“I Dialogi”: l’esempio di San Benedetto da Norcia

“I Dialogi” sono l’unica opera agiografica di papa Gregorio I Magno (590-604). Sono stati composti tra il luglio del 593 e il maggio del 594 su richiesta dei suoi confratelli al monastero di S. Andrea sul Celio, da lui fondato alla morte del padre. Il titolo completo dell’opera sarebbe “Dialogi de vita ed miraculis patrum Italicorum et de aeternitate animorum”, appunto perché il testo è volto a dimostrare che anche in Italia – come nel fiorente oriente – ci sono figure di Santi e che l’anima ha una vita dopo la morte, fatto attestato, per esempio, dai miracoli compiuti attraverso le reliquie. L’opera ha una struttura dialogica: il diacono Pietro ha il ruolo importantissimo di incalzare il racconto e di chiedere spiegazioni, qualora vi sia qualcosa che non lo convince: in questo modo Gregorio riesce ad inserire, accanto alla narratio, anche una parte di expositio, in cui fornisce insegnamenti morali, dottrinali ed ecclesiastici.
“I Dialogi” constano di quattro libri; il primo e il terzo riportano un insieme di miracoli o di opere virtuose compiute da santi italiani pressoché contemporanei a Gregorio Magno, con l’unica eccezione nel III Libro di Paolino di Nola (355-431). Il secondo libro è interamente dedicato alla figura di S. Benedetto da Norcia (480-547ca): nel Prologo il papa espone brevemente i punti salienti della biografia del Santo, soffermandosi sulla sua conversione e sulla decisione di abbandonare il mondo, le ricchezze paterne e gli studi (fatto, questo, sottolineato con un doppio ossimoro di grande effetto letterario: Benedetto, “soli Deo placere desiderans, […] recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus” Prologo, 13-15). Nei capitoli successivi, Gregorio Magno narra alcuni miracoli compiuti da Benedetto e che lui ha appreso da fonti certe: si va dai miracoli prettamente pratici (che raggiungono il culmine con la resurrezione del figlio di un contadino, nel capitolo 32) a miracoli spirituali, quali il discernimento delle anime, le profezie storiche e le visioni. Solo nel capitolo 36, vi è un breve accenno alla “Regola” scritta da Benedetto: Gregorio la nomina in maniera funzionale per dire che chi vuole conoscere meglio la vita del Santo basta che legga questo suo unico scritto, perché egli fu perfettamente coerente nel dire e nell’agire.
Il quarto ed ultimo libro esula dall’argomento prettamente agiografico, perché analizza il tema della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Gregorio affronta questo argomento per confortare il popolo, per assicurare che non c’è nulla di cui avere timore: se ci si comporta in modo pio, Dio ha in serbo per tutti la vita eterna.

Riporto qui sotto un estratto del II Libro, in cui Benedetto incontra la sorella Scolastica e pochi giorno dopo vede la sua anima ascendere al cielo.

33. Il miracolo di sua sorella Scolastica

Gregorio: Credi, Pietro, che al mondo ci sia stato uno più degno di Paolo? Eppure egli supplicò tre volte il Signore per essere liberato dallo stimolo della carne, e non riuscì ad ottenere quanto voleva. Perciò è necessario che io ti racconti come ci fu una cosa che il venerabile Benedetto desiderò, ma non gli fu concesso di ottenerla.

Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero.
Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto. Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: “Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo… “. Ma egli le rispose: “Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero”.
La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube. Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione.
La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia.
L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: “Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?”. Rispose lei: “Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero”.
Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.
Con questo racconto ho voluto dimostrare che egli ha desiderato qualcosa, ma non riuscì ad ottenerla. Certo, se consideriamo le disposizioni del venerabile Padre, egli avrebbe voluto che il cielo rimanesse sereno come quando era disceso; ma contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna.
E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: “Dio è amore”; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più!
Pietro: confesso che mi piacciono moltissimo questi racconti.

34. L’anima di sua sorella vola al cielo

Gregorio: il giorno seguente tutti e due, fratello e sorella, fecero ritorno al proprio monastero.
Tre giorni dopo Benedetto era in camera a pregare. Alzando gli occhi al cielo, vide l’anima di sua sorella che, uscita dal corpo, si dirigeva in figura di colomba, verso le misteriose profondità dei cieli. Ripieno di gioia, per averla vista così gloriosa, rese grazie a Dio onnipotente con inni e canti di lode, poi andò a partecipare ai fratelli la sua dipartita. Ne mandò poi subito alcuni, perché trasportassero il suo corpo nel monastero e lo seppellissero nel sepolcro che egli aveva già preparato per sé.
Avvenne così che neppure la tomba poté separare quelle due anime, la cui mente era stata un’anima sola in Dio.

Marco Andreolli, “Se mai potrai capire” ed. Marietti 2010

“Un padre, storico leader comunista, in punto di morte rivela al figlio l’esistenza di un diario segreto, nel quale la gloria e la purezza dell’ideale comunista vengono irrimediabilmente macchiati da una serie di atti infami, commessi al tempo in cui la famiglia si trovava rifugiata in Unione Sovietica…” (dalla Postfazione di Luca Doninelli)

Dan Brown e la massoneria

Mr. Dan Brown ha già ottenuto uno strepitoso successo anche con l’ultimo libro, Il simbolo perduto.

 Il successo, lo ricordiamo tutti, era arrivato con Il codice da vinci, un best seller incredibile, che ha fatto di Brown uno degli uomini più ricchi del mondo. Ma è adesso, col nuovo libro, che è finalmente completo il pensiero dell’autore: per lui la Chiesa, che è pubblica e non ha nulla di segreto, avrebbe segreti inconfessabili, e omicidi svariati per mantenerli, e sarebbe una perfida macchina da oppressione, mentre la Massoneria, al centro de Il simbolo perduto, che è per definizione una società segreta, sarebbe sì segreta, ma non avrebbe nulla, in verità, da nascondere, essendo solamente una organizzazione filantropica tesa al vivere civile e pacifico.

 In una conferenza stampa a Milano l’8 dicembre, Brown ha espresso il suo pensiero, a cui mi sembra sia stato dato ben poco rilievo, benché in verità la cosa avrebbe dovuto suscitare maggiori interessi. Essa infatti chiarisce finalmente la sua formazione massonica o filo massonica, confusamente esoterica ed anti-cristiana, già visibile ne Il Codice da Vinci.

Ecco una breve rassegna stampa sulle dichiarazioni di Brown: D. Brown:

Ah, se durante le mie ricerche avessi trovato un solo documento che denunciasse che i massoni hanno commesso delle malefatte, l’avrei scritto a chiare lettere. Invece ho sempre trovato massoni aperti e tolleranti. Questo è un bene, in un mondo dove spesso ci si uccide perché si tiene troppo alla propria versione della verità. Nella Massoneria, invece, vi sono le persone più diverse, ma tutti si chiamano fratelli! Dopo Il simbolo perduto mi hanno fatto capire che le porte erano spalancate anche per me, ma sapete – e qui Dan fa l’occhiolino – mi hanno chiesto un giuramento sulla segretezza, e a me i segreti piace svelarli, mica conservarli».Il Giornale, 9 dicembre 2009

«Ma noi negli Stati Uniti abbiamo una idea diversa, meno sporca rispetto alla vostra, dei liberi muratori. I quali riescono a convivere e chiamarsi fratelli pur essendo di origini, di religione, di credo politico diversi. Non è una cosa da poco». Il Messaggero 9 dicembre

Lei critica la Chiesa cattolica nel Codice e in Angeli e demoni, e esalta la massoneria nel Simbolo perduto. È la sua posizione anche fuori dei romanzi? «La Chiesa cattolica ha fatto tonnellate di cose buone, e alcune meno buone. Quando ho cominciato a fare ricerche sui massoni ha scoperto gente con una mentalità davvero aperta. Voi la pensate diversamente, ma la massoneria da noi è così». La stampa 9 dicembre

Mr. Brown, cosa l’affascina della massoneria? «Conosco le storie della P2 e della vostra massoneria, ma il concetto massonico che avete in Italia è molto diverso da quello americano. Oggi tutti si ammazzano perché ognuno crede in un dio che reputa il migliore. Ognuno ha una visione diversa del proprio dio. Allora la massoneria ha riunito ebrei, cristiani, musulmani e altri religiosi, esortandoli a dimenticare la semantica e a capire che, se tutti crediamo in un essere superiore, tutti siamo fratelli. Credo che questo sia un approccio molto giusto verso le varie religioni». Il Tempo 9 dicembre

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”

“Finita, / è finita. / La nostra favola è finita. / Semplice e tragico: / è finita. / Tutto qua”.

Era da un po’ che non risentivo Uno, la title track dell’omonimo album dei Marlene Kuntz datato 2007. Un bellissimo pezzo: denso, amaro, struggente. Tutti, chi più chi meno, possiamo riconoscerci in quell’ipnotizzante ritornello:

“C’è qualche cosa di sbagliato nell’amore, / c’è che quando finisce porta un grande dolore… / perché quando un’amicizia muore non c’è / questo spasimo che sa di tremenda condanna”.

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”. Intendendo per amore quello tra uomo e donna, vi è davvero in esso, post peccatum, “qualche cosa di sbagliato”. Liti, sopraffazioni, disarmonie, incomprensioni, abbandoni: percepiamo, in tutto questo, una dolorosa deviazione dall’ideale, la violazione di un “dover essere” che si dimostra stranamente inattingibile.

Ho sentito dire, e mi trovo d’accordo, che lo stato normale dell’uomo è l’innamoramento. Siamo fatti per essere innamorati: innamorati di Dio. L’uomo che non si innamora di Dio è l’essere più monco e irrealizzato della terra: una larva grigia che non conosce i colori.

L’amore umano, l’innamoramento tra creature diverse e complementari come l’uomo e la donna, è stato progettato per essere metafora di quell’amore più grande che è l’Amore divino. Sicuramente è per questo che, dopo il peccato e l’allontanamento da Dio, tendiamo a trasferire sull’amore umano la nostra fame di assoluto.

“Se penso a quelle cose che morranno perché / non potremo più condividerle… / muoio anch’io”.

“Muoio anch’io”: cioè muore in me la mia essenza, se viene meno l’oggetto del mio originario e strutturale “essere innamorato”. La fine di un amore umano, nella misura in cui esso non è stato subordinato e finalizzato all’Amore divino, è sempre un disinganno: scopro di aver assolutizzato il relativo, ed ora al mio slancio mancano appigli.

“…questo è il mio tormento, la mia fatalità / il motivo della fine della favola…”.

Eugenio Corti, scrittore e testimone del Novecento

Gruppetti di studenti universitari vanno regolarmente a trovarlo. Si inerpicano per le viuzze tortuose che salgono al centro di Besana Brianza e suonano al campanello della grande villa. Edificata agli inizi del secolo scorso, era in origine sede di una manifattura tessile, una delle mille che hanno fatto la ricchezza di quest’angolo di Lombardia; ma la posizione era troppo invitante, negli anni Trenta è stata riadattata ad abitazione.

Viene ad aprire la moglie, la signora Vanda. Se l’aria è limpida, come in certe gior-nate vitree d’inverno, dalla balconata che delimita il grande parco si vedono i colli briantei digradare verso il piano, poi laggiù il profilo del Duomo, a chiudere l’orizzonte tutto l’arco dei monti dalle Prealpi lariane fino agli Appennini. Lui, Eugenio Corti, aspetta in casa.

Da quando gli hanno tolto un tratto della vena safena per rattoppargli il cuore le gambe fanno i capricci, cammina a fatica, a passi brevissimi, strascicati. Ma orgogliosamente senza bastone, lui che a piedi ha fatto migliaia di chilometri avanti e in-dietro per la steppa russa, riuscendo a riportare indietro la pelle sua – “un miracolo della Madonna”, ci dirà più avanti – e di molti dei soldati che gli erano affidati.

Che cosa vengono a cercare questi figli del Duemila a casa di Eugenio Corti, classe 1921, sottotenente di artiglieria della divisione Pasubio durante la campagna di Russia, poi autore di libri tanto venduti quanto sistematicamente ignorati dalla critica ufficiale (in testa a tutti “Il cavallo rosso”, giunto ormai alla ventiquattresima edizione, poi “I più non ritornano” – diciassette edizioni -, per finire con “Il Medioevo e altri racconti”, fresco di stampa, l’occasione che ci ha condotto a incontrarlo)?

Vengono a incontrare un testimone del Novecento. La domanda che prima o poi tutti mi fanno è ‘ma come ha fat-to lei, che ha visto tutti gli orrori del Novecento, a non perder la fede?’ Ma è proprio perché ho visto, ho toccato con mano le bestialità delle ideologie che pretendono di sbarazzarsi di Dio, rispondo sempre, che la mia fede si è confermata, rafforzata”.

La fede cristiana, il piccolo Eugenio l’aveva succhiata col latte: famiglia di solida tradizione cattolica, dieci tra fratelli e sorelle; uno, gesuita, è ancora missionario in Ciad, un altro è stato a lungo medico in Uganda. Le scuole, naturalmente, dai preti, i domenicani del collegio San Carlo, a Milano. Disciplina dura, rigorosa. E’ qui che Eugenio scopre la sua vocazione, la scrittura: “E’ stato in prima ginnasio, leggendo Omero. «Io voglio fare come lui», mi dissi allora. Perché Omero trasforma tutto ciò di cui parla in bellezza. E da allora sono sempre stato fedele a quella intuizione”.

La letteratura non sembra però una professione affidabile, meglio qualcosa di più solido: nel settembre del 1940 – con lo scoppio della guerra, il 10 di giugno, non ha neppur fatto gli esami di maturità – il giovane si iscrive a giurisprudenza, sempre a Milano, Università Cattolica. Qui avviene l’episodio destinato a segnarne la vita. “Lei capirà, dopo anni di disciplina feroce, l’università era una boccata d’aria fresca, di libertà. Frequentavo poco i corsi, preferivo bighellonare per i chiostri. La mia meta preferita era la biblioteca. Studiavo legge, ma il mio sogno era comunque diventare scrittore; così leggevo tutto quel che mi sembrava utile allo scopo. Mi ero fatto una cultura sulle teorie estetiche e letterarie, e lì avevo incontrato Jacques Maritain; poi avevo scoperto che era considerato l’intellettuale cattolico più importante dell’epoca, avevo divorato tutto. E infine mi erano capitati per le mani alcuni fascicoli di “Esprit”. Il nome di Emmanuel Mounier, allora, non mi diceva nulla; ma sapevo che era amico e allievo di Maritain, così decisi di leggerli. Trovai scritto che non era vero che il comunismo russo era la peste, che a dipingerlo così erano i fascisti e le ‘demoplutocrazie’, che i comunisti in realtà erano più cristiani di noi. Io rimasi interdetto; mi sembrava strano, ma se lo diceva un allievo di Maritain, mi dissi, bisogna andare a vedere”.

L’occasione arriva subito. Nel febbraio del ’41, Corti riceve la cartolina precetto, fa domanda per la scuola ufficiali. Al tempo vige l’usanza per cui gli allievi che si classificano nel primo decimo della gra-duatoria hanno diritto di scegliere la destinazione. Naturalmente tutti ne approfittano per imboscarsi; lui no: arriva tra i primi, chiede un reggimento di stanza in Russia. Nel giugno del ’42 arriva sul Don. “Fu l’esperienza definitiva della mia vita”. Nelle lunghe settimane in cui i combattimenti languono cerca di parlare il più possibile con i locali. Quel che sente lo lascia senza fiato: scopre che non c’è famiglia che non abbia almeno un membro ucciso dal regime o deportato in Siberia, ascolta i racconti degli anni tremendi della carestia in Ucraina e del suo compagno terribile, il cannibalismo.

Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che aveva scritto sant’Agostino millecinquecento anni prima: o si co-struisce la città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto”. Prima però bisogna riportare a casa la pelle. Il 16 dicembre del 1942 infatti comincia la controffensiva russa, il 19 i soldati italiani sono accerchiati. Per ventotto giorni infuria la battaglia. A un certo punto il sottotenente Corti sente un leggero colpo sul collo. Quando può togliersi il passamontagna, vede dietro la nuca i fori di entrata e di uscita di un proiettile. “E’ stata la Madonna a deviare il colpo, come farà poi con Giovanni Paolo II. La Madonna che ha ascoltato le preghiere di mia mamma”.

Il 16 gennaio l’accerchiamento è rotto, inizia la lunga marcia verso l’Italia. Qui Corti dopo l’8 set-tembre passerà a piedi il fronte e andrà ad arruolarsi nell’esercito del Sud che risale la penisola al fianco degli alleati. Finita la guerra, riprende gli studi e comincia a scrivere; nel 1947 arrivano la laurea e il primo romanzo, “I più non ritornano”, il resoconto dei giorni drammatici della sacca sul Don. “Ogni più possente pagina fra Steinbeck e Hemingway parrà uno svolazzo calligrafico, un arabesco documentario, a paragone di questo romanzo-poema-dramma-storia” scrive Mario Apollonio “che rimarrà memorabi-e”.

Quindi si mette all’opera sul racconto della guerra combattuta sul fronte italiano: nel 1951 esce “I poveri Cristi”. Di nuovo Apollonio saluta con entusiasmo un testo in cui la dimensione religiosa fa tutt’uno con la durezza della vita quotidiana: “per la prima volta da secoli, fuor degli agguati dello spiri-tualismo sentimentale, la Fede è una fede di cose”. Corti in realtà non è soddisfatto del lavoro compiu-to, delle “riflessioni mal assorbite nel racconto, e anzi qua e là addirittura accatastate” (una profonda re-visione, “I soldati del re”, uscirà nel ’94); ma “convinto che fosse vicina a scoppiare la rivoluzione co-munista, io intendevo combattere contro i comunisti”. E qui comincia la sua sventura.

Già prima della guerra Corti aveva avuto occasione di incontrare più volte Giuseppe Lazzati, d’una dozzina d’anni più anziano, allora dirigente dell’Azione Cattolica; nel dopoguerra, favorita dalla comune esperienza militare, tra i due si era venuta formando un’autentica cordialità. “Quante volte ha avuto la bontà di intrattenermi nel suo studio, pur con tutto quel che aveva da fare, e mi raccontava i suoi pro-getti per un rinnovamento della cultura e della politica cristiane in Italia, tutti ispirati dalla lezione di Maritain e di Mounier. Io, che dei frutti nefasti di quell’insegnamento avevo fatto esperienza, provavo a dissuaderlo; ma invano”.

Così mentre Lazzati apre a sinistra, Corti approfondisce invece lo studio del comunismo reale, nei cui confronti imbastisce con l’opera teatrale “Processo e morte di Stalin” (1962) un durissimo atto d’accusa. Che estende anche ai sostenitori occidentali. “Mi misi a combattere Maritain e Mounier con tutte le mie forze. Avevo capito dove si annidava il loro errore. Maritain in origine era stato un socialista rivoluzionario ateo. Poi Dio gli ha toccato il cuore, ma lui è rimasto accecato dal fatto che nel bagaglio culturale dei marxisti e dei laici c’erano molte ‘verità impazzite’, per usare l’espressione di Chesterton; tanto che ebbe a definirsi un minatore che cercava valori e virtù cristiani nascosti nel mondo laico, e finì per convincersi che i suoi vecchi compagni – che era ansioso di conquistare alla sua nuova fede – fossero in sostanza già cristiani, e che si potesse costruire una ‘nuova cristianità’ con co-munisti e laici. Quel che Maritain, accecato appunto dall’affetto per i suoi amici, non vedeva, è che una verità, un valore o una virtù cristiani, messi nel bagaglio degli altri, li rendono ancor più avversi al cri-stianesimo. Le faccio un esempio, preso dal libro di Rudolf Höss, “Comandante ad Auschwitz”: non era facile, spiega Höss, mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo sterminio degli ebrei; fu possibile far-lo solo grazie al grande ‘spirito di abnegazione’ delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle li-cenze e si sobbarcarono turni pesantissimi. Capisce la follia? Lo spirito di abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa sbagliata la rende solo più micidiale. Certo, Maritain alla fine si accorse dell’errore, e ne “Il contadino della Garonna” arrivò a dire che i cristiani erano stati stupidi a credere a quello che lui aveva detto. Intanto però il danno era fatto, aveva gettato il seme della peste del cattocomunismo: di lì sarebbero fioriti i vari Dossetti, Lazzati, La Pira, Fanfani…”.

Nel corso degli anni Sessanta, grazie all’amicizia col direttore don Carlo Chiavazza – anche lui era stato nella sacca del Don, tenente cappellano degli alpini –, Corti riesce a pubblicare su “L’Italia” alcuni racconti brevi sulla vicenda russa; ma quando nel 1968 il giornale si fonde col bolognese “L’Avvenire d’Italia” per dar vita, auspici i vescovi, ad “Avvenire”, la nuova direzione ritiene di non aver più biso-gno della sua collaborazione. Nello stesso anno Lazzati diventa rettore della Cattolica, i lazzatiani occupano le posizione chiave, perfino un gigante come Apollonio finisce emarginato, figurarsi il povero Corti… Almeno i rapporti personali, tuttavia, per qualche tempo rimangono cordiali.

La rottura definitiva arriva col referendum sul divorzio. “Gabrio Lombardi, che era stato capitano durante la guerra, era stato incaricato di dar vita al ‘Comitato per il sì’, e mi chiese di far da vice presidente per la Lombardia. Io obbedii, lasciando anche la stesura del “Cavallo rosso”, e, dato che il presidente era un industriale molto impegnato, mi ritrovai di fatto a fare tutto. E il mio avversario più accanito divenne proprio Laz-zati, che pure era stato mio amico. Lui impedì a chiunque di parlare in Cattolica contro il divorzio, perfino al professor Sergio Cotta, che pure nell’ateneo di largo Gemelli aveva insegnato. Io ero riuscito a farmi ascoltare dappertutto, anche in circostanze drammatiche, come – ricordo come fosse ora – a Genova, di fronte al palazzo Ducale, con la piazza gremita da un lato di cattolici antidivorzisti e dall’altro di facinorosi urlanti, con in mezzo un cordone di polizia che sembrava sempre sul punto di cedere. Po-co dopo fui invitato in Cattolica, da un gruppo di studenti di Comunione e Liberazione. Avevo già pre-parato il discorso, lo stesso di Genova, con in più un richiamo al giuramento antimodernista. Era il giu-ramento introdotto da Pio XI nel 1910 contro il modernismo, e la Cattolica fino ai primi anni Sessanta lo richiedeva a tutti laureandi. Io e Lazzati dunque l’avevamo pronunciato, e io volevo dire che lui e i suoi l’avevano tradito. Ma poi prevalse lo spirito di carità, il richiamo di Gesù all’unità dei suoi, e all’ultimo preferii rinunciare all’intervento. Comunque da allora non ci siamo più parlati”.

Non solo; da allora di Corti in Cattolica è stato proibito parlare: gli studenti che hanno chiesto una tesi su di lui si sono sempre sentiti opporre un netto rifiuto. “In altre università, molti si sono laureati studiando la mia opera; ma in Cattolica sono ancora al bando. Per la verità con l’attuale rettore, Vincenzo Ornaghi, i rapporti sono ottimi; ma nella facoltà di lettere dettano ancora legge i lazzatiani. Però forse qualcosa sta cambiando: poche settimane fa è venuta a trovarmi una studentessa del professor Elli, che ha chiesto e ottenuto una tesi sulla mia opera”.

Qualcosa si sta muovendo, dopo quarant’anni, an-che sul fronte di “Avvenire”: “Anche con loro ebbi un duro scambio di opinioni, a metà degli anni No-vanta, quando scrissi chiedendo perché parlassero sempre così bene del comunismo; mi risposero per telefono in modo molto brusco, e il silenzio è rimasto assoluto. Però adesso in occasione dell’uscita de “Il Medioevo” mi hanno dedicato un articolo lusinghiero. Chissà…”.

Lontano dai circuiti ufficiali, so-stenuto pressoché solo dal passaparola di lettori appassionati, Eugenio Corti ha sempre proseguito la sua opera di testimone degli avvenimenti del secolo. Nel 1983 esce “Il cavallo rosso”, l’opus magnum a cui si è dedicato a tempo pieno per oltre dieci anni, epopea che attraversa tutte le vicende italiane dal 1940 al ’74, che gli conquista manipoli di affezionati lettori anche in diversi altri Paesi (è appena uscita la traduzione in serbo), e che recentemente è uscito dal limbo, allegato a “Famiglia Cristiana” (“merito di Ferruccio Parazzoli”, dice lui).

Quindi cerca di fare da controcanto ai luoghi comuni della cultura domi-nante. Quando nel 1992 col centenario del viaggio di Colombo si additano gli europei come colpevoli di tutti i mali del mondo, scrive “La terra dell’indio” sulle reducciones dei gesuiti in Paraguay; di fronte alla diffusione del mito dei mari del sud, del buon selvaggio che vive felice, libero dalle regole della civil-tà occidentale, racconta ne “L’isola del paradiso” la vera vicenda degli ammutinati del Bounty, un grup-po di uomini che hanno cercato di costruire una civiltà nuova, “naturale”, e hanno finito per scannarsi tutti uno a uno. Infine, sulla questione delle radici cristiane, “Catone l’antico”, storia di un uomo in cui la fierezza romana si apre all’attesa di una speranza nuova. Nel mezzo, la celebre espressione angosciata di Paolo VI – “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. Invece è venuta una giornata di nuvole, di tempe-sta, di buio” – gli suggerisce il titolo per la raccolta di saggi – “Il fumo nel tempio”, appunto – in cui af-fonda la lama nei mali della Chiesa di oggi. E adesso, finalmente, “Il Medioevo e altri racconti”: “Ho parlato di tutto, ma non ero mai riuscito a dedicarmi all’epoca che più mi ha sempre affascinato. Ora posso chiudere in pace”. Fuori si fa scuro, là verso le montagne il tramonto è una lama arancione. La conversazione divaga. “Lì sedeva sempre don Carlo” dice indicando un grande divano. “Don Carlo” è don Gnocchi, un altro che in Russia era andato per scelta, per star dietro ai suoi studenti arruolati. Aveva promesso di celebra-re il suo matrimonio, e ha mantenuto l’impegno, anche se ormai la sua opera aveva raggiunto propor-zioni colossali.

Di recente Corti è stato a Bormio, per l’intitolazione a don Carlo di una via: nel raccon-tarlo gli si illuminano gli occhi. Fuori fa scuro, è tempo di tirare le conclusioni. “Io sono stato chiamato dalla Provvidenza a scrivere. Io non ho avuto la vocazione alla carità. Ce l’ha mio fratello che è frate in Ciad; ce l’aveva l’altro che ha fondato un ospedale in Uganda, e la moglie gli è morta per l’AIDS con-tratto uno dei mille feriti che operava in continuazione, dieci ore al giorno. Però nel Vangelo la verità è fondamentale come la carità. Io ho avuto la vocazione alla verità: posso lavorare per aiutare gli uomini a non staccarsi mai dalla verità. Guardi, me l’ha scritto anche don Giussani quando ho compiuto 80 anni: «Chiedo alla Madonna di conservare la sua vita nella baldanza che la caratterizza, fiero difensore della verità che nella fede ragionevolmente tramandata e da lei personalmente rivissuta e resa attuale trova la sua apologia più affascinante, specialmente in questi tempi drammatici». Ecco, per questo sono sempre andato avanti”. di Roberto Persico

L’Oscar Wilde nascosto da Benigni

Oscar Wilde, citato in modo parziale e strumentale da Roberto Benigni durante la serata inaugurale del Festival di Sanremo, ha scritto in carcere un’opera straordinaria: De profundis. Si tratta della lunga lettera che il romanziere e commediografo di successo – almeno fino al processo del 1895 e la successiva prigionia, che hanno stroncato la sua carriera e la sua stessa vita – ha indirizzato ad Alfred Douglas, la causa di tutte le sue disgrazie. Disgrazie fatali. Il capo dei carcerieri aveva previsto: «Morirà entro due anni». Wilde completò il periodo di detenzione il 19 maggio 1897 e morì, quarantaseienne, poco più di tre anni dopo, il 30 novembre 1900. La lunga lettera – Wilde voleva intitolarla Epistola: In Carcere et Vinculis; il titolo attuale gli è stato dato da Robert Ross, che l’ha parzialmente pubblicata nel 1905 – non può certo essere ridotta a qualche battuta smagliante, del tipo di quelle per cui Wilde era celebre, sull’omosessualità. Essa è anzitutto e soprattutto una riflessione sulla sofferenza. Dice Wilde di sé: «Gli dèi m’avevano concesso quasi tutto. Possedevo la genialità, un nome illustre, un’alta posizione sociale, una mente brillante e ardimentosa. Qualsiasi cosa toccassi la rendevo bella d’un nuovo genere di bellezza».

E adesso? « Le cose esteriori dell’esistenza non possiedono per me alcuna importanza, ora». Cos’era successo? Wilde aveva colto, in carcere, il significato del patire: «La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo d’esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita. Là dove cresce il Dolore è terra benedetta. Gli ecclesiastici e tutti quelli che discorrono a vanvera parlano a volte della sofferenza come d’un mistero. In realtà è una rivelazione». Come è stato possibile? Attraverso l’immedesimazione con le sofferenze di Cristo. Egli, scrive Wilde, «con una prodigiosa larghezza d’immaginazione che ci riempie quasi di religioso timore, si scelse per regno tutto il mondo dell’inespresso, il mondo senza voce del dolore, e gli prestò in eterno la propria voce». Cristo, «come tutte le nature poetiche amava gli ignoranti. Sapeva che nell’anima d’un ignorante una grande idea trova sempre il suo posto. Ma non poteva sopportare gli sciocchi, specialmente quelli che son resi tali dall’istruzione». Amava, Cristo, anche i peccatori: «Trasformare un ladro interessante in un noioso onest’uomo non era la sua più alta aspirazione. La conversione di un pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa un gran risultato». Egli «non insegna nulla ad alcuno, ma chi venga semplicemente condotto al suo cospetto, diventa qualcosa». Cristo, dunque, è stato il vero artista, ciò che Wilde aveva cercato di essere nel successo e stava scoprendo nel carcere: «Il proponimento d’essere più buoni è un bell’esempio d’ipocrita retorica, esser diventati più profondi è il privilegio di quanti hanno sofferto». Partendo daquesta esperienza di dolore redento, Wilde è in grado di giudicare il mondo che lo circonda. La sua ipocrisia: «Una faccia di bronzo è la cosa più importante da ostentare davanti al mondo ma, se di quando in quando ti capita di restare solo, dovrai bene toglierti la maschera, suppongo, se non altro per respirare. Altrimenti, infatti, finiresti per soffocare».

Il suo sentimentalismo: «Un sentimentale è semplicemente uno che vuol godere il lusso di un’emozione senza pagare. Il sentimentalismo è la festa legale del cinismo». La sua menzogna: «La verità è una cosa penosissima a dire. Ma esser costretti a mentire è molto peggio». La lettera si conclude sullo stesso accento da cui era partita: con una richiesta di perdono. Il suo ultimo insegnamento suona infatti così: «Il momento supremo per un uomo è quello in cui s’inginocchia nella polvere, e si batte il petto, e confessa tutti i peccati della sua esistenza». Perciò, Wilde consiglia a lord Douglas e a ciascuno di noi: «Non aver paura del passato. Se la gente ti dice che è irrevocabile, non crederci. Il passato, il presente e il futuro son solo un momento agli occhi di Dio, alla vista del quale dovremo cercare di vivere sempre». Pigi Colognesi da Il sussidiario

Le folgorazioni di Ungaretti.

Una poesia amata dagli alunni di ogni generazione è la celebre lirica di Giuseppe Ungaretti, intitolata "Mattina": "M’illumino d’immenso". Scarna, essenziale, folgorante come tante composizioni di questo poeta, è una lirica che apre uno squarcio sulla profondità del desiderio dell’uomo, sulla sua vocazione a lasciarsi illuminare e folgorare dall’immensità di un Bene agognato. Ungaretti, nel 1915, è uno dei tanti giovani che partono, speranzosi, per la prima guerra mondiale. C’è un mondo nuovo, là, dopo e dietro quella guerra, che appare possibile; c’è il sogno che un evento grandioso serva a porre fine alla noia quotidiana, di una vita personale, la sua, e di una intera società.

Ma l’evento si rivela deludente. Sulle montagne del Carso, al di là di esse, non si scorge nulla, per quanto lo sguardo si stenda, a cercare Trieste, gli austriaci, una redenzione politica, attraverso l’"irredento" Friuli. La guerra diviene allora logorante, opprimente, e perde ogni patina di poesia. Eppure ogni mattina, quando il sole si alza luminoso e potente, antico e nuovo, si apre nell’animo di tanti soldati, come raccontano i loro diari, sempre una nuova speranza: che la guerra finisca, ma, più, che vi sia un nuovo inizio. Dopo cento, duecento, trecento giorni tutti uguali, è sufficiente l’affacciarsi di un nuovo giorno, a far risorgere il desiderio, a far rinascere il gusto del viaggio. Basta scorgere un raggio di sole, con "un breve moto di sguardo" che abbracci i lontani orizzonti, perché uomini abbrutiti dall’angoscia e dalla fatica, sentano esplodere nel cuore un senso misterioso, ineffabile, di grandezza e di immensità.

Quell’alba, incantevole e serena, in cui non si odono gli spari, per una tacita convenzione tra eserciti, è esaltata dal silenzio, e diviene immancabilmente, nella sua bellezza, segno di qualcosa d’altro: rinvia, accenna, suggerisce, senza mai definire, ad un bene che è al contempo nascosto ed evidente, desiderabile ed ineffabile. E’ come se l’uomo fosse condannato, dirà Ungaretti, ancora ateo, in un’altra poesia, ad un destino di grandezza che travalica ogni umana comprensione: "Chiuso tra cose mortali, /anche il cielo stellato finirà, /perché bramo Dio?". O, come scrive un poeta a lui contemporaneo, Montale: " Sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto:/più in là".

Giovanni Cavalcoli, “La liberazione della libertà. Il messaggio di P. Tomas Tyn ai giovani” (Fede & Cultura)

Padre Giovanni Cavalcoli è un sacerdote e teologo domenicano residente a Bologna. Nel corso della sua vita conventuale e di teologo ha avuto la fortuna di conoscere il Servo di Dio Padre Tomas Tyn (1950-1990), grande filosofo e teologo cecoslovacco della cui causa di beatificazione è ora Vicepostulatore (per un sintetico ritratto di Padre Tyn si può cliccare qui; si veda anche il libro dello stesso Cavalcoli, Padre Tomas Tyn. Un tradizionalista postconciliare, Fede & Cultura, Verona 2007, e il bel sito www.arpato.org).
Con il recente La liberazione della libertà. Il messaggio di P. Tomas Tyn ai giovani (Fede & Cultura, Verona 2008), Padre Cavalcoli ha voluto diffondere, per mezzo di una sintesi teologica accessibile a tutti, i contenuti del pensiero tyniano circa l’essenza della libertà umana. Obiettivi polemici sono alcune errate nozioni di “libertà” oggi particolarmente diffuse, come i concetti ateo, spontaneistico e panteistico della libertà. Il risultato dello sforzo divulgativo di Padre Cavalcoli è un breve libretto che compendia, in modo incisivo e didatticamente efficace, i fondamenti stessi della posizione cattolica a questo riguardo. Condotto per mano da Padre Cavalcoli e dalle interessanti citazioni di Padre Tyn riprodotte in appendice, il lettore apprende il primato della conoscenza intellettiva del fine sulla volontà, il necessario rapporto tra libertà e verità, la distinzione tra voluntas ut natura e voluntas ut libera, l’essenza della libertà “di perfezione” o “di esultanza”, l’intrinseca razionalità di una punizione eterna e severissima per chi, con il peccato, faccia cattivo uso della propria libertà, e molte altre cose. Il libro è consigliabile a chi, privo di studi filosofico-teologici, volesse farsi un’idea chiara e precisa di questi argomenti.
Meriterebbe qualche parola, infine, la casa editrice Fede & Cultura che ha stampato questo ed altri pregevoli saggi: mi limito a segnalarne il catalogo sul sito www.fedecultura.com.

Risposta ad un amico sull’eutanasia, la rivoluzione dei costumi e la lettura esoterica del ‘Mondo Nuovo’ di Huxley

In seguito al mio articoletto sulle autentiche motivazioni dell’imminente introduzione dell’eutanasia, un caro amico mi ha contattato privatamente rimproverandomi, benché in modo cortese e interessato, una visione a suo dire quasi fantascientifica della questione, stile Brave New World di Aldous Huxley; e tacciandomi velatamente di una nutrire concezioni piuttosto retrive in merito a talune problematiche morali. Ho cercato di rispondere (in modo abbastanza provocatorio, data la natura peculiare del mio stimato interlocutore) in particolare alla prima parte dell’obiezione in una e-mail che copio-incollo qui sotto con poche e marginali modifiche. Come fonte principale mi sono servito di M. D’Amico, “Verso il ‘Mondo Nuovo’: il lungo assedio alla concezione cristiana della famiglia”, in AA.VV., Atti del 12? Convegno di Studi Cattolici, Rimini 29/30/31 Ottobre 2004.

Caro mio,

noi viviamo in un racconto di fantascienza. Ora cerco di spiegarmi; ma ti avviso che siccome non voglio buttare le cose in vacca e che dibattere dell’argomento con te mi interessa, dovrò essere un po’ lungo e dettagliato. (…).

Allora, perché non cominciare proprio da Aldous Huxley e dal suo Brave New World, libro che ha immediata attinenza con le questioni da te sollevate. La prendo un po’ larga, ma poi vedrai che arrivo al punto. Huxley, insieme al fratello Julian, ebbe per tutore a Oxford Herbert G. Wells, il famoso scrittore di fantascienza. Wells era membro dell’ordine esoterico e massonico della Golden Dawn, molto diffuso e influente negli ambienti politici e intellettuali anglosassoni (l’Inghilterra peraltro è storicamente, per ragioni che non sto a dettagliare, uno dei paesi le cui élites sono maggiormente permeate di concezioni ermetiche, cabalistiche, in senso lato magiche, dal Seicento in avanti). Fu proprio Wells a presentare ad Huxley Aleister Crowley, il notissimo satanista ed alto iniziato (quello, per capirci, che sta sulla copertina di Sg. Pepper dei Beatles); e fu Crowley ad introdurre Huxley nella Golden Dawn e a fargli sperimentare, in un’ottica magico-teurgica, le droghe psichedeliche. Nel frattempo Aldous era stato iniziato alla setta dionisiaca dei “Figli del Sole”, a cui appartenevano segretamente molti dei migliori rampolli delle élites britanniche.

Ti sei dunque fatto una prima idea di chi era Aldous Huxley fin dalla gioventù: uno gnostico, un iniziato, un esoterista. Questo intellettuale di prima grandezza, esteriormente di mentalità laica e progressista, nascondeva ai più una facciata molto diversa, forgiata nelle conventicole iniziatiche e nelle retrologge d’altissimo livello. La condizione sociale, la cultura e le numerose “conoscenze ai vertici” intrecciate in questi ambienti facevano di lui un “illuminato”, un “uomo-ombra”, perfettamente al corrente di ciò che si muoveva e che si pianificava nei meandri più riposti e inaccessibili della politica europea: nei luoghi in cui la Massoneria, dal Settecento in poi, dispiega le proprie influenze.

Nel 1932, un trentottenne Huxley pubblica Brave New World, il famoso “Mondo Nuovo” della traduzione italiana: un’opera fondamentale ancorché, molto spesso, del tutto fraintesa, perché letta senza tenere nel debito conto il background culturale, spirituale, morale dell’autore. Il titolo, come sto per mostrarti, è programmatico: ciò che importa comprendere, infatti, è che Brave New World non è una denuncia, ma un auspicio; o, ancor meglio, un programma d’azione. Cerchiamo innanzitutto di farci un’idea di cosa fosse la morale diffusa all’inizio degli anni Trenta in Occidente: la rivoluzione sessuale, il Sessantotto sono molto di là da venire. I costumi sessuali sono ancora, presso buona parte della popolazione, quelli cristiani e religiosi (vissuti da molti, è vero, sempre più convenzionalmente). Stante questo contesto storico, il nostro Huxley dipinge nel libro uno scenario stranamente, incredibilmente attuale: nel Mondo Nuovo vigono promiscuità, sesso libero e “consumato” per puro divertimento, contraccezione sistematica, aborto legale, educazione sessuale precoce, fecondazione artificiale, planning demografico, lotta culturale contro la famiglia monogamica, eutanasia, droga libera. Aspetto non meno importante degli altri, è diffuso nella popolazione (ed è incoraggiato dalle autorità politiche) un assoluto ateismo.

Ora, tiriamo un po’ le fila. Huxley non poteva con ciò avere intenti di denuncia, per due ragioni molto semplici: primo, ciò che nel libro è “denunciato” era negli anni Trenta assolutamente impossibile da riscontrare nella realtà, a livello di massa, o anche solo da prevedere sensatamente; secondo, lo stesso Huxley non nutriva personalmente alcuna obiezione di carattere morale alle pratiche sopra elencate. Anzi: in seguito si fece fautore addirittura esplicito, per esempio, dell’uso di droga o del controllo demografico; mentre il suo atteggiamento religioso “esteriore” era improntato al più assoluto agnosticismo. Le sue frequentazioni, poi, non lasciano adito a dubbi circa le sue convinzioni in materia di morale sessuale: il suo amato Crowley, per dirne una, praticava la magia “rossa”…

Dovrebbe essere a questo punto abbastanza chiaro che la mia affermazione iniziale, noi viviamo in un racconto di fantascienza, non è affatto una boutade. Huxley, rappresentante qualificato di potentissimi circoli occultistici e massonici, ha illustrato in Brave New World – sotto le mentite spoglie di un’interessante e apparentemente benintenzionata distopia fantascientifica – buona parte del programma culturale, sociale, “politico” in senso lato delle alte massonerie internazionali: programma, beninteso, puntualmente messo in opera nei decenni successivi, con i risultati che vediamo oggi (quale che sia la nostra valutazione morale su di essi). Sono infatti noti agli studiosi, benché la pubblica opinione ne sia all’oscuro, i finanziamenti e le connivenze della grande politica e finanza internazionale (letteralmente dominata dai grandi affiliati) agli epocali mutamenti di costume avvenuti specialmente negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, ma attentamente pianificati nei decenni precedenti.

Ti fornisco alcuni dati a caso. Non è ufologia, ma storia, che strategie di precoce sessualizzazione dei fanciulli, simili a quelle descritte in Brave New World, siano state teorizzate dai servizi segreti americani negli anni Cinquanta, con il progetto MK-Ultra e in particolare con il sottoprogetto Monark Program: proprio Huxley, guarda caso, fu attivamente coinvolto nell’MK. Per quanto riguarda la legalizzazione dell’aborto, essa è stata pianificata occultamente a livello internazionale con decenni d’anticipo sulle legalizzazioni nei Paesi occidentali, avvenute in maggioranza negli anni Settanta: nel Giappone militarmente occupato dagli USA dopo la II Guerra Mondiale, l’aborto e la sterilizzazione vennero imposti da subito, con leggi fortemente volute dagli stessi consiglieri americani e dal generale Mac Arthur, plenipotenziario con poteri illimitati sul Paese sconfitto; tutto questo all’interno di un’ottica sperimentale, in vista di estendere al momento opportuno le stesse misure in Occidente. Discorso simile per Portorico, che nel corso degli anni diventa tra l’altro un laboratorio a cielo aperto in cui sperimentare tutti i nuovi anticoncezionali prodotti dalle multinazionali del farmaco americane, in particolare la pillola, anche per verificare danni ed effetti collaterali su una popolazione “di serie B” perché povera e di colore. Sempre per quanto riguarda l’aborto, recentemente è uscito in Spagna per LibrosLibres il libro-confessione di un importante ex massone e politico francese, Maurice Caillet, che spiega come lui stesso e altri “fratelli” di loggia abbiano influi
to, dietro mandato dei vertici massonici, sulla legalizzazione dell’aborto avvenuta in Francia nel 1975. Ancora: sono ormai notissimi e perfettamente documentati gli appoggi delle grandi organizzazioni mondialiste come l’ONU e l’Unione Europea (legate a filo doppio alla Massoneria fin dal loro sorgere, come si sa) ai programmi di pianificazione demografica, sterilizzazione forzata, aborto forzato, infanticidio forzato nei Paesi del Terzo Mondo, lontano da un’opinione pubblica occidentale che potrebbe avere qualcosa da eccepire. Quanto alla cosiddetta rivoluzione sessuale, essa è tra i “desiderata” delle sette massoniche fin dall’Ottocento, come uno studioso del calibro di Delassus documentava già nel 1907 con citazioni dirette di circolari interne alle varie sette (il libro è Il problema dell’ora presente, ora introvabile ma in mio possesso in versione dattiloscritta): da allora il programma non ha fatto che estendersi, anche tramite mezzi semplicemente incredibili come la promozione intenzionale della pornografia a livello massale (mezzo non a caso illustrato da Orwell in 1984), o il risalto fornito a livello mediatico a correnti culturali, letterarie e musicali trasgressive, “controcorrente”, volutamente immorali.

Potrei inanellare molti altri dati, ma mi fermo. Si tratta di fatti perlopiù poco pubblicizzati e, mi rendo conto, quasi incredibili agli occhi più o meno scettici di chi, come noi, nel “Mondo Nuovo” ci è nato, sguazzandoci magari a suo perfetto agio. Se prendi tuttavia sul serio anche solo una metà delle cose chi ti ho raccontato, l’ipotesi – debitamente contestualizzata – che dietro alla legalizzazione dell’eutanasia ci sia un progetto consapevole di eliminazione degli individui inutili e improduttivi appare di colpo molto meno “fantascientifica” di prima. Se si è arrivati, con l’appoggio e i soldi dell’ONU, ad ammazzare neonati per esigenze di pianificazione demografica, si può arrivare anche ad ammazzare i vecchi.

Con questo penso di averti dato qualche elemento di riflessione per quanto riguarda parte delle tue obiezioni, anche se potresti a questo punto chiederti il perché la massoneria, o chi per essa, desideri diffondere questi comportamenti, stili di vita eccetera. Motivi economici a parte (per quanto riguarda ad esempio l’eutanasia), per rispondere dovrei addentrarmi in un’illustrazione abbastanza dettagliata del pensiero filosofico che soggiace ad ogni mentalità esoterica e settaria, cioè la gnosi: un pensiero che comporta necessariamente determinate conseguenze a livello morale. (…). Ad ogni modo, se ti interessa approfondire dimmelo senza problemi, poiché mi rendo conto che il discorso lasciato così è monco della sua componente essenziale: le motivazioni.

(…)
Bernardo

Antonio Socci, “Indagine su Gesù” (Rizzoli)


A chi difettassero le idee per un regalo di Natale, segnalo l’ultimo libro di Antonio Socci. Indagine su Gesù è un libro di apologetica seria, rigorosa e al contempo piena di passione, accessibile a chiunque. Molto bello, tra gli altri, il capitolo sulle profezie messianiche dell’Antico Testamento – circa trecento –, ognuna delle quali trova adempimento perfetto nella Persona di Gesù Cristo, l’Atteso dei nostri cuori. Festeggiamo il compleanno di Cristo regalando a qualche amico, dubbioso o esitante, la verità su di Lui.