Una storia nella quale, in un piccolo paese, le motivazioni culturali possono, ancora, spingere a forzare le proprie scelte. “Una copertina azzurra”
Lasciare il proprio bambino in un ospedale, a volte lontano, per esiliare l’onta della vergogna o anche per tenere alla larga la quotidianità di un ricordo è l’inizio di uno scempio dell’anima che non troverà una fine.
Le pressioni culturali si rinforzano rimbalzando da coscienza a coscienza all’interno di un unico, chiuso contesto familiare, dove non alberga apertura di pensiero, né di cuore.
Una copertina azzurra
“Ciao Gina”, disse sottovoce Viola infilando lo sguardo tra lo stipite e la porta della stanza 128 del reparto maternità. Su quel biancore artificiale un fiocco azzurro faceva bella mostra di sé.
“Ciao Gina, come stai?” La risposta non venne, la donna nel letto sembrava una bambola rotta e abbandonata. Sì, era rotta e svuotata; delle forze, certo, ma soprattutto di quell’affetto che per tanti mesi, pur con tanta rabbia era cresciuto dentro di lei. Non si era accorta di quanto fosse diventato familiare parlargli, quel raccontarsi durante la giornata; parole che sgorgavano dalla disperazione. Le parole di chi non ha ricevuto occasioni dal destino.
Anche in sala parto, in quel non luogo asettico, si era ritrovata senza conforto. I suoi l’avevano mandata in città da una parente per allontanare l’onta della vergogna. “L’abbiamo mandata a stare da una cugina per fare accertamenti più approfonditi all’ospedale.” raccontavano ai vicini che chiedevano notizie.
“Non riusciamo a venire.” avevano risposto quando Viola telefonò per avvisarli che era arrivato il tempo del parto. L’aveva accompagnata in ospedale, ma era tornata indietro per non rischiare di perdere un lavoro già precario.
Era così spaurita Gina, da non riuscire neanche a gridare il suo dolore quando le contrazioni si facevano più forti. “Ci faccia sentire la sua voce, signora!” la esortavano le infermiere. E lei gridò. Un grido silenzioso che nessuno avrebbe sentito e, nello stesso momento, il non luogo asettico trovò respiro e risuonò del flebile vagito di una nuova vita.
“Complimenti signora, è un bel maschietto!” le disse l’ostetrica e intanto le porgeva con delicatezza quell’esserino nuovo, spaesato anche lui. Le braccia di Gina non si tesero ad accogliere la tenerezza, si chiusero sul petto a proteggere il cuore. Ma quale cuore, pensò, il mio l’ho chiuso in un cassetto e l’ho lasciato là.
Ora, gli occhi acquosi, non si accorgevano di Viola. Vitrei e fissi guardavano un’altra lei. Era bello vedersi con Marcello, la faceva sentire energia, fuori dall’esistenza faticosa e monotona della sua famiglia.
Quando gli aveva detto “sì” la prima volta aveva avuto paura, paura delle conseguenze di quell’atto di amore. Era ormai adulta e non più ingenua, ma il desiderio di sentirsi viva, per una volta al di sopra delle sue scialbe giornate ordinarie, l’aveva risucchiata in un vortice di passione. Una passione pericolosa. Marcello aveva una moglie, una moglie e tre figli.
Che donna sei? Si chiedeva mentre contava le ore che la separavano dal prossimo appuntamento. Sei una donnaccia! Una sfasciafamiglie! Ma non si opponeva a quello che succedeva volta dopo volta. Si limitava a guardare le cose che andavano come dovevano andare, era troppo bello sentirsi amata anche solo a metà.
I primi malesseri iniziarono qualche mese dopo e Gina faceva sempre più fatica a nascondere sintomi e sentimenti di quella che era sicuramente una gravidanza; era difficile nella piccola casa che abitava insieme ai suoi genitori e a sua sorella, ormai zitella anche lei. La fatica li chiamava all’alba a svegliare il sole e prima di uscire per il lavoro c’erano i mestieri in casa.
Lei stava male e i suoi genitori erano sempre più preoccupati all’idea di una qualche grave malattia: non teneva cibo Gina e ancor peggio non sentiva santi di andare dal medico. Sua sorella Anna qualcosa iniziava a sospettare, le domande si erano fatte serrate e le occhiate a tradimento sempre più inquisitorie.
Un pomeriggio Gina aveva trovato il coraggio di parlare dei suoi timori con Marcello. Lui aveva ascoltato rimanendo in silenzio e, senza neanche avere la certezza che si trattasse di un nuovo figlio, era sparito.
“Non si è più fatto vivo.”, sussurrò. “Chi non si è più fatto vivo, dimmelo una buona volta.”, chiese Viola, ma le parole si erano nuovamente prosciugate.
“Hai visto il bambino?” Il tempo sospeso. “Ma insomma, rispondi!” sbottò Viola. Dopo giorni di silenzi e pazienza non ne poteva più di non sapere cosa fare, di quale sarebbe stato il destino di quella creatura indifesa. “Le infermiere vogliono sapere cosa scrivere sul certificato di nascita.” tornò alla carica. “Dovrai pur prendere una decisione!”
Una decisione, pensò Gina. Avrei dovuto prenderla mesi fa una decisione. No, non è vero, non l’avrei mai fatto. E poi avrei dovuto dirlo subito a qualcuno e invece…
Invece, per mesi aveva cercato di nascondere quella rotondità sempre più ingombrante con delle fasce che la stringevano stretta, stretta, fino a toglierle il respiro. “Non sarai mica incinta.” le chiese brutalmente sua sorella un giorno mentre erano al lavoro. La risposta era già nel suo silenzio. “Ma sei impazzita! Chi è lui! Ma quando è successo, poi, e dove!”
Gina non sentiva più, le sembrò di essere sulla giostra come una volta da bambina e poi fu notte. Si svegliò nel suo letto, l’avevano portata a casa, ma quanto era rimasta svenuta. Su di lei incombevano i visi dei suoi genitori mentre Anna, in cucina, andava avanti e indietro senza proferire parola.
“Devi andare dal dottore. È da troppo tempo che stai male.” disse suo padre. Sua madre piangeva. Sapeva? Era stanca Gina e ormai non era più in grado di decidere né per sé stessa né per la vita che portava in grembo.
“Una decisione.” dura, Gina rivolta a Viola. “Di’ alle infermiere che non lo terrò e non voglio neanche vederlo.” E un sospiro che traboccava tutta l’oscurità del mondo rimbombò nella stanza.
“No, Gina,” supplica o rifiuto di crederci. “Guardalo, Gina, una volta, guardalo. Prendilo in braccio, un momento. Io l’ho visto, è bellissimo, il suo profumo, profumo tiepido di angelo, Gina. Non lasciarlo.”
“No.” secco. E si potevano vedere nell’aria le schegge laceranti di tutti i sì che non avrebbero mai potuto essere.
Come posso tornare a casa con un bambino. La gente. Sarei svergognata per sempre. I miei genitori, una casa piccolissima. Svergognata per sempre.
E le schegge dei sì, profonde, laceravano ferite che non si sarebbero mai più rimarginate.
Un bambino, potrei chiamarlo Angelo. Svergognata per sempre. Tutti mi indicherebbero per strada. Poi dovrei comprargli una culla, di legno la vorrei, potrei fargli una copertina azzurra all’uncinetto. Non ci starebbe neanche in casa una culla con la copertina azzurra. E la gente, la gente, che vergogna.
Viola sentì i suoi pensieri: “Non ti deve interessare della gente. Quelli sono sempre pronti a ricamare su ogni cosa che succede agli altri. Si guardassero la trave nel loro occhio. Ti porti a casa il tuo bambino e dopo pochi giorni saranno tutti a mangiarselo di baci.”
“Non lo so, Viola, ho paura, mi sembra di portare un peso più grande di me. Forse fra qualche mese mi sentirò inutile e capirò che mi mancherà per tutta la vita. Lo so che ogni volta che vedrò un bambino sarà il mio e lo immaginerò a dormire in una culletta con una copertina azzurra, ma ora mi sento sola e non ce la faccio.”
“Ti pentirai, Gina. Un figlio non è un gioco. L’hai sentito crescere dentro di te, hai sentito i piedini e i gomiti e i pugnetti. Lui riconosce la tua voce. Come puoi?” Gina girò la testa di lato come solo una bambola spezzata avrebbe potuto fare e chiuse gli occhi. Il tempo delle parole era finito.
Cosa ti risponderanno quando chiederai chi era tua madre? Chissà cosa penserai di me quando nei momenti difficili non ci sarò. Non ci sono già. Che sogni avrai? Spero che tu sia felice, questa sarà la mia preghiera per sempre. Non ti ho dato neanche una carezza, neanche una carezza di tua madre potrai portare con te. Quando avrai freddo chi sarà a scaldarti, ma ci sarà qualcuno a scaldarti? Ti lascio al freddo per sempre, sarò al freddo per sempre. Dio, dimmi cosa devo fare. Spero che tu sia felice, figlio mio. Non porto con me nemmeno il ricordo del tuo profumo tiepido. Che ne sarà di te, lasciato in pasto ai lupi dalla tua stessa madre. Ma proprio non posso. Potrei, ci dividono solo pochi metri, potrei lottare per te, con te. Potresti essere il bastone della mia vecchiaia. Sono stanca, angelo mio e ormai ho deciso che non sei più, che non sei mai stato.
La stanza era vuota, Viola era uscita silenziosamente, ma a Gina non importava, la sua mente era in un altrove irraggiungibile. Un’infermiera entrò per chiederle come stava, il fiocco azzurro non sorrideva più dalla porta bianca della stanza 128.
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