In morte di Laura Pollàn

Otto anni fa Laura Pollán era una semplice maestra di scuola e viveva insieme al marito Héctor Maseda, che dirigeva fuori dalla legalità il Partito Liberale Cubano.

La famiglia cercava di vivere in modo normale nella piccola casa di calle Neptuno, anche se non era facile andare avanti in un paese che considera un crimine la libera associazione. Ma una mattina, alcuni colpi alla porta vennero ad annunciare un cambiamento irrimediabile della loro vita. Dopo un’accurata perquisizione, Maseda fu incarcerato e condannato a 20 anni di galera con l’accusa di aver attentato alla sicurezza nazionale. Il suo delitto: sognare una Cuba diversa, opporsi politicamente alle autorità e mettere per scritto le sue opinioni. Ben settantacinque oppositori vennero processati in quel triste marzo del 2003, rimasto per sempre nella nostra storia nazionale con il nome di Primavera Nera.

La logica machista avrebbe voluto che le donne dei dissidenti arrestati restassero in casa a piangere il loro dolore, mentre i mariti scontavano lunghe pene in prigioni molto lontane dalle province di origine. Il governo cubano contava che quel colpo assestato all’opposizione avrebbe persuaso altri inquieti cittadini a non unirsi alle fila dei contestatari. Credeva anche che quelle spose, madri e figlie non avrebbero protestato, nella speranza che il silenzio potesse aiutare di più i loro cari rispetto alla pubblica denuncia di un orrore. Ma spesso i calcoli politici che provengono dalle alte sfere del potere sono errati. In questo modo sono nate le Damas de Blanco, un gruppo di donne che lottando pacificamente chiedeva la liberazione di tutti i prigionieri di coscienza. Al principio sembrava un movimento modesto e privo di collegamento, vista la grande distanza che separava una donna dall’altra.

Ma l’indignazione ha fatto da collante ed è stata un elemento di crescita per un movimento di donne che vestivano di bianco e tenevano in mano gladioli. Tra loro spiccava la voce di una piccola donna dagli occhi chiari che insegnava spagnolo e letteratura in una classe di adolescenti. Laura Pollán è diventata leader e portavoce di un gruppo non politico, concentrato soprattutto sul tema dei diritti umani e della scarcerazione dei familiari. In un paese retto da un’ideologia monocorde, l’ingresso sulla scena delle Damas de Blanco ha rappresentato un’importante novità. Non esibivano statuti di partiti politici, ma mostravano il desiderio di tornare ad abbracciare i loro cari. Hanno scelto di non unirsi a difesa di un’ideologia ma intorno alla fondamentale posizione dell’affetto familiare.

Hanno suscitato molte simpatie tra la popolazione dell’Isola e – come accade in casi simili – tutto questo ha generato una campagna di diffamazione e insulti orchestrata dalle autorità. Le Damas de Blanco sono state il gruppo dissidente più denigrato dai mezzi informativi cubani. Contro di loro è stata portata avanti ogni possibile guerra mediatica, dai tentativi di intimidazione ai meeting di ripudio che hanno raggiunto il culmine davanti alla porta della casa di Laura Pollán. I reporter ufficiali le chiamavano “Le Dame Verdi”, alludendo agli aiuti economici che ricevevano dai cubani esiliati per portare da mangiare ai mariti in prigione. Per ironia della sorte, un governo che ha usato le casse nazionali a sostegno dei più assurdi deliri politici, si permetteva di criticare gli aiuti ricevuti da alcune donne bisognose. La stampa nazionale ha continuato a denigrare la leader di quel movimento pacifico persino quando è entrata in terapia intensiva. Laura Pollán è stata ricoverata in uno di quegli ospedali avaneri dove la capacità medica è molto alta ma scarseggiano le luci, in gravissime condizioni, con forti dolori articolari, mancanza d’aria e deperimento organico. Visto che la situazione era molto grave, è stato chiesto alla famiglia se la paziente poteva essere trasferita in una clinica di lusso destinata ai militari. Laura prima di essere sedata e perdere conoscenza aveva già detto: “Voglio andare nell’ospedale del popolo”.

Ed è proprio lì che è morta, dopo che le è stato diagnosticato il dengue con cinque giorni di ritardo, in un paese che da mesi vive un’intensa epidemia di quel virus. Anche se in questo momento tutti i giornali del mondo stanno pubblicando la notizia della morte di Laura Pollán, il Granma e gli altri imbarazzanti giornali nazionali mantengono il silenzio. Una simile muta reazione può significare la pochezza di un governo incapace di provare dolore di fronte alla morte di un avversario. Non se la sono sentita di fermare le ostilità neppure per esprimere parole di condoglianza e per dire “mi dispiace”. Ma questo silenzio deriva anche dalla paura che avevano di questa piccola insegnante di spagnolo, un timore che è ancora dipinto sui loro volti.

La leader delle Damas de Blanco è morta. Da ora in poi nessuno potrà tenere un gladiolo in mano senza pensare a Laura Pollán.Yoani Sanchez, la Stampa, 17 ottobre

La primavera di Cuba?

E’ stato da poco liberato, a Cuba, Oscar Elias Biscet, un medico nero che si batte contro la dittatura di Castro e contro l’aborto di massa nell’ isola, e a cui è dedicata, in Italia, una marcia per la vita ( www.marciaperlavita.it ). Questa liberazione segna probabilmente un punto di non ritorno per la longeva dittatura comunista, messa ormai in ginocchio da una opposizione di pochi, ma eroici personaggi. Che hanno trovato spesso nella fede la forza per lottare per la libertà e la dignità umana. Una volta al potere, nel 1959, Castro ha cercato in ogni modo di sradicare il cristianesimo dal suo popolo.

 

Eppure era cresciuto studiando presso istituti religiosi, a cui i suoi genitori lo avevano iscritto anche grazie al costo modesto e accessibile. Dichiarò lui stesso: “Questo era possibile perché i preti non erano stipendiati. Ricevevano soltanto il vitto e vivevano con grande austerità…Austeri, serissimi, pronti al sacrificio e lavoratori indefessi, i gesuiti prestavano servizio gratuitamente, e in questo modo tagliavano le spese”. Ancora: “lo spirito di sacrificio e l’austerità dei gesuiti, la vita che conducevano, il loro lavoro e il loro impegno facevano sì che la scuola fosse accessibile a quel prezzo…Tutti quei gesuiti erano di destra. Alcuni di loro erano ovviamente persone di buon cuore che esprimevano la loro solidarietà verso altre persone; sotto certi aspetti erano irreprensibili”. Inoltre “apprezzavano il carattere, la rettitudine, l’onestà, il coraggio e la capacità di sacrificio….”.

Ma io, aggiungeva Castro, “non ho mai avuto davvero una convinzione religiosa o una fede religiosa. A scuola nessuno mai è riuscito ad instillarmele….”; ho invece, aggiungeva, una fede politica che mi rende un “uomo pieno di fiducia e ottimismo”. (F. Castro, Prima della rivoluzione, memorie di un giovane Lìder”, Minimum fax, 2005).

Una volta al potere, Castro ha tentato di distruggere in tutti i modi la fede cattolica, flirtando con i teologi della liberazione e appoggiando il culto afro-americano della Santeria. Senza però l’esito sperato. Scrive infatti la blogger cubana Yoani Sanchez: “Nell’isola che un tempo proibì le pratiche religiose per decreto molti cubani hanno rinforzato la loro fede”. Hanno dovuto nascondersi, sono stati esclusi dalla politica, hanno temuto di celebrare il Natale, sono stati educati all’ateismo scientifico, ma con successo solo parziale: “A scuola ci ripetevano che “la religione è l’oppio dei popoli”, ma anche i discorsi politici avevano una liturgia, prevedevano una prova di fede e una dedizione disinteressata a un “messia” che pure lui portava la barba e che pretendeva da noi sacrificio e devozione totale”.

Ancora: “Nessuno osa dire chi è responsabile di aver creato un soggetto (il cubano di oggi, ndr) indolente e senza personalità, senza vocazione e obiettivi, dissoluto e amorale, disinteressato al lavoro e senza alcuna aspirazione al benessere, irrispettoso delle leggi, privo di sogni e ideali. Questo tipo d’uomo è il prodotto del prolungato ateismo forzato… È un essere che non crede in niente, neppure in se stesso. Dalle sue ceneri risorge oggi la religione e persino noi che abbiamo perduto la fede lungo il cammino, vorremmo ritrovare la speranza per poter chiedere senza paura che durante questo Natale accada un miracolo” (El comercio, Perù, 19/12/2010).

Oggi, dunque, Cuba ha personaggi come Biscet, Sanchez, Farinas, che fanno sperare in una lenta ma sicura rinascita, ben raccontata in un libro fresco di stampa: “Adiòs Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro” (Lindau).

Ma per tanti anni una delle poche voci conosciute del dissenso cubano è stata quella di Armando Valladares. Il suo formidabile “Contro ogni speranza. 22 anni nei gulag di Castro” (Spirali), uscito negli anni Ottanta, costituisce un capolavoro, di storia e di fede, che ha lasciato il segno.

Arrestato nel 1960, all’età di 23 anni, per aver espresso alcune critiche al regime, Valladares riscopre in prigione- ascoltando il grido di tanti giovani che muoiono fucilati urlando “Viva Cristo re, viva Cuba libera, abbasso il comunismo”- una fede che lo accompagnerà attraverso le più indicibili vicissitudini. Le sue memorie sono appunto il racconto di questo inferno: persecuzioni, escrementi e urine gettati in faccia ai prigionieri, celle di rigore, mani mozzate con il machete, botte e sangue, prigionieri usati come cavie dai Mengele cubani intenti a costruire il mito della sanità castrista…insomma, tutto quello che il comunismo ha fatto, sempre e dovunque.

Ma tutto raccontato con la stessa forza che troviamo nelle opere di Solgenitsyn o di Harry Wu; con la stessa fede granitica che tiene viva la speranza, e che impedisce al condannato di soccombere spiritualmente vittima del suo odio. Così nelle memorie di Valladares torna spesso, anche nell’ultima pagina, il ritratto di un prigioniero, chiamato da tutti Fratello nella Fede: “un uomo scheletrico, gli occhi azzurri sfolgoranti e il cuore ricolmo d’amore” che invitava sempre i suoi compagni a perdonare. Che morì “alzando le braccia al cielo invisibile”, chiedendo a Dio “clemenza per i suoi aguzzini”. Il sangue dei martiri è seme, anche, di libertà. Il Foglio, 7 aprile 2011

Appello per un prigioniero politico cubano: Oscar Elias Biscet

Oscar Elias Biscet è un medico cubano, un cattolico nero che crede nella dignità della persona: per tutti questi motivi è un perseguitato dal regime dittatoriale di Fidel Castro.

Per Amnesty International, Human rights first, Freddom now, per migliaia e migliaia di cubani, è un “prigioniero di coscienza” e un vero eroe. Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla Vita. Diritto alla vita violato costantemente in un paese in cui esistono la pena di morte per i nemici politici; in cui organismi governativi sostengono la liceità della clonazione umana cosiddetta “terapeutica”, contro l’ “atteggiamento oscurantista”, a loro dire, di chi si oppone; in cui esiste l’aborto forzato, per motivi di ricerca medica, e il tasso di abortività è circa 5 volte quello italiano; in cui l’uso del farmaco Rivanol come abortivo determina il fatto che nel caso di fallimento, cioè in un’alta percentuale, il bambino viene ucciso (infanticidio) per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza; in cui il turismo sessuale, anche pedofilo, che è per molti cubani e cubane l’unico modo per sopravvivere, porta ad una tasso altissimo di aborti e di aborti su giovanissime! In un paese in cui embrioni e feti sono spesso utilizzati e uccisi a scopo di ricerca, nel più perfetto stile nazi-comunista, a vantaggio di persone provenenti dai paesi più ricchi (il turismo medico, accanto a quello sessuale; vedi le testimonianze di medici cubani come Hilda Molina, Julian Alvarez, José Luis García Paneque…).

Per la sua battaglia “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, cioè a favore della vita dei più piccoli, contro il degrado umano, contro la pena di morte e la tortura per i dissidenti e contro l’eutanasia, praticata su malati poveri, che si rivelano un peso economico, Biscet è stato aggredito, picchiato, additato come pazzo. Poi allontanato dal suo lavoro, rinchiuso in galera dal 3 novembre 1999 e al 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.

Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi giace nella stessa isola in cui sorge Guantanamo, in condizioni terrificanti e disumane (ben descritte da prigionieri cubani come Armando Valladares, autore di Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag delle Americhe dal fondo delle carceri di Fidel Castro, SugarCo 1985, Spirali 2007, e Pierre Golendorf, autore di Un comunista nelle prigioni di Fidel Castro, SugarCo 1978). Prigioni in cui, secondo le Nazioni Unite, avvengono: “Isolamenti in stanze fredde; perdita del controllo di tempo e spazio; immersione in pozzi neri; intimidazioni coi cani; simulazioni di esecuzioni; botte ai reclusi; lavori forzati; confinamento per anni in prigioni chiamate ‘cassetti’; uso di altoparlanti con rumori assordanti durante gli scioperi della fame; spersonalizzazione del detenuto mediante totale nudità in celle di castigo; soppressione di acqua ai prigionieri dichiarati in sciopero della fame; presentazione del recluso nudo davanti ai familiari per obbligarli ad accettare il piano di riabilitazione politica…”.

Secondo Human rights first, Oscar Biscet soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie, talora sotterranee, o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua. La sua salute è rovinata. Ha perso quasi tutti i denti, ma non il coraggio. Manda a dire ai suoi sostenitori: “La mia coscienza e il mio spirito stanno bene”. Biscet è forse, vista la lunghezza della sua pena, il massimo prigioniero di coscienza oggi al mondo. Lo chiamano anche il “negro olvidado” (il “negro dimenticato”). Noi, invece, vogliamo ricordarlo e chiederne la liberazione.

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Firmatari: Francesco Agnoli, presidente Medv (Movimento Europeo Difesa Vita) Luigi Amicone, direttore del settimanale “Tempi” Elena Baldini, assistente Pastorale per la Vita Giampaolo Barra, direttore del mensile Il Timone Toni Brandi, presidente Laogai Research Foundation Italia Giovanni Ceroni, responsabile Giovani Federvita Piemonte Carlos Carralero, rifugiato politico cubano, ha fondato "L’Unione per le Libertà a Cuba" Pucci Cipriani, giornalista e scrittore Roberto de Mattei, storico, presidente della Fondazione Lepanto Renato Farina, scrittore Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano Il Foglio Giuseppe Garrone: fondatore del numero verde SOS Vita (8008/13000), cofondatore del Progetto Gemma e riscopritore della Ruota degli esposti (1992) Antonio Gaspari. direttore editoriale L’Ottimista Silvio Ghielmi: cofondatore e per anni gestore del Progetto Gemma del MpV Federico Iadicicco, consigliere provincia di Roma Mario Mauro, presidente PPE al Parlamento Europeo Giorgia Meloni, ministro della Gioventù Andrea Morigi, giornalista Mario Palmaro, filosofo del diritto e giornalista. Massimo Pandolfi, giornalista e scrittore Antonio Socci, giornalista e scrittore Luca Teofili, presidente associazione romana Archè Antonio Socci, giornalista e scrittore Gianfranco Tomasi, co-fondatore e segretario Medv Giovanni Zenone, direttore di Fede & Cultura, Magdi Cristiano Allam, Europarlamentare e presidente del movimento politico "Io amo l’Italia", Lorenzo Fontana, Europarlamentare

 

 

Castro, la Chiesa e la Santeria

Quando Fidel Castro arrivò al potere Cuba era ancora considerata dalla Chiesa una “provincia ecclesiastica spagnola”, ed era spagnolo il 70% dei sacerdoti.

A parte le fucilazioni di massa e i rastrellamenti, dunque, una delle misure prese dal regime per stroncare la cosidetta “Guerra dei Banditi” sull’Escambray fu l’espulsione di 135 sacerdoti stranieri, qualificati come “falangisti”. Ma almeno altri 470 se ne andarono per conto proprio, sia stranieri che cubani. E altri sacerdoti ancora, oltre a molti credenti, furono assegnati alle cosidette Unità Militari di Aiuto alla Produzione (Umap): la versione cubana del Gulag.

Tra loro anche l’attuale cardinale Ortega, che rimase nelle Umap tra il 1966 e il 1967. La Chiesa cubana si ridusse ad appena 200 sacerdoti, costretti per lo più a gestire 4 o 5 parrocchie a testa. La situazione iniziò a distendersi con la lettera pastorale in cui il 20 aprile 1969 l’episcopato cattolico cubano condannava l’embargo Usa all’isola, definendolo “ingiusto e contrario alla morale internazionale”.

E l’8 settembre di quello stesso anno un’altra lettera pastorale dei vescovi raccomandò al laicato cattolico di non autoemarginarsi dalla vita sociale. Poi nel 1971 in Cile e nel 1974 in Giamaica Fidel Castro parla della necessità di un’alleanza strategica di lungo termine tra i marxisti e i cristiani rivoluzionari. E dal 1980 la Chiesa inizia una “riflessione ecclesiastica” che prepara l’incontro Nazionale Ecclesiale Cubano del febbraio 1986, cui sono invitati come osservatori anche i rappresentati del governo e del Partito Comunista, oltre a quelli delle chiese protestanti. E Fidel Castro in varie occasioni si mette ufficialmente a lodare il lavoro delle suore nel campo della sanità e dell’assistenza, citandole come esempio dell’umanitarismo e dell’efficacia di cui dovrebbero dar mostra tutti i comunisti e gli altri lavoratori cubani.

L’invito a che “centinaia di suore” vengano a lavorare a Cuba in opere sociali e anche ad assumerne la direzione fa da apripista al ritorno ufficialmente autorizzato dei sacerdoti stranieri, che permettono di riempire i vuoti nella gerarchia ecclesiastica locale. Dati recenti parlavano di 330 sacerdoti a Cuba: 155 cubani e 175 stranieri. Tra i religiosi la proporzione dei cubani calava a 130 su 646, tra cui 126 maschi. L’apertura della Chiesa, però, all’inizio non fu seguita affatto da un miglioramento effettivo della situazione.

Al contrario, nel 1976 l’adozione di una nuova Costituzione ispirata a quella bulgara rese anzi formale quell’ateismo di Stato che dal 1959 era stata solo una realtà di fatto. E ci vuole il crollo del blocco sovietico e la fine del periodo speciale per avere nel 1991 la riforma che riporta non solo lo Stato dall’ateismo alla semplice laicità, ma consente anche ai credenti di iscriversi al Partito Comunista e perfino di diventare deputati all’Assemblea del Potere Popolare.

In tutto questo periodo di tempo c’è stato comunque un aperto appoggio del regime comunista al culto afro-americano della Santería. Nella leggenda del castrismo c’è anche quel che avvenne l’8 gennaio 1959 all’Avana esattamente a una settimana dalla fuga del dittatore Batista, quando mentre 20.000 persone ascoltavano il suo discorso all’improvviso due colombe volteggiarono su Fidel, per posarsi l’una sul podio, l’altra su una sua spalla. “Obatalá! Obatalá!”, gridò la folla. Obatalá è appunto un orisha: una delle divinità della Santería. “Re del bianco vestito”, forgiatore nell’argilla del primo uomo, signore di completezza e di pace, patrono delle menti e referente privilegiato del signore supremo degli orisha Olodumare, nella simbologia che associa il culto santero alle icone cristiane Obatalá è assimilato allo stesso Gesù Cristo, oltre che a San Giuseppe e a Nostra Signora della Misericordia. E il suo simbolo sono appunto le colombe. Alcuni studiosi hanno ritenute probabili adepte alla Santería anche la madre e la nonna di Fidel, che da loro avrebbe così ricevuto le coordinate culturali per poterne utilizzare le simbologie a suo favore. Al tempo della lotta guerrigliera, ad esempio, fa rivestire con una divisa da combattimento simile a quella dei suoi barbudos la statuetta del santuario di El Cobre della orisha Oshún, dea dei fiumi e dell’amore associata alla patrona di Cuba Nostra Signora della Carità. Poi, nel fare la sfilata della vittoria a Santiago sceglie il primo gennaio 1959: proprio il giorno in cui l’orisha guerriero Elegguá apre i nuovi sentieri. In quest’occasione pronuncia una frase ambiguamente leggibile sia in chiave di retorica rivoluzionaria che come appello alla cosmogonia santera: “I morti non saranno dimenticati. Perché stavolta i morti continueranno a essere al comando”.

E nel 1987 Fidel si premurerà addirittura di invitare a Cuba l’ooni, un re tradizionale della Nigeria discendente diretto dell’orisha Oddudúa: dopo che i babalaws, i sacerdoti santeros, hanno previsto che senza il suo arrivo beneaugurante il líder máximo morirà entro la fine dell’anno. Lo stesso Fidel è d’altronde soprannominato dal popolo “il Cavallo”: termine con cui nei riti di possessione sciamanica della Santería è definito l’adepto appunto “cavalcato” da un orisha. Altre testimonianze ricordano che il negro Juan Almeida Bosque, futuro numero tre del regime, nella guerriglia sulla Sierra Maestra ostentava al collo i simboli dei sacredoti santeros. E quando Fidel poi nell’estate del 2006 si ammala i santeros tengono cerimonie pubbliche per propiziare la sua salute.

Anche la massoneria a Cuba è stata tollerata, e conta oggi su 26.000 affiliati, appartenenti a 314 logge. Anzi, quello cubano è l’unico regime comunista che non l’ha mai messa al bando. Naturalmente, in questa alleanza con la Santería e in questa tolleranza della massoneria non c’è solo un disegno di contenimento del cattolicesimo. La Santería è anche un utile istrumentum regni nei riguardi della popolazione afro-cubana, peraltro assai poco rappresentata nelle massime istanze del regime. E alla massoneria apparteneva il padre della patria José Martí, che lo stesso regime considera suo un precursore.

La massoneria è poi un importante ponte verso un certo tipo di sinistra latino-americana: era ad esempio un noto massone il presidente socialista cileno Salvador Allende. D’altra parte, anche il ruolo dei cattolici di sinistra ispirati alla Teologia della Liberazione si fa importante dopo la loro partecipazione alla formula di Unidad Popular in Cile e al movimento sandinista in Nicaragua. Alla Teologia della Liberazione si ispira il Grupo de Refelxión y Diálogo Oscar Arnulfo Romero, che organizza non solo corsi e seminari, ma anche pellegrinaggi al cimitero di Colón in commemorazione della morte del sacerdote e comandante rivoluzionario Guillermo Sardiñas, cappellano dell’Esercito Ribelle. Maurizio Stefanini, Limes, 16/06/2010

Carlos Franqui, un protagonista della rivoluzione cubana racconta

Carlos Franqui è stato un protagonista della rivoluzione cubana, in prima fila. Per anni è stato vicino a Castro, uno dei suoi giornalisti di fiducia, amico dei comunistissimi Sartre e Picasso. Con  Fidel Castro ha scritto persino articoli a quattro mani, e non ha esitato, nei primi anni, a farsi notare per il suo zelo, a volte duro e rabbioso (celebre un suo articolo, scritto col  contributo di Fidel, contro Ramon Castro, fratello del dittatore  ma reo di non essere un rivoluzionario entusiasta). Poi, col tempo, è cambiato, e ha scritto una storia della rivoluzione molto bella, in cui talora si autogiustifica un poco, ma in generale vera e coraggiosa.

 

 

Qui sotto una recensione di un grande conoscitore di Cuba, Gordiano Lupi:

 

 Carlos Franqui compie ottantasei anni e decide di scrivere la sua autobiografia raccontando attraverso la sua vita uno spaccato della storia di Cuba. Ne viene fuori un libro monumentale, a metà strada tra il saggio e il romanzo, scritto con uno stile piano e colloquiale che lo rende accessibile a tutti. Un saggio importante, di cui si sentiva davvero il bisogno, tradotto magistralmente dallo spagnolo da Raul Schenardi. Rendiamo merito a Baldini e Castoldi, editore lungimirante, che contrappone alle ricostruzioni agiografiche di autori “inginocchiati” come Gianni Minà, la verità storica vissuta da un protagonista della Rivoluzione.

Peccato che il libro non goda (al momento) della grande pubblicità riservata ai thriller di Giorgio Faletti, ma nutro comunque la speranza che siano in molti a leggerlo. Il saggio si apre con una parte narrativa dove l’autore raccoglie i ricordi della prima giovinezza, vissuta in un paesino dell’oriente cubano, tra galli che cantano, palme altissime, ceibas gigantesche e riti santeri. L’autore matura convinzioni libertarie e condivide gli ideali di José Martí contro la dittatura quando comprende che i padroni dispotici possono fare tutto, mentre ai poveri contadini non è concesso niente. “Sognavo un futuro che mi sottraesse ai mali del presente, un futuro che sarebbe stato possibile vedere grazie agli sforzi e alle lotte”.

Franqui si scopre antifascista e antibatistiano, comincia a fare la vita del rivoluzionario clandestino, vende giornali proibiti e segue una profonda voglia di giustizia. Comprende che solo lo studio e la cultura possono trasformarlo in un uomo libero e per questo si iscrive alle scuole superiori. A Santa Clara scopre una città ricca di fermenti rivoluzionari e idee socialiste, tormentata da lotte, scioperi, manifestazioni di protesta, e pervasa da sogni per una vita migliore. Respira libri e cultura, soffre per la morte del padre e si avvicina alle idee comuniste che promettono un cambiamento radicale per le classi sociali più disagiate. Da Santa Clara si trasferisce all’Avana e scopre una città vera, “una festa d’amore, dove si parla e si balla a tempo di son”.

Franqui dedica pagine di pura poesia alla descrizione della sua Cuba, racconta con nostalgia i colori della campagna e lo splendore della capitale. Narra che all’Avana decide di dedicare la sua vita a cambiare il mondo per far parte della grande famiglia socialista. Lotta per creare una coscienza sociale, per unire i contadini e per far capire il loro diritto a possedere la terra. Comincia a nutrire dubbi nei confronti del partito comunista quando Batista mette in piedi una pseudo repubblica ma il suo apparato direttivo sostiene il governo. Non comprende il centralismo democratico e certe regole sacre, discute con i dirigenti e rivendica la sua indipendenza.

Quando comprende che essere comunisti non significa essere liberi si dissocia dal partito, sa bene che l’anarchia è una splendida utopia, ma non riesce a seguire regole che non condivide. Franqui è affascinato dalla parola “libertà”, la vede come una sorta di mito, un sogno, una fantastica idea, ma ancora non sa che “non può esistere libertà senza democrazia”. Franqui entra a far parte dei rivoluzionari che vogliono far cadere la dittatura di Batista. “Idealizzavamo la rivoluzione, immaginando che sarebbe stata umanista e contraria ai comunisti rispetto al terrore, alla violenza e all’ingiustizia”.

Fidel Castro compie l’impresa suicida della caserma Moncada che termina in una carneficina e per questo viene processato. Denuncia i crimini della dittatura ed è condannato a quindici anni di carcere da scontare all’Isola dei Pini, dove scrive La storia mi assolverà. Franqui è sorpreso per la singolare coincidenza di frasi tra Castro e Hitler: il dittatore nazista in Mein Kampf aveva detto la stessa cosa. “In quel momento pensai che sarei sempre stato contro Batista, ma mai con quell’uomo pericoloso che aveva inaugurato la sua missione con un mucchio di cadaveri”, scrive Franqui.

Nonostante tutto entra nel Movimento 26 luglio, anche se non ne condivide il militarismo e il caudillismo, ma in quel periodo storico è l’unico modo per ribellarsi a Batista. Dirige Radio Rebelde sulla Sierra Maestra, ma non accetta gradi militari e conserva un ruolo da civile indipendente che lavora per la Rivoluzione. Fidel Castro fa una Rivoluzione trasmessa in televisione e via radio, con il suo carisma seduce l’intero paese e dopo la vittoria dell’esercito ribelle prende i pieni poteri.

Non restituisce la Costituzione del 1940, ma promulga una sorta di statuto privo di ogni garanzia, celebra i processi ai batistiani con i tribunali militari e dà il via a una prima orgia di sangue. “Rispondere ai crimini con altri crimini snaturava la Rivoluzione”, scrive Franqui che prende le distanze da Castro, dirige la rivista Revolución e critica tante manovre che non condivide. Secondo Franqui “il sistema castrista supera l’orrore batistiano con un superorrore”.

 Huber Matos viene condannato a vent’anni di galera per aver dato le dimissioni e non aver condiviso la virata comunista: non la pensa come Castro, quindi è un traditore. Il fido Ramiro Valdés si occupa degli antisociali e inaugura l’orrore delle Umap a Camaguey. Franqui assiste impotente a una sfilata di reclusi omosessuali, hippies e religiosi, nel gulag tropicale circondato di filo spinato. Finiscono dentro gente come Pablo Milanés (oggi affermato cantautore), Osvaldo Payá Sardiñas (oggi guida la dissidenza cattolica) e Jaime Ortega (adesso cardinale). Cuba diventa comunista non per colpa degli Usa, afferma Franqui, ma per volontà di Fidel che è convinto di incarnare la Rivoluzione e di saper fare le scelte migliori per il futuro.

Franqui descrive Che Guevara come un ambizioso in cerca di potere e fama, arrogante con i sottoposti che disprezza come esseri inferiori. Il Che è un dogmatico privo di senso della realtà, uno che distrugge l’economia con ricette assurde a base di lavoro volontario e cancellazione di conti bancari. La morte in Bolivia lo trasforma in un eroe romantico alla Byron e fa dimenticare i suoi errori, le sue responsabilità e i suoi insuccessi. Lo trasforma in un mito da indossare sulle magliette e da sfoggiare su enormi cartelloni propagandistici, anche se il suo rapporto con il popolo cubano è sempre stato distante. Il Che subisce il fascino di Castro, nonostante conflitti e divergenze, non lo abbandona mai e alla fine muore in Bolivia, utile al dittatore da morto più che da vivo.

Raúl Castro, invece, è l’unico rivoluzionario con un cuore comunista che batte in direzione dell’Unione Sovietica. Franqui ricorda il processo farsa al generale Ochoa, il combattente africano, il vincitore, l’eroe della Rivoluzione, fucilato come narcotrafficante perché Fidel teme la sua leadership. Franqui si dissocia dalla Rivoluzione, è allontanato da Castro e le sue foto scompaiono di colpo, viene cancellato dalle immagini ufficiali, come un vero e proprio fantasma socialista. “L’ingiustizia mi fece diventare rivoluzionario; la tragica esperienza che ho vissuto mi ha insegnato che se la Rivoluzione non era l’unica ingiustizia, era però quella più grande”.

Franqui comprende che la democrazia è “l’unico governo cattivo ma possibile” e si convince che il suo sogno rivoluzionario sta morendo tra le braccia dei comunisti. “Non ero nato per diventare né un signor comunista né un signor borghese. Sarei sempre stato uno del popolo, era quello il mio mondo, ma se allora avevo perduto un partito e un ideale, adesso perdevo una Rivoluzione e una patria”. Franqui sceglie la via dell’esilio in Europa, decisione non facile ma coerente per uno scrittore indipendente che vuole raccontare la vera storia della Rivoluzione cubana. Franqui abita in Italia per un lungo periodo, conduce un tenore di vita modesto perché sostiene che “l’efficacia delle azioni di un dissidente sta nella sua moralità”.

Nessuno deve poter affermare che le sue parole sono pagate da altri, anche se i soliti giornalisti “inginocchiati” lo dicono lo stesso, ma si squalificano da soli. Franqui contesta l’invasione sovietica della Cecoslovacchia che fa naufragare un tentativo di socialismo dal volto umano, nello stesso periodo conosce Gabriel Garcia Marquez e si accorge che il grande scrittore sudamericano subisce il fascino del potere. Non approva la scelta di Marquez che sceglie di diventare “un romanziere alla corte di Fidel Castro”. Franqui non può stare dalla parte di un dittatore, a lui non importa di subire il confino culturale da parte della sinistra, ma sa bene che le dittature non hanno colore. Il suo giudizio sull’opportunismo politico di Garcia Marquez è duro: “La patente di sinistra consente a Garcia Marquez di possedere una villa, milioni e ricchezze in Colombia, in Messico e a Cuba, conti bancari… ma lui non condanna il narcotraffico che distrugge il suo paese, non denuncia i crimini della guerriglia colombiana e tace su delitti atroci come quello di padre Camilo Torres. Sceglie la zuppa comunista per interesse, tanto la gente dimentica gli errori degli uomini di talento e ricorda soltanto la loro opera”.

Franqui prosegue raccontando il suicidio di Haydée Santamaria per protesta contro i fatti del Mariel e l’arresto del poeta Heberto Padilla, colpevole di avere un pensiero difforme da quello di Fidel Castro. Sono episodi tristi che convincono l’autore a dire: “La Rivoluzione cubana è perduta e lo stalinismo – castrismo impone un regime di terrore tipico del mondo comunista”.

Franqui fa autocritica e giustifica le sue scelte perché nel 1952 aveva solo l’alternativa rivoluzionaria per combattere la dittatura di Batista. Parte da una Rivoluzione umanista e martiana, viene manipolato e si trova dentro a una Rivoluzione comunista che produce conseguenze mostruose. Cuba è diventata “il regno del terrore e della miseria, una tirannia mascherata da Rivoluzione”. Le cifre parlano da sole. In quarantacinque anni di potere, Castro ha carcerato un milione di persone, oltre due milioni di cubani sono emigrati o hanno scelto l’esilio, decine di migliaia sono stati fucilati. Gli ultimi episodi che sottolineano una volta di più la ferocia del regime accadono nella primavera nera del 2003, che vede settantotto condanne con pene attorno ai venti anni di reclusione per oppositori pacifici, tra cui ventotto giornalisti indipendenti. Castro ha sempre avuto una schiera di giornalisti che lo compiacciono e Franqui definisce molto bene Gianni Minà come “l’inginocchiato”, secondo lui colpevole di aver scritto molte bassezze sul suo conto per eseguire precisi ordini di Fidel.

Le conclusioni alle quali giunge Franqui sono sotto gli occhi di ogni visitatore obiettivo che si reca a Cuba. “Castro ha venduto ai peggiori capitalisti stranieri negozi, hotel, spiagge, club, ristoranti, centri di divertimenti, industrie, terreni, rum, tabacco, caffé…”. Ha distrutto perfino l’industria dello zucchero che era il vanto di Cuba e in compenso per i cubani ha nazionalizzato la miseria. Nelle spiagge dell’isola fanno il bagno soltanto i turisti stranieri e Castro impersona un singolare ruolo da capo di Stato prosseneta che incentiva il turismo sessuale. Secondo Franqui “il castrismo è soltanto un’ideologia di potere, una tattica per restare in sella, perché Castro negli anni è stato fedele solo a se stesso”.

La Rivoluzione si identifica con lui che ha distrutto la ricchezza e la storia di un’isola per farne una seconda Haiti. Franqui conclude che oggi a Cuba si vive con la sola speranza di fuggire perché la popolazione si vede privata di ogni piacere materiale e spirituale e non è possibile andare avanti senza un briciolo di libertà. La maggioranza dei cubani è contro il potere ma sa bene che lottare per farlo cadere porterebbe soltanto al carcere o alla fucilazione. Il futuro di Cuba, secondo Franqui, vedrà al comando per un breve periodo di tempo Raúl Castro che vorrebbe fare dell’isola una nuova Cina. Il nuovo comandante en jefe parla di libertà economica, controllo politico e nuove relazioni con gli Stati Uniti. Resta il dubbio se sarà libero di attuare questi progetti, visto che Chavez lavora in funzione antistatunitense ed è lui (grazie al petrolio) il maggior azionista del governo cubano. Secondo Franqui è impossibile sostituire un capo come Fidel Castro che non ha preparato la sua successione. Il futuro di Cuba non sarà facile e la sola speranza di cambiamento passa per una rivolta che conduca verso la libertà. Carlos Franqui consegna alla storia un libro unico, fondamentale, oserei dire indispensabile per conoscere tutta la verità sulla Rivoluzione cubana. Leggetelo e fatelo leggere. Ne vale davvero la pensa.

Cuba e la prostituzione.

Un vecchio pallino dei teorici comunisti è questo: una volta raggiunta la società comunista ed egualitaria, il fenomeno della prostituzione sparirà.

Sì, sparirà perché gli sarà tolto il motivo di esistere. Perché non esisteranno più ne sfruttatori né sfruttati, né ricchi né poveri, e tutti saranno fraterni, l’uno verso l’altro. Così spiegavano Lenin e le femministe russe all’inizio della rivoluzione bolscevica. Ma le cose non andarono così. Accadde, anzi, il contrario. La prostituzione aumentò terribilmente, insieme alla povertà. Lo stesso possiamo dire oggi per Cuba, l’isola di Fidel.

Infatti, appena giunto al potere, Castro e i suoi sodali spiegarono che Cuba non avrebbe più avuto né ricchi, né poveri, tutti sarebbero stati bene, nell’abbondanza, e quindi non vi sarebbero più state donne costrette a vendere il loro corpo (come avveniva nella Cuba del dittatore Batista).

Le cose poi andarono diversamente e l’isola incantata divenne una delle mete predilette del turismo sessuale, non solo americano, ma mondiale. E’ un fatto risaputo.

Raccontato così dalla dissidente Yoani Sanchez, il cui blog visitatissimo è ospitato dal sito del quotidiano la Stampa:

Indossa una maglietta attillata, ha i capelli coperti di gel e offre il suo corpo per soli venti pesos convertibili a notte. Mostra un volto con zigomi sporgenti e occhi di taglio cinese, caratteristiche comuni tra chi proviene dalle zone orientali del paese. Gesticola molto, ostenta un mix di lascivia e di innocenza capace di provocare al tempo stesso pena e desiderio. Rientra nel consistente gruppo di cubani che si guadagnano la vita con il sudore pelvico, vendendo sesso a stranieri e connazionali. A Cuba l’industria dell’amore rapido e delle brevi carezze è cresciuta in modo considerevole negli ultimi vent’anni. In certe zone dell’Avana sembra di respirare aria da bordello, soprattutto se passiamo da calle Monte all’incrocio con Cienfuegos.

Donne giovani che vestono abiti appariscenti, ma un po’ scoloriti, offrono la loro “mercanzia” specialmente quando scende la notte… Queste ragazze non possono pretendere di accalappiare un gestore d’azienda statale o un turista, non avranno mai un cliente che le porti in hotel e che il giorno dopo offra una colazione a base di latte. Non usano profumi di marca e svolgono il loro lavoro nella squallida camera di una povera abitazione o in un sottoscala. Trafficano con gemiti, scambiano momenti di piacere per denaro. Questi uomini e donne – commercianti del desiderio – evitano di imbattersi nei poliziotti che controllano la zona.

Cadere nelle mani di uno di loro può significare una notte in galera o la deportazione nella provincia di origine, per chi vive illegalmente in città. Tutto può finire bene se il poliziotto è sensibile alla visione di una coscia scoperta e accetta di non redigere la lettera di avviso in cambio di qualche minuto di intimità. Alcuni agenti dell’ordine torneranno spesso a riscuotere il loro pedaggio – in moneta o in servizi – per consentire a questi esseri notturni di continuare gli adescamenti agli angoli delle strade. Se una donna rifiuta di pagare il prezzo pattuito può finire in un istituto di rieducazione per prostitute, mentre un uomo può essere accusato del reato di pericolosità sociale. Si completa in questo modo il ciclo del sesso per denaro, in una città dove il lavoro onesto è una reliquia da museo e la stringente necessità convince molte persone a vendere il corpo, a mettersi in mostra nella speranza di ricevere un’offerta”.