“Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro”. Umberto Saba.

Nel 2007 è passato per lo più inosservato, eccetto che tra piccole cerchie di appassionati e di “addetti ai lavori”, il cinquantesimo anniversario della morte di uno dei più grandi poeti italiani, noto alle generazioni di studenti per alcune poesie, sempre quelle, presenti in tutte le antologie. Chi non ricorda La capra e un’altra sua lirica, dedicata all’amatissima moglie Lina, nella quale, per altro, l’autore la paragona, in modo piuttosto singolare, ad una serie di animali domestici: una gravida giovenca (…e passi…), una lunga cagna (…e si rimane perplessi…) e una bianca pollastra (e questo pare, per lo meno, un po’ offensivo). Ma forse nessuno ci ha aiutato ad entrare veramente nel mondo di Umberto Saba, pseudonimo che significa in ebraico “pane” per il vero cognome Poli, nato a Trieste (1883) e appartenente a quella straordinaria generazione di poeti italiani della fine dell’800, tutti degli anni ’80, Gozzano, Ungaretti, Sbarbaro, Corazzini, Papini, Prezzolini, che animarono e fecero la cultura dell’inizio del XX secolo e che attraversarono, non senza conseguenze, la Grande Guerra. La conoscenza della sua ampia produzione, raccolta da lui stesso nel Canzoniere, è ridotta a pochi versi. Sembra sia stato preso alla lettera, quanto lasciò scritto nell’opera Epigrafe:“parlavo vivo ad un popolo di morti. Morto allora rifiuto e chiedo oblio.”

Ma perché interessarsi a Saba, oggi? Già pare impopolare proporre di leggere “la poesia”, …meglio una bella fiction o uno di quei fantasy da 600-700 pagine (tutti figli di Harry Potter), di cui tracimano librerie e supermercati. Perchè gravarsi della fatica di muovere i passi per il sentiero stretto di un linguaggio, quello lirico, che sempre più ci appare lontano dalle urgenze della realtà? Per di più di un autore che è definito, da molti, un uomo triste? Non ne abbiamo a sufficienza dei nostri privati guai quotidiani? La peculiarità di Saba sta nell’aver intessuto un dialogo tenero ed affettuoso con la realtà e il mondo, in aperta polemica con le tendenze dominanti della cultura italiana, che cercavano l’arte nell’estetismo e nella celebrazione e che avevano, secondo lui, infettato la lingua e la parola di menzogna. Partì per un viaggio alla ricerca della parola che desse voce alla vita, che potesse in modo diretto, naturale, “onesto” farsi più vicina alle cose, agli oggetti, ai visi e ai respiri, che sapesse far risorgere, come dal nulla, paesaggi e gesti precisi, attraverso termini non manipolati, ridondanti o carichi di sovrasensi metaforici, ma semplici nella loro ovvietà e perciò familiari e comuni: Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Solo così l’artigiano del quotidiano”, come il poeta si definì, sarebbe stato in grado di indagare quel mondo che si apriva dentro di sé, portandone in superficie il prezioso segreto: Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Nasce, attraverso questa purificazione, che è a un tempo visiva e linguistica, un linguaggio maggiormente evocativo e catartico: parole, dove il cuore dell’uomo si specchiava – nudo e sorpreso – alle origini.

Semplice fu la vita di Umberto Saba (la mia vita pensosa e schiva), dopo studi irregolari ed un periodo prima a Firenze e poi a Bologna, rientrò a Trieste, dove si dedicò all’apertura di una libreria antiquaria, pur essendo in contatto con grandi uomini della cultura italiana (particolare fu il rapporto di amicizia con E. Montale), rimase abbastanza lontano dai clamori della fama, che gli fu riconosciuta solo dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale la sua origine ebraica lo costrinse a fuggire prima in Francia, poi a Roma e Firenze. Gli argomenti, e personaggi, della sua poesia sono tre, come spiega nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere (esempio unico di un poeta che spiega tutta la propria raccolta): la donna, la venerata Lina, la città di Trieste con i suoi paesaggi di mare, le vie e viuzze in salita, con il suo cielo azzurro come il primo cielo che Dio inarca sulla terra nuova, e infine il poeta stesso. Trieste,come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore, è lo sfondo e il luogo della consapevolezza. Il poeta sperimenta della vita l’asciutta e cruda pasta, affonda le dita nella terra arida dell’inadeguatezza e dell’impotenza: Parla a lungo con me la mia compagna Di cose tristi, gravi, che sul cuore Pesano come una pietra; viluppo Di mali inestricabile, che alcuna mano, e la mia, non può sciogliere. Mai, però, ne rifiuta la pena secreta o il dolore d’uomo giunto a un confine: alla certezza di non poter soccorrere chi s’ama (Confine). Pare che lui intraveda o solo speri che esista in un attimo un sol che brilla. Ma sa riconoscere che Tutto è bello;/ anche l’uomo e il suo male, anche in me quello/ che m’addolora (Il poeta in Preludi e canzonette), così che, rivolgendosi al proprio cuore dal dolore serrato in una morsa, lo interpella:” Quale angoscia non hai viva abbracciata, vivo restando? ” (Cuore) Si respira nei suoi versi una certezza che rasserena, pur nel patimento, che ritrova la pace coi nemici vinti anche in se stessi: La mia vita è tutta così: così me la dipingo, e lieto per l’aperta finestra guardo l’ora – come dentro una bolla di sapone – ricreare gli alberi le case Costruisce un mondo, anzi ricostruisce un luogo, in cui, in un contesto che appare disperato, è ancora possibile rivendicare uno spazio di bellezza, amore, liberazione dall’angoscia ed oppressione del vivere, in cui, senza negare al fondo un dolore, sia possibile risalire alla creaturalità originale, non il morbido ed ovattato rifugio nella nostalgia dell’età perduta, ma l’aspirazione ad una concreta felicità, che nulla censura.

Una parte della critica ha interpretato come chiavi di lettura della sua opera e della sua vita, il ricordo della fanciullezza non felice e la rievocazione della dimensione infantile, accentuando una sofferenza psichica, che Saba visse, e la successiva scoperta della psicanalisi. In realtà la sua nevrosi tocca il punto vivo dell’autenticità, il nervo scoperto di chi è indagatore del vero, smascherando finzioni e artifici della realtà, restituendola nuda, densa e silenziosa. Questa pacificata accettazione della vita con le sue durezze i suoi pendii e le improvvise svolte non può non interrogare il lettore, che scopre, lungo la strada di Saba, non solo passi autobiografici e personali dell’autore, ma scorge anche scorci della propria esistenza. Sembra che il poeta sia sceso così profondamente in sé, da ritrovare le sensazioni, gli umori, le passioni e i sentimenti dell’uomo in quanto tale. E il verso che scivola così fluido e pieno della vita che racconta, lentamente, ma inesorabilmente attrae con la sua disarmante semplicità e concretezza. Lui stesso ce lo svela nella prima lirica (Lavoro) della raccolta, che intitola, visto il passare del tempo, Ultimissime: Un tempo la mia vita era facile. La terra mi dava fiori frutta in abbondanza. Or dissodo un terreno secco e duro. La vanga urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro. Il coraggio di questa ricerca, “l’avidità di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza”(così gli scriverà in una lettera personale Primo Levi), è la peculiarità del suo paziente e silenzioso osservare e riflettere, un inesausto lavoro ed amore alla vita. È la ricerca del vero tra le pieghe dei fatti quotidiani, i contrattempi e le pause, i silenzi e gli incontri, fino, come scrive in una delle sue innumerevoli prose, al cuore delle cose.

 Non stupisce allora ritrovare proprio nelle lettere, che Saba si scambiò con l’amico Giovanni Fallani, vescovo e noto studioso di Dante, una ricerca spirituale sofferta. Sono gli anni in cui il poeta perde la venerata moglie e viene colpito dalla malattia. In questo epistolario (1952 – 1957 fino ad un mese prima della morte) emerge tutta la sua passione per ciò che è umano, la sua solitudine, ma anche la sua aspirazione al divino: sia quando, dichiarando ormai invivibile il mondo, esplicita il desiderio, se fosse possibile, di ritirarsi in un convento, sia quando confida di aver invitato la moglie malata, prossima alla morte a “baciarsi in Gesù” e di aver recitato alle esequie della moglie, lui ebreo, il Padre Nostro, con lo scandalo dei presenti, oppure quando dice di figurarsi il mondo come una montagna sulla cui cima si erge la Croce. Manifestò all’amico vescovo anche la volontà di ricevere il battesimo, pur nella consapevolezza di non avere una fede ancora matura sulla divinità di Cristo. A chi ama l’opera poetica di Saba non pare inatteso un epilogo della sua vita segnato dal desiderio della Verità che giace al fondo. Non è difficile immaginarsi il vecchio Saba, che passeggia per le vie della sua amata Trieste, in una di quelle limpidissime mattine ventose, in cui la forza dell’aria spazza via tutto ciò che essenziale non è, lasciando più puro lo sguardo, più autentico il passo successivo. Sul tardi/ l’aria si affina e i passi si fanno / leggeri/ Oggi è il meglio di ieri,/ se non è ancora felicità.

T. Scandroglio, “La legge naturale” (Fede & Cultura)

La Chiesa italiana richiama sempre più spesso i politici cattolici, ma anche i semplici fedeli come tutti noi, al dovere di promuovere comportamenti e provvedimenti pubblici improntati al rispetto della “legge naturale”. In quanto inscritta nel cuore di ogni uomo e derivabile dalla sua stessa natura razionale, la legge naturale non costituisce affatto un dogma di fede: si tratta, al contrario, di un’istanza riconoscibile con la sola ragione, e dunque strettamente vincolante anche per i non cattolici. Di qui l’invito pressante, anzi l’obbligo formulato dalle gerarchie ecclesiastiche, di valorizzarla e sostenerla con forza anche a livello di discorso pubblico. Si pone, però, un problema: quanti, tra gli stessi cattolici, sono a conoscenza del processo di fondazione razionale che conduce alla specificazione dei vari obblighi inerenti alla legge naturale? ? lecito pensare che siano molto pochi. Per porre rimedio a questa situazione, un giovane studioso di filosofia del diritto come Tommaso Scandroglio ha recentemente pubblicato un agilissimo volumetto dal titolo La legge naturale. Un ritratto (Fede & Cultura). In esso si espone in modo molto semplice e con dovizia di esempi la dottrina tradizionale classico-cristiana sul diritto naturale, rifacendosi in particolare alle cristalline argomentazioni del doctor communis, San Tommaso d’Aquino. Scandroglio semplifica e chiarisce ad uso di chiunque i concetti di “legge eterna” (di cui la legge naturale è “partecipazione nella creatura razionale”), “coscienza”, “precetto morale”, “diritto positivo” e molti altri ancora, fornendo uno strumento utilissimo alla battaglia culturale in cui ogni cattolico si trova oggi impegnato. In assenza di una fondazione complessiva, infatti, le singole argomentazioni morali (circa l’aborto o l’omosessualità, ma anche l’obbligo o meno di pagare le tasse…) rischiano di cadere nel vuoto di presupposti non condivisi, o intravisti solo a stento dai nostri interlocutori e persino da noi stessi. ? dunque altamente consigliabile la lettura di questo libricino, il cui merito principale è forse quello di ricordarci che lo scopo della morale non è quello di “tarpare le ali” all’uomo, ma quello di condurlo alla plenitudo essendi, alla piena realizzazione della sua natura: in altre parole, alla felicità. Prefazione di Mario Palmaro.

Cfr. http://www.fedecultura.com/2007/10/la-legge-naturale-tommaso-scandroglio.html

Un poeta non credente, Guido Gozzano, e una sua poesia per Natale.

– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.

Presso quell’osteria potremo riposare, ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca lentamente le sei.

 – Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio? Un po’ di posto per me e per Giuseppe?

– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

 Il campanile scocca lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi? Mia moglie più non regge ed io son così rotto!

– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi: Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca lentamente le otto.

– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno avete per dormire? Non ci mandate altrove!

 – S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca lentamente le nove.

Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella! Pensate in quale stato e quanta strada feci!

– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella. Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca lentamente le dieci.

Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname? Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due? – Che freddo! – Siamo a sosta

 – Ma quanta neve, quanta! Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…

Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca La Mezzanotte Santa.

È nato! Alleluja! Alleluja! È nato il Sovrano Bambino. La notte, che già fu sì buia, risplende d’un astro divino. Orsù, cornamuse, più gaje suonate; squillate, campane! Venite, pastori e massaie, o genti vicine e lontane! Non sete, non molli tappeti, ma, come nei libri hanno detto da quattro mill’anni i Profeti, un poco di paglia ha per letto. Per quattro mill’anni s’attese quest’ora su tutte le ore. È nato! È nato il Signore! È nato nel nostro paese! Risplende d’un astro divino La notte che già fu sì buia. È nato il Sovrano Bambino. È nato! Alleluja! Alleluja!

La grande aspirazione.

Una splendida poesia di Giovanni Pascoli sull’uomo.

“La grande aspirazione”

I Un desiderio che non ha parole v’urge,
tra i ceppi della terra nera e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera, alberi schiavi!
Dispergendo al cielo l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo dentro la terra,
sembra che v’accori un desiderio senza fine anelo.
– Ali e non rami! piedi e non errori ciechi di ignave radiche!
– poi dite con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite solco d’odore;
vedo voi lontano cennar con fiamme piccole, infinite.
E l’uomo, alberi, l’uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano, noi nostri fiori, voi vostre parole.

I crepuscolari e la modernità.

Se il poeta è colui che porta alla luce, dall’abisso dell’interiorità, ciò che di più essenziale, di più umano vi è in noi, egli non può fare a meno di parlare di Dio. Non gli è possibile. Non sarebbe vero poeta. Sarebbe, al più, un abile verseggiatore, o un venditore di illusioni.

La poesia moderna, umanista, inizia con Petrarca: l’uomo che ama, di un amore troppo carnale, Laura, e l’alloro, la fama e l’onore mondani, alla fine torna a Dio, insoddisfatto, chè la vita gli mostra ogni istante che "quanto piace al mondo è breve sogno". Nel secolo passato, della decadenza, dell’ateismo e del sangue, i costruttori della felicità politica non sono mai poeti: al contrario, giornalisti, saggisti, polemisti…

Scrivono il Mein Kampf, editoriali della Pravda o del Popolo d’Italia, il libretto rosso, esattamente come gli illuministi producevano saggi, enciclopedie, utopie, ma poca poesia e poca arte. Amore, vita, morte, felicità, le uniche cose che contano, vengono accantonate: si discute di economia, rivoluzione, potere… L’orizzonte è sempre e solo terreno, come se Dio, il Mistero, non ci fosse; come se loro stessi fossero Dio. I veri poeti no. Per loro, se Dio non c’è, è finita: regna l’assurdo. Vivono magari nella stessa temperie culturale, prostrati dallo stesso nichilismo, dal medesimo dubbio, dei loro contemporanei, ma non si lasciano comprare da un senso religioso, quello ideologico, adulterato e fasullo, né da speranze meramente terrene. Pensiamo a Leopardi: le "magnifiche sorti e progressive" dell’illuminismo suscitano in lui un profondo disprezzo. Aspira a "interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete", all’infinito del mare… I suoi sono "desideri infiniti", cui cerca una soddisfazione mondana, ma rendendosi sempre conto che non basta. Leopardi aspira a Dio, e lo rifiuta, ma non sostituisce mai, all’Eterno, né se stesso, né il mondo. Per lui infatti "il fine dell’uomo, il suo sommo bene, la sua felicità non esistono"; eppure il cuore "cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose" (Zibaldone). Leopardi, come scrive Divo Barsotti, "non vive che per domandar conto di sé, per chiedere la ragione della sua vita". Alza gli occhi alla luna, e li abbassa alla terra, e poi di nuovo, di continuo. E’ imbevuto di filosofie atee, sensiste, ma non cessa mai di inquietarsi. Non si rassegna ad essere materia inerte, senza scopo. Non lo farebbe neppure se qualcuno gli spiegasse, "scientificamente", che è solo un "refuso" della natura, un evento "casuale", un animale "evoluto".

Così è il cuore: se Dio non c’è, tutto perde significato, e rimane solo "l’infinita vanità del tutto". Per questo tante volte in Leopardi "l’infelicità si fa parola di accusa come in Giobbe, ma più spesso, forse, inconsapevole e segreta preghiera": "Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai?". Qualcosa di simile accade anche ai crepuscolari, all’inizio del Novecento. Le promesse e i dogmi del positivismo, l’esaltazione del futurismo, l’interventismo messianico, la religione nazionalista, il nascente contrapporsi tra rossi e neri, sono per loro, da subito, vano agitarsi di sciocchi: a nessuna di queste speranze, da poco, si aggrappano per trovare la salvezza, quella vera. I poveri e tristi crepuscolari vedono spesso molto più in là di tanti contemporanei, osservano disincantati la malattia del secolo, lo smarrirsi dell’uomo: "non so che triste affanno mi consumi/ sono malato e nei miei dì peggiori". Sono versi di Guido Gozzano, il poeta che ha bevuto il "veleno dannunziano": si è nutrito del superomismo, dei versi altisonanti, senza contenuto, puro colore e suono, usciti dalla penna e non dal cuore di D’Annunzio, e ha sognato per sé amori straordinari, "attrici e principesse".

Ma si è accorto che questo desiderio di costruirsi una vita "divina", di essere ad un tempo il popolo che attende ed il Messia che salva, di creare con le parole una splendida cornice al vuoto di significato, inaridisce il cuore e la mente: porta ad una "vita sterile, di sogno", alla delusione più cocente. Sono tristi, questi poveri crepuscolari, che ci parlano spesso di candele consunte, di conventi, di vecchie suore e di chiese buie e deserte. Riconoscono il crepuscolo, anche quello della fede, e ripetono, come Leopardi, la domanda essenziale: "Ed io che sono?". Consapevoli del vuoto, chiedono, come Sergio Corazzini: "perché tu mi dici poeta?". Non aver niente da dire, su di sé e sul mondo, di certo, di vero, di bello: questo è il loro cruccio, la consapevolezza che senza Dio ogni passo è perduto, ogni parola inutile.

La storia di un altro Novecento…Eugenio Corti.

Gli scrittori impegnati sono fuori moda: passati i postumi del ’68, il tramonto dei Moravia, dei Vittorini e dei Calvino è inesorabile e la letteratura italiana va verso la dolorosa prova dell’analfabetismo di ritorno. Tuttavia, se i giovani di dopodomani leggeranno ancora, scopriranno i libri di Eugenio Corti: avranno cioè oltrepassato il deserto dei falsi maestri e la filosofia del "Dio, se c’è, non c’entra".

Le responsabilità del crollo culturale andrebbero suddivise tra numerosi complici: intellettuali, giornali, editori, artisti, docenti. Sarebbe un gioco al massacro, un passatempo per cattivi maestri, pronti a sfuggire al proprio compito di ricostruire il tessuto civile italiano ed europeo. Il deserto verrà, è già venuto, nella prosa brutale della televisione, nella fatuità di tanto cinema, nel danno dei libri vuoti e presuntuosi. Ci sono anche autori che dedicano la vita all’arte, alla riconciliazione, all’edificazione dei lettori: agiscono nell’ombra, perché la "repubblica delle lettere" li giudica troppo luminosi.

Tra costoro, nell’operosità della sua casa di Besana Brianza (dove è nato nel 1921) Eugenio Corti vive una stagione di creatività: lavora a un romanzo storico su Catone e riceve visite di lettori, soprattutto giovani. Ospite del Meeting di Rimini, dove nell’agosto del 1999 è avvenuta una parziale messinscena della sua tragedia Processo e morte di Stalin, vanta migliaia di lettori che gli scrivono per confortarlo: è uno scrittore ispirato da intelletto d’amore. Finalmente anche in Italia si riconosce il suo valore: il 27 ottobre scorso, Corti ha ricevuto il "Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica", assegnategli dalla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, già tributato a studiosi del calibro di Del Noce, Ratzinger. Biffi, Messori, Giussani. L’ arte di narrareAll’uscita de II cavallo rosso, nell’83, i critici parlarono di "romanzo epico e corale": le edizioni Ares di Cesare Cavalieri avevano pubblicato il manoscritto (milleduecento pagine che i grandi editori avrebbero sfrondato) in tempo per consegnarlo a Giovanni Paolo II in visita in Brianza.

Si parlò di un nuovo Guerra e pace, de II mulino del Po di Bacchelli o del film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli. Straordinaria l’accoglienza dei lettori di ogni estrazione: dieci anni dopo, un sondaggio di "Avvenire" rivela che è Corti lo scrittore cattolico più amato.

Il cavallo rosso, oggi alla tredicesima edizione, circola nel mondo tradotto in spagnolo, lituano, francese, rumeno e inglese: il suo autore condivide destino e magistero con il dissidente Aleksandr Solgeniçyn e indica nell’arte del romanzo una delle vie d’uscita dalla condizione del post-comumsmo. Già due generazioni di lettori si sono affezionate ai personaggi cortiani, nei ritratti che costituiscono dei veri capolavori: cento storie delle quali ognuno segue quella che più gli sta a cuore, sino alla fine. Ma per Corti la morte è morte cristiana cioè una porta aperta su altro. Ecco, è questo senso di una vita oltre la vita, questa percezione completa della promessa di Cristo nel cui regno "c’è tanto posto", a dare carne e sangue alla scrittura: le figure uscite dalla penna dell’autore restano impresse. Don Carlo Gnocchi, padre Gemelli, il comandante partigiano Marco (alias Alfredo di Dio), Mario Apollonio, John Burns, Nilde Jotti, Palmiro Togliatti, sino agli sconosciuti Pierello, Igino, Giulia e Gerardo (patriarca della famiglia Riva, autodidatta, rileggeva sempre il medesimo romanzo, I promessi sposi), alle dolci Colomba e Alma, all’indimenticabile Manno Riva: è la storia di una famiglia, e va dritta all’anima. Processo e morte del comunismoL’élite europea contemporanea, però, ha il cuore inaridito. Solgeniçyn disse, in occasione del Premio Templeton, che "il mondo è giunto oggi a un estremo: se lo si fosse rappresentato alle generazioni dei secoli precedenti, avrebbero sospirato unanimi "l’Apocalisse!". Ma noi ci siamo abituati". Aggiunse poi il punto finale della profezia: all’impatto dell’ideologia comunista è impossibile resistere con le semplici armi del liberalismo, cioè privi della dimensione morale e spirituale. Corti vide il socialismo reale con i suoi occhi, da soldato, durante la campagna dell’inverno ’42-’43 con l’ARMIR; poi, reduce, lo studiò al punto da divenirne conoscitore-avversario: la vocazione di scrittore gli impose di combattere con l’arma dell’arte e della vita. Ne II cavallo rosso le vicende di Michele Tintori (personaggio-controfigura dell’autore) dal gulag di Crinovàia alle elezioni del 18 aprile 1948 rappresentano la scelta di una politica cristiana contro la minaccia di "rivoluzione" preparata dal Fronte Popolare. Eppure, nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, un anticomunismo filosoficamente fondato non fu possibile. L’impostazione dell’antifascismo impedì un serio confronto concettuale e mutilò il naturale sviluppo del Paese sulla base della risoluzione degli errori del passato. Le limitazioni imposte agli autori "non organici", cioè in lotta contro l’egemonia "gramsciana" furono drastiche: si veda il caso del filosofo Augusto Del Noce e del teologo Cornelio Fabro. Uno scrittore tra bellezza e riconoscenzaGià nel toccante diario della ritirata di Russia I più non ritornano (1947), Corti, giovane ufficiale, era sembrato un promettente narratore. Da quell’esperienza terribile, la sua firma resterà per sempre riconoscibile, quella di un uomo che vive e scrive tra bellezza e gratitudine. Lo si nota in altri romanzi. Gli ultimi soldati del re (1951-1994), e nei "racconti per immagini".

La terra dell’indio (’98) e L’isola del paradiso (’00), già pronti in forma di copione per essere portati sullo schermo. Anche l’opera teatrale Processo e morte di Stalin (1962) mostra la decomposizione necessaria dell’utopia comunista solo per aprire un varco nell’animo. Nella crisi degli anni ’60 e ’70, i saggi sulla chiesa cattolica raccolti ne II fumo nel tempio (’96) sono mattoni per le fondamenta di una pastorale che verrà, non modernista. Oggi leggere o rileggere Corti significa desiderare la ricostruzione della cultura cristiana. L’autore stesso descrive questo nostro comune compito di edificatori: "Più tardi, come già le sere precedenti, nella nostra casetta recitammo tutti insieme il rosario. Anche i pochissimi che erano stati increduli. E non per confusa paura: in quei giorni si sentiva il Soprannaturale così vicino al Naturale, che volerne negare l’esistenza sarebbe stato come voler negare l’esistenza di cose materiali e presenti: della neve fuori, oppure del fuoco che scoppiettava sordamente nella stufa, dandoci nostalgia di un po’ di pace, o di noi stessi". Attenzione, dunque: chi ascolta una conferenza di Corti rischia di essere invaso dalla gratitudine, verso la vita, verso Dio, verso i propri genitori o verso questo scrittore brianteo dall’aria coraggiosa e serena. Nel panorama delle lettere, un caso più unico che raro. (Andrea Sciffo)

Monaldo Leopardi, un uomo ingiustamente calunniato.

Quando si legge un commento critico sulla poesia e la vita di Giacomo Leopardi, immancabilmente il suo pessimismo viene collegato, almeno in parte, alla presenza, truce e severa, di suo padre Monaldo: un uomo troppo rigido, “reazionario”, di idee vetero-cattoliche, “che tendeva ad isolare il figlio dal resto della comunità recanatese” (Guglielmino). La realtà è affatto diversa. Anzitutto perché Giacomo non fu gravato dal peso della religiosità cattolica e del pensiero di antico regime, ma al contrario fu uomo straordinariamente aperto alle novità di pensiero che gli giungevano dalla Francia e dalle filosofie più moderne. Il suo pessimismo, per quanto determinato, in parte, anche da eventi specifici della sua vita, nasce e si irrobustisce nel tentativo di sviscerare sino in fondo le conseguenze logiche di quel pensiero materialista e sensista, nuovo di zecca, e per nulla reazionario, che egli accettava come un dogma, come un postulato indiscutibile, al pari di molti intellettuali dell’epoca. Scriveva infatti nelle sue riflessioni: “Che la materia pensi è un fatto”. Tutto il pensiero di Giacomo può essere così riassunto nella “teoria del piacere”: l’uomo aspira ad un bene, una felicità infinita, e questa aspirazione, lungi dall’essere segno della vocazione eterna e divina dell’uomo, del suo essere fatto per Dio, come nella riflessione cattolica, diviene nel poeta constatazione di una condizione umana assurda, intimamente contraddittoria e lacerante. Se infatti il cuore umano desidera grandi cose, piaceri che durino, felicità non effimere, perché poi ogni piacere materiale, l’unico concepibile in un’ottica che escluda l’eterno, si rivela illusorio, breve, limitato nella sua intensità e durata? L’infelicità di Giacomo è dunque tutta qua, e inasprisce nel momento in cui, con coerenza assoluta, il poeta finisce per rinnegare, dopo la ragione, anche l’amore. Così l’ultimo Leopardi diventa aggressivo, violento, contro i “fratelli” illuministi e materialisti, che negato il paradiso nel cielo, credono con grande incoerenza di poterne costruire uno sulla terra; e contro i cristiani, che nell’aspirazione del cuore umano, con un ottimismo infantile, vedono un segno della sua grandezza e del suo destino. Cosa c’entra, in tutto questo, il padre Monaldo? E chi era quest’uomo, così ingiustamente calunniato? La risposta è in un brillantissimo saggio di Lidia Zawada, pubblicato ad introduzione del “Catechismo filosofico” di Monaldo (Fede & Cultura). Monaldo, in realtà, come testimonia la figlia Paolina, era un uomo “buonissimo, di ottimo cuore”, anche nei confronti di Giacomo, con cui pure discordava, che si trovò a vivere l’invasione napoleonica e il diffondersi delle idee illuministe. Nel 1796, coll’arrivo dei francesi a Recanati, cercò di scongiurare saccheggi e violenze inviando ben ventitré carri di vettovaglie per placare gli invasori. Liberata Recanati dagli Insorgenti, fu acclamato dalla popolazione governatore della città: accettò l’incarico, al fine di limitare le vendette e gli scontri intestini, tra i francesizzanti e i loro avversari. Col ritorno di Napoleone Monaldo rifiutò di assumere l’incarico di podestà di Recanati: accettandolo, “avrebbe dovuto strappare ogni anno alle loro famiglie trenta coscritti recanatesi e inviarli a combattere e morire nell’esercito napoleonico”. Per un reazionario come lui, l’esercito di massa, la guerra totale, le invasioni di Napoleone, non erano concepibili. In tanti anni di vita pubblica nella sua città, Monaldo costruì a sue spese un teatro comunale, introdusse l’illuminazione notturna a Recanati, si occupò della viabilità e della bonifica dei terreni incolti, portò nello Stato Pontificio la vaccinazione jenneriana, “insegnandola personalmente ai medici e rendendola infine obbligatoria insieme all’introduzione di migliorie nell’educazione sanitaria e nell’igiene pubblica”… Apertissimo alle novità scientifiche, al progresso, Monaldo non lo fu mai, per nulla, al materialismo, al nazionalismo, all’indifferentismo filosofico, all’assolutismo di quei tempi. Non certo per ignoranza: la sua biblioteca era immensa, con un intero scaffale dedicato ai libri proibiti, aperta “filiis amicis civibus”. Monaldo scrisse catechisimi filosofici, a difesa del pensiero cattolico tradizionale, dialoghetti brillanti e celeberrimi in tutta Europa, e fondò addirittura un giornale, “La voce della Ragione”: riteneva che la ragione stesse dalla parte dei “reazionari” come lui, che la considerano un immenso dono di Dio, e non di coloro che, proclamatisi suoi paladini, la abbassano al livello della materia.

Luigi Pirandello e la verità.

Non poggiare su nulla, vivere sospesi tra incertezza ed incertezza, pronunciare ogni parola, fare ogni gesto, d’amore o di odio, con la convinzione che non si fonda; restare di fronte alla vita e alle cose senza mai un abbraccio, uno sguardo che penetri e che frughi, alla ricerca di un nucleo positivo, di un sorriso nascosto, di un quid che sia capace di metterci, onestamente, in moto: è il relativismo totale, di un grande autore della letteratura italiana del Novecento, Luigi Pirandello.

Questo poeta siciliano, nato in una villa detta "Caos", ha cercato in molte sue opere di mettere a nudo, impietosamente, tutte le contraddizioni della realtà; ha tentato di smascherare, tramite una logica estrema, ogni apparente illogicità e assurdità della vita. Cosa c’è di vero, di oggettivo, di degno, in ciò che ci circonda? Il povero Vitangelo Moscarda, uno dei tanti alter ego dell’autore, si accorge un giorno che per la moglie il suo naso, che lui aveva sempre ritenuto perfetto, pende da un lato: ma chi sono, allora, io, si chiede? Chi sono io per gli altri, dal momento che non sono per loro quello che credevo di essere? E si accorge che sua moglie si è costruita un Vitangelo a sua immagine e somiglianza, diverso da quello vero. O forse quello vero neppure esiste. Ognuno di noi, infatti, secondo Pirandello, indossa una maschera, per sua volontà o perché gli altri la impongono. Crediamo di conoscere noi stessi e gli altri, ed invece non conosciamo nulla. Ognuno con la sua verità diversa: "così è, se vi pare". Infatti non è solo la certezza dell’esistenza di Dio che perde consistenza, in un sistema relativistico coerente: Dio non può morire, senza che muoia anche l’uomo, senza che tutta la realtà smarrisca i suoi confini e i suoi colori.

L’identità personale scompare, perché sarebbe la verità di una persona e di una storia; così anche l’altro, inconoscibile ed inconosciuto, perde consistenza e concretezza. Il risultato, drammatico e terribile, è la solitudine, l’incomunicabilità totale. Se io non sono io, se l’altro non è l’altro, anche il rapporto più forte, quello tra marito e sposa, quello tra Vitangelo e sua moglie, è in realtà inesistente: non l’uno carne della carne dell’altro, ma atomi isolati e impenetrabili. Perché se non esiste la Verità anche baciarsi diventa un assurdo: il bacio non è più, infatti, il segno di una cercata unità tra due identità differenti che si incontrano e si amano, che si conoscono ma cercano un rapporto ed una conoscenza più profondi, che giunga, tentativamente, ad attingere al mistero buono dell’ altro. Chi agisce, infatti, chi bacia, per Pirandello, non conosce se stesso e non conosce l’oggetto del suo bacio! Tutto scompare nel relativismo assoluto: la realtà, l’amore, il senso stesso delle parole. Anch’esse, infatti, non sono affatto il nostro tentativo di afferrare l’intima realtà delle cose, gli universali oggettivi che significano una realtà esistente. Al contrario sono solo contenitori vuoti: “Le parole sono vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto di intenderci; non ci siamo intesi affatto”.

Se la Verità non esiste, dunque, come nel relativismo pirandelliano, tutto sprofonda nell’assurdo. A rigore non ci dovrebbe essere permesso nulla: né parlare, né amare, né se stessi né il prossimo! Così la prospettiva finale rimane solo quella di annullarsi: Vitangelo decide di farlo. Lascia ogni affetto e ogni cosa e si ritira a vivere in un ospizio: “Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri… Sono quest’albero, nuvola; domani, libro, vento: il libro che leggo, il vento che bevo…muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi…”. Eppure, anche all’interno di questo pessimismo assoluto, necessaria conseguenza di un relativismo coerente, Pirandello lascia capire, talora, che l’unica "follia" razionale, l’unica che faccia giustizia delle apparenti assurdità della vita, conciliandole in una sorta di logica sovra-umana, è la follia della Fede, simboleggiata da una lanternuccia ad olio. Qualcuno continua ancora ad alimentarla, dentro di sé, anche nell’era del progresso e del positivismo: "Il fioco ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione". Ma è la lampadina elettrica, simbolo della scienza divinizzata, ad essere, per Pirandello, uno strumento troppo idiota, troppo “fioco”, per esplorare la possibile esistenza di una Verità che salvi.

Sguardo realista o cecità ideologica

Il vero dramma è descritto da De Lubac: l’umanesimo ateo ha organizzato il mondo contro Dio ma alla fine si è rivelato anche contro se stesso!
Ciò nonostante, all’interno di questa tragedia è stato possibile riproporre all’uomo l’annuncio cristiano nella sua assoluta originalità, rivolgendosi non al militante di una ideologia, ma direttamente a Dio.
L’uomo, vinto ma non annichilito dal peccato, può ritrovare la propria umanità attraverso la presenza positiva del Creatore, può erigere la sua vita sulla speranza: è in questo incontro che la ragione umana nell’impatto con la fede trova possibilità di essere valorizzata. Il compito dell’uomo è allora quello di ricercare ciò che ancora non possiede, il domandare greco come cammino per la conoscenza di sé. Questa tensione è il requisito per un’esistenza umana finalmente rilevata nella sua identità profonda.
Non si incoraggia ad una critica nauseante e superficiale: non sosteniamo un ottimismo ingenuo ma nemmeno uno sconfittismo pessimista; il realismo ci motiva ad essere attivi e non dei meri telespettatori del teatrino politico. Questa dose di sano realismo permette di tenere lo sguardo vigile cercando di scoprire il bene ed il bello e di lasciarsi stupire dalla realtà.
Il problema è un atto profondo di orgoglio giocato sul concetto di Chiesa, vista come un’organizzazione umana o come corpo di Cristo: essa è detta universale proprio perché ha un respiro più ampio. La fede è il semplice riconoscimento di una Presenza, un incontro che ci abbraccia: altrimenti, qualsiasi altra visione della fede, seguace della disciplina o dell’ordine mentale, ci portano a vedere un Dio pronto ad aspettare la nostra morte, per decidere con una biro ed un block notes in mano per quanti anni, mesi, giorni, minuti e secondi dovremo scontare la nostra pena eterna.
Uno scritto di C.S. Lewis, L’uomo nato cieco, ci aiuta a capire quale sia il giusto atteggiamento da tenere di fronte alle cose: Robin, appena rientrato dalla clinica per un’operazione che gli ha donato la vista, non riesce a darsi pace nella ricerca della luce. Tutte le spiegazioni che gli vengono date dalla moglie circa la luminosità degli oggetti, dei paesaggi circostanti, sembrano non esaurire la bramosia dell’uomo. Inizialmente il lettore viene affascinato da questo desiderio del protagonista di guardare oltre la superficialità, poiché sembra che ci sia un significato più profondo nascosto dietro ogni cosa, che ancora non si riesce però a cogliere.
Una mattina, mentre la moglie Mary è a letto ammalata, Robin compie in casa delle azioni chiudendo deliberatamente gli occhi per provare ancora le sensazioni che aveva sperimentato quando era cieco: facendo ciò trova inaspettatamente piacere e sollievo dati anche dalla “dolce sensazione di fuga che giungeva dall’assenza di lei”. Decide poi di uscire di casa e giungere nel luogo in cui era stato pochi giorni prima con Mary. Scorge così un pittore nei pressi dei bordi di un precipizio che, disegnando, gli spiega la sua intenzione di voler catturare la luce: Robin entusiasta e con tono vendicativo nei confronti del mondo si compiace nel credere di aver trovato qualcuno con cui condividere la sua presunta superiorità intellettuale.
Si avvicina poi al precipizio: “l’espressione del volto del pittore cambiò: “Ehi, è pazzo?”. Fece per afferrare Robin, ma era troppo tardi. Era già solo sul viottolo. Dal fondo di un nuovo e subito svanito squarcio nella nebbia non giunse alcun grido, ma solo un suono così secco e netto che ce lo si sarebbe difficilmente aspettato dalla caduta di una cosa così soffice come un corpo umano; quello, e il rotolare di alcune pietre spostate”.
Una morte priva di umanità dunque, un tonfo come di qualcosa di prettamente materiale, privato dell’anima: ecco il destino di una figura impregnata di ottusità ideologica, che decide di cercare in modo solitario la Verità. Questa presunzione, che spesso tutti ci portiamo dentro, ci fa spacciare per “luce e reale” ciò che invece non è altro che la nostra idea: davanti alla realtà corriamo il rischio di negare l’evidenza in nome di una raffigurazione che noi stessi compiamo, che ci siamo prefigurati a priori, prima di “acquistare la vista” (tanto che di fronte ad una realtà diversa dall’immaginata, Robin preferisce richiudere gli occhi e vivere come prima, piuttosto che affrontarla).
Ma questa non è nient’altro che la posizione infantile di chi, senza esperienza e infastidito da una guida, si ritiene in grado di quella forma mentis che coglie e capisce tutto, senza nemmeno riuscire a gustare ciò che ha intorno.
Non a caso è il titolo del libro: non si parla di cecità fisica, ma di una condizione esistenziale insolubile.
Robin aveva riacquistato la vista, ma, indipendentemente da tutto, era cieco.

La vita è un viaggio.

La letteratura occidentale nasce dall’idea di viaggio: quello degli Argonauti, che solcano per la prima volta il mare, quello dei Greci, verso Troia, quello di Ulisse, che ritorna ad Itaca. Il viaggio, infatti, implica una direzione, cioè un senso, una grandezza umana da sviluppare, come un seme, badando che non muoia. Ulisse deve superare la tentazione dell’immortalità, offertagli da Calipso; deve sfuggire al fascino del loto, il fiore che potrebbe inebriarlo, e fargli dimenticare il fine del suo viaggio; deve sconfiggere le malie di Circe, l’allettamento dei sensi, degli istinti, che lo trasformerebbero in un maiale. Ricerca e conquista, rinuncia e sacrificio. Ma la meta dell’Ulisse greco è la sua isola, la sua famiglia, sua moglie: tutto l’orizzonte possibile di una nobilissima concezione naturalista. Nel medioevo Dante immagina anch’egli un viaggio grandioso. La Commedia infatti è il cammino non verso un’isola terrena ma nei mondi ultraterreni. Si passa dall’inferno al purgatorio, per ascendere faticosamente il monte, ma non per fermarsi sulla cima: il traguardo è soprannaturale, è il cielo, la realizzazione eterna, perfetta, della felicità ineffabile, quella che “occhio d’uomo non ha mai visto, né orecchio d’uomo ha mai udito”. Questo è il vero approdo dell’uomo dopo Cristo: la virtù naturale non basta più, la felicità intravista, imperfetta, solo terrestre, che lascia nell’uomo ancora la sete, non è sufficiente; la ragione non raggiunge tutto, e non comprende ogni cosa. Per questo, se per i greci Ulisse poteva accontentarsi di Itaca, per Dante deve ripartire: occorre andare oltre, più in là, verso una patria, una famiglia non perituri. Così il viaggio di Ulisse nasce da uno sprone positivo, “seguir virtute e canoscenza”, per rispondere alla domanda dell’uomo di Bene (“virtute”) e di Verità (“canoscenza). Il Bene e il Vero sono infatti strutturalmente desiderati dall’uomo. Ma allora perché il volo di Ulisse diviene “folle”? Perché Ulisse non ha la grazia, non può, da uomo, raggiungere ciò che gli è superiore. Non può attraversare l’immenso oceano senza il sostegno divino, non può essere salvezza e compimento a se stesso. Dante compie lo stesso viaggio, ma è la grazia divina, innestata sul suo peccato, sulla sua creaturalità, a permetterglielo: non è l’uomo che va incontro alla salvezza, ma la salvezza che scende verso l’uomo che la cerca. E’ il soprannaturale che incontra l’uomo, che, faticosamente, sale. Succede esattamente come aveva intuito Platone: l’uomo giunge, con la ragione, alla metafisica, all’esigenza e alla razionalità di Dio, ma deve esserci “un dio” che gli si rivela, che svela quanto rimane di ineffabile e di umanamente non intelleggibile. L’idea della vita come viaggio è presente anche nel mito medievale del Santo Graal: i cavalieri della Tavola Rotonda partono da una terra desolata, guasta, simbolo della loro anima, per cercare la coppa che ha contenuto il sangue di Cristo. La coppa è simbolo della sete dell’uomo, che può essere saziata solo dal rapporto con Dio. Occorre ricercarla, affrontando pericoli estremi, che rimandano al combattimento interiore: se non fosse un mito cristiano sarebbe la stessa storia di Ulisse. La condizione necessaria per poter raggiungere il Graal è la domanda, la disponibilità e la purezza del cuore. Per questo Lancillotto, che ha tradito il suo re, Artù, non ci riesce. Solo Galvano può toccare il Graal ed “ha la possibilità di conoscere misticamente ogni suo segreto, ma al termine di questa straordinaria esperienza muore e una schiera di angeli viene a prendere la sua anima” (P. Gulisano, Re Artù, Piemme): il Graal infatti indica una meta eterna, la Felicità soprannaturale, che non è di questo mondo, perché l’oggetto della ricerca, su questa terra, non sono cose della terra! E’, invece, come scriverà un altro grande poeta del viaggio, Torquato Tasso, la Gerusalemme Celeste. Cosa rimane oggi, in Occidente, di questa idea letteraria e filosofica del viaggio? Ben poco: esso sembra non condurre più da nessuna parte, sembra aver smarrito il senso. L’uomo pare sempre più accontentarsi del loto, o di Circe. Oppure si lascia ammaliare da Calipso, e dalle sue promesse di immortalità. E’ così che il Santo Graal diviene, come ha scritto entusiasticamente Gregory Stock, alfiere dell’ingegneria genetica più feroce, la possibilità di manipolare il Dna, “il Santo Graal della biologia umana”, per dare inizio “all’autoprogrammazione dell’uomo”, alla “manipolazione di noi stessi”, allo scopo di divenire “molto più che semplicemente umani” (“Riprogettare gli esseri umani”, Orme).