I mutui subprime, la frode della Casta delle banche

L’Fbi ha messo sotto inchiesta 14 istituzioni finanziarie per lo scandalo dei mutui subprime. Era ora. Ricapitoliamo: per uscire dalla crisi di inizio decennio provocata dal crollo del Nasdaq e dall’11 settembre, la Banca centrale americana ha abbassato i tassi ai minimi storici, sfiorando lo zero. L’economia si è ripresa, ma le grandi banche ne hanno approfittato per gonfiare artificialmente il mercato immobiliare. Come? Inducendo milioni di cittadini a comprare casa anche quando non potevano permetterselo, grazie ai mutui subprime, che coprono fino al 100% del costo, richiedono basse garanzie sul reddito e garantiscono (anzi, garantivano) inizialmente tassi molto bassi.

Ma quando i tassi hanno ripreso a salire, è arrivato il conto: molta gente non ce l’ha più fatta a sostenere rate improvvisamente stratosferiche. Normalmente in questi casi a pagarne le conseguenze sono le banche che hanno emesso il mutuo. E invece no, questi gentiluomini avevano spalmato il rischio subprime usando strumenti finanziari collaterali (obbligazioni e più in generale titoli di debito), rivolti inizialmente a società specializzate ,ma poi diffusi in tutti mercati, pe

rsino in quelli monetari, senza rivelarne il vero livello di rischio. Risultato: ancora oggi la maggior parte delle banche non sa se ha in portafogli titoli “puliti” o avariati. Insomma, le grande banche si sono arricchite con metodi poco trasparenti, cercando di far pagare surretiziamente ad altri la fattura. Da qui l’inchiesta dell’Fbi per frode. Come non definire banditesco questo comportamento? Il prezzo lo sta pagando l’economia mondiale; insomma, lo stiamo pagando tutti noi. La vicenda induce ad altre considerazioni. Perché le istituzioni incaricate dei controlli hanno lasciato fare? Dov’erano le agenzie di rating? Possibile che la lezione degli scandali Enron, Parmalat, Swissair sia già stata dimenticata? E con che faccia banche come Citigroup, Ubs, Morgan Stanley continuano ad emettere giudizi sulle società quotate in borsa? Un po’ di coerenza, per cortesia. Io dico: ben venga l’ inchiesta; che l’Fbi faccia davvero pulizia. Marcello Foa

I mutui “subprime” annunciano la più grande crisi finanziaria dopo il ’29

Secondo studiosi americani il volume di titoli privi di valore si aggira sui 20 mila miliardi di dollari. A rischio chiusura diverse banche americane ed europee. Pochi i contraccolpi sull’Asia. La curiosa notizia della nuova moneta nordamericana: l’Amero. Milano (AsiaNews) –

La vicenda della montagna di mutui fuori parametro (subprime) concessa dalle società di credito fondiario in America, di per sé è già dirompente e sta mettendo in crisi non poche banche. Negli Stati Uniti i gruppi più esposti sono giganti come Citigroup e Bank of America, a causa soprattutto delle proprie controllate specializzate in intermediazione titoli. In Europa, secondo voci di mercato, si parla di possibili difficoltà – o addirittura di crollo – per banche del calibro di Deutsche Bank, Barclays, BNP Paribas oltre a grandi finanziarie, assicurazioni (si parla di Axa) e fondi pensioni. Ma tutto ciò è solo la parte emersa del problema. Secondo Mike Whitney[1], un analista finanziario americano, il totale di titoli circolanti emessi nei mercati non regolamentati e privi di patrimonialità reale, è di 20 mila miliardi di dollari[2].

 A quanto pare, finora né il grande pubblico, né i professionisti di Wall Street si erano accorti del “buco”. Questi 20 mila miliardi di dollari di titoli sono privi di mercato e quindi privi di valore. Anche se la Fed dovesse rendere molto più indulgenti le regole sulle riserve, l’attuale sistema finanziario è destinato ad affrontare la più grave crisi da 80 anni ad oggi, perché non è un problema di liquidità, ma di solvibilità. Le banche ormai hanno paura a finanziarsi a vicenda perché non conoscono i reali livelli reciproci di insolvenze. Si è arrivati al punto che sul mercato interbancario di Londra non ci si arrischia a prestare denaro oltre il termine di un giorno.

 Greenspan e la finanza speculativa Il problema si è andato originando negli Usa, a partire dal 1987, quando con pressioni della lobby bancaria – mediante “elargizioni” costate 300 milioni di dollari – si è riusciti ad ottenere passo passo l’abolizione della legge Glass-Steagall, approvata dal parlamento americano dopo la crisi del ’29. La completa abolizione della legge è stata ottenuta nel 1999 grazie al presidente Bill Clinton. A suo tempo, la legge era stata approvata per evitare il conflitto d’interessi tra banche e società che sottoscrivono obbligazioni ed azioni. Principale fautore di questa liberalizzazione finanziaria è stato il precedente presidente della Fed, Alan Greenspan. Questi, divenuto governatore nel 1987, prima di tale nomina era stato membro del consiglio d’amministrazione della J.P. Morgan, la prima banca ad usufruire della liberalizzazione. Nei 18 anni di governatorato di Greenspan si è avuta la più grande espansione della finanza speculativa della storia mondiale. Adesso il problema sta emergendo lentamente, ma è come un treno che, una volta in moto, nessuno, nemmeno la Fed, può più arrestare ed è lanciato su dei binari di scadenze improrogabili. Se le cifre riportate nell’articolo di Mike Whitney sono corrette, un crollo di borsa come quello del ’29-’30 sarebbe più che imminente; forse anche di dimensioni maggiori, perchè la crisi avrebbe dimensioni planetarie. In questo ultimo periodo, i grandi gruppi finanziari e bancari americani si sono premuniti piazzando i titoli spazzatura sia in Europa che in Asia. In Asia è noto che il patrimonio delle maggiori istituzioni bancarie e finanziarie è costituito – quasi di norma – da titoli statunitensi, espressi in dollari.

Essi sono valutati AA o addirittura AAA dalle agenzie, cosiddette indipendenti, di valutazione dei valori mobiliari, come Standard & Poors, Moody’s e Fitch. Come per indiscussa convenzione di tesoreria tali titoli stimati primari sono – ma forse è meglio dire “erano” – considerati virtualmente privi di rischio. Ad essere esposte in prima linea dovrebbero esserci teoricamente i fondi pensione, le assicurazioni e le grandi fondazioni americane, come pure i maggiori gruppi finanziari e bancari statunitensi, che sono all’origine dell’emissione incontrollata di titoli atipici di questi lunghi decenni. Eppure c’è da dubitare che chi ha le chiavi del potere finanziario e monetario sia chiamato a rispondere dei propri misfatti. Alla radice del problema, infatti, ci sono le banche centrali ed in primo luogo la Fed, che da tempo aveva un chiaro quadro della situazione. Chi controlla la Fed, sa dunque che non può fornire la soluzione nell’ambito stesso della Fed. Amero, la nuova moneta del Nord America In questo scenario di imminente crisi bancaria è emersa una curiosa notizia: gli Stati Uniti si preparano, insieme a Canada e Messico, a lanciare una moneta unica, detta “Amero”. In altri termini dopo l’esplosione cruenta della bolla monetaria da tempo covata, la soluzione proposta sarebbe l’abolizione del dollaro, sostituito dalla valuta dell’Unione del Nord America, l’Amero appunto. A tale unione monetaria, oltre agli Stati Uniti, verrebbero costretti a farne parte il Messico, cui l’idea in linea di principio potrebbe non dispiacere, ed il Canada che non gradisce nemmeno un po’ l’idea di perdere la propria sovranità monetaria, ma che non vi si può sottrarre, pena la minaccia di perdere la cospicua fetta del proprio patrimonio espressa in dollari statunitensi, che diverrebbero privi di valore.

Dell’Unione del Nord America se ne era parlato a Waco nel Texas nel marzo 2005 tra Bush, il presidente messicano Fox ed il primo ministro canadese Martin. Il progetto era stato poi ripreso nel corso dello stesso anno da un rapporto del Consiglio Relazioni Estere (Council on Foreign Relations – CFR), lo stesso potente gruppo di potere da cui sono stati espressi quasi tutti i presidenti statunitensi sia democratici e che repubblicani e da un gruppo di lavoro interministeriale dei tre paesi. Su Wikipedia.com alla voce “Amero” sono già riprodotte delle foto di coniazioni, definite “prototipi”. Su “Youtube”[3] è disponibile un filmato in cui ridiscute dell’Amero alla televisione commerciale americana CNBC. Di recente il sito http://www.halturnershow.com/AmeroCoinArrives.html, ha mostrato delle foto con tali coniazioni, ma con in più una piccola “D” stampigliata nella moneta da 20 Amero. La “D” starebbe ad indicare che tale moneta proverrebbe dalla zecca di Denver. Curiosamente[4], la zecca di Denver è chiusa alle visite al pubblico per lavori di ristrutturazione fino al 28 settembre. AsiaNews non è in grado di stabilire se tutto ciò è realmente fondato. Certo è che il progetto sembrerebbe ben articolato[5]. L’Unione Nordamericana avrebbe una popolazione simile a quella dell’Unione Europea, e sarebbe la risposta adeguata all’attuale crisi bancaria destinata fatalmente a risolversi in crisi monetaria.

Di fatto, più che un’unione monetaria, questa operazione sarebbe l’inglobamento di metà del continente americano negli Stati Uniti. Per l’Asia più che gli aspetti politici – tutta l’area è da tempo il cortile di casa degli Stati Uniti – sono interessanti le conseguenze economiche. In primo luogo l’Amero sarebbe decisamente meno forte del dollaro, a causa della presenza del peso messicano, protagonista di una non lontana insolvenza. In tal modo il valore dell’Amero rispetto alle altre valute mondiali si deprezzerebbe in modo rapido, costringendo la Cina e tutta l’Asia ad una rapida rivalutazione di fatto delle proprie monete che di propria sponte non hanno mai dato mostra di aver realmente intenzione di attuare. In secondo luogo la conversione dei dollari circolanti fuori dagli Stati Uniti sarebbe sottoposta a logiche misure anti-riciclaggio e di legittimità di possesso. In Asia ed in molti altri paesi del mondo, il pagamento in contanti ed in dollari è più diffuso di quanto non si pensi. Anche in questo caso gli effetti non mancherebbero e non sarebbero di poco conto.

 

[1] Vedi: http://onlinejournal.com/artman/publish/article_2396.shtml . [2] Secondo informazioni che AsiaNews ha tratto dalla BRI, la Banca dei Regolamenti Internazionali, includendo i derivati ed i contratti atipici, il totale della finanza non convenzionale è molto di più, quasi cinquanta volte il Pil mondiale. [3] Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=6hiPrsc9g98 [4] Vedi: http://www.usmint.gov/mint_tours/index.cfm?action=StartReservation [5] Vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Independent_Task_Force_on_North_America .(Asianews)

E’ tempo di uscire dalla torre di Babele.

In quel di Cernobbio, sul lago di Como, nel pomposo scenario di Villa d’Este, alla fine di ogni estate si celebrano i riti del Seminario Ambrosetti. Lì, i bei nomi dell’establishment internazionale si esibiscono in dissertazioni sull’«Accadrà Domani», distribuendo analisi e ricette, con propensione all’ottimismo.

Altrimenti detto: illuministicamente paladini di uno sviluppo ininterrotto; considerando i problemi che di volta in volta emergono, incidenti di percorso del capitalismo rampante. Questa volta, il Seminario è caduto in un momento sfavorevole. In Usa, subito propagandosi a macchia d’olio, è esplosa la bolla dei crediti facili e speculativi concessi al settore immobiliare, ma non solo a questo; ovunque, le Borse hanno patito, dopo un triennio di crescita spesso scomposta e speculativa, ribassi dell’ordine del 20%. Nell’occhio del ciclone (stagionale o devastante?), i titoli bancari, ancora a luglio considerati dai guru della Finanza (quelle Agenzie che distribuiscono le «pagelle di merito», ora sotto accusa), gioielli del firmamento capitalistico.

Che è successo? Dal confuso bla-bla-bla lacustre, qualche voce non allineata è uscita dal coro. L’ex ministro Giulio Tremonti ha diagnosticato senza giri di parole: «Siamo di fronte a una crisi con la "C" maiuscola». Pur non paragonandola a quella del 1929, poco c’è mancato. Edward Luttwak, politologo-economista statunitense già consigliere alla Casa Bianca, ha denunciato una dilagante «crisi di sfiducia». Paolo Panerai direttore di Milano Finanza, attento come pochi a ciò che bolle in pentola, ha spiegato ieri nell’editoriale: «Pur con tutti i sofisticati strumenti di analisi di cui dispone il mondo economico, nessuno ha la certezza di cosa sia accaduto e stia accadendo nella fornace di quel vulcano sempre in ebollizione che è il mondo della finanza e delle banche». Grave (auguriamoci non tragica), constatazione. D’altra parte, è casuale che il ministro Padoa-Schioppa abbia convocato d’urgenza il Com itato interministeriale per il credito e il risparmio? Sino a pochi giorni fa, a spegnere i focolai d’interrogativi, si era ribadito che: primo, non esistevano rischi di contagio per l’Italia; secondo, non sussisteva alcun timore di ripercussioni sull’economia reale (ovvero produzione, occupazione, consumi).

È seguita una rapida retromarcia. All’ammissione di una inevitabile frenata della crescita, dall’America all’Asia all’Europa, con l’Italia ancora più annaspante, si sono sovrapposti timori (probabilmente psicologici) attizzati dall’arrivo nelle Borse di torme di avvoltoi ribassisti. Risultato finale: le «nostre carissime Banche» hanno cessato di essere al di sopra di ogni sospetto. Stanno venendo alla luce oscure gestioni «fuori bilancio», in cui si scaricavano, a farla semplice, i crediti inesigibili o quasi. Da lì nugoli di intrecci, con passaggi di mano in mano. Traguardo finale, lo scaricare i rischi su spesso ignari risparmiatori attraverso la cosiddetta «ingegneria finanziaria». Evitiamo processi anticipati. Tuttavia, un «puzzo di bruciato» lo si percepiva. Conferma: vi sono attualmente Banche che negano alle consorelle rifinanziamenti overnight (giornalieri), per coprire le posizioni debitorie. Onde sopperirli sono dovuti intervenire con iniezioni di insulina le Banche centrali. Così a Washington, a Londra, a Tokyo. E a Francoforte, per l’Unione Europea. Sino a un anno fa, avanti di andare in pensione, Alan Greenspan, dominus della Fed (la Banca centrale statunitense), ammoniva inascoltato: «Attenti amici banchieri!, state costruendo la Torre di Babele». Grillo parlante, Cassandra, o profeta? Indisponibili al catastrofismo, ma realistici, chiediamo pertanto al sistema bancario italiano di renderci partecipi dei «veri bilanci», dell’effettiva esposizione. È l’unico modo per reinstaurare una vera fiducia fra risparmiatori e istituzioni finanziarie. Essenziale per superare un momento di pericoloso sbandamento. (G. Galli, Avvenire, 9/9/2007)

Ossigeno alle borse. E ai risparmiatori?

Giancarlo Galli
Che il Sistema finanziario internazionale si sia preso, in piena estate, non una passeggera bronchite ma una brutta polmonite, è ormai accertato. Non che il malato si trovi in pericolo di vita, ma certamente il decorso della malattia sarà lungo e tormentato. Per riprendere le forze, ritrovare lo slancio, occorreranno svariate stagioni. D’altra parte è questo, storicamente, il diabolico ritmo dei cicli dei mercati cui presiede il dio denaro: 3-5 anni di crescita, poi il capitombolo. Nessuno stupore, quindi. Semmai, c’è da restare allibiti per la banalità delle reazioni di tanti uomini politici e banchieri illustri: promettono di voler “fare chiarezza”. In che mondo vivevano sino alla passata settimana, quando si sciacquavano la bocca con annunci di crescita dell’economia, di sviluppo della produzione dei consumi? Sarebbe opportuno che tanti “signori” anziché gingillarsi sui perché del crac, spiegassero (senza perdersi in giri di parole con cui tentano di impacchettare il fumo delle loro idee), come intendano agire. Ieri alle 14,38 ora europea, con mossa tempestiva la Federal Reserve Usa ha ridotto di mezzo punto il costo del denaro. E il paziente ha reagito con un improvviso rimbalzo delle quotazioni: ulteriore indice di un pericoloso nervosismo, anche perché la Fed ha motivato la decisione come sforzo per impedire che la crisi contagiasse l’economia reale. Questo è infatti il pericolo incombente. Da qualche giorno centinaia di milioni di famiglie, sparse per il pianeta, hanno visto decurtato, almeno sulla carta, i loro patrimoni. La perdita di valore dei Fondi d’investimento, dei titoli azionari, delle obbligazioni degli immobili ci ha resi, almeno psicologicamente più poveri. Le prime contrazioni dei consumi, già si manifestano nel settore delle materie prime mentre vi è chi sta riscoprendo l’oro quale bene-rifugio. Nel contempo, l’attività finanziaria sta subendo battute d’arresto: è probabile che di fuochi d’artificio se ne vedranno pochi in futuro. Meno fusioni , meno acquisizioni. Purtroppo, c’è da temere anche meno investimenti da parte delle imprese. I pessimisti sono i primi a ritenere che se la “normalità finanziaria” non verrà ristabilita entro settembre, a fine anno avremo un azzeramento della crescita. Anticamera di una probabile recessione. Altri, meno catastrofici, ritengono che si avrà “solo” una riduzione nella dinamica del Pil attorno allo 0,5 per cento. Pressoché unanime, comunque l’opinione: moltissimo dipende dalle reazioni della massa dei risparmiatori. Troppo facile però richiedere loro di “mantenere i nervi saldi”, da parte di quanti “non potevano non sapere”. ? un problema che al di là delle analisi macro economiche, delle dissertazioni, a sfondo etico-ideologico sul capitalismo speculativo e i suoi misfatti, tocca da vicino il portafoglio delle famiglie, le pensioni integrative. E come tale va visto e giudicato. Con la recente trasformazione del Tfr; la liquidazione di fine rapporto, erano state dipinte ed esaltate le meraviglie dei Fondi alternativi, il cosiddetto “secondo pilastro” pensionistico. Quanto sta accadendo va provocando una legittima ansia nelle famiglie. Vediamo ovunque banche, compagnie di assicurazione, nell’occhio del ciclone. Sono solide, viene ribadito, e prestiamo fede; ma sono pure le stesse che in troppi casi pur di lucrare provvigioni hanno agevolato la messa in circolazione di quei “prodotti” di incerta identità e dagli oscuri risvolti, all’origine dell’attuale terremoto. Forse e senza forse, affinché alla gente comune – che costituisce la spina dorsale e morale di ogni nazione – venga restituita la meritata serenità, occorre che da questa crisi scaturisca qualcosa di veramente nuovo: un recupero della perduta trasparenza bancaria. Solo in questo modo sarà possibile risalire la china rimettendo il necessario ordine nel mondo della Finanza.(Avvenire, 18/8/207)

Mutui in Trentino: le famiglie sempre più indebitate

Nei giorni scorsi il Corriere del Trentino ha giustamente riservato grande evidenza al fenomeno dell’aumento del numero di trentini che ogni anno ricorre ad un mutuo per l’acquisto della prima casa, caratterizzato dal contemporaneo aumento degli importi e della durata dei mutui stessi. Non credo sia esagerato affermare che i dati forniti dall’Osservatorio sulle politiche abitative” del Comune di Trento sono, a dir poco, allarmanti. Cercando di non annoiare il lettore con un’eccessiva profusioni di cifre e percentuali, vorrei, però, provare, sia pure sinteticamente e per punti, ad elencare le ragioni di tale allarme.
1. In soli 6 anni sono cresciuti di circa il 30% i mutui per importo da 100 a 200 mila euro e del 13% quelli da 200 a 500 mila, a scapito dei mutui fino a 100 mila euro diminuiti del 40%.
2. Si allunga anche la durata media del mutuo, ma in questo caso la perdita di circa 20 punti percentuali sulla parte bassa (11-15 anni) non si travasa sulla fascia media (16-20 anni) che rimane invariata, bensì su quella fra i 21 e 25 anni che passa dallo 0,94% al 24,08% per utilizzo da parte dei fruitori (tutto ciò sempre in soli 6 anni).
3. Le famiglie si indebitano mediamente quasi del doppio dell’importo e per quasi il doppio di durata media del mutuo.
I dati offerti dal Comune di Trento andrebbero, però, integrati per meglio inquadrare la situazione reale. Ad esempio, non conosciamo il numero degli alloggi sfitti o comunque vuoti: erano 3.071 nel 2001 e c’è da immaginarsi che oggi siano molti di più considerato che la crisi della borsa, proprio nel 2000-2001, ha prodotto una fuga verso il mattone di quanti avevano liquidità da investire.
Sarebbe anche interessante cercare di capire quale sia la fascia sociale interessata da tale dinamica dei mutui, ma i dati disponibili non lo consentono. Penso però di non sbagliare dicendo che, ancora una volta, stiamo parlando del ceto medio, non le fasce deboli che si rivolgono piuttosto all’edilizia pubblica e non quelle abbienti che, potendo, preferiscono non indebitarsi.
Gli effetti negativi di tale situazione sono facilmente prevedibili. Le famiglie si ritrovano sempre più idebitate e ciò fino all’età della pensione, se non oltre. Ciò si ripercuote anche sui figli che, in misura molto inferiore al passato, potranno contare sul sostegno della famiglia d’origine per acquistare una loro abitazione e costituire una propria famiglia.
E c’è di più: cosa potrebbe, infatti, accadere nel caso di un’improvvisa impennata dei tassi d’interesse, eventualità sempre possibile sui mercati finanziari? Il primo effetto sarebbe il “fallimento” delle famiglie (fenomeno che già si registra negli Usa con i cosiddetti mutui sub-prime), costrette a svendere sul mercato la propria abitazione.
Come può una famiglia pagare una rata di 1.000 – 1.200 euro al mese avendo a disposizione un reddito medio di poco superiore a tale importo? Anche quando a lavorare sono entrambi i coniugi, una simile cifra constituisce un onere che pone in seria difficoltà il bilancio famigliare.
Il seguente esempio dimostra cosa può avvenire nel caso di una crescita dei tassi d’interesse sui mutui in essere. Con un mutuo di 200.000 € al tasso del 5% per una durata di 25 anni: la rata mensile è di 1.183 €. Se il tasso sale di 2 punti, al 7%, la rata raggiunge i 1.430 €. Ulteriori altri due punti di aumento del tasso d’interesse, fino al 9%, fanno lievitare la rata a 1.697 €.
Soffermarsi sulle cause di questa situazione sarebbe utile, se non altro per tentare di prospettare possibili interventi, ma sarebbe anche piuttosto complicato e lungo, vista la molteplicità di fattori che ritengo vi abbiano concorso. Penso, ad esempio, alla spinta speculativa seguita all’introduzione della moneta unica europea, alla perdita di appeal dell’investimento azionario (almeno nel 2000-2002) e alla diminuzione dei tassi d’interesse sugli investimenti.
E’ quindi tempo di porre mano ad una nuova normativa sull’edilizia agevolata e ad intervenire per contenere gli effetti del caro mattone avendo a cuore che le famiglie non “falliscano” economicamente oberate da debiti insostenibili per un bene che nel nostro Paese è considerato primario e favorendo la messa in disponibilità sul mercato delle locazioni gli innumerevoli alloggi sfitti anche verificando nuove forme contrattuali che garantiscano un equilibrio tra le esigenze dei proprietari e quelle di chi prende in affitto l’immobile, attivando anche politiche che scoraggino l’investimento in immobili a soli fini speculativi, lasciandoli di fatto sfitti (ad esempio verificando l’applicazione di una tariffa ICI progressiva (simile all’Irpef) in proporzione al numero di anni in cui l’immobile viene lasciato sfitto).
Non dico che ciò sia facile, perché il mercato segue regole e dinamiche su cui la politica non sempre può incidere. Almeno, però, bisogna provarci. E’ una questione di responsabilità.

BORSA SI O BORSA NO? Vediamoci chiaro.

Alla luce dei recenti titoli di alcuni giornali che parlavano di un vistoso crollo del mercato borsistico o comunque di una forte correzione, sull’onda lunga della perdita del mercato cinese, vorrei fare alcune considerazioni al fine di fare un po’ di chiarezza sul corretto uso del termine “crollo” per quanto riguarda il mercato azionario. Spesso infatti il risparmiatore è portato in inganno e teme per i suoi investimenti sulla base dei commenti più o meno apocalittici di taluni analisti finanziari. Definiamo innanzitutto alcune regole base per comprendere il mercato, dove per l’accezione “mercato” intendo dire mercati finanziari in generale. In primo luogo il mercato non è un luogo schizofrenico dove i prezzi salgono o scendono a seconda degli umori ma un preciso termometro dell’economia che registra con un certo anticipo i cambiamenti dell’economia reale, cioè per semplificare la crescita o meno del PIL o per dirla in altri termini la fase di espansione o recessione di un’economia. Solitamente se l’economia reale registra oggi dei forti tassi di crescita ed i giornali parlano di fase espansiva, il mercato ha anticipato nei prezzi questa crescita di circa 6-12 mesi. Ciò significa che i prezzi delle azioni e quindi i guadagni dei risparmiatori hanno iniziato la loro corsa ben prima dell’ufficialità delle notizie. Lo stesso dicasi per le fasi recessive: quando i giornali parlano apertamente di recessione, i mercati hanno perso una buona parte del loro valore. In secondo luogo quando in finanza si parla di lungo periodo, questo equivale normalmente ad un periodo almeno maggiore ai cinque anni che può arrivare sino a 10 anni. In terzo luogo è vero che l’economia è diventata globale e quindi i mutamenti che si registrano in un mercato (chiamiamolo pure Wall Street per indicare la borsa americana) si riflettono sugli altri mercati, ma è anche vero che se analizziamo gli indici dei principali paesi al mondo troveremo delle considerevoli differenze sul lungo periodo, quindi non è sempre vero che i mercati seguono pedissequamente la stessa direzione e questo è tanto meno vero quanto più ci spostiamo nel tempo. Un altro elemento da tenere presente se vogliamo valutare attentamente la situazione di un mercato finanziario è quello di considerare la sua evoluzione partendo da una rappresentazione grafica in quanto risulta difficile ricordarsi il mutare dei prezzi nel tempo e l’evoluzione che hanno seguito. Per chiarire meglio quanto voglio asserire con questo articolo, pubblico di seguito 3 grafici dell’indice MIBTEL (uno degli indici più rappresentativi del mercato azionario italiano) presi su diversi archi temporali.

Il primo grafico è di solito quello che trovate pubblicato. Mostra un arco temporale di pochi mesi e fa vedere come il mercato abbia perso parecchio terreno rispetto ai valori massimi. Il risparmiatore che considera solo questo grafico, ha una visione parziale della realtà ed il timore per di perdere il suo capitale non sarebbe suffragato dai fatti.

Il secondo grafico (clicca per accedere) che mostro invece è più difficile da trovare per i non addetti ai lavori. Mostra un arco temporale di 3-4 anni all’interno dei quali si nota come il Mibtel sia passato da circa 20.000 punti a più di 33.000 con una variazione percentuale positiva del 65% all’interno del periodo considerato. In poche parole chi avesse investito 20.000 euro all’inizio del 2004, avrebbe ottenuto un capitale di circa 33.000 ad inizio 2007. In questo contesto la “correzione” avvenuta qualche settimana fa, appare di modeste dimensioni rispetto al precedente grafico e come si può vedere non è la prima che il mercato ha fatto registrare nel corso di questi 3 anni. Sempre per semplificare al massimo, chi avesse investito i soliti 20.000 euro, dopo le recenti perdite dei mercati ne otterrebbe 31.000, diciamo un minor guadagno accettabile visti i considerevoli rialzi avvenuti.

Il terzo grafico ( clicca per accedere) che posto, è raramente pubblicato dalla grande stampa, ma è il grafico che più di tutti fa cogliere i reali movimenti del mercato borsistico italiano avvenuti negli ultimi anni. E’un grafico determinante per chi vuole investire nel lungo periodo i suoi risparmi. Per fare solo due battute, emerge in modo chiaro, come la perdita dei mercati delle scorse settimane, sia cosa risibile in confronto alla corsa effettuata dal 2003 in avanti. Si evidenzia ancora come il mercato abbia già raggiunto i 35.000 punti dell’indice Mibte agli inizi del 2000 per poi iniziare un repentino mutamento di direzione, accentuato dall’11 settembre 2001, che troverà il suo culmine a cavallo fra il 2002 ed il 2003 a circa 16.000 punti dell’indice Mibtel. Questo solo per dimostrare come la piccola rettifica avuta dai mercati finanziari qualche settimana fa, altro non era che una correzione fisiologica del mercato che non può assolutamente configurarsi come crollo. Se poi a qualcuno interessa l’argomento, visto che è una mia vecchia passione, piena disponibilità nell’approfondirlo.

Luca Trainotti

Finanziaria: perchè si parla solo di Irpef ?

In queste settimane dopo la presentazione della manovra finanziaria da parte del Governo, si è parlato e si parla prevalentemente delle modifiche apportate agli scaglioni Irpef. Vorrei a questo proposito far notare, con l’aiuto del grafico sottostante che solo una minima parte della manovra andrà a reperire e trasferire risorse attraverso la modifica delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Sembra infatti, (perché cifre che mostrino il vero impatto macroeconomico non ce ne sono ancora) che attraverso l’aumento delle aliquote si reperiscano da 200 a 800 milioni di Euro. Tali importi sono suffragati dai dati relativi al modello Unico 2004 che mostrano come la fascia di contribuenti colpita dagli aumenti rappresenti circa l’1,59% del totale (vedere i contribuenti sopra i 70.000 Euro racchiusi graficamente dalla parentesi in rosso). Quindi l’introito derivante da tale misura sarebbe pari allo 0,597% o ben che vada al 2,39%. Per dirla in altri termini, la misura relativa alla modifica dell’imposta sulle persone fisiche è pari a 1/130 in rapporto all’importo complessivo della manovra, che ricordo essere pari a 33.500 milioni di Euro ( o 33,5 miliardi). Questo per dire che il provvedimento è ben lungi dall’essere di tipo redistributivo come sostiene il governo; in pratica se è vero che il contribuente con redditi inferiori ai 40.000 Euro lordi annui potrà beneficiare di uno sconto annuo di imposta che va dai 40 ai 300 Euro a seconda che abbia moglie e uno o più figli a carico, in realtà si troverà a spendere molto di più per tutte le altre imposte introdotte e che certamente avranno un impatto macroeconomico ben maggiore: l’accisa sul gasolio, il tiket sul pronto soccorso e soprattutto la riduzione dei trasferimenti agli enti locali che sicuramente provocheranno un inasprimento delle tariffe da parte dei comuni in quanto non saranno più in grado di far fronte ai servizi con le minori risorse provenienti dallo Stato. Su questo punto è intervenuto duramente anche Cofferati, che come ben sappiamo non può dirsi politicamente molto distante dal Governo. In conclusione, “Se anche Cofferati dubita delle promesse anche questa volta ci riempiranno di tasse”.