Com’è bello il mondo, com’è grande Dio

A molti (sic!) sarà capitato di essere stati protagonisti del seguente siparietto: “Da dove vieni?”; “Vengo da Trento”; “Ah, da Trento…” (faccia pensierosa) “… allora sei abituato/a al mare!”. “Ehm, penso tu stia confondendo Trento con Trieste. Trento è in Trentino, hai presente dove ci sono le Dolomiti… (il nostro ipotetico interlocutore rimane perplesso; riproviamo) il gruppo del Brenta… (niente da fare: il nostro supposto ascoltatore ci guarda con occhi spaesati e le sopraciglia corrucciate)”. Finalmente abbiamo l’illuminazione: “Dai, dove si produce la mela Melinda!”. Questa frase ha lo stesso effetto di un fulmine a ciel sereno; il nostro interlocutore si rianima e un sorriso a trentatré denti esplode sulla suo volto: “Ah, la Melinda! Potevi dirlo subito…”. Insomma, la televisione con le sue pubblicità è la vera maestra di oggi, altro che quei voluminosi oggetti cartacei e noiosi che solo in pochi – ormai – comprano, leggono e conservano con nostalgica devozione.

Veniamo però ora alle vere Muse del presente articolo: le nostre montagne. Noi trentini siamo talmente abituati alla loro presenza che non ci accorgiamo neanche più di esserne cinti, se non quando la stagione sciistica ci porta molti turisti (e, di conseguenza, il traffico in autostrada) e Studio Aperto dedica un servizio alle ciaspole, catalogando la suddetta pratica come un’attività molto di moda.
Ma non è corretto generalizzare: c’è anche chi per la montagna ha una vera passione, e che tutte le domeniche si mette lo zaino in spalla e parte verso sempre nuove emozioni. Sì, perché la montagna non è solo fatica; è anche silenzio, concentrazione, unione con la natura; è sapersi fidare dei propri compagni e adattarsi alle esigenze di chi cammina con noi. Insomma: è una vera botta di vita!
Quando poi si arriva sulla cima – anche se salendo si pensava di non farcela, e si è stati a un passo dal mollare – , ogni fatica si dimentica: la bellezza del paesaggio vince su tutto e l’unico gesto possibile è fermarsi a contemplare il paesaggio, in silenzio. Mai mi è capitato di sentire qualcuno dire che arrivato in vetta ad un monte è rimasto deluso: ogni volta si prova una sensazione diversa, è vero, ma sempre si è pervasi da un sentimento di totale pace. E quando si è lì, abbandonati all’ammirazione, non si può non volgere il pensiero a Chi tutto ciò ce l’ha donato, e ringraziare. E’ vero, ultimamente tutti abbiamo negli occhi le tragedie naturali, quali i vari terremoti e tsunami, ma pochi si sono interrogati sul perché di tali eventi: che l’uomo abbia qualche ruolo in tutto ciò? Non si vuole dare qui una risposta a tale domanda, solo fornire uno spunto di riflessione.

Insomma, dopo una giornata spesa in montagna ci si gode anche la stanchezza: nel cuore le emozioni rimangono, e nella mente panorami indescrivibili si alternano.
Poi, se proprio non si riesce ad esimersi dal fare una critica, l’unica cosa che si può sottolineare è la stridente mancanza della croce su alcune vette del Trentino; il solido e imponente simbolo di ferro che ci guida nella salita, ci conforta nella fatica e la fa da protagonista nelle foto con gli amici. Ma, mai dire mai: magari facendo una petizione su Facebook si riuscirà a far mettere una croce su ogni cima; alla faccia della UAAR, s’intende.

Brevi appunti su amore e fidanzamento

Ieri sera si è svolto il primo dei quattro incontri organizzati dal Movimento per la Vita giovani sul tema: E’ ancora possibile nel 2010 un “amore per sempre”? Dibattito su fidanzamento e amore, e a parlare c’era Padre Stefano, un frate carmelitano che segue molte coppie, prima e durante il matrimonio.

Riporto qui le cose principali che sono state dette nel corso della serata, sperando, in tale modo, di stimolarvi a partecipare al prossimo incontro, lunedì 15 febbraio sempre alle 20.30 in Santa Maria Maggiore: parlerà Francesco Agnoli e la serata avrà un taglio più esperienziale piuttosto che teologioco-didattico, come invece è stato ieri sera.

La prima serata era stata volutamente pensata come più didascalica, per capire un po’ meglio l’argomento di cui andavamo a trattare. Ovviamente Padre Stefano ha preso a fondamento del suo discorso la Bibbia, un testo antico di 2000 anni ma che riesce con straordinaria attualità a parlare a tutti noi.
Il punto di partenza è la Creazione: nella Bibbia vi sono due passi in cui essa è riportata e lo è in due modi diversi. Il primo è quello a tutti più noto, dove si dice che Dio creò tutto in sei giorni e il settimo riposò; il secondo è quando si riporta che l’uomo è stato creato dal fango (da “luto et limo”, dirà San Paolo) e poi grazie al “soffio vitale” è stato elevato ad una statura nettamente superiore rispetto a tutti gli altri animali. Le due creazioni qui riportate, però, non sono affatto in contrasto l’una con l’altra, bensì si compensano e si integrano a vicenda. L’uomo è stato generato ad immagine e somiglianza di Dio e “uomo e donna li creò”; la donna, infatti, è stata creata successivamente rispetto ad Adamo, in un momento in cui egli dormiva (e quindi non era presente) e fuoriuscendo non dai piedi o dalla testa dell’uomo, ma dalle sue costole: questo fatto denota una totale parità tra i due esseri.

Dopo questa piccola introduzione, Padre Stefano ha fatto un’altra divagazione per sottolineare come natura (che deriva dal latino nascor) e cultura non sono affatto due termini antitetici, anzi.

A questo punto si è entrati nel vivo del discorso, tramite un’esemplificazione che, a noi montanari, risulta molto chiara.
Dunque: si può affermare che il processo che porta all'”amore per sempre” non è affatto un blocco monolitico, ma è un percorso costituito da varie fasi.

? Per prima cosa abbiamo l’INNAMORAMENTO. Esso è come una teleferica che ci porta dritti alla vetta della montagna, in un lasso di tempo che può variare, ma che comunque è di breve durata.
? Una volta arrivati in cima alla montagna, la fase dell’innamoramento – durante la quale non si vedono i difetti dell’altro, tutto sembra perfetto, si pensa che solo l’altro ci può rendere felici etc. – finisce: a questo punto si ruzzola giù dalla montagna e si ritorna al punto di partenza, ai piedi del monte.
? Quando si è ai piedi della montagna vi sono due alternative possibili, due modi di comportarsi:
– modo A: chiamato da Padre Stefano “GARANZIA DELLA LAVATRICE”. E’ la classica fase in cui si dice “va bene finché dura, dopo di che è finita”. Questo ragionamento è però deficitario perché non abbiamo a che fare con un oggetto (la lavatrice) che possiamo portare a riparare se ha qualche difetto o non funziona come vorremmo, bensì con una persona.
– modo B: è la soluzione più impegnativa perchè implica una bella fatica, bisogna ri-scalare (questa volta senza prendere la teleferica!) la montagna per ritornare sulla vetta. Questa camminata può essere a tratti più erta e a tratti quasi pianeggiante, in dei punti più faticosa per la donna, che viene tirata su con una corda dall’uomo, e a momenti più impegnativa per quest’ultimo che viene confortato dalla donna: a tratti, però, si riesce a procedere assieme, magari anche di corsa!
Le sole condizioni perchè questa scalata sia possibile, tuttavia, sono una piena condivisione della fatica e una comune volontà di distruggere tutti i ponticelli che si trovano lungo il percorso una volta che li si è attraversati: è un modo simbolico per dire “non possiamo più tornare indietro, ormai”.
? Quando si arriva al matrimonio non si è ancora sulla vetta. Infatti, quando ci si sposa la formula non è “ti sposo PERCHE’ ti amo”, bensì “ricevo te/prendo te per AMARTI”: il processo non è ancora compiuto, anzi, è con il matrimonio e la piena condivisione che il vero amore si realizza perché è lì che la coppia “diventa una cosa sola in Cristo”.

Per concludere questo breve riassunto, mi sembra importante riportare un ultimo concetto evidenziato da Padre Stefano.
Nella frase “mi sono innamorato di te”, il perno è l’IO parlante: “io ho innamorato me stesso di te”. Questa è, ovviamente, una cosa perfettamente normale perché l’uomo è, di per sé, intimamente egocentrico (ma non per questo egoista). Nella fase dell’amore, invece, quando si arriva a dire con piena consapevolezza “ti voglio bene”, il centro non siamo più noi, bensì l’altro: ecco, quando si ama una persona completamente si antepone il suo bene al proprio, si è pronti a donarsi completamente a lei: un po’ (scusate il paragone azzardato) come Dio ha donato suo Figlio per noi; Dio, cioè Colui che ci ha amati per primo “di un amore eterno” (Geremia 31,3), nonostante il nostro nulla.

Quando sono i giovani a dire Sì alla vita

Oggi ho letto sul giornale una notizia inusuale, che fa ben sperare per il futuro: la protagonista è una giovane siciliana venticinquenne, studentessa universitaria e ragazza di buona famiglia. Miriam (il nome è di fantasia) ha una relazione con un uomo e scopre di essere incinta: si confida con i genitori ma “trova un muro di vergogna e dissenso. “Devi abortire, non sei sposata, non possiamo perdere la faccia”, le dicono.” (Avvenire, 4 febbraio 2010, pag. 13). Miriam non è affatto d’accordo con mamma e papà, dice infatti: “ho amato la mia creatura sin dal concepimento” (ibidem). Cosa fare dunque? Contattato il Centro di Aiuto alla Vita del suo paese, Miriam viene a sapere che a Niscemi c’è il centro di accoglienza “Don Pietro Bonilli”, gestito dalle suore della Sacra Famiglia e che è nato proprio per aiutare donne in difficoltà. La tenace ragazza siciliana decide di fingere un aborto spontaneo, dopodiché dice hai genitori che deve trasferirsi in un’altra città per motivi di studio e parte. La Provvidenza sembra muoversi per far nascere questa nuova creatura: Miriam, infatti, viene accolta a braccia aperte e sostenuta nei mesi di gravidanza da suor Genoveffa e dalle altre consorelle.
Il 26 gennaio scorso, infine, all’ospedale “Suor Cecilia Basarocco” di Niscemi è venuta alla luce la piccola Gianna, una bimba sana e paffuta. “Miriam ha voluto darle il nome di Santa Gianna Beretta Molla, che strenuamente ha difeso la vita della creatura che portava in grembo” (ibidem). A questo punto, Miriam affronta l’ennesima prova: telefona ai genitori per comunicare loro che, nonostante le loro futili preoccupazioni di infrangere le norme sociali, sono diventati nonni. Ovviamente essi rimangono sbalorditi, ma vanno subito all’ospedale dov’è ricoverata la figlia e non possono far altro che abbracciare lei e il frutto della sua incredibile forza di volontà.

27 gennaio, giorno della memoria

Anche quest’anno si sta avvicinando il Giorno della Memoria, in ricordo della liberazione da parte dell’Armata Rossa sovietica dei campi di concentramento nazisti siti in Alta Slesia. In quest’ultimo periodo il tema del nazismo è balzato insistentemente sulle pagine dei quotidiani per diversi fatti di cronaca: dal furto dell’iscrizione del Lager di Auschwitz “Arbeit macht frei”, alla morte della celebre nonnina ultracentenaria Miep Gies, che tenne nascosta la famiglia di Anna Frank e curò poi l’edizione del celebre diario diventato un best seller mondiale, agli avvenimenti di Rosarno che in molti hanno associato alle discriminazioni razziali tipiche dell’epoca nazifascista… Ma cerchiamo di dare un quadro della situazione così come si presentava nel 1944. I campi di concentramento nazisti in Polonia, meglio noti come Lager, erano tre: lo Stammlager (“lager principale”) era quello di Auschwitz, attivo a partire dal 14 giugno 1940 e che fungeva da centro operativo per l’intero complesso; Auschwitz II, meglio noto come Birkenau, era il campo più capiente, distava circa tre chilometri dal campo principale e fu attivo a partire dall’8 ottobre 1941; Auschwitz III o Monowitz era un “Arbeitslager” e fu costruito il 31 ottobre 1942 nei pressi del complesso industriale tedesco Buna Werke, a circa 7 chilometri da Auschwitz I.

Lo scopo di tale campo, voluto dall’azienda I. G. Farben, era la fabbricazione di gomma sintetica, ma l’entrata in produzione venne progressivamente rimandata e, in conclusione, non ebbe mai inizio. Nei Lager erano internati diversi tipi di prigionieri, provenienti dalle zone più disparate. Ognuno aveva un numero di identificazione (per esempio, tutti a Monowitz sapevano subito identificare gli italiani perché avevano come numero comune 174, seguito da altre tre cifre distintive per ogni persona) e, nelle logiche hobbesiane del Campo, era ben noto che chi aveva un numero più alto era un soggetto che, con ogni probabilità, si poteva ingannare più facilmente perché internato da poco e quindi ancora inetto alla vita del Lager. In più, ogni prigioniero aveva un triangolo di identificazione: rosso per i prigionieri politici, verde per i criminali, rosa per gli omosessuali, la stella di David formata da un triangolo giallo sovrapposto da un altro rovesciato e di differente colore per gli ebrei, e altri simboli che servivano alle SS per tenere sotto stretta vigilanza tutti i reclusi.

Per il resto, i prigionieri venivano inseriti in un processo progressivo volto all’annichilimento dell’individualità: fin dall’ingresso nel Lager tutti erano rasati e vestiti in modo uguale e, testimonia Primo Levi, “quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro” (Se questo è un uomo, ed. Einaudi 1958, pag. 32). Questo svilimento della personalità, oltre ad essere utile per motivi di ordine generale perché rendeva le persone apatiche e vinte e quindi meno propense ad atti di ribellione, era fondamentale nell’ottica di sterminio nazista perché, in un certo qual modo, consentiva agli aguzzini di sentirsi meno in colpa uccidendo una persona ormai sempre più equiparabile ad una bestia. Di fondamentale importanza è anche evidenziare come le SS molto spesso si servivano di sottoposti per compiere gli atti più nefandi e gestire i crematori: ecco allora che abbiamo l’istituzione, nella rigida gerarchia del Lager, di una nuova “classe intermedia”, quella dei “Kapo”.

Essa era composta da prigionieri che, pur di vedersi riconosciuti alcuni privilegi e delle condizioni di vita leggermente migliori di quelle della massa anonima, erano disposti a collaborare con le gerarchie naziste e si facevano a loro volta vessatori dei propri pari. Primo Levi, nel suo ultimo libro “I sommersi e i salvati”, uscito per Einaudi nel 1986 e contenente varie riflessioni sui Campi di concentramento, dedica un intero capitolo all’analisi di questo che lui definisce “il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo” (I sommersi e i salvati, ed. Einaudi 1986, pag. 39): non era possibile, spiega l’Autore, suddividere i gruppi umani presenti nel Lager in due blocchi limpidi e monolitici, perché nella fitta trama di rapporti interpersonali vi era una sorta di “zona grigia”, costituita appunto da tutti coloro che erano nello stesso tempo sia vittime che persecutori. Questa pare, a noi che possiamo giudicare a distanza di anni questi fatti, anche la condizione di molti gerarchi nazisti i quali, o perché non volevano o perché realmente non erano in grado di cogliere in toto l’enorme macchina totalitaria hitleriana, si ritrovarono molto spesso ad obbedire ad ordini di cui non sapevano né la provenienza né la conseguenza. E’ questa “la banalità del male” definita dalla filosofa Hannah Arendt ed emersa nel processo Eichmann: sostanzialmente solo "la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra".

Ancora un appunto in conclusione. Sempre Primo Levi, nella sua testimonianza di sopravvissuto, spiega come le fantasie dei prigionieri fossero sostanzialmente suddivisibili in due categorie: i “sogni di Tantalo”, nei quali gli internati vagheggiavano di avere davanti a sé una tavola imbandita ma dalla quale non potevano prendere alcun cibo, e gli incubi di non essere creduti una volta tornati a casa, di raccontare la propria esperienza e vedere i propri cari voltare le spalle e allontanarsi. Oggi possiamo dire che almeno questo non è avvenuto, che le tante persone che sono rimaste “sommerse” dalla barbarie nazista non sono dimenticate e che “l’ardua sentenza” che spetta ai posteri non può far altro che condannare ciò che un’ideologia dimentica di Dio ha prodotto.

Marco Andreolli, “Se mai potrai capire” ed. Marietti 2010

“Un padre, storico leader comunista, in punto di morte rivela al figlio l’esistenza di un diario segreto, nel quale la gloria e la purezza dell’ideale comunista vengono irrimediabilmente macchiati da una serie di atti infami, commessi al tempo in cui la famiglia si trovava rifugiata in Unione Sovietica…” (dalla Postfazione di Luca Doninelli)

Sciopero della fame di una coppia gay

Questa mattina ho acceso la TV alla ricerca di un Telegiornale e, facendo zapping, mi sono imbattuta nel programma “Mattino Cinque”. In studio c’era ospite una coppia gay: Francesco Zanardi, 38 anni, imprenditore nel settore informatico, fondatore del movimento “Gay Italiani”, e Manuel Incorvaia, 22 anni, precario. I due convivono dal 2007 a Villapiana e hanno il sogno di sposarsi, cosa che però non è prevista dalla legge italiana, dicono infatti: “conviviamo da due anni ma per lo Stato italiano non esistiamo”. Da ormai dieci giorni hanno preso una decisione: “non mangeremo finché Montecitorio non metterà in calendario le proposte di legge sui matrimoni gay” e per testimoniare la veridicità del loro digiuno hanno installato nella loro casa una webcam così chi vuole può seguire in diretta su internet il loro sciopero. “Abbiamo chiesto consiglio a Marco Pannella: chi, meglio di lui, ci poteva consigliare come sopravvivere allo sciopero della fame”, dice Francesco. “Ci ha consigliato di bere tre cappuccini al giorno, ingoiare vitamine e bere, bere tanto. Faremo come lui ci ha detto”. In studio Manuel è visibilmente provato dal digiuno, mentre Francesco tiene banco e dice: “oggi gli farò interrompere il digiuno, così potrà stare dietro a me che continuerò a farlo”. La conduttrice fa il suo lavoro e tempesta i due di domande: a rispondere è sempre Francesco. Veniamo così a sapere che entrambi hanno alle spalle un vissuto familiare alquanto problematico: Manuel è andato via di casa appena ha potuto e il padre per lui è sempre stata una figura alquanto evanescente, mentre Francesco è rimasto orfano di madre fin da piccolino e suo padre non lo ha quasi mai visto. Coincidenza fatale che entrambi abbiano un passato connotato da quell’assente inaccettabile di cui parla lo psicanalista Claudio Risé?
Ma proseguiamo: Manuel, incalzato dalla conduttrice che vuole “sentire la sua voce”, racconta qualcosa di sé: a diciotto anni si è trasferito a Milano e qui è entrato nei giri della prostituzione e ha fatto alcune esperienze che “per un gay in una grande città sono normali”. Poi però ha conosciuto Francesco e ormai sono due anni che convivono e vorrebbero sposarsi perché, riprende Francesco: “se io morissi a Manuel non rimarrebbe nulla, sarebbe totalmente solo, senza casa e senza pensione”.

A questo punto spengo la TV: cinque minuti di trasmissione sono bastati per far emergere il nocciolo delle questione, ovverosia la perdita di valori del nostro tempo, che porta con sé, come diretta conseguenza, la crisi di moltissime famiglie e numerosi altri problemi sconosciuti fino a qualche decennio fa. E’ inutile continuare a prendersi in giro facendo finta che tutto vada bene quando invece è lapalissiano che non è così; non si tratta di discriminare i gay, di demonizzare chi divorzia, di condannare chi sceglie di abortire, perché nessuno di noi ha la facoltà di giudicare gli atti altrui: bisogna però prendere coscienza che i problemi con cui ci troviamo a convivere oggi sono il frutto della perdita di un centro e del susseguente sempre maggior relativismo che attanaglia il nostro tempo e contro cui Papa Benedetto XVI si sta battendo con vigore. Solo recuperando i principi che costituiscono le radici d’Europa si potrà invertire questa rotta che sta portando il mondo sempre più alla deriva.

La Ru486 in Italia

L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha dato il via libera all’immissione in commercio della pillola abortiva Ru486. Entro un mese avverrà la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, dopo di che la pillola potrà essere utilizzata negli ospedali, anche se nel comunicato si sottolinea che si “rimanda a Stato e regioni le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero pubblico”, lasciando un’autonomia decisionale che potrà rivelarsi alquanto pericolosa. Intanto a Palazzo Madama continua a lavorare la commissione Sanità che sta compiendo l’indagine conoscitiva per appurare se la pillola Ru486 è compatibile o meno con la Legge 194/78. Tale legge, infatti, permette l’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) entro il terzo mese di gestazione e all’interno di una struttura ospedaliera (art. 8) qualora vi siano seri pericoli psichici o fisici per la madre. Fortemente voluta dalla sinistra e conquistata quando al governo c’era la Democrazia Cristiana e Presidente del Consiglio era Andreotti, la suddetta Legge 194 venne fatta passare come un atto volto a far uscire l’aborto dalla “clandestinità”, per rendere la donna libera di abortire in sicurezza e in strutture pubbliche.
Nell’attuale dibattito sulla pillola Ru486, sembra che gli slogan che tenevano banco trent’anni fa siano stati dimenticati: la donna prende, sì, la pillola in una struttura sanitaria pubblica, ma dopo poche ore viene mandata a casa, luogo dove si svolgerà quello che Giuliano Ferrara ha correttamente definito “il tragico casalingo”. Inoltre, la donna dopo aver assunto la pillola è anche avvolta nell’incertezza: non sa dove, quando, come, se abortirà; tutte le responsabilità ricadono su di lei: lei compie il gesto abortivo, lei controlla il decorso dell’aborto e lei vede il materiale abortivo, ovvero l’embrione espulso. Insomma, il medico in tutto l’iter dell’aborto farmacologico (che dura più di due settimane) ha ben poca responsabilità: riecheggia molto il tristemente noto “me ne lavo le mani”… .

Molto significativo è il fatto che anche molte femministe pro-aborto si dicano contrarie alla tecnica farmacologica di introduzione della gravidanza. L’autorevole femminista australiana Renate Klein non condivide per nulla la decisione dell’Aifa perché “scarica ogni rischio e ogni responsabilità sulla donna” (Avvenire, 10 settembre 2009) e quando le viene chiesto di spiegare in che modo questo avvenga risponde: “sarò cruda: una donna si può trovare su un autobus o al lavoro mentre iniziano i conati di vomito, le scariche di diarrea e le contrazioni che seguono l’assunzione del farmaco. Si può arrivare a perdere anche molto sangue. La donna può continuare a sanguinare per giorni, se non settimane, e non sapere con certezza se il figlio che ha dentro di lei è stato abortito o continua a vivere. Nell’ipotesi peggiore per avere questa certezza deve vedere lo stesso figlio espulso nel water: un’esperienza scioccante. Immaginarsi quale senso di colpa la segnerà per tutta la vita dopo questo tipo di aborto” (ibidem).
Prosegue: “la questione della libertà di scelta per le donne è spinosa. Io, per esempio, condivido che le donne abbiano diritto ad accedere a un aborto sicuro e legale, dopo un’appropriata consulenza psicologica, qualora non vogliano mettere al mondo un figlio per ragioni valide: un padre violento, la mancanza di risorse economiche, la minaccia per il proprio lavoro o per la propria formazione. Ma, lo sottolineo, è importante che la donna sia informata correttamente su cosa significhi abortire. Il messaggio banalizzato “è davvero facile, prendi la pillola, e bingo!, non sarai più incinta” è pericolosissimo”(ibidem).

In conclusione, con l’introduzione di questo metodo abortivo si rischia veramente di fare più vittime di quelle che già ci sono: oltre ai bambini innocenti, rischiano la vita anche le donne che prendono tale “farmaco”, senza non dimenticare le pesanti conseguenza psicologiche che la visione dell’embrione abortito comporta.

Intervistato sull’aborto nel 1981, Norberto Bobbio confidava a Giulio Nascimbeni: “Mi stupisco che i laici lascino ai soli credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere”.

Pacs: sempre più scioglimenti

Il patto civile di solidarietà, noto ai più semplicemente come “pacs”, sta per raggiungere in Francia i dieci anni di vita. I dati, però, evidenziano come vi sia ben poco da festeggiare: nel 2007 erano stati firmati in Francia circa 102 mila pacs e ne erano stati sciolti 13 mila, mentre nel 2008 ne sono stati sottoscritti 146 mila e terminati 23 mila. Insomma, in un solo anno il numero di pacs sciolti è salito del 73%: sarà forse perché è sufficiente che uno dei due contraenti invii una lettera scritta al tribunale affinché il patto venga revocato? Sicuramente questa è una delle motivazioni, ma non la sola: il vero problema deriva dalla concezione che la gente si è fatta di tale istituto giuridico. Ormai, in Francia, molte coppie scelgono il pacs come “alternativa pragmatica al matrimonio” (Avvenire, 14 ottobre 2009), lo concepiscono un sostituto “alleggerito” di quel sacramento e istituto che ormai appare ai più come una cosa demodé.
E’ evidente come lo stipulare un pacs sia una forma di disimpegno, molto più che di impegno: senza assumersi l’enorme responsabilità di dire “per sempre” si chiedono gli stessi diritti di coloro che, all’opposto, il coraggio di pronunciare il fatidico “sì” lo trovano. Questo contratto giuridico, d’altro canto, rispecchia perfettamente la società odierna, dove i contatti con le altre persone sono sempre più veloci, superficiali, magari esclusivamente virtuali: riuscire ad instaurare un rapporto stabile e duraturo è un’operazione sempre più rara.
Ovviamente questa cosa è deleteria perché le società, fin dalle origini, si sono sempre fondate su nuclei stabili, che garantivano una solidità sociale ed economica: nell’antica Roma le gentes erano rappresentative di un nucleo familiare originario che si perpetuava nei secoli; in Grecia la famiglia era alla base di tutti i rapporti.
L’effetto dell’instabilità odierna è sotto gli occhi di tutti: adulti perennemente indecisi e incapaci di scegliere cosa fare della propria vita, giovani che per non pensare a nulla saltano da un’esperienza all’altra con estrema facilità, bambini che subiscono il divorzio dei genitori e ne riportano i traumi… tutto in favore di questa fantomatica “libertà” che, non fornendo alcuna sicurezza, lascia perennemente insoddisfatti.
E’ veramente necessario che le persone e i governi si interroghino sulle conseguenze che comportano le scelte che vengono prese: a lungo termine certe politiche possono portare alla deriva.

Le famiglie arcobaleno

In queste settimane il Senato dell’Uruguay, dopo aver legalizzato le unioni civili tra coppie delle stesso sesso nel 2007, sta approvando la possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali.

Negli Stati Uniti i bambini che vivono con genitori dello stesso sesso sono 270 mila, in Germania ammontano a circa 2.200 i bambini adottati da coppie gay. Molti altri sono i Paesi dove è possibile, per una coppia omosessuale, crescere dei figli propri. Perché, così sostengono tutte le recenti sentenze americane, va distinto “il diritto all’educazione dei figli dalle funzioni riproduttive, conferendo lo statuto di genitori a coppie con figli ottenuti anche in modi non-tradizionali” (Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2009). Questo diritto sembra essere avvalorato da una rassegna di Charlotte Patterson, pubblicata già nel 2006 sulla rivista degli psicologi americani, la quale sostiene che “per i bambini non è importante il sesso dei genitori ma la qualità delle relazioni familiari“. Dunque rientra nella normalità avere due mamme o due papà, non vi è nulla di strano: basta che mamma e mamma o papà e papà vadano d’accordo e il bambino cresce sereno.

Ma allora perchè Dio “maschio e femmina li creò?” (Genesi, 1,27)
Probabilmente questa ricerca si è “dimenticata” di considerare la parte in causa più debole: il bambino. Tutti – fin da piccolini – percepiamo la differenza tra la mamma e il papà, la loro complementarità, i loro ruoli differenti: quando c’è il temporale d’istinto si corre nelle braccia della mamma, mentre se si fora la ruota della bicicletta si va dal papà: questa “distinzione di ruoli” è un processo naturale e inconsapevole che ognuno fa. In più bisogna tenere conto delle fasi attraverso cui tutti, crescendo, passiamo e che sono utili ai fini della conquista della propria individualità, compresa l’identità sessuale. Già nei primi anni di vita il bambino si identifica con l’uno o con l’altro genitore a seconda del genere; in seguito, nel tutt’altro che indolore periodo adolescenziale, i figli hanno, tendenzialmente, un rapporto più problematico con il genitore dello stesso sesso: per le ragazze ribellarsi alla madre è un modo per elaborare l’accettazione della propria femminilità, mentre per il papà stravedono; l’opposto accade ai ragazzi, perennemente coccolati dalle madri e in conflitto, più o meno esplicito, con l’autorità paterna.

E’ nell’esperienza comune di tutti, quindi, il fatto che le figure genitoriali debbano essere due e differenti. Molte volte capita di sentire storie di ragazzi problematici o ribelli corredate dalle frasi: “povero, gli manca il papà”, oppure: “è perché la madre è assente, lavora troppo”. Implicitamente la società ha ben chiaro di cosa necessita un bambino per crescere sereno ed equilibrato ma, purtroppo sempre più di frequente, queste concezioni vengono accantonate in favore di “liberté, egalité e fraternité”, sull’onda delle ideologie: perché è giusto che vi sia il divorzio, l’aborto, la fecondazione artificiale, l’adozione alle coppie omosessuali… dimenticando sempre di considerare chi di queste “conquiste” è vittima.

In tal senso, Claire Breton, cresciuta da una coppia lesbica, ci fornisce una testimonianza molto bella. Ormai adulta, dopo anni di psicoterapia, Claire ha condotto un’inchiesta per capire se tutti i figli di genitori omosessuali hanno provato la sua stessa sofferenza ed inquietudine e il risultato di questa sua ricerca è il libro “Ho due mamme – Crescere in una famiglia diversa” (Sperling & Kupfer Editori, 2006), di cui riporto qui due parti molto significative.
La protagonista della prima vicenda è Emma, una diciannovenne di San Francisco, che è stata cresciuta da tre mamme, le quali, alle sue ripetitive (e legittime) domande di conoscere la verità sul padre, si sono sempre rifiutate di rispondere. “A diciannove anni, Emma ha potuto finalmente sapere chi era il padre, un uomo che aveva un’altra famiglia e altri figli. Emma parla del suo padre biologico con il suo ragazzo: “Sai, oggi ho sentito per telefono il mio sperma…”. Un po’ di sperma, ecco quello che Emma sa di suo padre!”( Claire Breton, op.cit., p. 147).

La seconda esperienza ha per protagonista Katlyn, anche lei allevata a San Francisco, città pioniera in fatto di omoparentalità. “Lei ha due madri, di cui una è la madre biologica e l’altra è la madre biologica di suo fratello. Oggi confessa che le manca qualcosa: “Non so cosa sia un padre”. Fortunatamente aveva alcune risorse. Katlyn si è ribellata prestissimo al modello esclusivamnete femminile che le proponevano le sue mamme. Queste ultime raccontano che cercavano di far interpretare ruoli omosessuali alla Barbie e al suo compagno maschile Ken: organizzavamo matrimoni tra due Barbie e travestivano Ken da drag queen. E Katlyn, alta come un soldo di cacio, rifiutava con veemenza queste regole del gioco. Voleva a tutti i costi che Barbie sposasse Ken, semplicemente… Non sono cose che si inventano!”( Claire Breton, op. cit., p. 148).

Già, avere una mamma e un papà non sono cose che si inventano!

Essere testimoni oggi

“Il Verbo del Signore mi giunse, dicendo:
…vi ho dato la parola, e voi la usate in infinite chiacchiere,
…vi ho dato labbra, per esprimere sentimenti amichevoli.
…vi ho dato cuori, e voi li usate per sospettarvi.
…Molti sono impegnati a scrivere libri e a stamparli,
molti desiderano vedere il loro nome a stampa,
molti leggono solo i risultati delle corse.
Leggete molto, ma non il Verbo di Dio,
costruite molto, ma non la Casa di Dio.”

Da I Cori da “La Rocca” di T.S. Eliot