La sottile tentazione del buonismo

Vorrei riprendere un sottile concetto emerso in occasione della serata con Magdi Allam di mercoledì sera. Il vicedirettore del Corriere della Sera afferma che, per facilitare l’integrazione degli immigrati sarebbe opportuno intervenire con delle misure all’ingresso, quali dei test sulla conoscenza della lingua e della cultura italiana, da fare ad esempio negli Istituti Italiani all’estero. Dice inoltre che si potrebbero investire parte delle risorse al fine di consentire ai potenziali immigrati di seguire dei corsi per metterli effettivamente nella possibilità di arrivare in Italia. Questo consentirebbe di dare molte più chanche di integrazione rispetto alla situazione attuale che vede immigrati residenti da anni che non conoscono ancora la lingua italiana.
A questo punto dell’incontro, un ragazzo, sicuramente in buona fede, prende la parola e dice di sentirsi sconcertato da molte delle affermazioni di Magdi Allam ed in particolare si chiede a quale imprenditore bresciano o agricoltore pugliese possa interessare, se il l’immigrato che raccoglie pomodori o il manovale che costruisce muri, conoscano o meno l’italiano e la cultura del Paese che li ospita. E poi aggiunge, se volessimo vedere la cosa da un punta di vista cristiano, dobbiamo tenere presente che la carità cristiana implica l’accettazione dell’altro.
Emerge chiaramente quella che è la “sottile tentazione del buonismo”, e fermandosi in superficie, sembrerebbe persino condivisibile. Ma si povero immigrato, vieni che ti accetto, ti spalanco le porte, è lo stesso se non sai nulla dell’Italia, se non conosci la nostra cultura, se non sai nemmeno dove si trovi geograficamente, tanto devi solo raccogliere pomodori, in fondo non ti chiediamo null’altro che fare il tuo lavoro.
Ma, Magdi Allam ci ha dato la vera chiave di lettura della questione.
E’ proprio perché mi interessa, che tu immigrato, ti integri nel nostro Paese, mantenga la tua dignità, sia rispettato come persona, proprio perché non voglio considerarti solo come due braccia che raccolgono pomodori, come un robot che acquisto per quello che ha da darmi, proprio per questo all’inizio ti aiuto a faticare per avere tutto quel bagaglio di competenze che poi ti permetteranno di interagire con la nostra cultura e di vivere nel nostro Paese.
Questa è la vera chiave di volta, questa è la vera questione dell’immigrazione, non quel multiculturalismo privo di regole che appiattisce le identità in nome di un’uguaglianza che altro non è se non una sottile forma di razzismo, in quanto non considerando l’immigrato meritevole della stessa nostra dignità non gli forniamo tutti gli strumenti che li permetterebbero un’integrazione più facilitata. Un progetto di difficile realizzazione, dirà qualcuno. Certo, ma non vale forse la pena di tentare.

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Il disegno intelligente

Alla fine del suo reportage sul Disegno Intelligente, comparso recentemente sul Foglio, Stefano Pistolini ha intervistato Piergiorgio Oddifreddi, dell’Unione degli Atei e degli Agnostici. Oddifreddi ha anzitutto dichiarato che la teoria del Big Bang “puzza” di Genesi, e che la Chiesa lo ha subito messo in luce, già all’epoca di Pio XII. E’ vero: non solo il Big Bang si accorda con il Genesi, ma è stato teorizzato da cattolici, e nel Novecento, per la prima volta, da un gesuita. Detto questo Odifreddi, per non ammettere l’evidenza, spiega che in realtà no, il big bang si adatta bene all’idea di creazione, ma la Bibbia non parla di creazione, bensì di un dio demiurgo, che plasma una materia già esistente.

Non è così. La prima parola del Genesi, infatti, è “ber?shit”, cioè “all’inizio del tempo”, mentre la seconda è “b?r?”, cioè “creò”. L’espressione “all’inizio del tempo” ci può far riflettere: come scrive un commentatore medievale indica che ci fu un “istante che diede inizio al tempo”, che non fu “continuazione del passato verso il futuro, ma solo inizio del futuro”. Non è intuizione da poco, in quanto contrasta con la teoria dell’eternità del tempo, del moto e dello spazio, di Aristotele e di Platone – che quindi non avrebbero creduto al Big Bang, cioè ad un inizio-, ed anticipa il concetto scientifico di relatività di tempo e spazio, introdotta da Einstein. Infatti nel Genesi tempo e spazio, per la prima volta nella storia, non sono assoluti, esistenti da sempre, in quanto sono iniziati in un determinato istante, quello della creazione. Il loro essere relativi è conciliabile con il loro essere creature, mentre al contrario Dio è fuori del tempo e dello spazio: non è forse vero che se l’universo collassasse, spazio e tempo si annullerebbero? In tal caso il demiurgo platonico, e il mondo-dio dei panteisti, scomparirebbero, mentre il Dio cristiano “rimarrebbe”. Egli infatti si è definito così: “Io sono colui che è”, eterno presente, eternità a-temporale.
Tornando al nostro Odifreddi, egli non si stupisce del fatto che la vita sulla terra sia permessa da una serie incredibile di circostanze “fortunate”: “questo universo non è stato fatto perché ci fossimo noi, ma dal momento che è fatto così, possiamo esserci”. L’affermazione significa che ci siamo per caso, quasi ospiti abusivi, e che l’ordine che ci permette di esistere è un incidente o un accidente, e che quindi noi stessi siamo un incidente e un accidente, di significato nullo. Si tratta di una affermazione che vuole essere logica, intelligente, ma dopo aver fatto, anche dell’intelligenza umana, un incidente, un caso accidentale! I padri della scienza non la pensavano così. Per costoro tutto nasce dalla meraviglia, dalla “fede in una razionalità del mondo”, come scriveva il cattolico Max Planck, o dalla constatazione di una “progettualità e disegno”, come afferma Allan rex Sandage, scopritore del primo quasar, veramente “miracolosi”.
Copernico parlava di “divina providentia opificis universorum” e Keplero diceva che “il cosmo non è prodotto del caso, ma una creazione di Dio, e Dio, certamente, non l’ha creato a caso (temere)”. Non solo perché dal caso non nasce l’ordine, ma perché ciò che ci circonda non solo funziona, ma è anche bello, gratuitamente bello: come l’uccello che canta per cantare, senza altro scopo, o l’elegante e sinuoso procedere dei ghepardi; come i colori sgargianti dei pesci, il volo subacqueo dei delfini, la sovrabbondante bellezza dei pavoni…. Questa bellezza è anche, persino, nelle leggi fisiche. Scriveva Werner Heisenberg: “Se la natura ci conduce a forme matematiche di grande semplicità e bellezza non possiamo fare a meno di ritenere che esse siano vere…devo ammettere francamente di essere molto attratto dalla semplicità e dalla bellezza degli schemi matematici che la natura ci presenta”.
E Roger Penrose, parlando della relatività generale, affermava: “E’ proprio un mistero che qualcosa che appare bello possa avere più probabilità di essere vero di qualcosa che appare brutto”. Così Einstein, “non appena una equazione gli pareva brutta, sembrava perdere interesse nei suoi confronti. Egli era profondamente convinto che la bellezza fosse un principio guida nella ricerca di risultati di rilievo nella fisica teorica” (Bondi). Aggiunge suo figlio: “Aveva un carattere più da artista che da scienziato…per lui l’elogio più alto per una buona teoria non era che fosse corretta o esatta, ma che fosse bella”.
Se a Odifreddi la vita e la natura piacessero un po’ di più, se ne cogliesse maggiormente ordine e bellezza, forse sarebbe meno triste, e contemplando l’essere, che miracolosamente c’è, meno superbo.

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Il martirio di Suor Leonella

Quel che più dovrebbe stupire di fronte all’assassinio di Suor Leonella (la religiosa trucidata qualche giorno fa in Somalia) è che i mass media italiani abbiano acceso i riflettori sull’accaduto.

Sono centinaia i cristiani – suore, sacerdoti, semplici fedeli – sistematicamente perseguitati e uccisi negli ultimi anni nei paesi islamici – e non solo da guerriglieri o fuorilegge ma dagli stessi governi – senza che i maggiori organi di informazione si siano mai degnati di riportare adeguatamente la notizia.

A questi nostri fratelli morti ammazzati è sempre stato riservato, nel migliore dei casi, un trafiletto d’agenzia in fondo alle ultime pagine dei giornali, mentre assordante è stato il silenzio delle principali emittenti televisive e radiofoniche.

Solo il sito asianews.it (a proposito, leggetelo e fatelo leggere) e pochi altri giornali online ci raccontano di questi omicidi.

Ora, improvvisamente, la barbara fine di Suor Leonella sembra sorprendere l’opinione pubblica, desta raccapriccio e scalpore.

Evidentemente, il motivo è il conflitto scatenato non solo a parole dall’Islam dopo il discorso del Papa a Ratisbona, dove Benedetto XVI ha osato dire che la vera religione, essendo amica della ragione, è nemica della violenza.

Morale? Il martirio dei cristiani nei paesi musulmani interessa ai mass media solo per effetto del clima surriscaldato dalle polemiche scatenate dalle centrali del terrorismo islamico contro la Chiesa di Roma.

Altrimenti il fenomeno, per quanto di vaste proporzioni, semplicemnte non esiste.

Gian Burrasca

pressmail.a@libero.it

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Il Ministro Fioroni e la sussidiarietà capovolta

Tre considerazioni dopo la giornata fitta di incontri trascorsa dal ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni a Trento, in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico nel nostro territorio.

l. Consapevole di poter agevolmente compiacere la giunta provinciale di centrosinistra in casa della quale giocava, il ministro ha dato un forte taglio politico alla sua visita, sparando ad alzo zero contro il governo Berlusconi. L’esatto contrario dell’atteggiamento tenuto da Letizia Moratti quando in Trentino, due anni fa, aveva dedicato i suoi interventi alle cose da fare.

Fioroni ha ribadito a più riprese, specie davanti ai giornalisti, la sua volontà di rimuovere le storture e i mali di cui soffre la scuola e ripetutamente imputati al precedente esecutivo.

Si è così accattivato soprattutto la simpatia degli esponenti della sinistra più intransigente (al suo fianco la diessina Margherita Cogo non riusciva a nascondere la soddisfazione) e, non a caso, anche il plauso di Agostino Catalano di Rifondazione comunista, che in Consiglio provinciale è all’opposizione.

Ma, tutto preso com’era dalla pars destruens, il Ministro non ha preannunciato alcun intervento innovativo per cambiare la situazione.

Certo, ha detto di aver fiducia nell’autonomia degli istituti, promettendo di sfuggire alla “riformite acuta” di cui la scuola soffre da anni senza trarne beneficio. Ma abbiamo tutti sotto gli occhi gli enormi problemi dell’istruzione e della formazione in Italia – dal costo esorbitante e ormai insostenibile dei suoi dipendenti (un esercito di oltre un milione e 200mila unità), all’insufficiente raccordo con il mondo del lavoro, per non parlare della frustrazione dei docenti la cui preparazione professionale non ha alcun valore – e sappiamo benissimo che non si risolveranno da soli.

Il fatto poi che il ministro si trovi ancora nella fase di avvio del suo mandato non giustifica l’assenza di un serio programma orientato a sciogliere questi e altri nodi.

2. Fioroni a Trento si è indubbiamente dimostrato un abile oratore, capace di intrecciare senza pause ragionamenti anche arditi, dando all’uditorio l’impressione di tenere la situazione totalmente sotto controllo nonostante la complessità delle questioni sul tappeto.

Tra i termini più ricorrenti nei suoi discorsi, quello di sussidiarietà ha avuto un ruolo importante per spiegare il rapporto fra scuola pubblica e istituti non statali.

Stravolgendo, però, il significato di questo principio.

Nella sua risposta alla domanda rivoltagli da un giornalista in merito alla parità, il ministro ha infatti evocato il ruolo “sussidiario” della scuola materna non statale, il cui merito sarebbe quello di coprire il 40 per cento del servizio educativo nel nostro Paese.

Per Fioroni, cioè, la sussidiarietà non vuol dire che l’ente pubblico è tenuto a favorire l’iniziativa e l’organizzazione dei cittadini per rispondere ai loro bisogni, e ad intervenire quindi solo laddove questa non sia sufficiente.

Al contrario per il ministro la “sussidiarietà” coincide con il compito strumentale, di pura integrazione e supplenza del servizio erogato dall’ente pubblico assegnato ai soggetti del privato-sociale, se lo Stato non riesca ad occupare tutti gli spazi.

Come dire che quando l’intervento pubblico arriverà ovunque, delle scuole “paritarie” si potrà fare tranquillamente a meno. In questa visione statocentrica, alle scuole non statali, nel nostro caso provinciali, è lasciato un ruolo residuale ed è tutt’al più concesso di fornire eccezionalmente un servizio di pubblica utilità dato che per il momento non sarebbe possibile rinunciarvi.

Se quindi il governo Berlusconi non ha favorito la parità, pur politicamente condivisa, avendo drasticamente ridotto nella legge finanziaria le risorse riservate alle scuole non statali, Fioroni capovolge l’idea stessa di sussidiarietà, affermando che l’ente pubblico non deve affatto incoraggiare l’impegno dei privati in campo educativo, ma può al massimo tollerarne utilitaristicamente la sopravvivenza – specie nella fascia considerata più indolore delle scuole materne – in attesa che lo Stato o la Provincia si assumano in prima persona anche la responsabilità di questo come di ogni altro ambito.

3. E’ interessante registrare la delusione espressa, comprendendo questa posizione di Fioroni, da don Umberto Giacometti, dirigente della maggiore scuola paritaria del Trentino, che su questi temi è solito mostrarsi pienamente in sintonia con gli esponenti, ministri e assessori, del centrosinistra, specie se dichiarano la propria ispirazione cristiana. Forse don Umberto ha capito che questa linea, oggi, non paga più.

Di mezzo c’è il clamoroso flop del liceo internazionale da lui fortemente voluto a Rovereto, aperto proprio quest’anno dall’Arcivescovile con l’indispensabile e cospicuo apporto finanziario della Provincia.

L’insuccesso, che ha di molto inasprito il clima delle relazioni fra Giacometti, il presidente della Giunta Dellai e soprattutto l’assessore Salvaterra, potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per ripensare a fondo il rapporto fra Provincia e scuole paritarie.

Magari ripartendo dall’esigenza di mettere gli alunni e le famiglie nelle condizioni di scegliere liberamente l’offerta educativa più adeguata alla loro domanda.

All’insegna, questa volta, di una vera sussidiarietà.

Gian Burrasca

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Scuola: no all’educazione fisica sui libri

Nella pila di nuovi libri (sempre di più per la verità) che ci siamo dovuti procurare per i figli all’inizio dell’anno scolastico, ho notato, stupito, anche un voluminoso testo di educazione fisica. Premetto che non considero affatto questa disciplina – una volta la chiamavamo semplicemente “ginnastica” – meno importante delle altre.

Anzi.

Credo che mai quanto oggi i nostri bambini e i ragazzi, troppo spesso alle prese con telefonini, pc, tivù e videogames, vadano stimolati all’utilizzo consapevole della dimensione fisica con attività motorie e sportive di vario tipo, non necessariamente finalizzate all’agonismo ma indispensabili come altre materie alla loro crescita.

Per questo condivido pienamente l’esigenza di migliorare il rapporto fra la scuola e lo sport, dando a quest’ultimo più spazio e dignità nel sistema dell’istruzione e della formazione, evidenziata qualche giorno fa sul Corriere del Trentino da un giornalista ed ex atleta come Carlo Giordani.

Peccato che la riforma della scuola trentina approvata in luglio dal Consiglio provinciale, abbia trascurato il problema.

Quello che più temo è la tendenza a trasformare anche l’educazione fisica in materia “libresca” – il cui oggetto sarebbe poi il corpo umano (ma non dovrebbe occuparsene “scienze”?) – da studiare sui banchi di scuola, alla quale dedicare lezioni in classe e compiti a casa, vanificando così ancor più le già pochissime ore di esercizi e giochi in palestra o all’aria aperta concesse dalla programmazione.

Ripeto, certamente anche questa materia ha una sua dignità teorica, ma il vero problema è un altro: solo la scuola può proporre l’attività motoria anche sotto forma di pratica sportiva, e al tempo stesso abituare gli studenti a riflettere su quello che stanno facendo per acquisire la consapevolezza del valore e delle regole di una disciplina.

Per questo però non servono centinaia di pagine da leggere, interrogazioni, prove scritte e compiti a casa. Bastano docenti che insegnino a combinare il fare (in questo caso “ginnastica”, ma il discorso vale anche per tutte le altre materie) e il pensare, l’esercizio fisico e quello mentale.

Non è un caso che i campioni dello sport – quelli veri – siano sempre persone preparate e intelligenti.

Separare pensiero ed azione distrugge la possibilità dell’educazione come “esperienza” che introduce tutta la persona, e non solo la testa, nel rapporto con la realtà.

Mi appello quindi alla professionalità (e al buon senso) degli insegnanti, perché non privino i loro alunni di un’attività motoria – certo “ragionata” ma pur sempre motoria – di cui hanno estremo bisogno e nemmeno delle prove di atletica, delle gare e delle partite di pallavolo, basket o altro che, se guidate con sensibilità e attenzione da un adulto (e non solo arbitrate), possono davvero educare ad un miglior rapporto con se stessi, con gli altri e con il mondo.

Gian Burrasca

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Magdi Allam a Trento. Quel che i giornalisti non hanno ascoltato

C’erano quasi 600 persone ad ascoltare Madgi Allam ieri sera a Trento. Pressochè impossibile per i ritardatari entrare nell’auditorium dell’Arcivescovile.

Molte le domande alle quali lo scrittore e giornalista egiziano naturalizzato nel nostro Paese e vicedirettore “personale” del Corriere della Sera, si è sottoposto e attraverso le quali ha chiarito il senso del suo ultimo libro, andato a ruba nel banchetto all’ingresso, che dava il titolo alla serata: “Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano?”.

Peccato che quasi tutti i cronisti se ne siano andati dopo pochi minuti perdendosi alcune considerazioni importanti. Per questo è il caso di riportare almeno alcuni dei “botta e risposta” tra il pubblico e il relatore.

Eccoli.

La frase di Prodi sul papa che durante il viaggio in Turchia potrà essere protetto dalle guardie svizzere?

“Vergognoso”.

Cosa ne pensa dell’imam trentino Braigheche, vicepresidente nazionale dell’Ucoii, l’organizzazione musulmana che il mese scorso aveva acquistato una pagina dei quotidiani nazionali in cui Israele veniva paragonata alla Germania nazista?

“E’ stato un grave errore inserire e mantenere nella consulta nazionale delle comunità islamiche in Italia un’associazione come questa, che auspica la scomparsa di Israele, perché così si legittima chi predica un’ideologia dell’odio”.

La minaccia del terrorismo?

“Nel nostro Paese le leggi vengono interpretate arbitrariamente a seconda dell’orientamento ideologico dei magistrati. Una recente sentenza della Corte di cassazione ha stabilito che fino a quando non colgo con le mani nel sacco chi si sta facendo esplodere non lo posso arrestare. Come se non fosse già da considerare reato fare l’apologia del terrorismo e predicare la violenza. Il terrorismo nasce nel momento in cui si assume l’ideologia che lo alimenta”.

Gli immigrati?

“L’Italia è rimasto l’unico Paese europeo che continua a spalancare loro le porte in nome di un buonismo deleterio, i cui effetti devastanti si sono visti in Inghilterra, Olanda e Francia. Non si possono dare agli immigrati tutti i diritti senza chiedere loro anche il rispetto dei doveri. Nessuno aveva detto al padre di Hina che per le nostre leggi la donna e l’uomo sono uguali. Se non vogliamo che si creino ghetti e alimentare il razzismo, dobbiamo subordinare l’accoglienza degli immigrati alla conoscenza della nostra lingua e all’accettazione dei nostri valori. Occorre che questi requisiti siano accertati in partenza, con un test da sostenere nei loro Paesi d’origine, altrimenti non avverrà alcuna assimilazione e gli islamici continueranno a chiedere di essere riconosciuti come una sorta di Stato nello Stato”.

Gian Burrasca

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Dio e il logos.

Leggo spesso con simpatia gli articoli di Angiolo Bandinelli. In particolare, quello di mercoledì 18 gennaio mi spinge ad alcune riflessioni, riguardo a ciò che gli appare oscuro: l’interesse cattolico per la Genesi, e l’origine fisica del cosmo. Si tratta di un interesse antico, che è all’origine della scuola di Chartres e di quella di Oxford, e che corrisponde all’importanza che il cattolicesimo attribuisce alla ragione. Infatti la tradizione della Chiesa ha sempre sottolineato l’importanza dei praeambula fidei, cioè di quegli aspetti razionali che contribuiscono a dare alla Fede una base concreta, razionale appunto.

Saranno solo il pensiero della Riforma, o la reazione squilibrata al cosiddetto razionalismo moderno, a generare l’erronea posizione fideista. Bandinelli si chiede cosa interessino Darwin e la disputa sull’ “intelligenza” nel creato, a chi crede in Cristo Salvatore, e cerca una salvezza personale. E aggiunge che il mondo, che a noi appare ordinato e armonioso, potrebbe essere invece creato a misura delle mosche, del loro modo di vedere la realtà. Infine, citando Pasolini, collega il senso religioso del Mistero con qualcosa di “irrazionale”, per poi fare appello al “credo quia absurdum” attribuito, erroneamente, a Tertulliano.

Di fronte a queste considerazioni la tradizione cattolica oppone un’obiezione: il Mistero non coincide con l’irrazionale, ma oltrepassa, nella sua infinitezza, la nostra ragione, limitata e decaduta. Il Mistero non è l’Inintelliggibile, l’assurdo, ma l’Inesprimibile, l’Incomprensibile, ciò che non può essere completamente compreso, esaurito: funge da stimolo alla nostra ragione per andare sempre oltre, e ci strappa, con l’ammirazione, l’esigenza di Adorare. La razionalità infatti è presente in ogni aspetto della realtà, come riflesso del Verbo, del Logos che tutto pervade. E’ vero che l’universo appare fatto per l’uomo, a noi, e per la mosca, a lei, ma proprio perché Dio possiede, per così dire, una razionalità non settoriale, ma assoluta: il mondo è per l’uomo, ma anche per il fiore, la mosca, il lombrico…Che sia anche per loro non toglie, ma aggiunge, alla razionalità generale, e dell’autore. Ogni opera dell’uomo, invece, in quanto frutto di una ragione finita, risponde, e solo parzialmente, alle sue sole esigenze. Così un quadro, un disegno intelligente di un pittore, può essere letto, a diversi gradi, dall’esperto e dal profano, ed è tanto più razionale, cioè universale, se parla a tutti, da ogni prospettiva, benché non possa mai essere compreso da nessuno allo stesso modo in cui lo comprende chi ne è autore.

L’universo, dunque, è opera di una razionalità più che umana: “assurda”, quindi, soltanto per la nostra incapacità di abbracciare ciò che non ha confini.

La ragione umana indaga la realtà e scopre una legge qua ed là; legge la realtà ad un livello macroscopico e ad uno subatomico, separatamente; vede la materia come forma e come energia…tutto da un’ottica limitata, incompleta. Ha cioè la nostra visione ristretta, parziale, che tende talora, quasi per ripicca, ad assolutizzare un punto, perché non coglie il tutto. Non abbraccia l’armonia globale, l’unità logica che esiste in ogni cosa, e tra le cose nel loro insieme, come spiegava Einstein, parlando dell’unica legge fisica che le riassume tutte, e che l’uomo cercherà sempre, senza mai raggiungerla. In questo senso anche gli errori del pensiero nascono dalla ragione, quella parziale e limitata: razionale vorrebbe essere, senza successo, l’illuminismo, nel suo dare assolutezza alla ragione umana, relativa; razionale il marxismo, nel suo cogliere l’importanza della materia; razionale persino l’astrologia, sostenendo un rapporto tra uomini ed astri… Eppure sono tutti errori, per difetto di ragione, perché il primo non tiene conto della metafisica, il secondo della natura anche spirituale dell’uomo, la terza della libertà… La Fede, invece, coglie tutti i singoli aspetti razionalmente e umanamente apprezzabili, ma li unifica alla luce del Logos. Per questo permette l’equilibrio più razionale che esista, tra ciò che è solo apparentemente assurdo, contrastante: ragione e sentimento, anima e corpo, tempo ed eternità, amore e dolore…Infine, poiché la ragione caratterizza l’uomo, un Dio che violasse la ragione, nel suo modo di creare, per noi, il mondo, non corrisponderebbe al nostro bisogno di conoscenza; e un Dio che avesse creato senza la razionalità, e la ponesse nell’uomo, sarebbe un pazzo, un sadico che si diverte nel vedere le sue creature che cercano, assurdamente, in ogni cosa, quel senso, quella razionalità, che non esiste.

(Il Foglio).

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E’ esistito in Italia il far west della provetta? Quali sono i rischi della PMA?

E’ opportuno iniziare questo studio sulla bioetica in generale partendo dalla discussione attualmente più calda e partecipata: quella sulla fecondazione in vitro (Fiv), detta anche fecondazione extracorporea. o procreazione medicalmente assistita 

Lo farò anzitutto in una prospettiva storica, facilmente accostabile da tutti, ed in particolare servendomi di un’opera di impostazione completamente antitetica rispetto alla mia, e cioè “La fecondazione proibita” di Chiara Valentini, giornalista de "L’Espresso" (Feltrinelli, 2004). La Valentini si propone di raccontare la storia della fecondazione in vitro in Italia, ma anche, e soprattutto, di far “capire le ferite imposte da una legge giudicata da molti la peggiore d’Europa”, ovvero la legge 40 sulla fecondazione assistita, contro la quale si è mossa la macchina referendaria di buona parte della sinistra, oltre a quella radicale. Succede, però, che a volte le intenzioni vengano sopraffatte dalla realtà. E la Valentini, giornalista di lungo corso, raccontando la realtà della procreazione assistita, finisce paradossalmente per dar ragione a chi la legge 40 la sostiene, se non, addirittura, a chi la ritiene eccessivamente permissiva. Vediamo come. Il suo testo si presenta come una storia degli esperimenti, delle prove, degli smacchi e dei successi di medici e intrallazzoni di tutta Italia, oltre che di altri paesi dell’Occidente. Paradossalmente, infatti, la critica alla legge 40 è relegata nello spazio di poche, acide pagine, e questo permette al lettore di capire da un punto di vista storico, e quindi oggettivo, cosa sia veramente successo (mi permetterò, qua e là, qualche aggiunta).

Nel 1978 nasce in Inghilterra la prima bambina fecondata in vitro, Louise Brown. In quello stesso anno un intellettuale comunista convertito, André Frossard scrive: "Il giorno, e vi dico che non tarderà, in cui i vostri biologi avranno trovato il modo di cambiare la natura umana agendo sulle cellule iniziali, essi se ne serviranno, statene certi, anche se dovessero in un primo momento popolare la terra di fenomeni da baraccone". Effettivamente da quella bambina in poi avviene qualcosa di nuovo, qualcosa che prima era assolutamente inimmaginabile. Medici intraprendenti, biologi specializzati nella fecondazione in vitro di vacche e conigli, come il francese Testart, dottori esperti in aborti come Patrick Steptoe, un "socialista accanitamente ateo" come il biologo Robert Edwards, e tanti altri, si dedicano a scoprire modalità di ogni tipo per rendere possibile la fecondazione umana extracorporea. Tutto avviene nel segreto delle cliniche, di solito private, e viene alla luce soltanto nei casi più clamorosi.

In Italia si distinguono i dottori Daniele Petrucci, Ettore Cittadini e Vincenzo Abate. Quest’ultimi due si contendono a colpi di stampa il primato del primo bambino realizzato in provetta: Abate, che poi rinnegherà il suo passato per scrupoli morali, rivendica a suo merito la nascita di Alessandra Abbisogno, nella clinica Posillipo di Napoli, mentre Cittadini fa venire al mondo, nel 1984, a Palermo, Eleonora Zaccheddu. A questa generazione di medici pionieri si aggiungono col tempo alcuni ginecologi destinati a grande fortuna, spesso specializzatisi all’estero, in particolare Carlo Flamigni e Luca Gianaroli, oggi entrambi attivi a Bologna, città che la Valentini definisce "il triangolo d’oro" della fecondazione in vitro (Fiv) in Italia. "Triangolo d’oro" fa venire alla mente il traffico di schiavi degli inglesi e dei portoghesi nel Seicento-Settecento, o il triangolo dell’oppio tra Inghilterra, India e Cina nell’Ottocento.

Non di questo si tratta, ma comunque, di certo, di un giro enorme d’affari. E’ infatti evidente che, dopo i primi "successi" della Fiv, la voce si sparge, e le coppie sterili, sempre di più, cercano un conforto alla loro tristezza e un aiuto da chi promette di darglielo. Sono disposte, evidentemente, a mantenere riservatezza su ciò che viene loro chiesto, e a pagare profumatamente, se necessario ipotecando la casa o vendendo dei beni. Sono disposte a tacere riguardo a ciò che viene loro fatto, sia nel campo delle sperimentazione di nuove tecniche, sia sotto ogni altro aspetto: "il corpo di quelle donne veniva usato come una cosa inanimata e senza volontà, come se la situazione di medico che può far partorire un figlio gli desse un diritto speciale" (p.107).

Nascono dovunque laboratori improvvisati, perché, a differenza che per qualsiasi altra specialità medica, non è richiesto alcun permesso nè alcuna specializzazione: un dentista di Firenze la sera, deposto il trapano, trasforma il suo studio in un centro di Fiv; altri dottori, poco attrezzati e poco esperti, improvvisano improbabili tecniche o si limitano a spillare quattrini, senza alcun risultato. Sorgono addirittura "finanziarie collegate a studi medici pronte ad erogare prestiti ad aspiranti genitori": un "businesss per decine di miliardi e senza regole" ("Panorama", 11/12/1997). "Chi operava nel privato – scrive la Valentini – non aveva regole specifiche da rispettare…Non c’era alcun obbligo di far verificare la scientificità e la sicurezza dei propri metodi agli ispettori del ministero. Non c’erano limiti alle tariffe e non esisteva neanche un registro nazionale dei centri con iscrizione obbligatoria, come in molti altri paesi" (p.100).

Le tecniche infatti sono ancora molto sperimentali e molto costose: basti pensare che oggi un ciclo di Fiv può costare anche diecimila euro, esclusi annessi e connessi (solitamente viene ripetuto più e più volte), e che una donazione di ovociti arriva a ottomila euro. Si sa di coppie, in America, che spendono tuttora sino a trecentomila dollari per realizzare il sogno di un bambino tutto loro: del resto si tratta di un sacrificio che, dal punto di vista umano, è perfettamente "comprensibile" (“la Repubblica delle donne”, 16/10/2004). Il fatto triste è che in queste cliniche private e non, a cui lo Stato italiano non porrà alcun limite fino al 2004, succede un po’ di tutto: siamo nella fase iniziale, e occorre sperimentare, come per ogni procedimento scientifico.

Di quello che è successo, in realtà, sappiamo ben poco, perché tutto è rimasto a lungo nell’ombra. Per questo si è parlato per anni di “far west della provetta”, di sperimentazione selvaggia sul corpo delle donne e sulla speranza delle coppie. Ne parlavano, già negli anni Ottanta, non solo i cattolici, ma anche alcuni movimenti di sinistra, specie femministe e ambientalisti. Lo ricorda la Valentini, accennando qua e là ad alcuni nomi di personalità della sinistra italiana che dimostravano in quegli anni una certa preoccupazione per un fenomeno così grave e così assolutamente deregolamentato: il verde Alex Langer, Nilde Jotti, Livia Turco, la sociologa Franca Pizzini e la psicoanalista Marisa Fiumanò. Soprattutto in ambienti ecologisti e femministi ci si poneva il problema molto chiaramente: cosa è questa fecondazione in vitro? Che effetti ha sulla donna la tempesta di ormoni destinata a favorire l’iperstimolazione ovarica, preliminare ad ogni fiv? Come nasceranno gli eventuali bambini? Saranno sani o no? C’è il rischio di pratiche eugenetiche? E gli embrioni?

Del resto è ovvio chiederselo: siamo veramente in grado di controllare la vita?

Oggi, nell’anno 2004, in seguito all’emanazione di una legge che regolamenta qualche eccesso, quasi tutta la sinistra, in alleanza con i radicali e con le cliniche private nelle quali si pratica la Fiv, afferma che il far west non è mai esistito, e che l’assenza di qualunque controllo è meglio di qualunque divieto.

Lo scrive il professor Flamigni: "Non c’è mai stato nessun far west" ("Io donna", settembre 2004). Eppure la Valentini ci offre un ventaglio di storie da vero far west, raccapriccianti. In un capitolo intitolato "Benvenuti al circo Barnum" descrive le prodezze del ginecologo romano Severino Antinori, famoso anche perchè portava al punto giusto gli spermatozoi immaturi nei testicoli dei topi. L’Antinori ha reso possibile, negli anni, la gravidanza di "decine di donne over sessanta", la più famosa delle quali è senz’altro Rosanna Della Corte, di anni 63. Questa donna "si sarebbe presentata nello studio romano di Antinori tenendo tra le mani un piccolo contenitore di azoto liquido" contenente lo sperma del marito, morto dieci anni prima (p.80). Sempre Antinori ha fatto partorire due gemelli ad una "imprenditrice inglese miliardaria di 59 anni", ed ha fatto sì che una ragazza siciliana, Manuela, portasse "in grembo l’embrione frutto degli ovociti della madre e degli spermatozoi del patrigno" (p.85). E’ successo anche il contrario: una mamma napoletana, Regina Bianchi, "aveva accettato di portare la gravidanza al posto della figlia", ma aveva perso il bambino. In più occasioni, in questi anni di sperimentazione selvaggia, venivano concepiti con Fiv, non unici, ma in serie, quasi prodotti artificiali, spesso per l’impianto di troppi embrioni, 5, 6, addirittura 8 gemelli: con conseguenze gravi sulle mamme, con uteri che arrivavano a pesare 16 chili, mentre i bimbi in gran parte morivano, o nascevano prematuri, sottopeso, con gravi menomazioni fisiche e mentali (otto gemelli: a Napoli nel 1979, a Palermo nel 1989, a Trapani nel 2000…). Perché tanti gemelli? Anche perché non vi era alcun limite rispetto agli embrioni da impiantare. Sempre la Valentini ci racconta il caso di una donna di Reggio Emilia a cui vennero impiantati dal professor La Sala ben dieci embrioni. Ne nacquero "quattro minuscole creature, che pesavano meno di otto etti". Due morirono quasi subito, gli altri erano fragilissimi, e ci vollero "sei mesi di incubatrice e di cure intensive" per salvarli(p.105).

Il problema dei troppi embrioni che i medici impiantavano, per maggior "efficienza", viene affrontato dalla Valentini anche a pagina 140 e 141, con una malizia che è stata spesso utilizzata in questi mesi da parte del fronte referendario. Si legge infatti a pagina 140 che una donna di 38 anni, dopo l’entrata in vigore della legge 40, è rimasta incinta di ben tre gemelli "a causa dell’obbligo di impiantare comunque tre embrioni": la colpa sarebbe dunque della legge, che impone l’impianto di troppi embrioni (ma prima non se ne impiantavano anche dieci?). A pagina 141 si parla invece di un’altra donna, le cui speranze di avere un figlio sarebbero pochissime causa l’ "obbligo di impiantare massimo tre embrioni": la colpa sarebbe dunque ancora della legge, questa volta perché permette l’impianto di troppo pochi embrioni! La verità è che la Legge 40 prescrive di impiantare un numero di embrioni "comunque non superiore a tre", e quindi anche inferiore, anche perché non si verifichino più casi come quelli degli otto gemelli citati.

Un altro fenomeno orribile di cui la Valentini dà conto è quello degli uteri in affitto. La Fiv senza regole infatti crea una sorta di nuovo lavoro: affittare il proprio utero per realizzare il desiderio di maternità di una coppia. In tutta Europa e in America nascono agenzie specializzate. Fabrizio Del Noce, nel suo "Non uccidere" (Mondadori), racconta che nel 1995 in Usa un utero in affitto veniva a costare circa 41.000 dollari; 16.000 all’agenzia, 10.000 alla prestatrice d’utero, 15.000 per le spese mediche e l’assistenza legale. Perché l’assistenza legale? Perché l’utero in affitto porta con sé dei gravi problemi. Ne parla la Valentini da pagina 86 a pagina 94. Succede, per esempio, che la gestante si affezioni al bambino portato in grembo, e che alla fine decida di non "consegnarlo"; o che faccia pesare la sua presenza anche dopo il parto, ritagliandosi a forza uno spazio nell’affetto del bimbo e nella famiglia. Oppure approfitta per alzare il prezzo, man mano che l’ora del parto si avvicina. Si registrano anche casi di gestanti che decidono in corso d’opera che non ne vale la pena, e abortiscono; che sono malate di aids, e contagiano il nascituro; che gestiscono la gravidanza senza alcuna precauzione, danneggiando il futuro neonato. Succede, ancora, che la coppia committente, nell’arco dei nove mesi, si separa, e nessuno allora vuole più il bambino; o che alla fine del parto nessuno riconosce il neonato come suo. In Italia c’è un caso divenuto celebre: quello di un ricco pasticcere di Seregno, che affitta l’utero di una donna algerina. Costei ne approfitta e alza di continuo il prezzo: chiede 40 milioni, poi una paninoteca in gestione, poi una macchina sportiva. Alla fine il pasticcere si secca e la allontana. Ma la moglie, disperata per tutta questa vicenda, si spara in testa: non muore, ma rimane cieca. Quando il bambino nasce, e visto che in Italia il figlio è (e continua a essere) di chi lo partorisce, riconoscono, accanto alla madre algerina, la paternità del pasticcere, ma permettono a sua moglie di adottare il bambino, se colei che ha partorito è d’accordo.

In vari punti la Valentini parla della fecondazione eterologa, dichiarandosi ovviamente a favore. Ciò non le impedisce di raccontare che in molti paesi in cui l’eterologa è permessa vi sono dei registri col nome dei "donatori", affinchè il futuro bambino o bambina possa un giorno conoscere la sua origine genetica, per evitargli gravi danni psicologici. I genitori che non dicono subito ai figli che sono stati generati con gameti altrui, sostiene la Valentini, "danneggiano i figli", come dimostrano quattro casi da lei riportati: Heidi, nata da donatore, "ha gravi problemi psichici"; Peter racconta di aver finalmente capito perché il padre lo aveva sempre rifiutato solo dopo essere venuto a conoscenza del fatto che non era suo padre genetico; Robert, venuto a sapere per caso di essere nato da donatore, afferma: "E’ come essere stato investito da un treno"; Susannh, invece, spiega: "appena sarò più grande cercherò di sapere chi è l’uomo che ha dato alla mamma il seme che mi ha fatto nascere. E’ duro crescere senza sapere niente di metà del proprio patrimonio genetico". In Australia, scrive ancora la Valentini, in un "documentario andato in onda nel 2000 viene seguito passo dopo passo il viaggio di una ragazza di 17 anni alla ricerca del donatore che le aveva dato la vita" (p.168.169). Non si capisce, dopo questi esempi, dove stia la positività dell’eterologa (anche l’ovodonazione tra parenti viene definita "un disastro" a p.77).

Tanto più che essa richiede la crioconservazione (con il conseguente degrado biologico) e l’esistenza di banche del seme e degli embrioni: ne nascono alcune in questi anni di far west in Italia, tra cui quella di Roma, fondata da Emanuele Lauricella. Esse effettuano di solito la vendita di sperma e ovociti per corrispondenza, senza alcun controllo sanitario. C’è addirittura "un vero e proprio mercato di ovociti rubati e anche molti embrioni cambiavano proprietario" (p.102). Abbondano i "donatori", come li chiamano con un eufemismo i medici che fanno la Fiv (espertissimi nella neolingua orwelliana): si tratta di uomini e donne che vendono il seme o gli ovuli, di continuo, anche una volta al mese, spargendo a destra e a manca figli, che magari un giorno potrebbero anche incontrarsi senza saperlo. La Valentini nel suo libro ne intervista due, un maschio e una femmina: l’uomo è un tipo "colto, di sinistra", che vende il suo seme per 100.000 lire una volta al mese, affermando di provare un "generico senso di potenza". La donna è un’aspirante attrice, che mette insieme qualche soldo "donando" (ma in realtà vendendo) ovuli (pratica comunque pericolosa per la sua salute): anche lei provava, scrive la Valentini, "una specie di sensazione di potenza" all’idea di quanti bambini aveva fatto nascere nel suo quartiere.

La cosa incredibile è che alla fine gli autori di queste nefandezze, intendo soprattutto i medici, non hanno mai pagato. Sempre la Valentini sostiene che delle cinquanta donne da lei intervistate "quasi la metà ha riferito di episodi di malasanità in genere": molestie sessuali, impianto di embrioni altrui, eterologhe fatte senza permesso della coppia, stimolazioni ovariche eccessive, impianto di troppi embrioni, dosaggio sbagliato dei farmaci, aborti procurati per errori medici (p.101-102-103)… Eppure quasi nessuna coppia si arrischiava a denunciare i medici responsabili. Anche se lo avesse fatto, in assenza di legge, non sarebbe successo nulla. E’ emblematico a riguardo il caso del dottor Giovanni Mencaglia (p.108): costui "si era inventato la vendita dello sperma per corrispondenza". Nei suoi affari aveva venduto a vari centri di fecondazione artificiale un migliaio di dosi di seme di un solo donatore, affetto per di più da epatite C. Scoperto dalla polizia nel 1997, indagato per tentata epidemia, non aveva subito alcuna conseguenza ed era potuto tornare tranquillamente ai suoi esperimenti di fecondazione artificiale.

L’ultimo aneddoto istruttivo che citerò è quello di Brigitte Fanny Cohen, specialista di medicina del canale tv France 2, sottopostasi inutilmente a iperstimolazione ovarica per avere un figlio con Fiv. La Valentini racconta che durante una conferenza stampa la Cohen spinge un medico ad ammettere il rischio tumore connesso a tale pratica. Poi gli chiede: "Perché non avvertite le pazienti?". E il medico: "Se lo dicessimo nessuna farebbe più la fecondazione artificiale" (p.95).

Infine, riguardo a tutta la problematica sulla sanità o meno dei bimbi nati da Fiv, la Valentini non ritiene opportuno parlare. Sfaterebbe il mito scientista, così ben costruito dalla stampa, a dispetto della realtà. Con la leggerezza di un uccello in volo si limita a scrivere, a pagina 160, che i trigemini, l’8% dei nati da Fiv, corrono vari rischi di "disagi fisici o mentali". Inoltre "si può ipotizzare che alcune tecniche danneggino la buona salute e la crescita regolare del bambino". Riguardo all’Icsi, conclude, "alcuni studiosi parlavano di lievi ritardi mentali nel primo anno di vita. Altri sostenevano che poteva provocare anomalie dei cromosomi sessuali"… ma non paiono problemi degni di approfondimento!

Eppure vi sono decine e decine di studi, non necessariamente contrari alla Fiv, che sottolineano le controindicazioni insite in queste nuove tecniche scientifiche.

Nel suo "Procreazione medicalmente assistita" (Armando editore, Roma, 2004), ad esempio, Manuela Ceccotti riporta uno schemino tratto da alcune indagini italiane ad opera di Eurispes (1990), Flamigni (1998), Sismer (1998), in cui risulta che in seguito a Fiv gli aborti vanno addirittura dal 18 al 30%; le prematurità dal 9 al 18%; i parti gemmellari, che sono sempre classificabili come complicazioni serie, dal 20 al 35 %; i parti trigemini, che sappiamo associati a rischio morte per la madre e a deficit fisici e/o mentali per i bimbi, dallo 0.5 al 6 %; la mortalità perinatale dal 13 al 17%; il basso peso alla nascita, con evidenti conseguenze sulla salute, dal 5 al 10%

Si tratta per chiunque abbia un minimo di onestà di un bilancio angosciante, testimoniato da personalità e centri favorevoli alla Fiv, del resto perfettamente in accordo con quanto scriveva il già citato dottor Cittadini, pioniere della Fiv in Italia, nel suo "Il tempo del sogno", Sellerio. A pagina 31 ad esempio affermava: "Nel 1982 abbiamo trattato con Fivet 18 donne, avendone due gravidanze, entrambe esitate in aborto. Nel 1983 su 51 tentativi abbiamo avuto quattro gravidanze, delle quali due sono oggi presso il termine e due sono esitate in aborti…".

Ma torniamo al libro della Ceccotti. A pagina 111 si dice: "La mortalità materna è tre volte superiore nelle gravidanze multiple rispetto alle gravidanze singole, prevalentemente come conseguenza del maggior rischio di preeclampsia e di emorragia al parto (Nicolini e Hall). Per quanto riguarda i feti/neonati, molti sono i problemi derivati dalla prematurità. L’epoca gestazionale media per il parto è pari in media a 37 settimane per gravidanze bigemellari e 33.5 per trigemellari. La percentuale di nati di peso inferiore ai 1500g è del 10% per gemelli, 25% per trigemelli e maggiore del 50% per nati da gravidanze con quattro o più gemelli. Come conseguenza la mortalità perinatale è 4-5 volte superiore nelle gravidanze bigemellari e 9 volte superiore nelle gravidanze trigemellari… La probabilità di morte trascorso il periodo neonatale è 3 volte superiore nei gemelli rispetto ai singoli nati e quella della mortalità infantile 5 volte più elevata. Il rischio di paralisi cerebrale è del 7% nei gemelli e del 28% nei neonati da gravidanza trigemellare. Anche quando i bambini sopravvivono sono comuni i problemi di ritardo del linguaggio e le difficoltà di apprendimento. L’impatto sulla famiglia è inoltre importante: sono comuni infatti i problemi comportamentali nei fratelli maggiori dei gemelli e la depressione è più frequente nelle madri di gemelli che in quelle di nati singoli…". La Ceccotti prosegue ricordando che "il rischio di anomalie cromosomiche è aumentato", e che "esiste comunque un eccesso di rischio pari ad un fattore di circa tre volte per alcune malformazioni: difetti del tubo neurale, occlusioni del tratto gastroenterico, onfalocele ed ipospadia".

In conclusione, dopo aver letto il libro della Valentini, nonostante le strane omissioni, non è ben chiaro perché, per sentirsi buoni e amici della scienza, occorra essere intransigenti avversari di una legge che vieta le mamme-nonne, gli uteri in affitto, le banche del seme, l’impianto di troppi embrioni, e che istituisce per la prima volta in Italia un registro nazionale dei centri di Fiv e l’obbligo del consenso informato alle coppie. Consenso che spieghi le spese cui si va incontro, i rischi della iperstimolazione ovarica e quelli per la salute degli eventuali nascituri. Del resto è la stessa giornalista a dire, ad un certo punto, che il danno più grave non è quello fatto alle coppie sterili ma quello agli operatori del settore: "La categoria che forse più esce con le ossa rotte dalle nuove norme sono i medici della fecondazione assistita" (p.135). E questo può dispiacere a lei, che a fine libro ringrazia soprattutto loro, uno per uno, da Flamigni a Gianaroli a La Sala, ma non certo a chi crede che anche la scienza, come tutto, sia vincolata alla verità, alla giustizia e al bene delle persone.

Aveva quindi ragione il già citato Frossard, allorché proponeva Ponzio Pilato come patrono di quegli scienziati che si ritengono al di là del bene e del male, che non si pongono il problema riguardo alla bontà o meno di ciò che fanno: “Non ho sentito dire – concludeva – che gli alchimisti di Los Alamos abbiano perso il sonno dopo Hiroshima e Nagasaki. E’ stato un aviatore ad entrare nei trappisti dopo aver sganciato la bomba; quelli che gliela avevano fornita non l’hanno neppure accompagnato fino alla porta del convento”.

Bisognerebbe sempre ricordarsi che sono esistiti gli psichiatri alla Lewis Yealland, che nella I guerra mondiale sperimentavano le scosse elettriche e le molle arroventate sui soldati in preda a crisi nervose; che è esistito il dottor Mengele, con la sua accolita di dottori nazionalsocialisti; che il neurochirurgo Egas Moniz vinse il premio Nobel nel 1949 per aver inventato la lobotomia, cioè perché tagliava i lombi frontali del cervello dei malati psichici trasformandoli in zombie. Bisognerebbe ricordare che in questi nostri anni il dottor Kevorkian si fa paladino dell’eutanasia per poi espiantare gli organi dei suoi assistiti; che centinaia di bambini sono stati rapiti ed espiantati, in Brasile, in Madagascar, nei paesi dell’est, da medici che lucravano sui loro organi… "Mors tua vita mea": è una filosofia troppo diffusa, per non andare coi piedi di piombo di fronte a fenomeni nuovi ed inquietanti come la Fiv.

(tratto da: Francesco Agnoli, "Voglio una vita manipolata", Ares)

 

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Le strane battaglie di Umberto Veronesi.

Sul numero del Novembre-Dicembre 2004 del bimestrale scientifico “Darwin”, l’ex ministro Umberto Veronesi introduceva con un suo editoriale un corposo dossier sulla fecondazione artificiale, improntato sostanzialmente alla demolizione della legge 40/2004 e all’esaltazione del “progresso civile” che troppe forze oscure tenterebbero di frenare. Il paragone buttato lì dall’illustre scienziato è tra la nostra epoca ed il Seicento, secolo in cui “Newton, Cartesio e Galileo” convivevano insieme agli spietati bruciatori di streghe. L’armamentario, insomma, è quello solito della retorica più grossolana e anti-storica che possa esistere, aggravato dall’aver accostato in un ordine assurdo, cronologicamente e logicamente, i tre personaggi citati.

Per intenderci: Galilei muore nel 1642, anno in cui Newton è appena nato! Ma la cosa non stupisce chi ricordi alcune prodezze del personaggio in questione. Veronesi, infatti, fu il ministro della Salute che introdusse le prime grosse limitazioni sul fumo “nei luoghi chiusi, pubblici e privati”. “La scelta -affermava allora- è stata quella di essere integralisti per difendere i 44 milioni di non fumatori”. “Integralista”, e però, contemporaneamente, con ragionamenti non proprio coerenti, né punto brillanti, manifestava una certa antipatia per altri proibizionismi, non da lui ugualmente condivisi, in materia di droga. Riguardo all’ecstasy, per fare un esempio, sosteneva che “nessuno può dire che sia una cosa di grande benessere, però fortunatamente non è mortale e non dà grande dipendenza”. Come a dire che, in fondo, è sicuramente meglio delle sigarette, che fanno invece ben “50.000 morti all’anno in Italia”. Si sa invece che l’ecstasy è una droga sintetica euforizzante con effetti imprevedibili, che non andrebbero mai sminuiti, tantomeno da un ministro della Sanità. Può infatti non provocare nulla di immediatamente riscontrabile, in molte circostanze, ma essere addirittura mortale, nell’arco di poche ore, in altre. Può generare inoltre irritabilità, stati depressivi e gravi conseguenze di tipo psichiatrico.

Con la stessa leggerezza ideologica con cui si schierava contro il fumo e a difesa dell’antiproibizionismo in materia di droghe leggere, Veronesi si è più volte pronunciato per la clonazione terapeutica, spiegando che è solo il mondo cattolico ad aver deciso “di chiamare embrione la cellula dopo l’incontro tra spermatozoo e ovocita”, mentre “per esserci un embrione deve esserci lo spermatozoo, l’uovo e l’utero” (La Stampa 29/11/2001). Si tratta evidentemente di una affermazione ridicola, purtroppo ripresa recentemente anche dal celebre filosofo cattolico Giovanni Reale: “qualcuno dovrebbe spiegarmi come si può considerare persona sia pure in potenza un embrione che non si trova ancora nel luogo giusto, cioè nel ventre materno” (L’Espresso, 3/2/2005). Se occorre spiegarlo, dunque, lo spieghiamo. L’embrione non è appendice di nessuno, ma un nuovo organismo che si sviluppa senza soluzione di continuità, senza salti, e che “conserverà sempre la sua singolarità genetica, perché non usufruirà di nessun apporto di materiale genetico organizzato che intervenga dall’esterno a modificarlo”. Inoltre sarà “sempre geneticamente autonomo dal controllo genetico della madre e meccanicamente isolato dall’organismo materno grazie ad una membrana mucopolisaccaridica prima e al trofoblasto poi” (Giorgio Carbone, “L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?”, ESD). Non importa quindi che cresca nell’utero della madre o in quello della nonna, in un utero con affitto gratuito o a pagamento, in una mamma bianca o nera, come nella nostra epoca è successo e succederà: le sue caratteristiche genetiche, fisiche, sono già scritte, indipendentemente da colei che lo accoglierà. L’embrione non è, infatti, come la statua fatta da un falegname, plasmata a suo piacere, nel tempo voluto e secondo un suo personale disegno, che può essere tranquillamente considerata una proprietà e un “brevetto” del falegname stesso. E’ qualcosa di autonomo, affidato all’ospitalità generosa del grembo materno: la donna lo accoglie, non per plasmarlo o determinarlo, ma per assisterlo, per aiutarne lo sviluppo, perché l’embrione non è suo, ma dipende da lei “sotto l’aspetto metabolico funzionale per l’apporto dell’ossigeno e del materiale”. Dipende da lei similmente a come il pesce dipende dall’acqua e noi dall’ossigeno: nessuno può dunque dire che il pesce fuor d’acqua, cioè fuori dal suo “luogo giusto”, non è un pesce! Tanto più assurdo dunque il discorso di Veronesi e di Reale riguardo alla Fiv o alla clonazione terapeutica. Infatti l’embrione scientemente prodotto viene “coltivato” in vitro, cioè in un ambiente che vuole sostituire l’utero materno: è possibile creare l’embrione, per poterne sfruttare le caratteristiche, e dire al tempo stesso che non esiste, perché manca l’utero?

In altra occasione, presentando a Milano un libro di Giacomo Properzi, “C’erano una volta i laici”, Veronesi esponeva teorie assai simili a quelle di Francis Galton, l’inventore della moderna eugenetica, e a quelle di alcune personalità del nazismo. Occorre infatti realizzare, affermava, “il controllo dell’evoluzione dell’umanità”. Nientemeno. Infatti “l’evoluzione del mondo è una evoluzione moralmente cieca. La selezione naturale è il risultato di due grandi fattori. La casualità delle mutazioni che occorrono in milioni ogni giorno, tra di noi, e che sono puramente cieche e casuali, e l’ambiente che permette o non permette alle nuove mutazioni di sopravvivere o meno. In questa condizione abbastanza disastrosa di pura casualità di tutti gli eventi, per cui, come dice un grande teologo protestante, il mondo è pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli dove tutti sono contro tutti, come dice Engelhardt, dove l’evoluzione è priva di una normativa etica intrinseca, forse incominciamo a delineare di intervenire geneticamente, almeno ad ideare, ad immaginare anche l’utilizzo della genetica ai fini di un miglior controllo di queste assurdità evolutive”. Proponeva cioè, con uno stile più involuto che evoluto, che alla casta sacrale degli scienziati, cui lui appartiene, sia affidato il compito di guidare, di controllare l’evoluzione umana, attraverso la manipolazione genetica; il compito di mettere ordine là dove, in natura, si trova solo disordine; di eliminare presunte mostruosità ed errori, e cioè creature umane malriuscite, per creare l’uomo, che non sia più figlio della “pura casualità”. Un delirio di onnipotenza che ha qualcosa di terrificante: il mondo che evolve ciecamente, raddrizzato, regolato, riprogrammato dai conoscitori del Dna, per conto del mondo intero! Ma in base a quali principi? Con quali giustificazioni etiche? Veronesi lo lascia capire qualche riga più sotto, quando cita Engelhardt, definendolo “il più grande bioetico del mondo”. E chi è costui? Trattasi di un famoso medico filosofo statunitense che sostiene che né l’embrione, né il feto, né l’infante, sino ad una certa data sono da considerarsi persone, essendo in realtà il loro “status morale” inferiore a quello dei mammiferi adulti!

Ma passiamo al dossier in questione. Ci aspetteremmo che gli “amici” dell’illustre Ministro ci raccontino gli splendori della scienza, la sua capacità di ridurre le mostruosità e gli errori della natura, di portare alla causalità ordinata, logica e benigna, la casualità assurda della natura. Invece no, a leggere attentamente non è proprio così. Sembra, anzi, che le mostruosità le compiano gli uomini, nei loro laboratori. Andiamo con ordine. Il primo articolo, a firma Arne Sunde, definisce la legge 40 “disastrosa per le coppie infertili e per le cliniche di fecondazione assistita”, anche se, almeno, lascia aperta la porta al congelamento degli ovociti: “quest’ultima è una tecnica che è ancora nella sua infanzia e ha dato vita a un numero di bambini troppo modesto perché possa essere considerata sicura”. Non è sicura, quindi, ma intanto la adottiamo! Altri articoli presentano contraddizioni ed assurdità patenti, che è meglio non analizzare, per giungere subito all’esposizione di Annapia Ferraretti, Maria Cristina Magli, Arianna D’Angelo, tre operatrici nel campo della fecondazione artificiale. Costoro dicono chiaramente che la gravidanza multipla “è oggi riconosciuta come la complicanza più frequente dei trattamenti per l’infertilità”, sia che si tratti di gravidanza gemellare che plurigemellare. “L’unica misura preventiva sarebbe il trasferimento del minor numero possibile di embrioni”, cosa che non avviene in Italia: il nostro infatti “è tra i paesi con la più alta incidenza di gravidanze multiple”, per via della consuetudine di impiantare troppi embrioni. Il registro mondiale del 1998 segnala che ogni 100 bambini nati con Pma, 30 sono gemelli e 9 trigemini, “mentre nella popolazione normale la gravidanza gemellare incide per 1 su 80 e quella trigemina per 1 su 6.400”. Cosa significa tutto ciò? “E’ noto da tempo che le gravidanze multiple comportano un alto rischio di complicanze sia per la madre sia per i neonati. Ma solo più recentemente è risultato chiaro come queste gravidanze possano avere ripercussioni a lungo termine sulla salute dei nati. E’ infatti ben documentato come la gravidanza multipla sia associata a una serie di rischi per la salute della madre, quali ipertensione, fenomeni tromboembolici, infezioni urinarie, anemia, distacco di placenta. In questi casi la gestante necessita più frequentemente di riposo assoluto, di ospedalizzazione, di cure mediche, di tagli cesarei ed è ad alto rischio di parti prematuri con conseguenze sulla salute dei nati…La maggior parte dei rischi per la salute dei neonati, sia per la mortalità che per la morbilità, è legata al fatto che nascono più frequentemente da parti pretermine e con un peso più basso rispetto ai nati da gravidanze singole…La prematurità aumenta inoltre il rischio di complicanze neonatali quali l’emorragia intraventricolare, la sindrome da distress respiratorio, la sepsi, la retinopatia, raggiungendo percentuali con incidenza variabile tra il 10% e il 40% nei nati da gravidanze plurigemellari…Per quanto riguarda le complicanze pediatriche i nati da gravidanze multiple, che sopravvivono al periodo post-natale, hanno un maggior rischio di complicanze nello sviluppo fisico e psichico. Rispetto alle gravidanze singole il rischio di handicap è quasi il doppio nei nati da gravidanza gemellare e triplo nei nati da gravidanze plurigemellari. Le complicanze più frequenti compaiono a carico del sistema neurologico e possono variare da lievi anomalie, come ritardo nello sviluppo del linguaggio, a deficit mentali veri e propri. Oltre a quanto descritto la gravidanza multipla sembra avere un impatto anche a livello psicologico nel contesto familiare. Uno studio eseguito nel 1998 ha messo in evidenza un maggior livello di stress nei genitori e più frequenti problemi comportamentali nei figli”.

Lo status della questione è poi chiarito da uno schemino, che riporta la situazione italiana: nel 1997, con un numero medio di 3,5 embrioni trasferiti, vi è stato un 20% di parti gemellari, un 5% di parti trigemini, ed un 1% di quadrigemini; nell’anno 2000 su 2.841 parti vi sono state 533 gravidanze interrotte, 571 parti gemellari, 97 parti trigemini e 8 parti quadrigemini… Se ne desume, ad occhio, che la fecondazione artificiale è una sorta di roulette russa, e che “il mondo pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli” di cui parlava il Veronesi non è il nostro, attuale, ma quello che i manipolatori della vita stanno apparecchiandoci, seppure con la loro rassicurante, immensa e grassa prosopopea.

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John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica.

Nell’Inghilterra contemporanea, patria, spesso, delle più incredibili sperimentazioni sulla vita e sull’uomo, si distinguono però, per la loro tenace ed efficace battaglia in difesa dei valori più alti, alcuni personaggi, in particolare due grandi scrittori cattolici, Gilbert Chesterton, l’inventore della figura di padre Brown, e J.R.R.Tolkien, il celebre autore de “Il Signore degli anelli”.

John R. Tolkien nasce nel 1892 in sud Africa, ma ben presto si trasferisce in Inghilterra. Rimane precocemente orfano del padre e nel 1900 sua madre, Mabel, si converte dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Non è una scelta facile in Inghilterra, perché comporta l’emarginazione e la riprovazione sociale. Dall’epoca di Enrico VIII infatti, quando venivano squartati e i loro corpi disseminati agli angoli delle strade perché fungessero da monito, i cattolici sono considerati come stranieri, anche se sul finire dell”800 la loro condizione è in parte mutata.

Presto Tolkien rimane orfano anche della madre e, pur essendo molto povero, con l’aiuto di un prete riesce ad entrare all’università di Oxford, dove studiano i rampolli dell’aristocrazia inglese. Nel 1915 viene chiamato in guerra, la I guerra mondiale, e non potendo sopportare la separazione dalla fidanzata Edith Bratt, si unisce a lei in matrimonio (nasceranno negli anni, quattro figli, uno dei quali diverrà sacerdote). Nella I guerra mondiale l’uomo scopre per la prima volta la sua piccolezza di fronte alle macchine di morte e alla tecnologia che lui stesso ha creato. Crolla così l’illusione illuminista-positivista, l’idea di un uomo capace con le sue forze, grazie alla scienza, di dominare il mondo e la realtà, totalmente, divenendo Dio a se stesso. Affonda, con lo stesso fragore e dolore del Titanic, l’idea di poter procurare la felicità e l’immortalità, qui, su questa terra. Lo scrittore Domenico Giuliotti scrive: “Era il 1913…i cervelli, finchè non si smontavano nella pazzia, funzionavano automaticamente come gli stantuffi delle macchine che avevano inventate e delle quali stavano divenendo, senza saperlo, accessori. Il mondo avvolto giorno e notte nel fumo, nel fragore e nella polvere, puzzava di morchia, di benzina, di bruciaticcio e di bestemmia. E in mezzo a questo ciclo di lordure, l’oro rotolava sulla libidine e la libidine sull’oro, in avvinghiamenti spasmodici. Sembrava che, dopo aver rifiutato il cristianesimo, alla società inebetita fosse caduta la testa e si fosse posta in adorazione, così decapitata, dinnanzi alla materia, mentre questa, divenuta, per un prodigio infernale, micidialmente intelligente, si preparava ad annientarla”.

Nel 1916 Tolkien combatte sulla Somme, in una battaglia epocale, fra le più disastrose della storia. La vita in trincea è segnata dall’ansia dell’attesa e del logoramento, dall’esposizione continua al fuoco di sbarramento, dalle nubi di gas stagnanti nell’aria, dal fango e dalla terra bruciata dalle granate e desertificata. Si diffondono, per la prima volta nella storia, una grande quantità di nuove nevrosi, figlie della guerra industrializzata: la “nevrosi del sepolto vivo”, la “simpatia isterica per il nemico”, isterie che si verificano dopo un trauma da esplosione, con i sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità e analoghi.

I medici osservano come un grosso calibro caduto vicino, o un fuoco di sbarramento prolungato danneggino il sistema nervoso del soldato ed il suo autocontrollo, generando scatti improvvisi, pianti isterici, sordità, rifiuto di avanzare, desiderio di suicidio…

Sono scenari, quelli della Somme, che torneranno ne “Il Signore degli anelli”, per la descrizione della terra di Mordor, la terra dell’Oscuro Signore; così come torneranno il nemico lontano e senza volto, il coraggio, il sacrificio e il cameratismo dei soldati semplici, i tommies, i Frodo di tutti i giorni, di contro alla viltà e all’inettitudine degli ufficiali. A tale riguardo lo scrittore francese Bernanos, anche lui combattente, afferma: “Dio non ci ha lasciato che il sentimento profondo della sua assenza”; e ancora: “La maggior parte dei soldati ignorava perfino il nome di grazia…Voglio dire soltanto che forse erano stati talvolta degni di questa grazia, di questo sorriso di Dio. Infatti vivevano senza saperlo, in fondo a quelle tane fangose, una vita fraterna”, una vita fraterna, e, tante volte, eroica, alla faccia di chi la guerra la aveva voluta, per lo più meschinamente e segretamente, come nel caso dell’Italia.

Rientrato dalla guerra Tolkien crea un sodalizio di amici con Lewis, Belloc e Chesterton. I quattro si trovano ogni martedì sera in un pub per parlare di letteratura, di fede, di vicende personali. Riguardo all’amicizia Tolkien scrive: “La vita, la vita terrena, non ha dono più grande da offrirci”; e altrove, all’incirca: “quando due divengono amici si allontanano insieme dal gregge”.

Diviene poi professore all’università di Oxford, dove insegna letteratura inglese, studia i miti nordici, si reca ogni giorno a messa e fa i conti con il problema del male.

Dopo la I guerra già un’altra si prepara: la dittatura comunista asservisce duramente 180 milioni di persone, quella nazista 60 milioni di tedeschi. Ma anche la sua Inghilterra, che si ritiene al di sopra di ogni critica, esercita una forte oppressione sull’Irlanda cattolica e sulle sue colonie. E’ nella sua patria che inizia a provare “dispiacere e disgusto” di fronte all’imperialismo inglese, e a divenire, insieme a Chesterton, un amante delle “piccole patrie”, delle specificità e delle tradizioni locali, contro ogni tentativo di unificare, forzatamente o subdolamente. Il mondo non bello che lo circonda nasce dall’orgoglio, dal desiderio di potere, sugli uomini e sulla vita, che, a livello poetico, viene raffigurato nell’anello. Sauron, colui che lo ha forgiato, il Nemico, il menzognero, tende ad unificare il mondo sotto di sé, ad appiattire, a livellare le diversità, gli uomini, i nani, e gli elfi, la Contea, Gran burrone, Gondor e Rohan…Un po’ come fanno, con metodi diversi o analoghi, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e l’America: Tolkien non risparmia nessuno. Nel suo poema Sauron vuole imporre a tutti anche la stessa lingua, il Linguaggio Nero, soppiantando così tutti gli idiomi preesistenti: Tolkien, che ama profondamente la parola e i linguaggi, come espressione della diversità multiforme delle culture, ha paura che questo possa veramente avvenire. Nel 1945, lui che apprezzava profondamente il latino liturgico, lingua solenne, maestosa, sacra, e nello stesso tempo universale, cattolica, ha paura che una lingua non della preghiera ma del commercio e del denaro, non che unifica ma che colonizza, l’inglese, il suo inglese, si affermi sulle altre lingue. Nel 1945 prospetta inoltre un mondo post-bellico massificato, omologato, globalizzato, nella lingua, l’inglese, nei gusti, in ogni cosa.

Quando scrive la sua opera più famosa Tolkien ha in mente questo mondo, il nostro, ma lo trasporta in uno mitico, metatemporale, perché sa che il problema del bene e del male è antico come l’uomo. Discende infatti dalla Caduta, termine con cui definisce il peccato originale: c’è in noi, fin da bambini, una tendenza al male che lotta con una tendenza di segno contrario. Si esprime nell’egoismo, nella superbia, nella volontà di dominio, sulle cose, talora nei rapporti con gli altri…

Per Tolkien non esiste, però, una contrapposizione manichea: non ci sono un Dio del bene e un Dio del male. Il suo riferimento filosofico è quello cristiano, da S.Agostino a S.Tommaso: Dio ha creato ogni cosa buona, omnia bona, ma ha lasciato la libertà di scegliere. Gollum, ad esempio, non è originariamente cattivo, anzi è una specie di hobbit: è l’anello a pervertirlo, rendendolo omicida e menzognero. Così Melkor e il suo servo Sauron sono semplicemente, come il Lucifero cristiano, degli angeli (Ainur) decaduti, che hanno deciso di opporsi al loro creatore, di cantare non più la sua musica armoniosa, creatrice, ma una musica propria, stridente e stonata, distruttrice. Melkor, divenuto il Nemico, assume gli attributi tipici di Satana, del diavolo: desideroso di potere, di gloria, menzognero, è, etimologicamente, “colui che è separato e che separa”, che non ama, che cerca di guastare l’opera bella, armoniosa del creatore. Abita in una terra desolata, impervia, in cui pullulano macchinari e rifiuti industriali. Non ha amici o collaboratori, ma solo servi, come Sauron, o sciocchi servitori che sperano di essere un giorno padroni, come Saruman. Del male si può infatti divenire solo servi, perché abbracciando la menzogna e il vizio si perde la propria libertà. Ciò che cerca e ciò che vuole, Sauron, è l’anello: chi lo porta assume poteri immensi ma si lascia a poco a poco soggiogare. Non è il portatore, alla lunga, che decide, ma l’anello che decide per lui. Anche dell’anello si può essere solo servi, e non è lecito usarlo, usare un mezzo cattivo per fini buoni, come vorrebbe Sauron. In una sua lettera ad un figlio, dopo lo sganciamento della bomba atomica, che aveva permesso agli americani, e quindi anche agli inglesi, di essere totalmente vincitori, Tolkien afferma: “abbiamo usato l’anello!”.

Ma se in questo tempo così “feroce” Sauron si è risvegliato, se la sua ombra si allunga da est verso le terre ancora libere e il mistero d’iniquità sembra totalmente dominante, non manca la speranza: l’ “arbitro” della storia non è Melkor, ma Dio, che appare nel libro come una sorta di Provvidenza nascosta, che affida ai suoi il compito immenso di contrastare il male, di caricarsi del “fardello”. “quando le cose sono in pericolo, qualcuno vi deve rinunciare, perderle, affinchè altri possano goderle”. A caricarsi del fardello, come un novello Cristo portatore della croce, è il piccolo Frodo, un mezzouomo, apparentemente il meno adatto di tutti. Eppure è in lui che si realizza il detto secondo cui Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti. Frodo è una creatura mite, semplice, attaccata alla sua terra, ma capace di sacrificio: questa è la sua grande virtù! Non è chiamato, come nelle cerche dei miti e delle storie passate, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, a conquistare qualcosa, ma a rinunciare, a sacrificarsi: “E’ l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore- scrive Tolkien-, non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e commovente”. Eppure Frodo non è l’eroe senza macchia, il superuomo di Nietzsche o del positivismo, ma è il mezzouomo, l’uomo di tutti i giorni, il soldato semplice inglese della I guerra, il Tolkien qualsiasi chiamato a vivere in un’epoca spaventosa, ma ciononostante, a vivere con dignità e grandezza interiore. Ha le stesse paure di tutti: “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non accadesse ai miei giorni!”, esclama di fronte a Gandalf, che gli risponde: “Anch’io, come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”. E altrove: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo”. Di fronte al compito immenso che gli è proposto Frodo acconsente e parte; porta l’anello fino a Gran Burrone, ma qui una alleanza di elfi, gnomi, uomini e hobbit, la Compagnia, è chiamata a decidere: cosa fare e a chi affidare l’anello per il viaggio finale. Nessuno sembra adatto, e allora Frodo afferma: “Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada”. C’è, in questa affermazione, tutto il concetto che Tolkien ha di eroismo: la generosità, il non arretrare di fronte alle responsabilità (“Prenderò io l’anello”), e nello stesso tempo l’umiltà, la necessità di un aiuto di una compagnia (“ma non conosco la strada”). Se guardiamo alla vita di Tolkien, tramite le sue lettere, la Compagnia diventano la Chiesa, gli amici, e la figura di Gandalf assume i contorni dell’angelo custode.

Eppure, lungo il cammino, Frodo dovrà fare i conti con sé stesso: il male, e questo è uno dei concetti più anti-moderni espressi da Tolkien, non è solo fuori, negli altri, nei sistemi politici ecc., ma in ognuno di noi, e va combattuto con coraggio e strenua lotta interiore. Anche Frodo è preso, talora, dal desiderio dell’anello, gli viene da pensare che in fondo se lo è meritato, oppure viene tentato di non vivere fino in fondo il compito che gli è affidato: devo stare, afferma, “in guardia contro i ritardi, contro la via che pare più agevole, contro lo scrollarmi di dosso il peso che grava sulle mie spalle”.

Lotta con i nemici e lotta con se stesso. La sua forza sta nella disposizione d’animo che risulta, non senza difficoltà, vincente: il sostanziale desiderio di distruggere l’anello. La sua saggezza, ancora una volta come quella di Cristo, è una saggezza che il nemico considera “follia”. Tolkien ha certo in mente questo concetto, la “croce scandalo e follia” per le genti, quando fa dire a Gandalf: “Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinnanzi agli occhi del nemico! Egli è molto sapiente, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, egli giudica tutti i cuori alla sua stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’anello, voglia distruggerlo: questa deve essere la nostra mira, se vogliamo confondere i suoi calcoli”. Ancora una volta il concetto che l’eroismo, in questo caso la saggezza, consiste nella rinuncia, e non nel possesso. E’, in fondo, un concetto che vale per ogni cosa: basti pensare che ogni vero amore umano, di marito, di moglie, di madre e di padre, di amico, passa dalla rinuncia, cioè dal riconoscere la presenza dell’altro, senza trasformare la persona amata in oggetto di possesso, senza volerlo stringere tra le mani, fino a soffocarlo.

La saggezza fasulla di Sauron, contrapposta alla follia di Frodo, richiama un’altra contrapposizione essenziale: quella tra Gandalf e Saruman. Entrambi rappresentano gli uomini di scienza, che sanno molto, che conoscono molto. Eppure non è dato a loro, non è dato a Gandalf, il compito più alto, quello di portare l’anello: l’intelligenza ed il sapere devono essere al servizio, e non strumento di potere. Inoltre ciò che distingue la nobiltà dei cuori non è la maggior o minor conoscenza, ma la disposizione della volontà, della libertà, al bene. La volontà, la libertà, è l’unica cosa totalmente nostra, mentre l’intelligenza ci è data. Il sapere, dicevo, è cosa buona, originariamente, come tutte, perché nasce dal desiderio naturale dell’uomo di aderire alla realtà, di leggervi dentro (intus legere). Ma come ogni cosa, anche il conoscere, la scienza, può essere usata negativamente, quando diviene orgoglio intellettuale, volontà di dominio, superbia. Saruman si illude di poter collaborare con Sauron e rimanere libero, si illude che egli voglia dividere il potere, si illude che “i saggi come noi potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo” in attesa, pur lungo un cammino di male, di plaudire “all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine”. Saruman, come Sauron, come il diavolo Melkor, hanno un loro superbo disegno di mondo, che definiscono sapiente e ordinato, e nelle loro “fucine” plasmano mostri e manipolano creature. Non sono capaci di creare, perché questa è una prerogativa solo di Dio. Secondo la filosofia tomista infatti l’amore è diffusivo di se stesso, o, con una espressione più celebre, solo l’amore crea. I nemici del Creatore, allora, sono solo pallidi imitatori, scimmie di Dio, come Melkor, che cerca di suonare una melodia più bella di quella di Dio, e finisce solo per creare una disarmonia di suoni. Così Saruman, Sauron, Melkor, coloro che fanno cose per se stessi, per esserne i loro Signori, non creano ma manipolano, modificano, alterano, corrompono, determinando creature mostruose, ibridi, chimere come gli Orchetti. Il loro peccato è “il più grande che abbia(no) potuto commettere, l’abuso del (loro) più alto privilegio” .

E’ evidente che nel dire questo Tolkien ha presente la realtà storica del suo tempo, come noi potremmo avere la nostra: conosce le teorie di Aldous Huxley; sa che nella Germania nazional-socialista e nella Russia comunista, gli esperimenti sugli uomini si sprecano. Nelle loro “fucine” diaboliche, nelle loro moderne cliniche, medici manipolatori si accaniscono sulla vita per esserne padroni, in un’ottica di “progresso” futuro e di benessere. Si parla di esperimenti “positivi”, che porteranno al miglioramento della razza umana (eugenetica), al miglioramento della vita degli uomini futuri… Come con la bomba atomica si vuole usare l’anello a fin di bene, ma non è possibile! Così i nazisti fanno nascere circa 80.000 bambini nati tramite accoppiamenti stabiliti dall’alto; Himmler fonda una associazione, chiamata Lebensborn, che sceglie donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani; si introducono sterilizzazioni forzate ed eutanasia; si sperimenta sulle donne incinte, per conoscere la vita del feto, la sua resistenza; si scarterebbero gli embrioni con la diagnosi pre-impianto, se fosse una tecnica già conosciuta, per selezionare i “migliori”, o per decidere il sesso, o l’altezza, come avviene oggi.

Dottrine eugenetiche attraversano anche tutta la storia del socialismo: dalla “Repubblica” di Platone, in cui accanto alla comunanza di beni e di donne, si parla della necessità che lo Stato imponga chi debba accoppiarsi con chi; a “La Città del Sole” di Campanella, in cui il ministro dell’Amore è chiamato a scegliere i tempi e i soggetti dell’accoppiamento sessuale, al fine di garantire una certa purezza razziale; fino alle più recenti affermazioni dello staliniano Preobrazenskij: “Dal punto di vista socialista non ha senso che un membro della società consideri il proprio corpo come una sua proprietà privata inoppugnabile, perché l’individuo non è che un punto di passaggio tra il passato e il futuro”, tanto che alla società spetta “il diritto totale e incondizionato di intervenire con le sue regole fin nella vita sessuale, per migliorare la razza con la selezione naturale”. Del resto un’eugenetica de facto verrà attuata nei regimi comunisti asiatici, in Cina, Cambogia e Corea del Nord, tramite l’eliminazione di handicappati, invalidi, malati mentali e barboni, di coloro cioè ritenuti incapaci dell’unica attività cui il materialismo riconosce importanza: il lavoro (in Corea gli handicappati vengono ancor oggi deportati in località remote, in montagna o nelle isole del mar Giallo, mentre i nani vengono sistematicamente braccati e isolati: “La razza dei nani deve sparire” ha ordinato Kim Jong II in persona).

Tolkien aveva già visto tutto questo, insieme a tante bruttezze del mondo moderno, e aveva indicato gli antidoti: il coraggio e la purezza di Frodo, l’amicizia dei membri della Compagnia, l’utilizzo della sapienza nei limiti della giustizia, la consapevolezza che, al di là dei “muri di questo mondo”, esiste un Dio che dirige la storia, nonostante la presunzione di Saruman e le sue melodie disarmoniche. (tratto da: Francesco Agnoli, “Voglio una vita manipolata”, Ares).

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