Esce a ottobre “Perché credo”, il nuovo libro di Vittorio Messori

Riportiamo dal sito vittoriomessori.it il retro di copertina del nuovo libro-intervista del noto scrittore con Andrea Tornielli, in uscita ad ottobre per Piemme.

Vittorio Messori è il più noto scrittore cattolico, la sua fama ha varcato da tempo i confini nazionali. Autore di best-seller tradotti in tutto il mondo, con il primo libro, Ipotesi su Gesù – l’inchiesta divulgativa ma rigorosa che ha dato inizio ai suoi saggi sulla storicità dei vangeli – ha superato il milione di copie solo in Italia. Interlocutore dell’allora cardinale Ratzinger (e quel saggio, Rapporto sulla fede, ha segnato l’inizio della fine del caos postconciliare), ha avuto poi il privilegio del primo libro intervista con un papa, Giovanni Paolo II: 53 lingue, più di 20 milioni di copie. Molti altri volumi di grande impatto internazionale gli hanno confermato un ruolo di “reinventore” della moderna apologetica.

Eppure, Messori non è nato cattolico. Anzi. L’educazione familiare e la formazione scolastica ne avevano fatto un anticlericale e un razionalista della dura scuola torinese. Poi, nell’estate del 1964, nei giorni dei funerali di Togliatti, accade Qualcosa di imprevisto e di imprevedibile. Il laureando in Scienze Politiche che stava alla larga dalle chiese, l’allievo di famosi Maestri sprezzante verso la “sub-cultura cattolica”, non si converte ma, come a forza, “è convertito”. Si scontra, inaspettatamente, con quel Gesù di Nazaret alla cui figura dedicherà gli studi di una vita. Una storia insolita e in fondo drammatica, che Messori descrive per la prima volta in questo dialogo con il collega Andrea Tornielli, svelando molti particolari fino ad ora taciuti. Una svolta radicale, tale da rovesciare la sua vita e da cambiare quella di molti che, grazie ai suoi libri, hanno scoperto o riscoperto la fede.

Nelle sue parole non c’è traccia di clericalismo, di integralismo, di nostalgia per una cristianità tramontata. Assente, in lui, anche il moralismo: mai si è proposto come modello di vita, sorride di chi si atteggia a “profeta”, allergico a ogni posa edificante spera per sé che la misericordia del Cristo superi, e di molto, la giustizia. Nella sua ricerca si è sempre preoccupato dei fondamenti della fede, lasciando ad altri di indagare sulle conseguenze morali e socio-politiche. Uomo di frontiera tra le “due culture” (ha lavorato a lungo a La Stampa, da anni collabora al Corriere della sera ma si è impegnato anche ad Avvenire e nei Periodici Paolini), la sua è una prospettiva cattolica del tutto ortodossa e, al contempo, non conformista, scandalosa per timorati e benpensanti. Innamorato della libertà, convinto che la fede vada proposta e mai imposta, cosciente che la virtù esige la possibilità di optare per il vizio, troppo ironico per vestire i panni del predicatore, Messori non rifiuta a priori questo mondo post-moderno. Ne vede le contraddizioni, denuncia le ipocrisie della ideologia egemone – il “politicamente corretto”, per il quale, ad esempio, la pena di morte per i criminali è una vergogna, mentre quella per i nascituri innocenti è un diritto sacrosanto e un progresso civile – ma vede le chances di una società dove il credere è una libera “scommessa” e dove i cristiani ritrovano la funzione di lievito, di sale, di granello di senape. Minoritari ma non marginali, secondo la prospettiva indicata loro da Gesù stesso. Un libro emozionante, di grande spessore culturale, di esperienze singolari, di rovesciamenti di schemi, di giudizi spiazzanti, di fede “pensata” senza paura. Ma, al contempo, pagine di grande umanità. Per dirla ancora con Pascal: “Pensavano di trovare un autore. Hanno trovato un uomo“.

La vocazione ad essere crociato

Dopo “L’albero della vita”, ho letto “L’ultimo crociato” di De Wohl. Un buon libro per parlare di vocazione.
C’è una domanda che nel libro si ripete come l’esigenza più grande: “Dov’è l’uomo che abbia ancora il puro spirito dei crociati? L’uomo che voglia compiere un’azione non perché voluta da lui, ma perché Dio la vuole?”.
La risposta si trova sulle labbra di uno scrittore, non l’autore, ma Cervantes, testimone-protagonista della battaglia di Lepanto. Questi riconosce in Giovanni d’Austria “un vero re, un magnifico, giovane re. Un crociato, forse…l’ultimo crociato”.
Il romanzo di De Whol ha tanti meriti. Quello di raccontare una storia, la battaglia di Lepanto in cui i Turchi subiscono una sconfitta sul mare che fino, ad allora, li aveva visti dominatori assoluti. Ha il valore didattico di farci entrare nelle pieghe di un frammento di storia della Chiesa e quindi dei paesi cattolici che su quell’identità si costituiscono. Mostra le debolezze e le passioni, il senso del dovere e dell’Assoluto negli uomini di coorte della Spagna di Filippo II della metà del 1500. Un romanzo che non solo racconta la storia, ma che della storia ne offre un senso. Una storia biografica di Juan, figlio bastardo di Carlo V e fratellastro del Re Filippo II. Il suo mentore e maestro don Luiz lo disciplina fino a farlo diventare non solo un soldato di prim’ordine, ma soprattutto un uomo generoso e puro, obbediente all’ideale di servire il Re, devoto alla volontà di Dio. C’è un fatto decisivo nell’educazione del ragazzo. Ancora adolescente Juan, riceve dalle mani di don Luiz un crocifisso di legno bruciato. Il prezioso legno era finito nelle mani dei Mori che, in dispregio, lo stavano bruciando. Visto il gesto sacrilego, don Luiz si getta nel fuoco, uccide i Mori e salva il crocifisso. Juan inorgoglito per il dono ricevuto e infiammato per l’eroismo del suo maestro grida: “Voglio essere come lui! Voglio essere come lui!” – ripetè – “Madre del cielo fammi diventare come lui, per favore!”
Questo episodio sarà decisivo per comprendere l’intera parabola vocazionale di Juan. Ormai uomo, in lui convivono due spinte contrapposte: quella di seguire il suo ardore nel combattere e nel perseguire la sua passione per una donna e la sua volontà di servire, sempre e comunque, l’opera del Re. Entra in un monastero per ritrovare se stesso.
Qui gli si accosta fra Calahorra. Sono queste dei dialoghi tra i due, le pagine più belle del romanzo.
“Un uomo che conosco” – disse Juan sorridendo – “una volta mi spiegò che la miglior cosa era trattare Dio come il fuoco. Non bisogna starci troppo lontano, altrimenti si gela; né troppo vicino altrimenti si rischia di bruciare”.
Calahorra fece cenno col capo. “Se lo rivedrete, ditegli che Nostro Signore ha detto: “Né i troppo caldi, né i troppo freddi, ma i tiepidi Dio ha vomitato dalla Sua bocca”. (…)
“Oh! Questo è quasi certamente destinato a divenire un detto popolare. Ma tradotto nella vita e nei costumi è un flagello. ? esattamente quello che sta accadendo intorno a noi in questi tempi. “Rispetta Dio in ogni maniera, ma senza correre rischi” si dice. “Non dire nulla e soprattutto non fare nulla che non sia politica.” “Sii neutrale.” “Che t’importa se i Turchi stanno attaccando questa o quella contrada? Non attaccano te.” “Non essere troppo freddo, manda al Principe assalito un grazioso messaggio, fors’anche delle promesse; ma non esporti al fuoco.” “Sii neutrale, con benevolenza.” (…)
Guardava fisso il fuoco. “L’abitudine” – continuò con occhio terribile – “l’abitudine è uno dei peggiori nemici dell’umanità. Talora sembra che ci stiamo abituando alla nostra eredità. Tale possesso ci sembra sicuro, quasi non potessimo perderlo all’indomani. Non ci rendiamo nemmeno conto che lo spirito ci ha abbandonati”.
“Finora la Spagna non manca di uomini coraggiosi” – disse risentito Juan.
“E’ vero e ne avrà sempre, per grazia di Dio. Ma la maggior parte di quelli che hanno lo spirito d’avventura lo combinano con lo spirito di conquista. Questi uomini vogliono che il loro coraggio serva a loro, non a Dio. Non è necessario essere cristiano per questo! Ma dov’è l’uomo che ha lo spirito dei veri crociati? L’uomo che vuole compiere una missione, perché egli vuole, ma perché Dio lo vuole? “Dio lo vuole” Non ho mai sentito questo grido in tutta la mia vita. Lasciamo che le cose vadano per la loro via e le future generazioni non capiranno nemmeno più come un grido del tal genere si sia potuto proferire. Lo tradurranno nelle loro anime mercenarie come una strana specie di ipocrisia”. (…)
“Vi saranno certamente sempre dei buoni preti che continueranno a insegnarci ciò che è giusto…” – disse Juan.
– Sì, vi saranno. Le porte degli inferi non prevarranno, lo sappiamo. Ma ciascuno di noi deve vivere come se quella promessa di Cristo dipendesse da lui e da lui solo. I preti e le monache non sono abbastanza. Cristo ha bisogno anche dei laici. (…) Laici, laici Ecco la nuova crociata. Dio lo vuole. Se Dio è come il fuoco che io ne sia bruciato. Se Dio è come acqua che io anneghi in essa. Se è come aria, che in essa io voli. Se è come terra che io scavi in essa la mia vita finchè non abbia raggiunto il centro”(pag. 251 ed Bur).
(…) “Che l’uomo si chiamasse Principe o Eccellenza o non avesse affatto un nome non aveva importanza. Come mangiasse o bevesse o vestisse, se fosse seduto su un trono o sul più basso sgabello, non aveva importanza. Anche se avesse o no trovato la felicità tra le braccia di una moglie poco contava al confronto del più grande di tutti i problemi. Poiché l’uomo apparteneva non a se stesso, ma a Dio. Per questo i cavalieri delle passate età lasciavano le loro mogli e i loro castelli per amore della croce. Per questo don Luiz si era gettato in mezzo al fuoco per salvare il crocifisso che i Mori stavano per cercando di bruciare. (…) Ormai non gli restava che domandare una cosa: “Signore, fate che io vi serva”.(pag. 253).
La grandezza del romanziere tedesco è di restituire al lettore l’idealità di vivere non per un tornaconto personale per quanto nobile sia. Vivere non per la gloria propria e neppure per degli ideali. Vivere per servire l’opera di un altro: il Re, il Papa e in loro, ultimamente Dio.
“Poiché l’uomo appartiene non a se stesso, ma a Dio”.
Il crociato è chi riconosce questa verità su se stesso, chi avverte che il senso della storia, il destino dei popoli e della Chiesa, la felicità dell’uomo è Dio. Anzi, è il Dio che si fatto carne e si è lasciato crocifiggere. E si lascerebbe anche bruciare, se non trovasse qualcuno disposto a dare la sua vita, disposto a vivere la sua vita nel fuoco!
De Whol dà spessore a quella parola – vocazione – che troppe volte nei nostri ritiri e conferenze appare sbiadita e spenta senza la radicale forza che essa contiene. Ne parliamo allo stesso modo che se dovessimo scegliere che vino bere a tavola: il rosso o il bianco.
La vocazione – così come ce la propone lo scrittore nella figura di Giovanni d’Austria – è appartenere con tutta la forza, l’ardimento, la fantasia, la devozione all’opera di un altro perché la vita, la mia vita, sia definita in ordine a un Altro. Non sono io il metro della vocazione, ma un Altro che sceglie me. “Venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni”. La vita si compie nella misura in cui si appartiene. Si vive una vocazione quando si riconosce quest’appartenenza. Non si sceglie una vocazione perché semplicemente mi corrisponde o mi piace. Ma perché Dio lo vuole. Primo passo di questo modo d’intendere la vocazione è l’obbedienza. “Cristo sa se voglio servirlo con tutte le mie forze e finchè vivrò. Ma Cristo è Dio e perciò omniscente e ciò significa che sa pure che non è questa la strada in cui posso servirlo meglio. Voglio essere Suo soldato, non Suo prete. Ha bisogno pure di soldati, vero?”

L’albero della vita

Da qualche anno il tempo estivo è il tempo della lettura. E’ un piacere a cui non riesco a sottrarmi. Non è più solo il gusto di una lettura, ma anche l’interesse di gustare la verità attraverso quella forma singolare che è la narrativa. Mi pare, cioè che la letteratura mi aiuti in modo del tutto inconsueto ad entrare nel vivo di alcune questioni spirituali e teologiche che per limite di tempo o per ritrosia verso alcune aspre forme del linguaggio teologico non riuscirei altrimenti ad accedervi. Parazzoli, un amico scrittore, dice: “Io ritengo che il concetto di Grazia sia molto più chiaro nel “Diario di un curato di campagna” di Bernanos che in molti trattati di teologia. Il romanzo, infatti, rappresenta una visione sintetica della vita”.
Qualcuno mi rimprovera di questa mia passione. Dicono che perdo tempo. Un prete deve leggere libri di spiritualità o vite di santi, libri di teologia o al massimo saggi su come va il mondo. Non storie e romanzi. Risponderei con le parole di un prete milanese che mi ha confermato in questa direzione: “Non avete mai provato a gustare la bellezza delle forme e dei ritmi, la musica segreta di certe frasi, la forza evocativa di certe immagini? Non avete mai conosciuto lo stupore che nasce da una parola quando ti fa sentire il palpito vitale delle cose e ti mette in rapporto con il mistero sacro che è come il respiro di tutto ciò che esiste? Non avete mai pensato alla mitezza del linguaggio letterario? Le altre forme di linguaggio spesso ti aggrediscono, si impongono con la presunzione di una verità assoluta e con la forza costringente della dialettica, ti vogliono strappare un consenso prima ancora che tu ne sia persuaso. Il linguaggio letterario invece quando è autentico, si presenta delicato, discreto, leggero, sinuoso: è una specie di invito (così è il linguaggio delle parabole) a un’avventura conoscitiva in cui sei chiamato a partecipare con tutto il tuo essere, con la mente e con il cuore, con la fantasia e con la sensibilità: soprattutto con la tua libertà”.
Dunque, le mie letture estive sono selezionate, attese e orientate a scoprire, nella forma propria del linguaggio narrativo, alcuni aspetti che più m’interessano. Se fino a qualche anno fa, le letture avvenivano in modo caotico, ora sempre più avverto la necessità di scegliere cosa leggere e di farlo secondo propositi più ordinati ed essenziali. Non si può leggere tutto e non tutto è utile allo stesso modo. Quest’anno ho scelto di conoscere un autore a me ancora sconosciuto, L.de Whol le cui opere sono edite nella collana dello Spirito cristiano. Eppure sullo scaffale della libreria c’è una copia regalatami da chissà chi e chissà quando. In realtà, era tempo che lo tenevo d’occhio. L’avevo messo lì…Ci sono libri che riponi e dici “quando avrò tempo…” che è un modo molto carino per dire al libro “mi spiace, ma sarà difficile amico mio”. Altri a cui (lo capisci da come lo riponi nella libreria) dai appuntamento. Appartiene alla categoria dei “presto, verrà il tuo turno. Per il momento ti metto lì…”. Sono andato a cercarlo. Titolo: “L’albero della vita”.
Il libro è di quelli che ti appassionano. Lo leggo in tre sere. Tre sere dal caldo infernale in cui non riesco a prendere sonno. Quando si legge un libro è come salire sull’aereo e atterrare in un altro mondo. Qualcuno ha detto che leggere equivale a viaggiare. Il viaggio in questione ti porta secoli indietro al tempo della Roma del terzo e quarto secolo dopo Cristo. In realtà, gran parte del romanzo si svolge in Britannia. Hai la sensazione, mentre scorri le pagine, di riconoscere la decrepitezza dell’Impero romano. Non sono ancora le voragini che porteranno alla dissoluzione di quest’impero ineguale nella storia, ma si ha come l’impressione che la Roma imperiale sia ormai corrosa dal tarlo della divisione e del potere, dell’avidità e dell’inganno, di una religiosità immiserita e di una presunzione bellica ormai sterile.
In questo contesto di tradimenti e soprusi, De Wohl ti fa conoscere Re Cel, Elena, Costanzo, Favonio, Ilario, Albano, Costantino. Uomini e donne di valore, dal temperamento forte, vigoroso, fedeli, pronte al sacrificio per ciò in cui essi credono. Noi li chiameremmo eroi. Succede, mentre assapori le pagine, di stimarti di avere la possibilità di conoscerli.
La trama del romanzo comunque non indugia nelle battaglie (se non nell’ultima quella in cui Costantino sconfigge Massenzio e conquista Roma nel segno della croce), non si sofferma sulle losche tresche di palazzo, né sugli amori imperiali e neppure a caratterizzare eroicamente i protagonisti. Almeno non è questa la preoccupazione che sta a cuore all’autore. A De Whol interessa descrivere quel moto nascosto che accompagna la vita di ciascun uomo e che culmina con il desiderio che la vita sia salvata, redenta. I protagonisti dell’intero romanzo non sono soltanto quelli descritti, artefici di imprese e di battaglie per l’Impero, quanto l’uomo semplice, reale che davanti alla vita porta la speranza e il desiderio di una salvezza e di un Salvatore. Quest’umanità non si costituisce di soli piccoli, i poveri, gli schiavi (stupenda è la pagina in cui alcuni uomini dell’entourage di Costanzo rifiutano, senza alcuna forma di risentimento, di bruciare incenso alla statua dell’Imperatore Diocleziano pur sapendo che in questo ardito gesto avrebbero incontrato la morte) cui quest’attesa potrebbe costituire semplicemente il pertugio di una speranza psicologica alla loro misera condizione. Essa si costituisce ben presto anche di gente colta e socialmente ben posizionata. Il romanzo è così percorso dal desiderio che il Mistero che fa tutte le cose riveli il suo nome, mostri il suo volto, emerga come Salvatore. C’è come un mormorio nascosto dentro il cuore dell’uomo, e forse dentro la stessa creazione, che sussurra e invoca un redentore. Lo testimonia la profezia di Cel, il padre di Elena che l’autore immagina figlia di un Re: “il legno è sacro. Il legno è la rovina degli uomini e il trionfo degli uomini. Ci uccide e ci salva.”
Ilario un fiduciario di Elena, divenuto nel frattempo sacerdote e ucciso pur di proteggere il calice contenente il Santo sacramento che Elena riuscirà a custodire, offre alla sua domina la chiave di comprensione delle profezie del padre:
“Quando il primo uomo e la prima donna, Adamo ed Eva ebbero perduto il paradiso andarono a vivere in esilio. Venne il giorno in cui Adamo doveva morire. Quando fu presso a morte, Dio mandò sulla terra un messaggero alato, u grande e potente spirito, l’arcangelo Michele. Michele comparve a Set, figlio di Adamo e gli diede un minuscolo seme: il seme di un albero. Morto che fu Adamo, Set mise il seme consacrato in bocca al padre defunto. Quindi Adamo fu sepolto e sulla sua tomba crebbe un albero. Migliaia di anni più tardi,l’albero si trovò ad essere nel cortile di una reggi, la reggia di Salomone, il saggio re d’Israele. Ma per quanto saggio, re Salomone nulla sapeva circa l’origine dell’albero. Senonchè un bel giorno una grande regina dal sud venne a fargli visita: la regina di Saba. Ella sapeva dell’albero e del suo segreto perché set era stato suo antenato e aveva narrato a suo figlio, questi l’aveva narrata al figlio proprio e così via di generazione in generazione. La regina di Saba fece sapere a Salomone che quell’albero era sacro perché su di esso sarebbe morto il redentore del mondo. Il re fece tagliare l’albero e seppellire profondamente il legname nella terra, non lontano dalla zona dei templi. La fossa scavata si riempì d’acqua che in seguito servì a lavare gli animali del sacrificio per il tempio. Così continuò per molte generazioni. Ma quando venne il tempo, la fossa si asciugò e il legname fu ritrovato.
“Quale tempo?” chiese Elena.
“il tempo nel quale fu compiuto il più grande sacrificio. Il sacrificio per il quale tutti gli altri non erano stati che simboli”.
“Elena si rammentò di colpo della profezia di suo padre: “Non c’è nulla di più sterile di una croce. Ma a contatto col santo sangue il legno sterile divenne l’albero della vita”.
C’è un’altra profezia che accompagna l’ardente aspettativa dell’umanità ad una salvezza. E’ quella che, una notte provvidenziale, Costantino, fino a quel momento intento soltanto nell’arte della guerra, leggerà dagli scritti del poeta Virgilio: “O muse di Sicilia, cantiamo cose più grandi! Ritorna la vergine Astrea, ritorna il Regno di saturno e dall’alto dei cieli discende un nuovo figlio…La terra sarà redenta in eterno dalla paura…E anche il serpente morrà”. Leggeva e leggeva, come un assetato beve, in fetta, a sorsate impetuose”.
C’è – è questa la nota più bella del romanzo – una gravidanza della storia quasi che in essa e non fuori di essa accada la salvezza. Quest’attesa viene portata, come in un passaggio di testimone, di generazione in generazione, dal cuore di Elena. Il suo pellegrinaggio che la porterà fino a Gerusalemme per ritrovare il Sacro legno della Croce del Signore è anche un pellegrinaggio interiore. Per usare un linguaggio paolino, Elena e l’impero romano “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto aspettando la redenzione” (cfr Rm, 8,23). Dapprima per il legame filiale che la lega al padre, poi per l’ammirazione verso Ilario e Albano diventa il prototipo dell’umanità nuova che va riconoscendo i segni del Redentore fino al ritrovamento dell’albero della vita. Come se tutte le attese del mondo lì si compissero.
Il libro termina con una profetica affermazione dell’autore che muore nel 1961, ma che pare presagire la triste condizione attuale:
“Elena aveva trovato la verità della croce; Costantino donò al suo regno l’albero della vita; i popoli del mondo peregrinano nel tempo, col messaggio largito all’Occidente”.
Il mondo occidentale ha smarrito non tanto Cristo quanto il desiderio stesso di un Salvatore. Si può smarrire la fede, ma non l’ardente desiderio di un riscatto che non posso darmi da me. Lo smarrimento del desiderio di Cristo è l’esito di un processo che culmina con la sola speranza di codificare, per legge, che il peccato non esista. Ben magra speranza la nostra…

“Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro”. Umberto Saba.

Nel 2007 è passato per lo più inosservato, eccetto che tra piccole cerchie di appassionati e di “addetti ai lavori”, il cinquantesimo anniversario della morte di uno dei più grandi poeti italiani, noto alle generazioni di studenti per alcune poesie, sempre quelle, presenti in tutte le antologie. Chi non ricorda La capra e un’altra sua lirica, dedicata all’amatissima moglie Lina, nella quale, per altro, l’autore la paragona, in modo piuttosto singolare, ad una serie di animali domestici: una gravida giovenca (…e passi…), una lunga cagna (…e si rimane perplessi…) e una bianca pollastra (e questo pare, per lo meno, un po’ offensivo). Ma forse nessuno ci ha aiutato ad entrare veramente nel mondo di Umberto Saba, pseudonimo che significa in ebraico “pane” per il vero cognome Poli, nato a Trieste (1883) e appartenente a quella straordinaria generazione di poeti italiani della fine dell’800, tutti degli anni ’80, Gozzano, Ungaretti, Sbarbaro, Corazzini, Papini, Prezzolini, che animarono e fecero la cultura dell’inizio del XX secolo e che attraversarono, non senza conseguenze, la Grande Guerra. La conoscenza della sua ampia produzione, raccolta da lui stesso nel Canzoniere, è ridotta a pochi versi. Sembra sia stato preso alla lettera, quanto lasciò scritto nell’opera Epigrafe:“parlavo vivo ad un popolo di morti. Morto allora rifiuto e chiedo oblio.”

Ma perché interessarsi a Saba, oggi? Già pare impopolare proporre di leggere “la poesia”, …meglio una bella fiction o uno di quei fantasy da 600-700 pagine (tutti figli di Harry Potter), di cui tracimano librerie e supermercati. Perchè gravarsi della fatica di muovere i passi per il sentiero stretto di un linguaggio, quello lirico, che sempre più ci appare lontano dalle urgenze della realtà? Per di più di un autore che è definito, da molti, un uomo triste? Non ne abbiamo a sufficienza dei nostri privati guai quotidiani? La peculiarità di Saba sta nell’aver intessuto un dialogo tenero ed affettuoso con la realtà e il mondo, in aperta polemica con le tendenze dominanti della cultura italiana, che cercavano l’arte nell’estetismo e nella celebrazione e che avevano, secondo lui, infettato la lingua e la parola di menzogna. Partì per un viaggio alla ricerca della parola che desse voce alla vita, che potesse in modo diretto, naturale, “onesto” farsi più vicina alle cose, agli oggetti, ai visi e ai respiri, che sapesse far risorgere, come dal nulla, paesaggi e gesti precisi, attraverso termini non manipolati, ridondanti o carichi di sovrasensi metaforici, ma semplici nella loro ovvietà e perciò familiari e comuni: Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Solo così l’artigiano del quotidiano”, come il poeta si definì, sarebbe stato in grado di indagare quel mondo che si apriva dentro di sé, portandone in superficie il prezioso segreto: Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Nasce, attraverso questa purificazione, che è a un tempo visiva e linguistica, un linguaggio maggiormente evocativo e catartico: parole, dove il cuore dell’uomo si specchiava – nudo e sorpreso – alle origini.

Semplice fu la vita di Umberto Saba (la mia vita pensosa e schiva), dopo studi irregolari ed un periodo prima a Firenze e poi a Bologna, rientrò a Trieste, dove si dedicò all’apertura di una libreria antiquaria, pur essendo in contatto con grandi uomini della cultura italiana (particolare fu il rapporto di amicizia con E. Montale), rimase abbastanza lontano dai clamori della fama, che gli fu riconosciuta solo dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale la sua origine ebraica lo costrinse a fuggire prima in Francia, poi a Roma e Firenze. Gli argomenti, e personaggi, della sua poesia sono tre, come spiega nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere (esempio unico di un poeta che spiega tutta la propria raccolta): la donna, la venerata Lina, la città di Trieste con i suoi paesaggi di mare, le vie e viuzze in salita, con il suo cielo azzurro come il primo cielo che Dio inarca sulla terra nuova, e infine il poeta stesso. Trieste,come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore, è lo sfondo e il luogo della consapevolezza. Il poeta sperimenta della vita l’asciutta e cruda pasta, affonda le dita nella terra arida dell’inadeguatezza e dell’impotenza: Parla a lungo con me la mia compagna Di cose tristi, gravi, che sul cuore Pesano come una pietra; viluppo Di mali inestricabile, che alcuna mano, e la mia, non può sciogliere. Mai, però, ne rifiuta la pena secreta o il dolore d’uomo giunto a un confine: alla certezza di non poter soccorrere chi s’ama (Confine). Pare che lui intraveda o solo speri che esista in un attimo un sol che brilla. Ma sa riconoscere che Tutto è bello;/ anche l’uomo e il suo male, anche in me quello/ che m’addolora (Il poeta in Preludi e canzonette), così che, rivolgendosi al proprio cuore dal dolore serrato in una morsa, lo interpella:” Quale angoscia non hai viva abbracciata, vivo restando? ” (Cuore) Si respira nei suoi versi una certezza che rasserena, pur nel patimento, che ritrova la pace coi nemici vinti anche in se stessi: La mia vita è tutta così: così me la dipingo, e lieto per l’aperta finestra guardo l’ora – come dentro una bolla di sapone – ricreare gli alberi le case Costruisce un mondo, anzi ricostruisce un luogo, in cui, in un contesto che appare disperato, è ancora possibile rivendicare uno spazio di bellezza, amore, liberazione dall’angoscia ed oppressione del vivere, in cui, senza negare al fondo un dolore, sia possibile risalire alla creaturalità originale, non il morbido ed ovattato rifugio nella nostalgia dell’età perduta, ma l’aspirazione ad una concreta felicità, che nulla censura.

Una parte della critica ha interpretato come chiavi di lettura della sua opera e della sua vita, il ricordo della fanciullezza non felice e la rievocazione della dimensione infantile, accentuando una sofferenza psichica, che Saba visse, e la successiva scoperta della psicanalisi. In realtà la sua nevrosi tocca il punto vivo dell’autenticità, il nervo scoperto di chi è indagatore del vero, smascherando finzioni e artifici della realtà, restituendola nuda, densa e silenziosa. Questa pacificata accettazione della vita con le sue durezze i suoi pendii e le improvvise svolte non può non interrogare il lettore, che scopre, lungo la strada di Saba, non solo passi autobiografici e personali dell’autore, ma scorge anche scorci della propria esistenza. Sembra che il poeta sia sceso così profondamente in sé, da ritrovare le sensazioni, gli umori, le passioni e i sentimenti dell’uomo in quanto tale. E il verso che scivola così fluido e pieno della vita che racconta, lentamente, ma inesorabilmente attrae con la sua disarmante semplicità e concretezza. Lui stesso ce lo svela nella prima lirica (Lavoro) della raccolta, che intitola, visto il passare del tempo, Ultimissime: Un tempo la mia vita era facile. La terra mi dava fiori frutta in abbondanza. Or dissodo un terreno secco e duro. La vanga urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro. Il coraggio di questa ricerca, “l’avidità di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza”(così gli scriverà in una lettera personale Primo Levi), è la peculiarità del suo paziente e silenzioso osservare e riflettere, un inesausto lavoro ed amore alla vita. È la ricerca del vero tra le pieghe dei fatti quotidiani, i contrattempi e le pause, i silenzi e gli incontri, fino, come scrive in una delle sue innumerevoli prose, al cuore delle cose.

 Non stupisce allora ritrovare proprio nelle lettere, che Saba si scambiò con l’amico Giovanni Fallani, vescovo e noto studioso di Dante, una ricerca spirituale sofferta. Sono gli anni in cui il poeta perde la venerata moglie e viene colpito dalla malattia. In questo epistolario (1952 – 1957 fino ad un mese prima della morte) emerge tutta la sua passione per ciò che è umano, la sua solitudine, ma anche la sua aspirazione al divino: sia quando, dichiarando ormai invivibile il mondo, esplicita il desiderio, se fosse possibile, di ritirarsi in un convento, sia quando confida di aver invitato la moglie malata, prossima alla morte a “baciarsi in Gesù” e di aver recitato alle esequie della moglie, lui ebreo, il Padre Nostro, con lo scandalo dei presenti, oppure quando dice di figurarsi il mondo come una montagna sulla cui cima si erge la Croce. Manifestò all’amico vescovo anche la volontà di ricevere il battesimo, pur nella consapevolezza di non avere una fede ancora matura sulla divinità di Cristo. A chi ama l’opera poetica di Saba non pare inatteso un epilogo della sua vita segnato dal desiderio della Verità che giace al fondo. Non è difficile immaginarsi il vecchio Saba, che passeggia per le vie della sua amata Trieste, in una di quelle limpidissime mattine ventose, in cui la forza dell’aria spazza via tutto ciò che essenziale non è, lasciando più puro lo sguardo, più autentico il passo successivo. Sul tardi/ l’aria si affina e i passi si fanno / leggeri/ Oggi è il meglio di ieri,/ se non è ancora felicità.

T. Scandroglio, “La legge naturale” (Fede & Cultura)

La Chiesa italiana richiama sempre più spesso i politici cattolici, ma anche i semplici fedeli come tutti noi, al dovere di promuovere comportamenti e provvedimenti pubblici improntati al rispetto della “legge naturale”. In quanto inscritta nel cuore di ogni uomo e derivabile dalla sua stessa natura razionale, la legge naturale non costituisce affatto un dogma di fede: si tratta, al contrario, di un’istanza riconoscibile con la sola ragione, e dunque strettamente vincolante anche per i non cattolici. Di qui l’invito pressante, anzi l’obbligo formulato dalle gerarchie ecclesiastiche, di valorizzarla e sostenerla con forza anche a livello di discorso pubblico. Si pone, però, un problema: quanti, tra gli stessi cattolici, sono a conoscenza del processo di fondazione razionale che conduce alla specificazione dei vari obblighi inerenti alla legge naturale? ? lecito pensare che siano molto pochi. Per porre rimedio a questa situazione, un giovane studioso di filosofia del diritto come Tommaso Scandroglio ha recentemente pubblicato un agilissimo volumetto dal titolo La legge naturale. Un ritratto (Fede & Cultura). In esso si espone in modo molto semplice e con dovizia di esempi la dottrina tradizionale classico-cristiana sul diritto naturale, rifacendosi in particolare alle cristalline argomentazioni del doctor communis, San Tommaso d’Aquino. Scandroglio semplifica e chiarisce ad uso di chiunque i concetti di “legge eterna” (di cui la legge naturale è “partecipazione nella creatura razionale”), “coscienza”, “precetto morale”, “diritto positivo” e molti altri ancora, fornendo uno strumento utilissimo alla battaglia culturale in cui ogni cattolico si trova oggi impegnato. In assenza di una fondazione complessiva, infatti, le singole argomentazioni morali (circa l’aborto o l’omosessualità, ma anche l’obbligo o meno di pagare le tasse…) rischiano di cadere nel vuoto di presupposti non condivisi, o intravisti solo a stento dai nostri interlocutori e persino da noi stessi. ? dunque altamente consigliabile la lettura di questo libricino, il cui merito principale è forse quello di ricordarci che lo scopo della morale non è quello di “tarpare le ali” all’uomo, ma quello di condurlo alla plenitudo essendi, alla piena realizzazione della sua natura: in altre parole, alla felicità. Prefazione di Mario Palmaro.

Cfr. http://www.fedecultura.com/2007/10/la-legge-naturale-tommaso-scandroglio.html

Un poeta non credente, Guido Gozzano, e una sua poesia per Natale.

– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.

Presso quell’osteria potremo riposare, ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca lentamente le sei.

 – Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio? Un po’ di posto per me e per Giuseppe?

– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

 Il campanile scocca lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi? Mia moglie più non regge ed io son così rotto!

– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi: Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca lentamente le otto.

– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno avete per dormire? Non ci mandate altrove!

 – S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca lentamente le nove.

Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella! Pensate in quale stato e quanta strada feci!

– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella. Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca lentamente le dieci.

Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname? Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due? – Che freddo! – Siamo a sosta

 – Ma quanta neve, quanta! Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…

Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca La Mezzanotte Santa.

È nato! Alleluja! Alleluja! È nato il Sovrano Bambino. La notte, che già fu sì buia, risplende d’un astro divino. Orsù, cornamuse, più gaje suonate; squillate, campane! Venite, pastori e massaie, o genti vicine e lontane! Non sete, non molli tappeti, ma, come nei libri hanno detto da quattro mill’anni i Profeti, un poco di paglia ha per letto. Per quattro mill’anni s’attese quest’ora su tutte le ore. È nato! È nato il Signore! È nato nel nostro paese! Risplende d’un astro divino La notte che già fu sì buia. È nato il Sovrano Bambino. È nato! Alleluja! Alleluja!

La grande aspirazione.

Una splendida poesia di Giovanni Pascoli sull’uomo.

“La grande aspirazione”

I Un desiderio che non ha parole v’urge,
tra i ceppi della terra nera e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera, alberi schiavi!
Dispergendo al cielo l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo dentro la terra,
sembra che v’accori un desiderio senza fine anelo.
– Ali e non rami! piedi e non errori ciechi di ignave radiche!
– poi dite con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite solco d’odore;
vedo voi lontano cennar con fiamme piccole, infinite.
E l’uomo, alberi, l’uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano, noi nostri fiori, voi vostre parole.

I crepuscolari e la modernità.

Se il poeta è colui che porta alla luce, dall’abisso dell’interiorità, ciò che di più essenziale, di più umano vi è in noi, egli non può fare a meno di parlare di Dio. Non gli è possibile. Non sarebbe vero poeta. Sarebbe, al più, un abile verseggiatore, o un venditore di illusioni.

La poesia moderna, umanista, inizia con Petrarca: l’uomo che ama, di un amore troppo carnale, Laura, e l’alloro, la fama e l’onore mondani, alla fine torna a Dio, insoddisfatto, chè la vita gli mostra ogni istante che "quanto piace al mondo è breve sogno". Nel secolo passato, della decadenza, dell’ateismo e del sangue, i costruttori della felicità politica non sono mai poeti: al contrario, giornalisti, saggisti, polemisti…

Scrivono il Mein Kampf, editoriali della Pravda o del Popolo d’Italia, il libretto rosso, esattamente come gli illuministi producevano saggi, enciclopedie, utopie, ma poca poesia e poca arte. Amore, vita, morte, felicità, le uniche cose che contano, vengono accantonate: si discute di economia, rivoluzione, potere… L’orizzonte è sempre e solo terreno, come se Dio, il Mistero, non ci fosse; come se loro stessi fossero Dio. I veri poeti no. Per loro, se Dio non c’è, è finita: regna l’assurdo. Vivono magari nella stessa temperie culturale, prostrati dallo stesso nichilismo, dal medesimo dubbio, dei loro contemporanei, ma non si lasciano comprare da un senso religioso, quello ideologico, adulterato e fasullo, né da speranze meramente terrene. Pensiamo a Leopardi: le "magnifiche sorti e progressive" dell’illuminismo suscitano in lui un profondo disprezzo. Aspira a "interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete", all’infinito del mare… I suoi sono "desideri infiniti", cui cerca una soddisfazione mondana, ma rendendosi sempre conto che non basta. Leopardi aspira a Dio, e lo rifiuta, ma non sostituisce mai, all’Eterno, né se stesso, né il mondo. Per lui infatti "il fine dell’uomo, il suo sommo bene, la sua felicità non esistono"; eppure il cuore "cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose" (Zibaldone). Leopardi, come scrive Divo Barsotti, "non vive che per domandar conto di sé, per chiedere la ragione della sua vita". Alza gli occhi alla luna, e li abbassa alla terra, e poi di nuovo, di continuo. E’ imbevuto di filosofie atee, sensiste, ma non cessa mai di inquietarsi. Non si rassegna ad essere materia inerte, senza scopo. Non lo farebbe neppure se qualcuno gli spiegasse, "scientificamente", che è solo un "refuso" della natura, un evento "casuale", un animale "evoluto".

Così è il cuore: se Dio non c’è, tutto perde significato, e rimane solo "l’infinita vanità del tutto". Per questo tante volte in Leopardi "l’infelicità si fa parola di accusa come in Giobbe, ma più spesso, forse, inconsapevole e segreta preghiera": "Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai?". Qualcosa di simile accade anche ai crepuscolari, all’inizio del Novecento. Le promesse e i dogmi del positivismo, l’esaltazione del futurismo, l’interventismo messianico, la religione nazionalista, il nascente contrapporsi tra rossi e neri, sono per loro, da subito, vano agitarsi di sciocchi: a nessuna di queste speranze, da poco, si aggrappano per trovare la salvezza, quella vera. I poveri e tristi crepuscolari vedono spesso molto più in là di tanti contemporanei, osservano disincantati la malattia del secolo, lo smarrirsi dell’uomo: "non so che triste affanno mi consumi/ sono malato e nei miei dì peggiori". Sono versi di Guido Gozzano, il poeta che ha bevuto il "veleno dannunziano": si è nutrito del superomismo, dei versi altisonanti, senza contenuto, puro colore e suono, usciti dalla penna e non dal cuore di D’Annunzio, e ha sognato per sé amori straordinari, "attrici e principesse".

Ma si è accorto che questo desiderio di costruirsi una vita "divina", di essere ad un tempo il popolo che attende ed il Messia che salva, di creare con le parole una splendida cornice al vuoto di significato, inaridisce il cuore e la mente: porta ad una "vita sterile, di sogno", alla delusione più cocente. Sono tristi, questi poveri crepuscolari, che ci parlano spesso di candele consunte, di conventi, di vecchie suore e di chiese buie e deserte. Riconoscono il crepuscolo, anche quello della fede, e ripetono, come Leopardi, la domanda essenziale: "Ed io che sono?". Consapevoli del vuoto, chiedono, come Sergio Corazzini: "perché tu mi dici poeta?". Non aver niente da dire, su di sé e sul mondo, di certo, di vero, di bello: questo è il loro cruccio, la consapevolezza che senza Dio ogni passo è perduto, ogni parola inutile.

La storia di un altro Novecento…Eugenio Corti.

Gli scrittori impegnati sono fuori moda: passati i postumi del ’68, il tramonto dei Moravia, dei Vittorini e dei Calvino è inesorabile e la letteratura italiana va verso la dolorosa prova dell’analfabetismo di ritorno. Tuttavia, se i giovani di dopodomani leggeranno ancora, scopriranno i libri di Eugenio Corti: avranno cioè oltrepassato il deserto dei falsi maestri e la filosofia del "Dio, se c’è, non c’entra".

Le responsabilità del crollo culturale andrebbero suddivise tra numerosi complici: intellettuali, giornali, editori, artisti, docenti. Sarebbe un gioco al massacro, un passatempo per cattivi maestri, pronti a sfuggire al proprio compito di ricostruire il tessuto civile italiano ed europeo. Il deserto verrà, è già venuto, nella prosa brutale della televisione, nella fatuità di tanto cinema, nel danno dei libri vuoti e presuntuosi. Ci sono anche autori che dedicano la vita all’arte, alla riconciliazione, all’edificazione dei lettori: agiscono nell’ombra, perché la "repubblica delle lettere" li giudica troppo luminosi.

Tra costoro, nell’operosità della sua casa di Besana Brianza (dove è nato nel 1921) Eugenio Corti vive una stagione di creatività: lavora a un romanzo storico su Catone e riceve visite di lettori, soprattutto giovani. Ospite del Meeting di Rimini, dove nell’agosto del 1999 è avvenuta una parziale messinscena della sua tragedia Processo e morte di Stalin, vanta migliaia di lettori che gli scrivono per confortarlo: è uno scrittore ispirato da intelletto d’amore. Finalmente anche in Italia si riconosce il suo valore: il 27 ottobre scorso, Corti ha ricevuto il "Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica", assegnategli dalla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, già tributato a studiosi del calibro di Del Noce, Ratzinger. Biffi, Messori, Giussani. L’ arte di narrareAll’uscita de II cavallo rosso, nell’83, i critici parlarono di "romanzo epico e corale": le edizioni Ares di Cesare Cavalieri avevano pubblicato il manoscritto (milleduecento pagine che i grandi editori avrebbero sfrondato) in tempo per consegnarlo a Giovanni Paolo II in visita in Brianza.

Si parlò di un nuovo Guerra e pace, de II mulino del Po di Bacchelli o del film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli. Straordinaria l’accoglienza dei lettori di ogni estrazione: dieci anni dopo, un sondaggio di "Avvenire" rivela che è Corti lo scrittore cattolico più amato.

Il cavallo rosso, oggi alla tredicesima edizione, circola nel mondo tradotto in spagnolo, lituano, francese, rumeno e inglese: il suo autore condivide destino e magistero con il dissidente Aleksandr Solgeniçyn e indica nell’arte del romanzo una delle vie d’uscita dalla condizione del post-comumsmo. Già due generazioni di lettori si sono affezionate ai personaggi cortiani, nei ritratti che costituiscono dei veri capolavori: cento storie delle quali ognuno segue quella che più gli sta a cuore, sino alla fine. Ma per Corti la morte è morte cristiana cioè una porta aperta su altro. Ecco, è questo senso di una vita oltre la vita, questa percezione completa della promessa di Cristo nel cui regno "c’è tanto posto", a dare carne e sangue alla scrittura: le figure uscite dalla penna dell’autore restano impresse. Don Carlo Gnocchi, padre Gemelli, il comandante partigiano Marco (alias Alfredo di Dio), Mario Apollonio, John Burns, Nilde Jotti, Palmiro Togliatti, sino agli sconosciuti Pierello, Igino, Giulia e Gerardo (patriarca della famiglia Riva, autodidatta, rileggeva sempre il medesimo romanzo, I promessi sposi), alle dolci Colomba e Alma, all’indimenticabile Manno Riva: è la storia di una famiglia, e va dritta all’anima. Processo e morte del comunismoL’élite europea contemporanea, però, ha il cuore inaridito. Solgeniçyn disse, in occasione del Premio Templeton, che "il mondo è giunto oggi a un estremo: se lo si fosse rappresentato alle generazioni dei secoli precedenti, avrebbero sospirato unanimi "l’Apocalisse!". Ma noi ci siamo abituati". Aggiunse poi il punto finale della profezia: all’impatto dell’ideologia comunista è impossibile resistere con le semplici armi del liberalismo, cioè privi della dimensione morale e spirituale. Corti vide il socialismo reale con i suoi occhi, da soldato, durante la campagna dell’inverno ’42-’43 con l’ARMIR; poi, reduce, lo studiò al punto da divenirne conoscitore-avversario: la vocazione di scrittore gli impose di combattere con l’arma dell’arte e della vita. Ne II cavallo rosso le vicende di Michele Tintori (personaggio-controfigura dell’autore) dal gulag di Crinovàia alle elezioni del 18 aprile 1948 rappresentano la scelta di una politica cristiana contro la minaccia di "rivoluzione" preparata dal Fronte Popolare. Eppure, nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, un anticomunismo filosoficamente fondato non fu possibile. L’impostazione dell’antifascismo impedì un serio confronto concettuale e mutilò il naturale sviluppo del Paese sulla base della risoluzione degli errori del passato. Le limitazioni imposte agli autori "non organici", cioè in lotta contro l’egemonia "gramsciana" furono drastiche: si veda il caso del filosofo Augusto Del Noce e del teologo Cornelio Fabro. Uno scrittore tra bellezza e riconoscenzaGià nel toccante diario della ritirata di Russia I più non ritornano (1947), Corti, giovane ufficiale, era sembrato un promettente narratore. Da quell’esperienza terribile, la sua firma resterà per sempre riconoscibile, quella di un uomo che vive e scrive tra bellezza e gratitudine. Lo si nota in altri romanzi. Gli ultimi soldati del re (1951-1994), e nei "racconti per immagini".

La terra dell’indio (’98) e L’isola del paradiso (’00), già pronti in forma di copione per essere portati sullo schermo. Anche l’opera teatrale Processo e morte di Stalin (1962) mostra la decomposizione necessaria dell’utopia comunista solo per aprire un varco nell’animo. Nella crisi degli anni ’60 e ’70, i saggi sulla chiesa cattolica raccolti ne II fumo nel tempio (’96) sono mattoni per le fondamenta di una pastorale che verrà, non modernista. Oggi leggere o rileggere Corti significa desiderare la ricostruzione della cultura cristiana. L’autore stesso descrive questo nostro comune compito di edificatori: "Più tardi, come già le sere precedenti, nella nostra casetta recitammo tutti insieme il rosario. Anche i pochissimi che erano stati increduli. E non per confusa paura: in quei giorni si sentiva il Soprannaturale così vicino al Naturale, che volerne negare l’esistenza sarebbe stato come voler negare l’esistenza di cose materiali e presenti: della neve fuori, oppure del fuoco che scoppiettava sordamente nella stufa, dandoci nostalgia di un po’ di pace, o di noi stessi". Attenzione, dunque: chi ascolta una conferenza di Corti rischia di essere invaso dalla gratitudine, verso la vita, verso Dio, verso i propri genitori o verso questo scrittore brianteo dall’aria coraggiosa e serena. Nel panorama delle lettere, un caso più unico che raro. (Andrea Sciffo)

Monaldo Leopardi, un uomo ingiustamente calunniato.

Quando si legge un commento critico sulla poesia e la vita di Giacomo Leopardi, immancabilmente il suo pessimismo viene collegato, almeno in parte, alla presenza, truce e severa, di suo padre Monaldo: un uomo troppo rigido, “reazionario”, di idee vetero-cattoliche, “che tendeva ad isolare il figlio dal resto della comunità recanatese” (Guglielmino). La realtà è affatto diversa. Anzitutto perché Giacomo non fu gravato dal peso della religiosità cattolica e del pensiero di antico regime, ma al contrario fu uomo straordinariamente aperto alle novità di pensiero che gli giungevano dalla Francia e dalle filosofie più moderne. Il suo pessimismo, per quanto determinato, in parte, anche da eventi specifici della sua vita, nasce e si irrobustisce nel tentativo di sviscerare sino in fondo le conseguenze logiche di quel pensiero materialista e sensista, nuovo di zecca, e per nulla reazionario, che egli accettava come un dogma, come un postulato indiscutibile, al pari di molti intellettuali dell’epoca. Scriveva infatti nelle sue riflessioni: “Che la materia pensi è un fatto”. Tutto il pensiero di Giacomo può essere così riassunto nella “teoria del piacere”: l’uomo aspira ad un bene, una felicità infinita, e questa aspirazione, lungi dall’essere segno della vocazione eterna e divina dell’uomo, del suo essere fatto per Dio, come nella riflessione cattolica, diviene nel poeta constatazione di una condizione umana assurda, intimamente contraddittoria e lacerante. Se infatti il cuore umano desidera grandi cose, piaceri che durino, felicità non effimere, perché poi ogni piacere materiale, l’unico concepibile in un’ottica che escluda l’eterno, si rivela illusorio, breve, limitato nella sua intensità e durata? L’infelicità di Giacomo è dunque tutta qua, e inasprisce nel momento in cui, con coerenza assoluta, il poeta finisce per rinnegare, dopo la ragione, anche l’amore. Così l’ultimo Leopardi diventa aggressivo, violento, contro i “fratelli” illuministi e materialisti, che negato il paradiso nel cielo, credono con grande incoerenza di poterne costruire uno sulla terra; e contro i cristiani, che nell’aspirazione del cuore umano, con un ottimismo infantile, vedono un segno della sua grandezza e del suo destino. Cosa c’entra, in tutto questo, il padre Monaldo? E chi era quest’uomo, così ingiustamente calunniato? La risposta è in un brillantissimo saggio di Lidia Zawada, pubblicato ad introduzione del “Catechismo filosofico” di Monaldo (Fede & Cultura). Monaldo, in realtà, come testimonia la figlia Paolina, era un uomo “buonissimo, di ottimo cuore”, anche nei confronti di Giacomo, con cui pure discordava, che si trovò a vivere l’invasione napoleonica e il diffondersi delle idee illuministe. Nel 1796, coll’arrivo dei francesi a Recanati, cercò di scongiurare saccheggi e violenze inviando ben ventitré carri di vettovaglie per placare gli invasori. Liberata Recanati dagli Insorgenti, fu acclamato dalla popolazione governatore della città: accettò l’incarico, al fine di limitare le vendette e gli scontri intestini, tra i francesizzanti e i loro avversari. Col ritorno di Napoleone Monaldo rifiutò di assumere l’incarico di podestà di Recanati: accettandolo, “avrebbe dovuto strappare ogni anno alle loro famiglie trenta coscritti recanatesi e inviarli a combattere e morire nell’esercito napoleonico”. Per un reazionario come lui, l’esercito di massa, la guerra totale, le invasioni di Napoleone, non erano concepibili. In tanti anni di vita pubblica nella sua città, Monaldo costruì a sue spese un teatro comunale, introdusse l’illuminazione notturna a Recanati, si occupò della viabilità e della bonifica dei terreni incolti, portò nello Stato Pontificio la vaccinazione jenneriana, “insegnandola personalmente ai medici e rendendola infine obbligatoria insieme all’introduzione di migliorie nell’educazione sanitaria e nell’igiene pubblica”… Apertissimo alle novità scientifiche, al progresso, Monaldo non lo fu mai, per nulla, al materialismo, al nazionalismo, all’indifferentismo filosofico, all’assolutismo di quei tempi. Non certo per ignoranza: la sua biblioteca era immensa, con un intero scaffale dedicato ai libri proibiti, aperta “filiis amicis civibus”. Monaldo scrisse catechisimi filosofici, a difesa del pensiero cattolico tradizionale, dialoghetti brillanti e celeberrimi in tutta Europa, e fondò addirittura un giornale, “La voce della Ragione”: riteneva che la ragione stesse dalla parte dei “reazionari” come lui, che la considerano un immenso dono di Dio, e non di coloro che, proclamatisi suoi paladini, la abbassano al livello della materia.