Abilitazione all’insegnamento: forse ci siamo…

Una vicenda burocratica lunga quanto una telenovela brasiliana, e a tratti ugualmente sconclusionata e irrazionale, si sta finalmente per concludere: se a Roma sarà mantenuto l’attuale ritmo di lavoro, dovrebbe essere presto attivo il regolamento per l’istituzione di nuovi corsi di abilitazione all’insegnamento. Il testo in questione, giunto infine a una forma tangibile dopo una lancinante e quasi messianica attesa, è già disponibile on-line in forma sostanzialmente ufficiale: la novità di questo inizio 2011 è che la corte dei conti e gli altri organi di controllo hanno recentemente autorizzato, con modifiche minori (art. 8 c.2, art. 9 c. 3, art. 16 c. 2, 22, 24), la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del regolamento in questione, ed al netto di altri eventuali rallentamenti (poco meno che certi, per esempio, in caso di elezioni anticipate) con i vari provvedimenti attuativi è possibile che le prime classi di abilitazione si attivino già a partire da settembre 2011. In particolare, manca il decreto con le nuove classi di insegnamento disponibili, dato che le attuali sono vecchie ormai di decine d’anni e necessitano di alcune modifiche (specialmente nel settore scientifico).

Vista l’attuale situazione delle università italiane, e sperando ardentemente di sbagliarmi, sembrerebbe tuttavia più probabile che queste grosse novità riusciranno ad essere recepite dalle facoltà italiane (già in grossi guai economico-organizzativi) probabilmente solo dall’anno dopo, nel settembre 2012, anche senza eventuali rallentamenti (o inchiodate) da parte di Roma. Sommo della beffa: i già esasperatissimi aspiranti professori italiani, dopo anni di attesa, avranno finalmente la possibilità di proseguire il proprio percorso formativo, solo per incocciare dopo 3 mesi nella temutissima apocalittica fine del tredicesimo bak’tun. L’ennesima conferma di quanto molti di loro già sospettavano: l’universo stesso sta cospirando per non permettere a nessuno di loro di mettere mai piede in una classe.
Al di là del facile umorismo, bisogna però ammettere che questo regolamento non si limita a tappare finalmente un buco enorme all’interno del sistema scolastico italiano (cosa di per sé già ammirevole), ma introduce grosse novità intese a selezionare il più possibile il personale in accesso su basi qualitative: seppure uno dei motivi di questa operazione, di certo, è meramente quello di evitare le attuali drammatiche congestioni di personale bloccato in graduatoria, occorre dire che molti di questi provvedimenti sono decisamente interessanti anche per arginare il serio problema del crollo della qualità nell’istruzione italiana.

I canali predisposti dal regolamento per ottenere l’abilitazione sembrano essere sostanzialmente due (art. 3 e 8): una laurea magistrale a numero chiuso (art. 4), rivolta soprattutto agli studenti più giovani, che intende affiancare all’insegnamento disciplinare un’attiva formazione pedagogica; e poi il cosiddetto Tirocinio Formativo Attivo (TFA) (art. 10), sempre a numero chiuso ma inteso soprattutto per i già laureati o laureandi a breve, che consiste in un anno di tirocinio in classe a fianco di un tutor docente, con qualche esame di pedagogia e una prova finale di abilitazione per un peso didattico di 60 CFU (cioè, appunto, esattamente una annualità). Il numero di posti disponibili verrà ogni anno decretato dal ministero stesso sulla base della necessità (art. 5), e questa è già di per sé una rivoluzione copernicana rispetto all’attuale sistema a graduatoria (in cui era il sistema scolastico a prendersi l’impegno di assorbire in incarichi di ruolo, un po’ alla volta e spesso nell’arco di dozzine d’anni -leggi: precariato a oltranza-, tutti gli abilitati d’Italia). Al termine di questi due percorsi verrà espresso un voto di abilitazione in centesimi che sembra avere come naturale esito il ritorno dei concorsi pubblici per l’insegnamento, abbandonati qualche buon annetto fa, in cui verranno assegnati immediatamente posti di ruolo (almeno nelle intenzioni).

Analizziamo dunque questo TFA, che fino all’arrivo dei primi laureati nelle lauree magistrali abilitanti (alla meglio, due-tre anni) sarà l’unico mezzo di reclutamento disponibile per la scuola italiana. L’esame a numero chiuso per l’accesso a questi corsi non sarà affatto una passeggiata, stando a quanto detto nel regolamento (art. 15, da leggere attentamente). La selezione viene infatti normata in maniera molto stringente, almeno per quanto riguarda il TFA (più fumosa la norma a proposito dei corsi magistrali); la valutazione verrà infatti data sulla base di 3 prove, due scritte e una orale. Test a crocette emanato direttamente dal ministero, prova scritta disciplinare e colloquio con presentazione dei propri titoli: il sistema ricorda molto da vicino le prove di ammissione ai dottorati di ricerca, che sono resi esplicitamente incompatibili con la frequentazione dei TFA (ma un titolo di dottorato è molto ben valutato durante la terza prova), e l’intento è chiaramente quello di scremare il più possibile “verso l’alto” i vincitori della selezione. Inoltre è previsto, per qualunque classe di insegnamento, il raggiungimento finale di un livello B2 di lingua inglese e di buone competenze informatiche (art. 3), secondo la normativa europea vigente.
I docenti tutor che affiancheranno i tirocinanti così selezionati saranno a loro volta scelti tra le migliori scuole della zona (art. 11 e 12), attraverso un elenco regionale appositamente stilato sulla base di alcuni criteri di merito; dovranno essere docenti di ruolo, possibilmente con lunga esperienza, e dovranno fornire supporto al proprio pupillo nella sua attività di docenza. Un simile tirocinio è previsto anche nel corso delle lauree magistrali abilitanti.
Al termine del percorso gli studenti dovranno stilare una relazione di tirocinio e, finalmente, potranno conseguire la sudata abilitazione, spendibile poi nelle graduatorie o nei futuri concorsi pubblici.

Nel caso della scuola primaria, il ciclo di insegnamento per scienze della formazione diventerà quinquennale (art. 6-7), ma non si prospettano grandi cambiamenti: il titolo attuale verrà probabilmente equiparato a quello futuro, stante il numero chiuso e i tirocini attivi già attualmente previsti dalle facoltà di Scienze della Formazione (art. 15 c. 19) . Saranno inoltre istituite classi specifiche per gli insegnanti di sostegno (art. 13) e per l’insegnamento della musica e dell’educazione fisica nelle scuole primarie e secondarie (art. 9), risolvendo alcuni altri cul-de-sac normativi. Queste classi sostanzialmente seguiranno un iter uguale a quello finora descritto per le altre discipline. Sono previsti inoltre specifici percorsi per l’insegnamento, alle superiori, di una disciplina con lingua veicolare (art. 14), che saranno sostenuti da docenti della disciplina che siano in possesso di almeno un certificato C1 (cioè un alto livello di conoscenza della lingua straniera).

L’intenzione del legislatore sembra chiara: rendere elitario l’accesso all’insegnamento, selezionando i migliori studenti grazie all’aiuto di parecchi paletti ed esami. Lo scopo è allo stesso tempo pratico (decongestionare le graduatorie) e sociale (migliorare la qualità dell’istruzione italiana, sfruttando anche il ricambio generazionale dei prossimi 10 anni). Sembra dunque che qualcuno abbia deciso finalmente di valutare la scuola non solamente uno stipendificio (secondo la vecchia battuta togliattiana che “in Italia i tram servono solo per dar da mangiare ai tranvieri”) ma un punto nodale dello sviluppo italiano, tanto da voler selezionare -anche con una certa crudeltà- solamente gli studenti più preparati. L’idea sarebbe quella, almeno nelle intenzioni, di raggiungere gli standard europei di altri paesi, dove i docenti guadagnano sì il doppio, ma -statistiche alla mano- sono pescati tra i migliori laureati della nazione: il lavoro del professore tornerebbe così ad essere “prestigioso” ed appetibile.

Mi si concedano ora di grazia due piccole valutazione personale, al termine di questo lungo sunto.
1) Allo stato attuale, non esiste facoltà in Italia che possa aprire con facilità nuovi percorsi didattici, stante la recente imposizione di tagliare i corsi e il blocco del turnover. Per le università più piccole, come Trento, sarebbe poi del tutto impossibile. L’unica chance sarebbe quella di trasformare direttamente le attuali magistrali in magistrali abilitanti a numero chiuso: questo, peraltro, non sarebbe il primo dei tentativi ministeriali di imporre il numero chiuso alla recalcitrante università italiana (come, per es., la decisione di imporre tetti massimi alla quantità di studenti per singolo corso pena l’obbligo di ulteriori, impossibili, assunzioni di docenti). Peraltro, nei rari casi di presenza di due corsi di laurea paralleli – ma uno a numero chiuso e abilitante, l’altro aperto ma che costringerà a un ulteriore anno di TFA (e quando le magistrali abilitanti entreranno a regime c’è da scommettere che il numero di docenti abilitati tramite TFA verrà drasticamente limitato)- il più prestigioso ed efficace diventerà automaticamente il primo, rischiando di creare grosse sperequazioni nella qualità dell’insegnamento anche all’interno di una medesima facoltà, e rendendo anche l’accesso alle scuole di dottorato più facile per chi proviene da questi bienni abilitanti. E’ probabile, dunque, che specialmente nelle lauree umanistiche si assisterà a una progressiva sparizione o decadimento dei percorsi non abilitanti in favore di quelli volti all’abilitazione. La cosa potrebbe anche essere positiva, tutto sommato (il numero chiuso e il prestigio potrebbero aumentare ipso facto la qualità del corso); ma costringerebbe d’altro canto ad un grosso carico ulteriore di esami di ambito pedagogico e di tirocini vari, e più in generale una ‘costrizione’ verso il lavoro di docente di scuola, nei confronti di chi frequenta tali facoltà senza avere intenzione di dedicarsi poi all’insegnamento (vuoi per motivi personali, vuoi perché magari orientati a proseguire i propri studi universitari). Senza contare l’automatico indebolimento dei corsi magistrali di alto livello il cui settore scientifico-disciplinare non è previsto per l’abilitazione all’insegnamento, e che quindi andranno ‘limati’ (per quanto riguarda lettere, per es., settori come la filologia, la letteratura contemporanea, quella straniera o quella latina medievale).
2) Questo ambizioso progetto, almeno apparentemente, si contrappone all’attuale regime di austerity imposto dai tagli tremontiani, che peggiorano una situazione già critica: ma a lungo andare mi pare verosimile credere che, calando il numero dei docenti abilitati, sia la naturale redistribuzione delle risorse, sia l’altrettanto naturale legge di mercato tenderanno a rialzare anche la retribuzione dei docenti. Tuttavia sarebbe meglio non attendere che sia un lungo processo di mercato a portare questi miglioramenti di condizione, e impiegare invece da subito risorse per migliorare la condizione economica degli insegnanti italiani. Pur essendo verissimo, infatti, che almeno in linea di massima chi ha la vocazione dell’educatore lo farebbe anche gratis, facendo i conti con la cruda realtà sembra tuttavia impossibile pensare di selezionare gli studenti migliori se il lavoro non è appetibile anche economicamente: stando così le cose, questa riforma resterà monca finché non sarà predisposto un piano di aumento dell’appetibilità finanziaria del lavoro del docente. La Gelmini, o chi per lei, dovrebbe dunque dare a breve un bel colpo di telefono al buon Giulio, oppure l’insegnamento finirà per rimanere sempre e comunque (al di là delle ottime intenzioni) il solito “ripiego” rispetto a professioni più remunerative e prestigiose.

Print Friendly, PDF & Email
Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.