giorno, ed è lì per grazia ricevuta (presente perchè Marrazzo è in rai? Per suo padre, che era in rai…perché Alberto Angela è in rai? Per suo padre, che gli passa, per eredita, la trasmissione, è i rai da mille anni…presente perché tre quarti dei giornalisti sono in rai o altrove? Per meriti politici, e servilismo doc…). Quando Lerner era in rai, dunque, prendeva 900.000 euro all’anno (direttore di tg più pagato).

All’uomo del finanziere De Benedetti, che va a trovarlo anche nella sua villa estiva, si potrebbe chiedere: mai pensato di dirci qualcosa sul suo editore, su Repubblica? Raccontare qualcosa su Olivetti e le altre strane vicende di De Benedetti? De Benedetti che qualche giorno fa ha dichiarato al Corriere: come posso essere amico di Berlusconi, dopo che mi ha “scippato” Sme e Mondadori? Capito? Stringi stringi sempre di soldi si tratta, e poi si nascondono inimicizie pecuniarie, loschi affari, dietro alti discorsi e grandi ideali…

Un post it per Lerner sul suo amico De Benedetti: costui "a Roma fu costretto a riconoscere di aver fatto larghissimo uso di strumenti di corruzione"; consegnò poi "a Di Pietro un memoriale in cui sosteneva di essere stato costretto a pagare, tra il 1987 e il 1991, per ottenere lavori alle Poste e più in generale per non fare uscire la Olivetti dal mercato internazionale dei computer. I suoi giornali ne uscirono con una intervista di Giampaolo Pansa all’ingegnere: ‘ Perché non hai mai detto niente, Carlo? Lo sai che siamo molto incazzati con te?’ Pansa glielo disse con la bocca a cuore, tanto che Prima Comunicazione, giornale specializzato in media, la interpretò così: ‘Carlo, sono incazzato. Sono talmente incazzato che…baciami’…De Benedetti, per fortuna, incontrò magistrati garantisti, sia a Milano che a Roma…(però) fu arrestato e tenuto a Regina Coeli per sole dodici ore, poiché ottenne immediatamente gli arresti domiciliari…

Poco dopo confessò per iscritto di aver dato ai funzionari delle Poste dieci miliardi. Nel ’94 il giudice Cordova (di Roma) acquisì documenti che provavano a suo giudizio la vendita di telex malfunzionanti a prezzi più alti di quelli di mercato. Per la logica degli accoppiamenti tra pubblico ministero e Gip, che ogni tanto variano, cambiò il giudice per le indagini preliminari che seguiva il caso. Trascorsero quattro anni e il nuovo Gip che aveva ereditato l’inchiesta si accorse, nel ’98, di non essere competente. La pratica passò al Tribunale dei ministri, dove la fine del secolo la trovò sonnecchiante, in attesa dell’ormai certa prescrizione"(Bruno Vespa, Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia, pp.187-189, Mondadori, 2000).

Gad Lerner imbastisce il solito processo contro i cattolici

Gad Lerner l’altra sera, all’Infedele, con la scusa di parlare del caso Boffo, ha mandato in onda un processo al cattolicesimo italiano mixando furbescamente e a vanvera fatti completamente slegati tra loro.

Un dentro fuori tra le vicende di Avvenire, quelle di Marcinkus, con sullo sfondo papi e secoli di storia e di fede. Il tutto, ovviamente, condito con una spruzzatina di Berlusconi e di moralità pubblica e privata. Spalleggiato da due editorialisti di la Repubblica, il teologo Vito Mancuso e lo storico Adriano Prosperi, non ha dovuto faticare per tenere a bada, abile conduttore qual è, Vittorio Messori e Luigi Amicone. Minuto dopo minuto, allusione dopo allusione, Lerner ha composto il quadro di una Chiesa cattolica intrallazzona e corrotta, divorata da lotte intestine, insomma una banda di truffatori immorali dediti agli affari loro. Inutilmente Messori e Amicone hanno cercato di sostenere la verità, e cioè che in duemila anni di storia non pochi mascalzoncelli e anime fragili hanno attraversato curie e sacrestie ma che la Chiesa è altro e che proprio per questo ha resistito sia all’usura umana che a quella del tempo. Quisquilie. Lerner ha continuato a girare il coltello nella piaga con malcelata soddisfazione.

 Il tema della serata era un presunto complotto sul caso Boffo, ma una buona parte della trasmissione è stata dedicata a «Vaticano Spa», il libro del giornalista Gianluigi Nuzzi che ricostruisce affari e malaffari dello Ior, la banca del Vaticano guidata per vent’anni dal discusso vescovo Paul Marcinkus. Cosa c’entra Vittorio Feltri con le finanze cattoliche lo sa solo Gad Lerner. Che Marcinkus abbia combinato più di un pasticcio è storia nota da vent’anni. Che il libro di Nuzzi sia interessante è fuori dubbio. Ma da questo a imbastire un teorema in base al quale le finanze cattoliche sono marce e quindi è marcio anche buona parte del cattolicesimo, direi che ce ne corre. E comunque è una equazione pericolosa che quantomeno il giornalista Gad Lerner dovrebbe avere il coraggio di applicare con uguale energia sempre e comunque. Il giornalista, come noto, non è cattolico. È di religione ebraica e non si è mai sognato di imbastire una puntata simile a quella di lunedì sera sul più grande scandalo finanziario degli ultimi anni, quello che ha visto come protagonista Bernard L. Madoff, ebreo, recentemente condannato a 150 anni di carcere negli Stati Uniti per aver truffato 500 miliardi di dollari a investitori di tutto il mondo.

Madoff era ritenuto la punta di diamante della finanza ebraica e proprio all’interno della sua comunità, anche quella italiana, ha mietuto il maggior numero di vittime, tra le quali anche il premio Nobel della letteratura Elie Wiesel e il regista e produttore cinematografico Steven Spielberg. Seguendo il teorema Lerner, non solo la finanza ebraica sarebbe marcia, ma anche i suoi riferimenti civili e religiosi sarebbero assai furbetti.

Perché, sia pure con i distinguo dovuti alla non paragonabile organizzazione delle gerarchie delle due religioni, Madoff è stato il Marcinkus degli ebrei. Non potendo sospettare chi si nascondesse dietro quella maschera, in epoca non sospetta, persino il nostro autorevole commentatore R. A. Segre lo aveva definito, «il prototipo della onestà e della generosità della finanza ebraica nel mondo, soprattutto religiosa». Ovvio, visto che l’uomo era stato anche tesoriere della Yeshiva University di New York e presidente della Business School, considerata la più prestigiosa istituzione accademica religiosa ebraica d’America. Gli esempi potrebbero essere anche altri.

Nelle non poche puntate che l’Infedele ha dedicato alle attenzioni per le donne del nostro presidente del Consiglio, Gad Lerner non si è mai soffermato, per analogia giornalistica, sullo scandalo che ha travolto il presidente dello Stato d’Israele, Moshe Katsav, che si è autosospeso dalla carica dopo essere stato accusato dalla polizia di violenze sessuali su una dipendente oltre che di intercettazioni legali e di frodi. Né si è mai sognato di mettere in discussione, per questo episodio, la moralità pubblica e privata dell’intera classe dirigente di Israele. Ora, essendo La7 una televisione privata può mandare in onda ciò che meglio crede e i cattolici sono altrettanto liberi di cadere nel trappolone e andare a farsi massacrare e spernacchiare in diretta tv. Basta avere sempre presente che non solo la cronaca, ma a volte anche la storia, non è come Gad Lerner ce la vuole raccontare. Il Giornale, 10 febbraio

Bocca, dal fascismo nero a quello rosso.

Se c’è un giornalista intollerante, eccessivo, prepotente, questi è Giorgio Bocca. Lo è oggi dalle colonne di Repubblica; lo era ieri quando era fascista. Di seguito Paolo Granzotto ricorda i suoi trascorsi:

"…Per andare sul sicuro, Giorgio Bocca di nemici contro cui scagliarsi a testa bassa se ne è cercati da quando aveva i calzoni corti. Avendo passato e ripassato tutti gli «ismi» possibili e immaginabili, cambiato e ricambiato più gabbane che neanche Fregoli, presi un’infinità di tori per le corna salvo accorgersi che erano vitelli ed essendo, Bocca, di asprigno carattere montanaro, portato alle violente infatuazioni, alle ubriacature, nell’individuare un nemico e metterlo nel collimatore della sua abbaiante «passione civile», ci ha sempre messo niente. «Un giornalista dotato di quel carisma ineguagliabile – si legge in una biografia – di quella dirittura morale inscalfibile» che lo fa, in tutto e per tutto, Venerato Maestro.

Dirittura morale inscalfibile. Bocca è quello che firmò il «Manifesto della razza», quello che scrisse, nero su bianco: «A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere, in un tempo non lontano, essere schiavo degli ebrei? Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Bocca è quello che nel ’43 denunciò l’industriale Paolo Berardi il quale, in uno scompartimento ferroviario nel quale sedeva anche il segretario del Guf Giorgio Bocca, ebbe la malaugurata idea di dire ad alcuni reduci dal fronte russo che la guerra era ormai perduta. Prima gli mollò un ceffone (eroismo che rievocò in seguito con un corsivo intitolato, fascisticamente, «La sberla… e la bestia») e quindi, giunto il treno alla stazione di Torino, lo consegnò all’Ovra in quando «disfattista».

Bocca è quello che dopo l’8 settembre, solo dopo quella data, sia chiaro, si spogliò dell’orbace di «fascista integerrimo» per vestire i panni del partigiano. E in tal veste, a guerra finita, fu a capo di un tribunale del popolo che condannò a morte un ufficiale «collaborazionista» della Monterosa. Bocca è quello che nel febbraio del ’75 (nel pieno dell’«attacco al cuore dello Stato») scrisse un memorabile articolo intitolato: «L’eterna favola delle Brigate Rosse». Vi si leggeva: «A me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti cominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». E ancora: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Bocca è quello che firmò l’appello contro il commissario Calabresi («il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice… »)… (Granzotto, Il Giornale, 4 gennaio).

Un “enigma” nella vita di Corrado Augias

Lunedì 19 ottobre il quotidiano Il Giornale, a firma del giornalista free lance Antonio Selvatici , riportava in sintesi il contenuto del materiale racchiuso negli archivi segreti di Praga e per essere precisi, nell’«Archiv bezpenostnich sloek», contenente documenti ufficiali assolutamente attendibili.

Va quindi precisato che non si tratta di informazioni inventate da un giornalista, ma fanno riferimento alle testimonianze e ai rapporti ufficiali di ex membri dei servizi di sicurezza cecoslovacchi. E’ così che l’elegante e british Corrado Augias sembra proprio aver collaborato tra il 1963 e il 1967 – nome in codice “Donat” – con agenti di una nazione allora nemica nonché sottoposta alla dittatura comunista, incontrandosi in quattro anni ben trentacinque volte con il funzionario ceco “Jaros”, che lo contattò per la prima volta durante un ricevimento all’ambasciata bulgara il 30 maggio 1963.

Donat – Augias era così descritto: «CorradoAugias. Di circa 25 anni [ne aveva in realtà 28]. Iscritto al partito socialista da 2 o 3anni. Proviene da una famiglia della media borghesia. Ha sposato la figlia del sottocapo di Stato maggiore dell’aeronautica militare. Lavora in Rai».

Il quadro stilato sul nuovo “contatto” da parte degli uomini dell’Stb (ex servizi segreti cecoslovacchi) è quello di un giovane ebreo di buona famiglia, tendenzialmente di sinistra, costretto a svolgere un lavoro ben remunerato all’interno di una struttura rigida e politicamente ostile come era la Rai, monopolizzata al tempo dalla Democrazia Cristiana.

I motivi per cui Donat poteva essere loro utile erano sostanzialmente due: il primo era appunto legato al suo lavoro in RAI: «Mantenere un contatto amichevole per cercare, durante gli incontri attuali, informazioni sulle linee tv rispetto al Partito comunista, alle intenzioni propagandistiche verso la Cecoslovacchia ed infine verso il problema della coalizione governativa»; il secondo era legato alla sua situazione familiare, in quanto egli era il novello sposo di Daniela Pasti, figlia del noto generale Nino Pasti, sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, tanto che nel dossier dedicato ad Augias è inserito un trafiletto di stampa che ha come oggetto «Nuovo incarico nella Nato del generale Pasti».

Nino Pasti fu per anni l’ufficiale italiano con il grado più alto nella Nato, in veste di vicecomandante supremo in Europa; poi, improvvisamente, si dimise dall’esercito e venne eletto per due mandati come senatore indipendente del PCI, segnalandosi per la sua adesione al gruppo internazionale “Generali per la pace e il disarmo”, legato alla Stasi, i servizi segreti della Ddr (Germania dell’est), tanto che il suo nome figura nel lungo elenco stilato dall’ex archivista del Kgb Vassilij Mitrokhin. Dai rapporti di Jaros emerge come a collaborare non fu il solo Augias, ma anche la moglie, la quale ad esempio consegnò l’elenco telefonico del ministero della Marina, meritandosi un lodevole giudizio perché, rispetto al marito, «dal punto di vista operativo più interessante perché di carattere avventuroso e coraggioso».

 Il 7 febbraio 1967, il giorno prima di partire per New York a motivo del nuovo lavoro affidatogli (fu incaricato di piazzare negli Usa alcuni programmi culturali preparati da Roma), incontra per l’ultima volta Jaros, il quale gli propone di continuare la collaborazione anche negli Stati Uniti, con altri agenti. Così si espresse Donat: «Mi aveva assicurato la sua disponibilità dicendo che sarà sempre un grande amico della Cecoslovacchia. Non riusciva a capacitarsi che era l’ultima volta che ci vedevamo».

In difesa del noto giornalista è intervenuta ovviamente la Repubblica, che però si è limitata a deridere la questione, minimizzando i fatti e denunciando l’operazione come dettata dal padrone Berlusconi per screditare la testata giornalistica. Anche nella propria autodifesa Augias non entra nella questione, non smentisce direttamente le notizie date, ma si accontenta di fare la parte della vittima: “Calunniate calunniate qualcosa resterà”. E’ toccato ad altri, ieri a me”. E’ sì, è toccato ad altri, caro Augias, e tu lo sai molto bene…

De Benedetti: l’imprenditore furbo.

Un appello durissimo contro «Il Paese dei furbi», ovvero l’Italia di «Repubblica» e del suo editore-padrone, Carlo De Benedetti.

Un uomo «bravissimo per sé, non per il Paese che si è ritrovato macerie lungo la strada». Una storia che si è ripetuta tante, troppe volte, grazie «alla sponda politica e a un’etica quanto mai discutibile»: dalla vicenda Sme all’Olivetti, fino all’ultima sentenza che costringe la Fininvest a risarcire con la cifra record di 750 milioni di euro la Cir dell’Ingegnere. Ora 16 tra imprenditori, manager e professionisti, guidati dall’ex presidente di Assolombarda Michele Perini, oggi al vertice di Fiera Milano, dicono basta.

È alquanto singolare la storia di questo Paese dove spesso la capacità del fare, del costruire, dello sviluppare attività imprenditoriali e di essere portatore di valori positivi sconta l’invidia di chi, invece, ricerca aiuti e mercato protetto fregandosene dei «morti» che lascia alle spalle delle attività fallite, delle persone che hanno perso il lavoro, delle aziende finite, chiuse per sempre. Questa è la vera diversità tra un imprenditore e un finanziere più portato a essere un abile profittatore di situazioni favorevoli a se stesso, grazie alla sponda politica e a un’etica quanto mai discutibile.

Ecco perché serve la copertura di un autorevole, anche se criticabile, quotidiano, ecco perché è importante partecipare agli aspetti istituzionali dell’associazionismo intervenendo e bacchettando i colleghi in nome dell’etica. Ecco perché in più occasioni si è lanciato il tema dell’etica utilizzando le pagine di Repubblica. Credo che molti abbiano la memoria corta; per questo vogliamo elencare alcuni passaggi della vita del sig. Carlo De Benedetti e delle sue azioni.

L’uscita dalla Fiat: un puro fatto di divergenza? L’entrata e la velocissima e proficua uscita dal Banco Ambrosiano. L’acquisto della Sme, dichiarata prima non vendibile per poi permettere a De Benedetti di acquistarla investendo 150 miliardi su un totale di 450 e lasciando a Mediobanca e Imi i restanti 300. Qualche anno dopo, fatto lo spezzatino del gruppo, le varie società furono vendute sul mercato ricavandone 2000 miliardi di vecchie lire! Bravo!

Certamente bravissimo per sé, non per il Paese che si è ritrovato macerie lungo la strada. Per non parlare della Olivetti, che non seppe affrontare il passo susseguente al passaggio dalla meccanica alla elettronica e dall’elettronica ai servizi; e questo anche perché la ricerca di un mercato protetto con garanzia di vendite dirette allo Stato ce la ricordiamo tutti; e quando si ha la testa lì, innovazione, ricerca e sviluppo non si fanno, costano troppo e si rischia. I telex venduti quando non si utilizzavano più e come questa tante storie di commistione tra potere ed economia politicamente protetta.

Mentre all’estero chi si ricorda della magra fatta con le dichiarazioni di acquisto della Société Générale de Belgique? E che dire del regalo fatto da Ciampi, presidente del Consiglio in scadenza di incarico di governo nel 1994, attraverso l’assegnazione della concessione a Omnitel? Dove sono tutte queste realtà oggi? Quante piccole imprese hanno finito di esistere, quando anche noi con le nostre orecchie sentivamo rassicurare i fornitori che sarebbero stati pagati per poi ritrovarsi pezzi di carta inutili a motivo dei fallimenti di chi poi li ha trascinati nel baratro? Soggetti indifesi, tranquillizzati dal quotidiano che sbandierava la solidità e la capacità imprenditoriale. Aspettiamo tutti con ansia per vedere come va la faccenda MC, noi crediamo di saperlo; grande plusvalenza per l’ingegnere e nulla per gli altri.

Repetita iuvant, ma sempre a vantaggio dello stesso soggetto. Non è stato l’unico a ricevere regali di Stato, ma sicuramente è tra coloro che non hanno poi sviluppato quelle idee imprenditoriali necessarie alla crescita. Aiuti, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità: tutte cose legittime utilizzate da molti spesso per rimettere in piedi situazioni di mercato difficile, poi rientrate nella norma. Strumenti che hanno aiutato a superare momenti complicati, non a chiudere attività. E ora si aspetta che il Superenalotto uscito del Tribunale di Milano obblighi alla chiusura di un gruppo importante per trasferire 750 milioni di euro e più nelle tasche del sig. De Benedetti così da permettergli di rafforzare la propria posizione nel campo dell’energia e della salute. Avete mai visto una sentenza che esce di sabato e non dà che 48 ore di tempo per l’esecuzione; è questa una sentenza o piuttosto una coercizione che ricorda i bravi di manzoniana memoria? Questa ci pare una ulteriore prova di quanto appena descritto: alcuni giudici utilizzano il loro potere per fini politici volendo ancora una volta delegittimare il mandato che il presidente del Consiglio ha avuto stravincendo le ultime elezioni. Se qualcuno pensa che sia solo una casualità il suo record di processi subiti e di processi finiti sempre in nulla, noi invece crediamo che tutto ciò non possa essere casuale, e che, anzi, non possa nascere senza che ci sia, coperto e alle spalle, un obbiettivo ben preciso.

Eh no! Questa volta sono gli italiani a dire: «Non ci sto!». La credibilità della magistratura è sotto le scarpe; il tema della responsabilità del giudice e del fatto che non paghi mai per i propri errori è un problema improcrastinabile. E senza entrare nel merito delle decisioni, è impellente la riforma della giustizia. È vero che l’astio e l’invidia verso il presidente del Consiglio sono grandi, ma ci sembra che questa volta il limite sia stato superato. A tutti coloro che lavorano nel gruppo Mondadori va la nostra stima e la nostra considerazione per il lavoro che hanno fatto e che fanno. Grazie! Andiamo avanti, il Paese ha bisogno di lavoro e di fatti!

Marco Ambrosini, ingegnere (Como) Dante Benini, architetto (Milano) Lidia Cantini, commercialista (Firenze) Andreino Cavazza, artigiano (Tremosine) Carlo Daveri, imprenditore (Basilicata) Ferruccio Cicogna, manager (Milano) Marina Curti, imprenditrice (Milano) Vito Curti, imprenditore (Milano) Paola Fini, imprenditrice (Biella) Gianberto Manera, imprenditore (Ivrea) Raffaele Nurra, architetto (Varese) Michele Perini, imprenditore (Milano) Flavio Riva, imprenditore (Brescia) Riccardo Santoro, imprenditore (Milano) Giovanni Terzi, architetto (Milano) Roberto Tronchetti Provera, imprenditore (Milano). il Giornale 10/10/2009

La corazzata di De Benedetti: la Repubblica.

Il 22 aprile Giulio Anselmi, ex direttore de “La Stampa” ed ex direttore de “L’Espresso” (dal cui gruppo che controlla “la Repubblica” è stato sostenuto), è stato nominato presidente della più importante agenzia di stampa italiana, l’Ansa, battendo il candidato voluto da Palazzo Chigi: Marcello Sorgi (entro l’estate direttore della stessa agenzia diventerà Luigi Contu, caporedattore di “la Repubblica”).

Direttore de “La Stampa” diventerà Mario Calabresi, corrispondente da New York per “la Repubblica”. Presidente della Rai è già diventato Paolo Garimberti, ex vicedirettore di “la Repubblica”. In corsa per un Tg Rai c’è Mario Orfeo, nato e cresciuto a “la Repubblica”. Con Silvio Berlusconi al potere sui media stravince Carlo De Benedetti. Naturalmente non ci sarebbe nulla di strano nella carriera fatta da chi ha lavorato in uno dei due più importanti quotidiani italiani, non fosse che quel quotidiano, “la Repubblica”, è stato sia un giornale che un vero e proprio partito politico.

Un partito a sé che è esistito con il suo fondatore, Eugenio Scalfari, anche nella Prima Repubblica, in cui ha provato ed è perfino riuscito a influenzare la vita pubblica italiana e sceglierne i principali attori, dal presidente del Consiglio (Ciriaco De Mita), ai manager pubblici (Romano Prodi, Fabiano Fabiani, i vertici della Rai). Ma che, finita quell’epoca, è stato – prima per ragioni industriali e finanziarie, poi per ragioni politiche – il principale avversario di Berlusconi. Fa specie quindi che nel momento di massimo potere e popolarità dell’attuale premier la presa sui media del vero partito avversario, quello di casa De Benedetti, sia cresciuta esponenzialmente e divenuta così forte. I casi che abbiamo qui citato sono già eclatanti, ma non sono i soli. Ricordiamo tutti le continue doglianze di Berlusconi sulla linea dei principali quotidiani italiani. Non c’è mai stato un momento in cui il governo italiano avesse davanti a sé così deboli altri poteri, fra cui quelli del mondo industriale e finanziario che controlla gran parte della carta stampata.

Con la crisi internazionale in corso, mai negli ultimi quindici anni le banche italiane sono state così deboli e bisognose dell’intervento pubblico (i cosiddetti Tremonti bond, fra l’altro). Raramente anche le imprese, che hanno chiesto e ottenuto provvedimenti di incentivazione ai consumi. Molti, anche esplicitamente nelle fila dell’opposizione, temevano che in questa condizione Berlusconi facesse strike, piegando qualsiasi voce dissenziente alla normalizzazione di un dolce regime. Poi si è scelto il nuovo direttore del “Corriere della Sera”. ? Ferruccio De Bortoli, nell’ultimo anno il commensale più gradito di De Benedetti, che lo avrebbe voluto alla direzione di “la Repubblica”, e poche settimane fa candidato del centro sinistra alla presidenza della Rai. Nello stesso giorno si è scelto anche il nuovo direttore del “Sole 24 Ore”, il quotidiano degli industriali, quelli da cui Berlusconi dice di sentirsi a casa sua. ? Gianni Riotta, viene dal Tg1 dove lo ha voluto e nominato, pochi mesi dopo essersi insediato a palazzo Chigi, Romano Prodi. E via tutti gli altri incarichi. Perfino nella Rai berlusconiana ci sarà posto in primissima fila, come sembra e già è per chi è stato allevato e cresciuto nel partito di “la Repubblica”.

Eppure, nonostante questa sia la realtà, Berlusconi è per tutti ancora l’invasore, il dittatore dolce, il politico che porta all’estremo e senza vergogna il suo conflitto di interessi irrisolto. Un sultano, come sostiene il professore Giovanni Sartori, che ho incontrato ieri mattina nel salotto tv di Omnibus, la trasmissione ideata e condotta su La7 da Antonello Piroso. Lo stesso Sartori ieri ha sostenuto che il povero Romano Prodi non ha pensato alla Rai, mentre il sultano Berlusconi come primo pensiero anche questa volta l’ha subito occupata. Gli slogan sono duri da morire, e anche un professore di lunga esperienza e assai informato come Sartori ne ha pronunciato uno assai lontano dal vero. Perché Prodi ha provato fra le prime cose a cambiare maggioranza nel Cda Rai, facendo saltare il consigliere Angelo Maria Petroni e sostituendolo con Fabiano Fabiani. Solo che l’atto fu illegittimo per ogni grado di giudizio, perfino per la Corte Costituzionale. Con Berlusconi al potere il Consiglio di amministrazione Rai è stato in regime di prorogatio, perché scaduto, dieci mesi. Ma tanto si dirà sempre il contrario… Franco Bechis,”Italia Oggi” il 21 aprile 2009.

p.s L’articolo vene riportato non tanto per il giudizio su Berlusconi, condivisibile o meno, quanto per il fatto che sottolinea la potenza dell’armata nichilista e ferocemente anticristiana (vedi Augias, Bocca, Scalfari, Politi, Schiavone..) di Repubblica (vedi altri articoli della sezione)

Umberto Veronesi e i suoi folli sogni.

Clonazione e ermafroditismo sono le sue ossessioni. Ieri di Repubblica: "…Ora tocca alle donne, e io non ho dubbi che il futuro sia nelle loro mani. Anche per una ragione biologica. La parità dei ruoli sociali ha portato progressivamente ad una parità sessuale. Nella parità, tuttavia, la donna è avvantaggiata dal punto di vista biologico perché l’attività procreativa è femminile.

Già oggi una donna può avere un figlio senza scegliere un padre, basta che si rivolga a una banca per la fecondazione. Invece se un uomo vuole un figlio, ha bisogno di una donna disposta ad accogliere il seme nel suo utero e portare a termine una gravidanza. Se poi in futuro si arrivasse alla clonazione, la superiorità femminile sarà ancora più evidente : la donna può clonare se stessa e l’uomo no. Non è assurdo allora prevedere un futuro prevalentemente al femminile , come già avviene in natura in altre comunità. Natura e cultura ci indicano con coerenza che la donna è la protagonista della prossima era e che non sarà certo fermata dalle difficoltà a procedere, come quelle attuali . Non c’è da temere: le donne non si fermano" .

Vedi :     https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=610