Tim Tebow: l’uomo dei miracoli

È difficile spiegare a un europeo la passione tutta statunitense per il football americano (o, da loro, semplicemente football, con una tendenza tutta a stelle e strisce per l’antonomasia sciovinista). Al contrario di quanto possa sembrare al neofita, si tratta di uno sport assai difficile e raffinato, che ha dato vita negli anni a manuali pseudo-scientifici di strategia e teoria di gioco grossi quanto la Treccani e costringe ciascuno dei circa cinquanta giocatori di ogni squadra (professionistica, giovanile o amatoriale che sia) a mandare a memoria centinaia di schemi talvolta più complicati di un’intera partita di scacchi. Inoltre, è un fenomeno nazionale di primissimo rilievo: il maxi-evento televisivo del Super Bowl (la finale di campionato) è sostanzialmente la terza grande festa patriottica dopo il 4 luglio e il Ringraziamento. Nel football girano quantità spropositate di denaro e di interessi, per il football si smuovono le masse, con il football si fa anche politica; grazie al football, infine, c’è anche il modo di stupire e far discutere la nazione intera. Leggi tutto “Tim Tebow: l’uomo dei miracoli”

Il mondo nuovo, di Aldous Huxley

Nell’ambito del romanzo di science fiction, si indica con il termine di distopia un determinato sotto-genere in cui l’autore immagina un tempo futuro o alternativo, solitamente frutto delle contraddizioni e dei pericoli contemporanei, in cui le peggiore paure prendono corpo e danno forma ad una società umana iniqua e anti-libertaria.
Il genere distopico, in circa un secolo di sviluppo dei temi fantascientifici, ha dato alla luce assoluti capolavori, specialmente nel mondo anglosassone: Farenheit 451 di Ray Bradbury, per esempio, o ancora il celeberrimo 1984 di Orwell (per citare solo i più noti), sono entrati a pieno titolo tra le opere che hanno segnato il ‘900. L’ideazione e descrizione di una distopia, peraltro, non ha lasciato indifferenti anche alcuni autori cattolici inglesi (è il caso, per esempio, de Il padrone del mondo di Benson o del divertente romanzo L’osteria volante di G.K. Chesterton).

Difficile, tuttavia, trovare fra le varie fantasie distopiche mai create una realtà tanto sorprendente e terrificante quanto quella descritta ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley, pubblicato nel 1932 e primo vero successo editoriale di un autore originalissimo e molto controverso, uno spirito (a modo suo) profondamente religioso e precursore riconosciuto della celebre beat generation americana.

Il motivo è presto detto. Tutte le varie ‘distopie’ letterarie o cinematografiche hanno quasi sempre alcuni tratti in comune: viene molto spesso descritta una forma di regime totalitaria, in cui un governo rigido e pervasivo amministra il potere con brutale violenza sia fisica sia psicologica. Non è difficile riconoscere dietro quei sistemi meccanicamente perfetti di dominio la paura di una nuova tirannia di stampo hitleriano e/o staliniano (a partire, per esempio, da La svastica sul sole di P.K. Dick): l’impressione suscitata da queste terrificanti esperienze di governo autoritario continua persino oggi a lasciare il segno nella produzione distopica, in un tempo in cui simili paure sono state -grazie al Cielo!- scongiurate.

Il brave new world di Huxley, al contrario, in un certo senso oltrepassa anche quelle paure di governo dittatoriale: viene descritto una Terra in cui non c’è più scopo alla lotta politica. Nell’universo creato da Huxley lo stesso concetto di ‘politica’ non ha più senso: si è sviluppata infatti la perfetta rivoluzione ‘psicologica’ dell’umanità, e non solo quella meramente sociale. Nel “mondo nuovo” vengono dunque immaginati dei procedimenti di controllo mentale ed emotivo in grado di garantire un perfetto dominio sull’umanità: e se questo è certamente un tema ben presente anche in altre, molto celebri distopie (come quella di Orwell, per esempio), la genialità dell’autore è qui nel dare vita ad un controllo perfetto dell’umanità basato unicamente su meccanismi mentali, senza alcun bisogno di repressione violenta.

Con alcune semplici mosse, infatti, la vita dell’umanità viene incanalata in argini perfettamente ideati per negare alle persone anche solo la possibilità di sentirsi dominati.

  • La famiglia non esiste più: il governo si assume l’onere di programmare il numero di nascite e di immettere, grazie ad avanzate tecniche eugenetiche e “disgenetiche”, l’esatto quantitativo di essere umani necessari alla società. Questi feti vengono divisi, fin dal concepimento in vitro, in cinque categorie gerarchiche di importanza (da Alfa Plus a Epsilon Minus) e condizionati fin dall’incubazione al lavoro cui sono destinati. Particolare cura è destinata a inibire le capacità intellettuali e fisiche delle classi inferiori, in modo che siano perfettamente felici ed adatti agli incarichi più bassi – senza alcun desiderio di avanzare lungo la scala sociale.
  • L’educazione è uniforme, fondata sulla divisione dei ceti e impartita attraverso condizionamenti forzati dell’inconscio: le lezioni (semplici e rassicuranti) vengono inculcate nel sonno (ipnopedia) e sono ripetute fino a diventare parte integrante e inscindibile della mente dei bambini. Vengono rafforzati soprattutto i comportamenti sessualmente disinibiti, la contraccezione, il consumismo sfrenato e la passione per lo sport, e demonizzati o resi privi di senso i rapporti d’amore, le coppie stabili, la maternità, la creatività, l’amore per la natura e per la riflessione.
  • Tutta la terra è pacificata e riunita in un unico governo federale, diviso in dieci macro-settori senza alcun conflitto interno. Il concetto stesso di patria è inesistente: tutti gli uomini sono uniformati e del tutto uguali gli uni agli altri in ogni parte del globo. Il corpo sociale è l’unica cosa importante: ogni individuo ne deve far parte con gioia e godersi la vita senza occuparsi di politica o società. “Ognuno appartiene a tutti” è una delle principali lezioni continuamente ripetute nel sonno.
  • La vita si svolge infatti in una routine di lavoro leggero e privo di difficoltà, seguito da notti di vita sociale e sessuale sfrenata e da frequenti dosi di un potente allucinogeno e ansiolitico, il soma, in grado di inibire qualunque istinto violento o malinconico e qualunque cattivo pensiero. Nessuno ha mai fatto esperienza di desiderio insoddisfatto, di bisogno, di frustrazione, di malinconia o anche solo di malattia. Tutto ciò che costa fatica, infatti, non vale neppure la pena di essere inseguito: per esempio, la donna desiderata (nel raro caso in cui non si conceda immediatamente) può essere sostituita da dozzine d’altre, o da una generosa dose di buon soma. La scienza farmacologica ha fatto tali passi da gigante che a tutti è garantita giovinezza e bellezza fisica fino alla morte.
  • I morenti, solitamente vecchi non più di 60 anni e consumati dall’interno dall’uso di droghe e dalla vita sfrenata, vengono cremati e usati come concime: l’umanità è condizionata fin dalla tenerissima età a non temere la morte, a considerarla un atto necessario al benessere della società e a non ritenere in nessun caso una persona insostituibile. Di nessun defunto viene coltivato o ravvivato il ricordo, se non del mitico fondatore dell’ordine mondiale, il grande Ford, la cui religione (l’unica esistente) è modellata su una versione distorta del cristianesimo e basata sul massiccio uso di soma “sacro” e di canti spersonalizzanti. Le “messe” sono orge sfrenate ed anonime, basate su ritmi musicali ossessivi e su visioni allucinogene della divinità.

Stanti così le cose, chi ha bisogno di lottare per avere la libertà? La “felicità” è garantita dall’alto, e assicurata da un’intera struttura sociale che non riconosce altro valore che l’immediata soddisfazione dei sensi.

Un giovane di nome John Watson, europeo e "civile" ma nato e cresciuto per caso in una delle poche ‘Riserve’ non civilizzate della Terra (un Messico tribale e selvaggio), è l’esploratore e critico di questo “mondo nuovo”. Avendo trovato da bambino un’antichissima opera omnia di Shakespeare, che legge e rilegge come un testo sacro fin dalla più tenera età, John usa frequenti citazioni del Grande Bardo per descrivere e criticare questa realtà, totalmente priva di Dio, di amore e di bellezza.

Sull’altare della soddisfazione dei bisogni primari John riconosce perfettamente il sacrificio del senso del divino. Nessuno degli uomini civilizzati, infatti, è in grado anche solo di comprendere le parole che lui recita: tutte le opere d’arte dell’umanità sono andate perdute dopo la fondazione del sistema Fordiano ed oggi sono ancor meno che vietate, essendo totalmente inutili ed oscure. Persino la scienza è concepita ormai come mero sviluppo tecnologico, totalmente privata di ogni anelito di verità e di conoscenza.

Nello splendido finale, che vede John contrapporsi ad uno dei padroni di quel mondo, viene posto il bivio finale: rinunciando all’umanità, è possibile creare un sistema in cui non v’è che pace, uniformità e soddisfazione; rivendicandola, ci si estranea dalla collettività e si è destinati alla solitudine, come folli e anti-sociali. Arrendersi alla stolida e facile “felicità” dei propri simili, o “reclamare il diritto di essere infelice”?

Questa descrizione del "mondo nuovo" vi ricorda per caso qualcosa del nostro mondo occidentale? Si rimane persino terrorizzati dall’esattezza di certe tendenze descritte nel libro, isolate e portate all’estremo dal genio di Huxley nel lontano 1931 e oggi, ottant’anni dopo, così tangibili e comuni. Terrore perché, a differenza di nazismo e comunismo sovietico, questi tentativi di assicurare il benessere in cambio della rinuncia all’individualità ed alla religiosità riuniscono il peggio dei due totalitarismi; e ancora oggi (pur vestendo un manto molto più rassicurante) sono tutt’altro che sconfitti. Un mondo senza malinconia e senza paure, certo, ma solo a patto di annichilire anche la libertà, l’amore e la bellezza: ecco la peggiore delle distopie che lo scrittore inglese è stato in grado di ideare. Un mondo, cioè, dove non esiste più l’Uomo.
I personaggi descritti nel brave new world, per quanto felici possano pensare di essere, sperimentano infatti la più umiliante delle violenze e delle dominazioni: viene negato loro persino la possibilità di sentirsi schiavi. Non c’è neppure bisogno di una polizia segreta.

John infine sceglie la via più dura, e ne paga le conseguenze morendo tristemente in solitudine. Ma vivere senza fare mai esperienza della bellezza, per lui e per Huxley, è una opzione ancora peggiore della morte. Anche a patto di avere salute, pancia piena e completa libertà sessuale vita natural durante. Chissà quanti, oggi, sarebbero in grado di fare ancora la stessa scelta…

Abilitazione all’insegnamento: forse ci siamo…

Una vicenda burocratica lunga quanto una telenovela brasiliana, e a tratti ugualmente sconclusionata e irrazionale, si sta finalmente per concludere: se a Roma sarà mantenuto l’attuale ritmo di lavoro, dovrebbe essere presto attivo il regolamento per l’istituzione di nuovi corsi di abilitazione all’insegnamento. Il testo in questione, giunto infine a una forma tangibile dopo una lancinante e quasi messianica attesa, è già disponibile on-line in forma sostanzialmente ufficiale: la novità di questo inizio 2011 è che la corte dei conti e gli altri organi di controllo hanno recentemente autorizzato, con modifiche minori (art. 8 c.2, art. 9 c. 3, art. 16 c. 2, 22, 24), la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del regolamento in questione, ed al netto di altri eventuali rallentamenti (poco meno che certi, per esempio, in caso di elezioni anticipate) con i vari provvedimenti attuativi è possibile che le prime classi di abilitazione si attivino già a partire da settembre 2011. In particolare, manca il decreto con le nuove classi di insegnamento disponibili, dato che le attuali sono vecchie ormai di decine d’anni e necessitano di alcune modifiche (specialmente nel settore scientifico).

Vista l’attuale situazione delle università italiane, e sperando ardentemente di sbagliarmi, sembrerebbe tuttavia più probabile che queste grosse novità riusciranno ad essere recepite dalle facoltà italiane (già in grossi guai economico-organizzativi) probabilmente solo dall’anno dopo, nel settembre 2012, anche senza eventuali rallentamenti (o inchiodate) da parte di Roma. Sommo della beffa: i già esasperatissimi aspiranti professori italiani, dopo anni di attesa, avranno finalmente la possibilità di proseguire il proprio percorso formativo, solo per incocciare dopo 3 mesi nella temutissima apocalittica fine del tredicesimo bak’tun. L’ennesima conferma di quanto molti di loro già sospettavano: l’universo stesso sta cospirando per non permettere a nessuno di loro di mettere mai piede in una classe.
Al di là del facile umorismo, bisogna però ammettere che questo regolamento non si limita a tappare finalmente un buco enorme all’interno del sistema scolastico italiano (cosa di per sé già ammirevole), ma introduce grosse novità intese a selezionare il più possibile il personale in accesso su basi qualitative: seppure uno dei motivi di questa operazione, di certo, è meramente quello di evitare le attuali drammatiche congestioni di personale bloccato in graduatoria, occorre dire che molti di questi provvedimenti sono decisamente interessanti anche per arginare il serio problema del crollo della qualità nell’istruzione italiana.

I canali predisposti dal regolamento per ottenere l’abilitazione sembrano essere sostanzialmente due (art. 3 e 8): una laurea magistrale a numero chiuso (art. 4), rivolta soprattutto agli studenti più giovani, che intende affiancare all’insegnamento disciplinare un’attiva formazione pedagogica; e poi il cosiddetto Tirocinio Formativo Attivo (TFA) (art. 10), sempre a numero chiuso ma inteso soprattutto per i già laureati o laureandi a breve, che consiste in un anno di tirocinio in classe a fianco di un tutor docente, con qualche esame di pedagogia e una prova finale di abilitazione per un peso didattico di 60 CFU (cioè, appunto, esattamente una annualità). Il numero di posti disponibili verrà ogni anno decretato dal ministero stesso sulla base della necessità (art. 5), e questa è già di per sé una rivoluzione copernicana rispetto all’attuale sistema a graduatoria (in cui era il sistema scolastico a prendersi l’impegno di assorbire in incarichi di ruolo, un po’ alla volta e spesso nell’arco di dozzine d’anni -leggi: precariato a oltranza-, tutti gli abilitati d’Italia). Al termine di questi due percorsi verrà espresso un voto di abilitazione in centesimi che sembra avere come naturale esito il ritorno dei concorsi pubblici per l’insegnamento, abbandonati qualche buon annetto fa, in cui verranno assegnati immediatamente posti di ruolo (almeno nelle intenzioni).

Analizziamo dunque questo TFA, che fino all’arrivo dei primi laureati nelle lauree magistrali abilitanti (alla meglio, due-tre anni) sarà l’unico mezzo di reclutamento disponibile per la scuola italiana. L’esame a numero chiuso per l’accesso a questi corsi non sarà affatto una passeggiata, stando a quanto detto nel regolamento (art. 15, da leggere attentamente). La selezione viene infatti normata in maniera molto stringente, almeno per quanto riguarda il TFA (più fumosa la norma a proposito dei corsi magistrali); la valutazione verrà infatti data sulla base di 3 prove, due scritte e una orale. Test a crocette emanato direttamente dal ministero, prova scritta disciplinare e colloquio con presentazione dei propri titoli: il sistema ricorda molto da vicino le prove di ammissione ai dottorati di ricerca, che sono resi esplicitamente incompatibili con la frequentazione dei TFA (ma un titolo di dottorato è molto ben valutato durante la terza prova), e l’intento è chiaramente quello di scremare il più possibile “verso l’alto” i vincitori della selezione. Inoltre è previsto, per qualunque classe di insegnamento, il raggiungimento finale di un livello B2 di lingua inglese e di buone competenze informatiche (art. 3), secondo la normativa europea vigente.
I docenti tutor che affiancheranno i tirocinanti così selezionati saranno a loro volta scelti tra le migliori scuole della zona (art. 11 e 12), attraverso un elenco regionale appositamente stilato sulla base di alcuni criteri di merito; dovranno essere docenti di ruolo, possibilmente con lunga esperienza, e dovranno fornire supporto al proprio pupillo nella sua attività di docenza. Un simile tirocinio è previsto anche nel corso delle lauree magistrali abilitanti.
Al termine del percorso gli studenti dovranno stilare una relazione di tirocinio e, finalmente, potranno conseguire la sudata abilitazione, spendibile poi nelle graduatorie o nei futuri concorsi pubblici.

Nel caso della scuola primaria, il ciclo di insegnamento per scienze della formazione diventerà quinquennale (art. 6-7), ma non si prospettano grandi cambiamenti: il titolo attuale verrà probabilmente equiparato a quello futuro, stante il numero chiuso e i tirocini attivi già attualmente previsti dalle facoltà di Scienze della Formazione (art. 15 c. 19) . Saranno inoltre istituite classi specifiche per gli insegnanti di sostegno (art. 13) e per l’insegnamento della musica e dell’educazione fisica nelle scuole primarie e secondarie (art. 9), risolvendo alcuni altri cul-de-sac normativi. Queste classi sostanzialmente seguiranno un iter uguale a quello finora descritto per le altre discipline. Sono previsti inoltre specifici percorsi per l’insegnamento, alle superiori, di una disciplina con lingua veicolare (art. 14), che saranno sostenuti da docenti della disciplina che siano in possesso di almeno un certificato C1 (cioè un alto livello di conoscenza della lingua straniera).

L’intenzione del legislatore sembra chiara: rendere elitario l’accesso all’insegnamento, selezionando i migliori studenti grazie all’aiuto di parecchi paletti ed esami. Lo scopo è allo stesso tempo pratico (decongestionare le graduatorie) e sociale (migliorare la qualità dell’istruzione italiana, sfruttando anche il ricambio generazionale dei prossimi 10 anni). Sembra dunque che qualcuno abbia deciso finalmente di valutare la scuola non solamente uno stipendificio (secondo la vecchia battuta togliattiana che “in Italia i tram servono solo per dar da mangiare ai tranvieri”) ma un punto nodale dello sviluppo italiano, tanto da voler selezionare -anche con una certa crudeltà- solamente gli studenti più preparati. L’idea sarebbe quella, almeno nelle intenzioni, di raggiungere gli standard europei di altri paesi, dove i docenti guadagnano sì il doppio, ma -statistiche alla mano- sono pescati tra i migliori laureati della nazione: il lavoro del professore tornerebbe così ad essere “prestigioso” ed appetibile.

Mi si concedano ora di grazia due piccole valutazione personale, al termine di questo lungo sunto.
1) Allo stato attuale, non esiste facoltà in Italia che possa aprire con facilità nuovi percorsi didattici, stante la recente imposizione di tagliare i corsi e il blocco del turnover. Per le università più piccole, come Trento, sarebbe poi del tutto impossibile. L’unica chance sarebbe quella di trasformare direttamente le attuali magistrali in magistrali abilitanti a numero chiuso: questo, peraltro, non sarebbe il primo dei tentativi ministeriali di imporre il numero chiuso alla recalcitrante università italiana (come, per es., la decisione di imporre tetti massimi alla quantità di studenti per singolo corso pena l’obbligo di ulteriori, impossibili, assunzioni di docenti). Peraltro, nei rari casi di presenza di due corsi di laurea paralleli – ma uno a numero chiuso e abilitante, l’altro aperto ma che costringerà a un ulteriore anno di TFA (e quando le magistrali abilitanti entreranno a regime c’è da scommettere che il numero di docenti abilitati tramite TFA verrà drasticamente limitato)- il più prestigioso ed efficace diventerà automaticamente il primo, rischiando di creare grosse sperequazioni nella qualità dell’insegnamento anche all’interno di una medesima facoltà, e rendendo anche l’accesso alle scuole di dottorato più facile per chi proviene da questi bienni abilitanti. E’ probabile, dunque, che specialmente nelle lauree umanistiche si assisterà a una progressiva sparizione o decadimento dei percorsi non abilitanti in favore di quelli volti all’abilitazione. La cosa potrebbe anche essere positiva, tutto sommato (il numero chiuso e il prestigio potrebbero aumentare ipso facto la qualità del corso); ma costringerebbe d’altro canto ad un grosso carico ulteriore di esami di ambito pedagogico e di tirocini vari, e più in generale una ‘costrizione’ verso il lavoro di docente di scuola, nei confronti di chi frequenta tali facoltà senza avere intenzione di dedicarsi poi all’insegnamento (vuoi per motivi personali, vuoi perché magari orientati a proseguire i propri studi universitari). Senza contare l’automatico indebolimento dei corsi magistrali di alto livello il cui settore scientifico-disciplinare non è previsto per l’abilitazione all’insegnamento, e che quindi andranno ‘limati’ (per quanto riguarda lettere, per es., settori come la filologia, la letteratura contemporanea, quella straniera o quella latina medievale).
2) Questo ambizioso progetto, almeno apparentemente, si contrappone all’attuale regime di austerity imposto dai tagli tremontiani, che peggiorano una situazione già critica: ma a lungo andare mi pare verosimile credere che, calando il numero dei docenti abilitati, sia la naturale redistribuzione delle risorse, sia l’altrettanto naturale legge di mercato tenderanno a rialzare anche la retribuzione dei docenti. Tuttavia sarebbe meglio non attendere che sia un lungo processo di mercato a portare questi miglioramenti di condizione, e impiegare invece da subito risorse per migliorare la condizione economica degli insegnanti italiani. Pur essendo verissimo, infatti, che almeno in linea di massima chi ha la vocazione dell’educatore lo farebbe anche gratis, facendo i conti con la cruda realtà sembra tuttavia impossibile pensare di selezionare gli studenti migliori se il lavoro non è appetibile anche economicamente: stando così le cose, questa riforma resterà monca finché non sarà predisposto un piano di aumento dell’appetibilità finanziaria del lavoro del docente. La Gelmini, o chi per lei, dovrebbe dunque dare a breve un bel colpo di telefono al buon Giulio, oppure l’insegnamento finirà per rimanere sempre e comunque (al di là delle ottime intenzioni) il solito “ripiego” rispetto a professioni più remunerative e prestigiose.

Il PCI ai giovani!

L’altro giorno, ragionando sulle proteste studentesche a Roma (violente o non-violente che fossero), mi è capitata in mano la celeberrima poesia di Pasolini su Valle Giulia; si tratta di una poesia molto lunga e “brutta, cioè non chiara”, a detta dell’autore, pubblicata sulla rivista Nuovi Argomenti e proditoriamente pubblicata sull’Espresso (con pesanti tagli ed un titolo arbitrario) nelle settimane successive agli scontri di Valle Giulia del 1? marzo 1968. Questa poesia (“Il PCI ai giovani!“) è rimasta nella storia soprattutto per la presa di posizione del suo autore a favore dei celerini, perché “figli dei poveri”: essi, secondo il poeta, rappresentavano infatti in quello ‘scontro di classe’ del marzo ’68 i veri proletari. Si tratta di un componimento davvero affascinante, certamente perfetto per offrire una base di ragionamento sugli ultimi fatti di cronaca.

Va detto che questa poesia, a detta dello stesso Pasolini, è scritta su un registro ironico, anche auto-ironico, ed è quindi da intendere in senso paradossale: e in questo luogo non intendo io stravolgerne tanto le parole al punto da farle diventare una critica “da destra” ai movimenti studenteschi, in una lettura che certamente farebbe rabbrividire l’autore. Tuttavia, va detto che la critica mossa da Pasolini a quei ragazzi, pur se certamente “da sinistra”, non solo era perfettamente ragionevole, ma ancor oggi attualissima; a mio avviso, quella critica vale molto di più della estemporanea presa di posizione a favore dei celerini nell’occasione degli scontri di Valle Giulia (una mossa retorica che Pasolini stesso definisce una ironica “captatio malevolentiae“). Voi, ragazzi, dice l’autore, “siete paurosi, incerti, disperati, / (benissimo) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori e sicuri: / prerogative piccoloborghesi, amici.” Sempre di Pasolini sono le urtanti definizioni di “fascismo di sinistra” e soprattutto di “cifrata rivolta della borghesia contro sé stessa“. Simili provocatorie definizioni non hanno certo lasciato indifferenti i contestatori di allora, e certamente possono far riflettere anche quelli di oggi.

La poesia di Pasolini suscitò infatti all’epoca una decisa reazione di condanna da parte di studenti, di intellettuali e di politici. In una tavola rotonda tenuta nella redazione dell’Espresso qualche settimana più tardi, infatti, si alternano e si spalleggiano due diversi condannatori (Foà e Petruccioli, capo dei giovani comunisti italiani) contro un Pasolini laconico e un poco intimidito, ma non disposto a cedere sulle parti fondamentali della sua riflessione. L’accusa è quella di non aver capito la lezione del marxismo, di essere rimasto attaccato ad una concezione del proletariato mitica e mai esistita, mentre le forze del proletariato -secondo la lezione di Lenin- sono tutte quelle che, acquistando coscienza rivoluzionaria, muovono lo storia: dunque, esse sono anche la rivolta dei figli dei borghesi contro lo stato capitalista.

In realtà, a detta di Sansonetti (L’Unità, giugno 2003), in quegli anni attivissimo contestatore, leggendo oggi quelle pagine dell’Espresso bisogna per forza di cose ammettere che “in quella discussione Pasolini disse cose che, se fosse vivo, potrebbe più o meno ripetere oggi, senza grandi modifiche. Gli interventi di Foa e Petruccioli invece sembrano vecchi di un secolo. Fa un effetto stranissimo. Sembra che Pasolini fosse l’unico ad avere avvertito l’importanza del ’68 e avere deciso di impegnare tutte le sue capacità di analisi nello studio di quel fenomeno (allora noi dicevamo: “analisi di classe”). Gli altri non compivano nessuno sforzo di comprensione, si limitavano ad applicare alla cronaca di quei giorni i classici e un po’ burocratici strumenti interpretativi di sempre.” Il fatto è che Pasolini soltanto aveva compreso il carattere non proletario, ma borghese della rivolta studentesca.

Borghese perché arrogante, perché auto-referenziale, e perché frutto di una lotta non rivoluzionaria, ma soltanto civile, intestina: è il poeta stesso a riflettere in questo senso. “Fino alla mia generazione i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un oggetto, come un mondo separato. Potevamo guardare la borghesia così, oggettivamente, dal di fuori: il modo per guardarla oggettivamente ci era offerto dallo sguardo posato su di essa da ciò che non era borghese. Per un giovane di oggi questo è molto più difficile. Perché? Perché la borghesia sta trionfando; attraverso il neocapitalismo la borghesia sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia.” La critica principale, dunque, non era mossa “contro gli studenti”, con cui anzi si sperava di aprire un “dibattito franco e fraterno”, ma contro chi falsamente li incensava (i giornali che “vi baciano […] il culo”) come propri eredi.
Sansonetti, infatti, conclude la sua riflessione dicendo che oggi la poesia di Pasolini potrebbe piacere paradossalmente di più a chi ancora difende il proprio passato sessantottino, che a chi lo rifiuta come una pazzia giovanile: e questa analisi, secondo me correttissima, spiega perfettamente quale sia stato il frutto (marcio) di quelle lotte studentesche, e anche di quelle ad esse successive fino ai giorni nostri. A mio avviso, il fatto che quei ragazzini di Valle Giulia oggi si siano sostituiti ai propri oppositori, ed oggi siano loro stessi i magistrati, i professori universitari, gli editorialisti, dimostra la natura essenzialmente utilitaria di quelle sommosse: non si tentava, infatti, di sovvertire il sistema, ma di prendere posto in esso, sfruttando una dinamica sì riformista, ma ancora essenzialmente borghese (anzi, piccolo-borghese).

Ecco il motivo dell’odio, della violenza di molti di quei “cuccioli” miei coetanei: i loro metodi spocchiosi e prevaricatori nascono da una furiosa dichiarazione di superiorità rispetto ai padri (un moto psicologico, se vogliamo, ma certo non rivoluzionario in senso comunista) lanciati con la sola intenzione di prendere il loro posto. L’arroganza arriva al punto tale da sfilare sotto striscioni auto-inneggianti, in cui i ‘cervelli’ del paese sono tutti e soli coloro che si trovano in corteo in quel momento; arriva al punto da utilizzare i book blocks, grosse copertine di libri dall’anima in ferro, per rispondere alla pari alle cariche della polizia dopo averle provocate. L’arroganza di costoro arriva a dare degli ignoranti ai poliziotti, a pretendere che la loro violenza sia garantita dalla propria pretesa superiorità culturale (e che Pirandello o Manzoni siano usati per menare colpi è una cosa sinceramente agghiacciante, molto più che le “banali” vetrine sfondate o le camionette bruciate), ma non da una critica al Sistema nei suoi fondamenti. Anzi, fin quanto possibile oggi si urla e si grida in favore di telecamera, si cercano “la visibilità” ed il plauso dei cronisti. I canali democratici ed elettivi di rappresentanza studentesca (locali e nazionali) sono snobbati semplicemente perché silenziosi, poco visibili, difficili da utilizzare per fare notizia.
Ancora oggi, la massima aspirazione di questi ragazzi sembra essere quella di avere la propria occasione peri salire la scala sociale: poter entrare nell’università e nel lavoro, poter avere un posto sicuro e la propria leva di comando in mano. Casomai, in questi quarant’anni la cosa è diventata semplicemente più esplicita, ormai pacifica, e si combatte dichiaratamente per ottenere il proprio posticino. Gli slogan rimangono intrisi della medesima retorica degli anni ’60 (solo sostituendo il proletariato, entità mitica ormai senza più presa, con il precariato, nuovo oggetto di mitologizzazione), ma c’è molta più faccia tosta nelle rivendicazioni: ormai non si combatte più per cambiare le cose, ma per mantenerle come stanno. A pensarci bene, infatti, in questi ultimi mesi (e anche negli ultimi anni) non si è combattuto per partecipare a un progetto di riforma, anzi! La necessità di una riforma dell’università (al di là della questione inerente a questa riforma) è quasi sempre rifiutata, o rimandata indietro a contorni e obbiettivi fumosi o irrealistici, del tutto irrealizzabili: per la maggior parte si chiede, anzi si pretende, che le cose restino come stanno, che la scuola e l’università rimanga così com’è. Il dialogo per un progetto di riforma, quando viene aperto, dà sempre frutti fumosi e vaghissimi, senza contatto alcuno con la situazione contingente: lavoro per tutti, soldi per tutti, università per tutti (ribaltando l’articolo della costituzione sul diritto allo studio: ormai si lotta perché lauree e posti di lavoro siano garantiti a tutti, seppur incapaci e immeritevoli). Il frutto di questo è che, ad aspettare l’attuazione di tali progetti, intenzionalmente inapplicabili, le cose rimarranno sempre come stanno da dopo il “trionfo” “culturale” del ’68: ed è proprio questo ciò che molti dei cosiddetti “rivoltosi” si augurano, con l’intenzione di prendere in futuro il proprio posto nel collaudato Sistema.

Ormai, anche la classe politica (persino quella più a sinistra) ormai dà per scontato che la causa degli scontri non sia più la rivoluzione proletaria, il sovvertimento del sistema: è pacifico che la questione sia semplicemente la pretesa di un avvicendamento al potere, un mero “mettere in pensione” i “vecchi dirigenti” per prenderne il posto (il PCI ai giovani!). Nessuna eversione, solo un rinnovamento nella continuità. Visto da sinistra, questo è il definitivo trionfo dell’attuale sistema borghese, non c’è dubbio. Quello che Pasolini aveva genialmente intuito 40 anni fa oggi è lampante: quelle proteste sono intestine alla tanto esecrata borghesia, nessuna rivoluzione nascerà mai dagli sforzi di quegli arrabbiati cuccioli piccolo-borghesi. E allora come oggi i giornali, compreso spessissimo anche quello di Sansonetti, entusiasti “leccano i culi” (come peraltro sono ormai diventati bravissimi a fare).

Quello che è cambiato, da quarant’anni a questa parte, è solo la definitiva sconfitta degli ideali sessantottini più autentici, quelli per un rinnovamento sostanziale del Sistema. Perché in fin dei conti il ’68 non è stato solo male, anche se ha finito per portare al potere la peggiore delle sue corruzioni.
Per questo io, da coetaneo di quei ragazzi, consiglio loro -se davvero la loro aspirazione è quella di cambiare le cose, e non solo di mantenerle come stanno- di ripensare alla parte più autentica dell’esperienza dei loro predecessori, quella che è morta quando essi, crescendo, hanno avuto accesso alla stanza dei bottoni, o che nel peggiore dei casi è impazzita nel sangue degli Anni di Piombo. Quella che trovo splendidamente riassunta in un grande capolavoro, eredità di quegli anni difficili: la Storia di un impiegato di Fabrizio de André, in cui il movimento studentesco non è affatto rifiutato, ma ricondotto alla sua natura più vera. E qual è questa natura? Si tratta dalla condivisione, della riscoperta della fratellanza e dall’amore tra gli uomini che il sistema economico moderno, post-sessantottino, borghese e senz’anima, rifiuta alla radice. ? quella parte dell’esperienza sessantottina che io stesso, che non sono né di sinistra né attivista politico, trovo sinceramente affascinante.
La chiave del cambiamento non sta nella mera violenza sovvertitrice, nella “bomba” che serve solamente a prendere il posto dei propri padri; la novità sta nel nuovo modo di stare insieme, al di là dei ricatti economici e politici, scoperto paradossalmente (nell’album di de André) nel momento dell’apparente sconfitta, cioè del processo e dalla carcerazione finale del protagonista. In quel carcere l’Impiegato scopre la novità del vivere come fratelli, di “entrare soli, e andare insieme verso l’uscita”. Allora si può dare anche “un senso alla violenza”, secondo l’espressione del cantautore; non certamente (almeno a mio avviso) nella lotta armata, ma in una protesta decisa e radicale contro un mondo senz’anima e privo di ideali.

Ai miei colleghi “sovversivi”, allora, pur non avendo né la poesia né l’autorità di un Pasolini o di un de André, vorrei dire questo. Io, da studente e da ventenne, non intendo entrare nei vostri cortei semplicemente per pretendere il mio posto nel Sistema; sarebbe una guerra generazionale sciocca, semplicemente patetica, che si ripete uguale da quarant’anni e di cui non saremmo altro che l’ennesimo ingranaggio.
Ma se l’intenzione di quelle proteste (lo volesse il Cielo) fosse davvero quello di chiedere che alla vita civile sia restituita un’anima, bé, con voi scenderei in strada anch’io. Solo per la strada passa la Salvezza: lo diceva Gaber, lo racconta da secoli il Vangelo. Basta con l’individualismo moderno, consumista e sentimentaloide, che gode della protesta dei propri figli come parte integrante del proprio meccanismo di Sistema. Dobbiamo invertire il cammino di chi nasce rivoluzionario e muore borghese: siamo ormai tutti nati borghesi, è vero, ma non siamo costretti a morire così. E non è questione di sinistra o destra, è questione di umanità. Su quelle barricate ci salirei anch’io.

Gli avventurieri dell’assoluto

Frequentare una qualunque libreria, durante dicembre, è di solito un’esperienza caotica e destabilizzante di sovra-eccitazione sensoriale: un labirinto di grosse strutture ad incastro in cartone e plastica, collocate in ogni angolo utile del locale, gridano verso il naufrago acquirente le più molteplici ed affascinanti novità editoriali atte a favorire la comune crescita intellettuale, etica, estetica, storica, politica e/o gastronomica del paese.
Tuttavia, come l’esperienza e il buon senso concordano nel ricordare, fidarsi dei cartonati antropomorfi raramente si rivela una buona idea: il malcapitato cliente medio, spesso, colto dal fuoco di fila degli instant books di argomento berlusconian-dietrologico e trovandosi da ogni lato il passo sbarrato dalla minacciosa triade Eco-Vespa-Parodi, nel migliore dei casi finisce per scavarsi una trincea nel settore dei vecchi classici e lì si rifugia per tutti i suoi acquisti, come tra vecchi amici sorridenti e un po’ stempiati. Così al sicuro, il poveretto non potrà tuttavia che prendere atto che, a causa della sua viltà, ancora una volta tutti quanti i suoi presenti natalizi saranno a rischio “doppione” (se non persino “triplone”, nel caso degli amici più sfortunati).

Sperando di fare cosa gradita, chi vi scrive ha deciso, qualche giorno fa, di compiere una rapida scorreria nel campo nemico alla ricerca di qualche alleato di nascita recente. Ne è uscito alleggerito di una quindicina di euro e con un’interessante sorpresa per le mani, La bellezza salverà il mondo di Tzvetan Todorov – recente traduzione italiana, presso Garzanti, di un’opera pubblicata nel 2006 con il titolo (chissà perché, inadatto al lettore italiano) Les aventuriers de l’absolu.
Todorov, di professione mostro sacro, in questo libro decide di proporre al lettore la vita di tre diversi scrittori da lui molto amati ed ammirati, cioè Oscar Wilde, Rainer M. Rilke e Marina Cvetaeva. Si tratta di un’opera inconsueta, cui probabilmente lo stesso autore non dà troppa importanza, ma che affascina molto nel suo coraggioso tentativo di leggere l’attività del letterato e del poeta come una ricerca dell’assoluto, dell’eterno ed infinito – parole negli ultimi tempi banditissime da ogni scuola di critica letteraria che si rispetti.
Nel suo ricorso allo schema di un terzetto di bibliografie unite da un filo comune, Todorov probabilmente si lascia ispirare dalla serie dei “Costruttori del mondo” di Stefan Zweig (Baumeister der Welt. Versuch einer Typopogie des Geistes, oggi a quanto pare sostanzialmente introvabili): e come Zweig coglie nel segno, sfruttando un genere tanto alto e tanto umile come la biografia. Raccontando la vita di protagonisti della Storia e della Letteratura, i libri di Zweig e quello di Todorov non si perdono ad indagare i lati sordidi e oscuri di pochi celebri, ma intendono comunicare con efficacia valori e riflessioni comuni a tutti noi uomini.

Umile e alta, la biografia, ma soprattutto difficile, se è vero – come spiega l’autore- che si tratta di una “scelta, tra i fatti e gli innumerevoli avvenimenti che hanno caratterizzato un’esistenza, di alcuni episodi per formare un racconto”: “un’operazione arrogante”, non tanto per la selezione e l’esclusione di alcuni fatti piuttosto che altri, ma perché alla malcapitata e indifesa vittima viene attribuito “un significato al suo vissuto”: “non un significato diverso da quello che poteva conferirgli lo stesso soggetto, semplicemente un significato, imponendo la chiusura a ciò che ciascuno aveva sempre vissuto come apertura, come cammino”. La sola presenza di un osservatore modifica irreparabilmente l’oggetto d’osservazione.
Tuttavia, Baudelaire, che immagino essere l’ispiratore del titolo francese (il titolo italiano è invece tratto da L’idiota di Dostoevskij) e che assieme a Zweig e, appunto, Dostoevskij fa parte del terzetto ‘nascosto’ di autori-cardine del libro (pendant implicito e pervasivo al terzetto “ufficiale” Wilde-Rilke-Cvetaeva), ha fortunatamente lasciato scritto che “la vera critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti”, e Todorov fin dalle prime pagine non fa mistero di leggere “a chiave” le vite dei tre autori descritti, cioè come termini di paragone esemplari del modo romantico di concepire l’arte (l’unica strada che apre verso l’infinito), al fine di isolarne e identificarne la potenza ed i limiti.
Infatti, più che per l’efficace descrizione delle vite e dei drammi dei tre letterati in questione, il libro di Todorov fa di costoro l’esempio concreto e carnale del fatto che ogni uomo tende verso l’infinito; e che tale tensione all’eterno negli ultimi secoli ha sostituito Dio con la “mera” Bellezza, generando tantissime opere d’arte commoventi, ma ancor più vite affannatissime e disperate. Wilde, Rilke e la Cvetaeva tentarono infatti, in modo simile, di ‘tagliare via’ dall’esistenza la parte impoetica e quotidiana e di isolarsi nella sola parte esteticamente significativa, o facendo della propria vita un capolavoro estetico (come Wilde), o rinunciandovi in toto, in favore della propria vena poetica (come Rilke), o ancora vivendo il quotidiano in modo meccanico e spento, dissociandosene quanto più spesso possibile per correre a rifugiarsi nel dorato mondo dell’Arte (come la Cvetaeva).

Gli esiti di tutti e tre questi tentativi sono drammatici, e non per caso: essi derivano da un modo di concepire la vita secondo l’estetismo, un’idea ottocentesca del Poeta come Santo Eremita che affonda le sue radici, a detta di Todorov, nell’ideologia càtara e manichea. L’immagine che l’autore dà dell’estetismo, nel corso delle biografie – e, più ancora, nell’ottimo saggio finale- è infatti quello di una sorta di deriva atea del manicheismo, in cui i due avversi campi sono sì ancora divisi in Etereo e Carnale, ma rubricati in Bello e Brutto (e non più in Bene e Male). Un simile concetto dissociato dell’esistenza ha reso l’anima di questi tre artisti sensibilissima e profonda, ma ultimamente incapace di vivere: avventurarsi verso l’Infinito, cercarlo nel fondo della propria anima rinunciando a tutto il resto del mondo, è stato per loro motivo di grandezza e, contemporaneamente, di rovina.

Todorov rimane sorpreso, in questi tre autori, dal loro comune grandissimo Amore inespresso, e contemporaneamente dalla loro superficialità e dall’incapacità di rapportarsi amorevolmente con l’altro. I tre vivono costantemente in un mondo straniato rispetto a quello dei loro amici ed amanti – i quali arrivano alla loro percezione solo se filtrati e trasfigurati in maschere: i due uomini si rivolgono ai propri amori quasi solamente per soprannome (Bosie, Benvenuta, Merline), e la Cvetaeva passa la vita vagheggiando questo o quell’altro poeta in modo assolutamente autoreferenziale, e fuggendo sistematicamente (come faceva del resto Rilke con la sua stessa moglie) l’incontro personale con loro. In effetti, il maggior punto in comune fra i tre, spiega l’autore, è proprio il modo in cui si rapportarono con i propri simili: nel proprio viaggio verso l’infinito, essi scelgono lo straniamento e l’isolamento dal resto degli uomini. Vivendo in questo mondo a metà fra terra e cielo, essi danno il meglio di sé, spiega il loro illustre biografo, nel loro epistolario: sulla pagina scritta sì, ma concreta e privata, (dove, cioè, arte e vita si fondono) sta infatti secondo lui la parte più bella e più commovente della vicenda umana di tutti e tre, e forse l’unico luogo in cui tutti e tre hanno potuto per qualche attimo trovare una momentanea quadratura del cerchio fra il Bello ed il Quotidiano.

Ma esiste davvero una forma di bellezza che possa radicarsi nel quotidiano, che possa farsi carne? Qui Todorov, concludendo la sua opera, “glissa”: nel tentativo di indicare le molte possibili soluzioni alternative, si incaglia menzionandone efficacemente solo un paio, il Cristianesimo (come nemico ‘storico’ del manicheismo) e lo Zen. In conclusione, spiega l’autore, l’opera di questi “avventurieri dell’Assoluto” può fornire a noi un’indicazione commovente della meta a cui tendere (spesso dimenticata, o sostituita da obiettivi più limitati), ma a patto di non smettere di cercare il senso della vita nella sua quotidianità: nel rapporto con l’altro, e non isolandosi dall’esistenza. Ma se questo Infinito-nel-Finito, pur essendo dentro di noi, non siamo in grado di darcelo da soli, come uscire dall’impasse? Se dev’essere un’Eterno che possa contemporaneamente venire da dentro e da fuori di noi, che sia contemporaneamente Bello e Carnale, in che modo è possibile sperare di incontrarlo e tenerlo stretto tutta la vita?
E anche Todorov, con le sue domande, tutto sommato finisce per ricordare uno dei suoi Avventurieri dell’Assoluto: alla ricerca, con le sue splendide parole, di una Bellezza eterna ma incarnata, e finalmente presente non solo tra le immense galassie o sul sorriso di una fanciulla, ma anche nel dolore e nel vuoto quotidiani.

L’autore, nel suo finale d’opera, eviterà poi di sbilanciarsi troppo sul fatto che la proposta cristiana parla esattamente di una tale bellezza, e non mi va di mettergli in bocca conclusioni che non sono certamente sue. Ma facendo affidamento alle sante parole di Baudelaire, invece di mantenermi mero recensore decido qui di farmi critico per due righe e dare il mio parzialissimo punto di vista sulla cosa, segnalando che la cosa più divertente del libro è che è tutto quasi inconsciamente pervaso dalla figura silenziosa e ombrata di Cristo. Tanto che, indice analitico alla mano, più ancora di Baudelaire, Zweig e Dostoevskij, ma anche più di Nietzsche, Pasternak, Goethe, H?lderlin, Kleist, Rodin, Renan e Flaubert (che, pure, giocano tutti un ruolo molto importante), la figura storica che più viene citata nel corso di tutto il libro è Lui, Gesù Cristo. Quasi per sbaglio, certo, ma è proprio così.

Ora, miei poveri compagni d’arme: oltre al fatto che la biografia rappresenta naturalmente una buona via di mezzo fra il classicone ed il nuovo, che difficilmente i vostri amici l’hanno già acquistato tutti, che il nome di Todorov fa sempre una gran bella figura sopra lo scaffale di chiunque, e che tutto sommato il volume in questione non costa neanche troppo, non vi sembra che un libro con un simile illustre e inconsapevole protagonista nascosto non sia una scelta perfetta, per un efficace regalo di Natale?