Fratel Silvestro, la vite di Dio

L’avventura di un missionario italiano, fratel Silvestro Pia (1920-2003), dei Fratelli della Sacra Famiglia, innamorato di Dio e dell’azione apostolica della Chiesa. Nel 1958, assieme a due confratelli, è inviato dalla Congregazione in Africa. Nel 1966 fonda a Goundì, in Burkina Faso, il Centro di formazione agricola e di accoglienza dei giovani abbandonati o orfani. Fratel Silvestro, come scrive l’Autrice del volume, è stato un "uomo d’azione e di lavoro, uomo di preghiera e di contemplazione. Un uomo di pace, della vera paceUn uomo che si è lasciato consumare dall’amore, dalla carità, dall’agape". Un libro che guida il lettore nel profondo dei sentimenti, della fede e dell’opera di quest’umile missionario delle Langhe.

1. Dalle Langhe al deserto

Occhi neri, penetranti, intensi, accesi e mobilissimi, da furetto. Profondi solchi su una pelle macerata e arata dal sole, dalla terra, dalla fatica e dalla sofferenza. Grandi orecchie e labbra sottili, sorridenti. Sempre pronto all’incontro, alla condivisione, alla partecipazione, al soccorso. Quando parlava di Dio o dei poveri teneva spesso l’indice sollevato. Aspetto semplice, umile, da contadino. Aria smarrita, stupita, con una forza d’animo impressionante ed una tenacia smisurata, dettata da una fede incrollabile. Magro come un fuso, quasi arso da una siccità corporea, talloni screpolati dentro sandali scassati e polverosi. Innamorato di Cristo, della Madonna, della Sindone. Mani grandi, nevrili, nutrite di lavoro e di amore, mani in grado di lenire, di alleviare, di guarire… Mani inchiodate alla Croce, quella Croce che ha sempre portato dentro di sé: «Qu’il est beau de mourir quand on a vécu sur la croix»[1], abbiamo trovato scritto di suo pugno su un’immagine raffigurante il volto di Cristo sofferente che custodiva nel suo breviario. Era il breviario di Fratel Silvestro Pia. Breviario e Croce, Croce e breviario i suoi compagni inseparabili. L’uomo del Piemonte, dalle idee chiare, precise, forti, dall’animo gonfio di carità, è stato salutato, per l’ultima volta, nel gennaio del 2003, da una folla grandiosa, eterogenea, variopinta e da tutti i suoi ragazzi che hanno reso omaggio ad un padre che li aveva sollevati dalla sofferenza migliaia di volte e per quarantacinque anni di seguito. I «notabili» in prima fila, gli uomini con lo sguardo attento, molte donne con il capo coperto e chino, i giovani seduti a terra. Qualcuno traccia segni sulla sabbia, altri sussurrano parole, qualche mamma allatta il proprio piccolo e, più in là, sotto il sole, un asino e delle pecore pascolano tranquillamente. Una tortora emette suoni dal ramo di un mango.

Poi domina su tutto la voce di Fratel Silvestro: è una registrazione di un incontro di preghiera con i suoi giovani. È un momento toccante, particolarmente forte e sono in tanti a piangere. L’uomo che aveva fatto crescere gli alberi e i frutti e le verdure e l’uva nell’arida terra africana, l’uomo che aveva portato il verde, la speranza, la rinascita nei corpi e nei cuori del Burkina Faso, non c’è più. «Lo stregone bianco» che rendeva fertile la sterile terra, che assisteva i bisognosi, che curava i lebbrosi, che formava giovani contadini, che dava lavoro ai poliomielitici, che battezzava e portava Cristo alle genti… e ancora scriveva, al lume della lampada a petrolio, fino a notte fonda, lettere in tutto il mondo per chiedere aiuti economici e per soffiare nel vento mille parole di conforto, di amore e di pace, non c’è più.

Tuttavia c’è tanto sole in questo 1° febbraio del 2003 a Goundì e il sole più forte proviene dalle persone che al passaggio della bara, lungo la strada che conduce da Koudougou a Goundì, ripete: «Dai Silvestro, se l’acqua si compra a 5 franchi, che tu possa bere gratuitamente»; «Bravo Silvestro, che la terra d’Africa, la terra dei nostri antenati, ti sia leggera». Lo segue un corteo di automobili, di motorini, di biciclette, di persone. Ad un chilometro dal centro della missione, si forma un gruppo che danza, canta, lancia grida benauguranti al ritmo dei tam-tam, dei flauti e delle calebasse. A Goundì, il suono del tam-tam risuona fino alla veglia di preghiera: dalle ore 20 alle 6,00 del mattino seguente. La popolazione di Goundì aveva scavato la tomba, nella terra adiacente alla cappella della missione. Dopo la sepoltura, vengono collocati una sua fotografia, un ramo d’orchidee ed un crocifisso. «È la Croce per tanta gente», aveva detto Fratel Silvestro il 19 novembre 2002, «Questa sofferenza salverà l’umanità. È l’ora della sofferenza, del Crocifisso: Cristo soffre con noi. Non si pensa abbastanza a questo compagno dolente che abbiamo accanto. È lui che valorizza tutta la nostra sofferenza. Quando la Croce mi opprime penso alla Croce di Gesù e il coraggio ritorna» e poi «Il Signore ci manda la Croce. La sofferenza riscatterà l’uomo».

Considerava il dolore dei suoi figli africani un mezzo per salvare tante anime e si beava quando vedeva pregare la sua gente, una preghiera convinta, concentrata, vera, capace di sollevare il mondo nella stessa misura della preghiera delle monache e dei monaci. Fratel Silvestro era figlio di una numerosa famiglia di viticoltori, gente con tanta voglia di lavorare. Era nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 26 ottobre 1920. Guarda caso nel mese missionario. Era stato battezzato con il nome di Ettore. I primi undici anni li trascorse in famiglia fra vitigni, scuola e parrocchia. Acquisì tutte le caratteristiche langarole: amore per la terra, attitudine alla coltivazione, senso del dovere, propensione al sacrificio. Fin da ragazzo, caratteristica che sempre manterrà, sapeva cogliere le occasioni per sorridere e si distingueva per quel suo muoversi in mimiche facciali simpatiche e accattivanti. Santo Stefano[2] è disposto sui due lati del fiume Belbo, fra il Monferrato e le Langhe. La parte più alta dell’abitato conserva ancora tracce del suo passato storico, come i ruderi dell’antica Abbazia di San Gaudenzio, dove papa Innocenzo IV sostò nel 1244, e la torre medioevale, unico residuo dell’antico castello distrutto nel 1635 dagli eserciti spagnolo ed austriaco. L’Abbazia di San Gaudenzio [3] risale al X secolo ed oggi è incorporata in un edificio privato. Essa sorge lungo la riva sinistra del Belbo.

Fu innalzata su di un tempio romano preesistente, come testimonia una stele funeraria che adorna l’attuale facciata. I luoghi più conosciuti di Santo Stefano Belbo sono quelli cosiddetti «pavesiani»: paesaggi e località resi celebri dallo scrittore nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Così scopriamo la casa Museo di Nuto Revelli, che Pavese descrisse come «il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo». Un altro edificio, meta continua di visitatori, è la casa contadina dove nel 1908 nacque Cesare Pavese, peraltro molto amato e stimato da Fratel Silvestro Pia. Dal 1914 al 1947 è di proprietà dei Padri Giuseppini che la trasformarono in collegio. La Casa di Pavese conserva la caratteristica struttura della cascina d’inizio secolo, con quattro camere disposte su due piani, divise da una scala[4]. In viale San Maurizio si trova la sede del Centro Studi Cesare Pavese dove, oltre ad una fornita biblioteca, si trova una mostra documentaria permanente sulla vita e l’opera dello scrittore piemontese. La valle del Belbo ha ispirato lo scenario naturale di alcune fra le principali opere letterarie di Pavese: il paesaggio dell’infanzia, il palcoscenico straordinario delle vigne e delle colline, i colori e i sapori di questa meravigliosa terra dove nasce il Moscato, dove si svolge la tradizionale fiera di San Rocco con i suoi falò (accesi lungo la dorsale delle colline che giungono a Moncucco) e la settembrina festa dello spumante. Torna alla mente, dunque, il più famoso romanzo pavesiano, La luna e i falò, vicenda ambientata nell’area geografica fra Santo Stefano e Canelli. È stato proprio grazie a Cesare Pavese che questo luogo, celebre per i prodotti del lavoro della sua gente, è uscito dai suoi confini per trasformarsi in simbolo di riferimento culturale e letterario[5], nazionale e internazionale.

Ottantaduenne, Fratel Silvestro così esprimeva agli «Amici di Pavese», il suo amore per il grande scrittore compaesano (Goundì 3 dicembre 2002): «Grazie per la vostra così bella e interessante rivista “Le colline di Pavese”. Mi fa molto piacere leggere i bei articoli, così ben fatti e molto interessanti, che toccano un po’ tutti i settori della nostra bella Langa. Dio ci ha dato delle belle meraviglie che non sempre si valorizzano. Anche il nostro caro Pavese è un dono di Dio, che non sempre si valorizza». Fratel Silvestro, dal Burkina Faso, pensa al valore umano e letterario dello scrittore piemontese. Il suo animo raffinato tocca il cuore di chi lo legge: «Certo che era un carattere un po’ melanconico. Forse siamo noi un po’ colpevoli nel non apprezzarlo e amarlo con una giusta misura. Per me, non si è sentito abbastanza amato, era troppo sensibile. Ma Dio è buono, ha dovuto fargli una buona accoglienza alla morte per il bene che ha fatto con i suoi meravigliosi scritti. Lui amava la Natura; dunque amava Dio.

Dio lo si trova in modo particolare nella Natura. Si può dire che la Natura è Dio». Ora è il mistico Silvestro, l’uomo avvezzo a parlare del Signore e con il Signore, che afferma: «Cristo mi diceva: “Dietro ogni fiore, ogni foglia c’è il mio animo”. Cesare amava Dio. C’è pure un bravissimo signore, amico mio, di Abbiategrasso (MI) che, ogni volta che mi scrive, mi scrive in poesia, è un grande ammiratore di Pavese ed è già venuto parecchie volte in pellegrinaggio a Santo Stefano Belbo». Da notare la definizione «in pellegrinaggio», dimostrando così che Fratel Silvestro aveva non solo rispetto, ma «culto» per le persone, ognuna aveva in sé la sacralità di Cristo perché, come sostiene san Paolo, l’uomo può, se vuole, essere tempio di Dio.

E prosegue: «Pavese aveva un cuore grande: un grande amore verso Dio, perché amava la Natura e il prossimo. È forse l’amore del prossimo che gli è mancato. L’uomo ha bisogno di essere amato e compreso! Ma Dio l’ha amato e compreso; anche voi state amandolo e comprendendolo. Mi felicito. Quel che ci manca oggi è quest’amore dell’uomo, lo vediamo e constatiamo tutti i giorni». Nel 1932 Ettore Pia si reca a Chieri dai Fratelli della Sacra Famiglia, dove prosegue gli studi e dove matura l’idea di farsi religioso. «Da ragazzo, nei momenti di ricreazione», racconta Fratel Angelo Raimondo che fu suo amico ed oggi ci racconta con affetto la straordinaria vita del suo amato confratello, «nei momenti di ricreazione non si lasciava affascinare dal gioco individuale o di squadra. Aveva sempre qualche cosa da fare: era sempre a disposizione del superiore o dell’assistente, pronto a qualsiasi lavoro extra o normalissimo.

Dava l’impressione di non aver tempo da perdere». E i ricordi proseguono: «Negli ultimi mesi di guerra, quando i caccia inglesi spadroneggiavano nei nostri cieli e prendevano di mira persone o macchine in movimento, Silvestro non rimaneva tappato in casa, si dedicava con passione alle sue colture, e non si arrendeva se non quando il rombo degli Spitfire diventava troppo minaccioso e solo allora si mimetizzava tra i filari o nel verde tenue degli asparagi». Il 9 marzo 1939 emette i primi voti come Fratello della Congregazione religiosa laicale fondata nel 1835 dal venerabile Gabriele Taborin (Belleydoux, 1° novembre 1799 – Belley, 24 novembre 1864)[6].

Completa i suoi studi e gli vengono affidate mansioni all’interno e all’esterno della comunità. Non era portato alla teoria e alle discipline astratte. Era un giovane pratico, concreto, un gran lavoratore. Non ha perciò conseguito lauree; ma ebbe comunque l’occasione di svolgere l’attività di maestro al Collegio Sacra Famiglia di Torino quando per un trimestre fu chiamato a sostituire in seconda elementare Fratel Raimondo, assente per malattia. Afferma quest’ultimo: «La figura di Fratel Silvestro sta a dimostrare che nel lavoro per il Regno di Dio possono contare studi, conoscenza, cultura ma contano soprattutto passione, abnegazione-altruismo, fede e fiducia in Dio e soprattutto uno smisurato amore per il prossimo, visto come immagine di Dio, in particolare per il povero e il diseredato, dal volto sfigurato dalla sofferenza, come quello del Maestro crocifisso. Defunctus adhuc loquitur, soprattutto additandoci la fede intesa come fiducia e la grande povertà che lo teneva vicino al Cristo in croce e ai fratelli crocifissi».

Questo operaio nella Vigna del Signore trascorre poi alcuni anni in Francia dove accresce la sua formazione. Qui ha modo di conoscere più a fondo Taborin ed entra perfettamente nel carisma e nella spiritualità del suo fondatore. Si racconta che il Padre fondatore della Sacra Famiglia, trovandosi in ristrettezze economiche la sua Comunità, decise di allungare abbondantemente con acqua il vino. Un episodio che si ripeterà con Fratel Silvestro quando, nel tempo in cui ricoprirà la carica di economo, senza alcun rimorso, colmerà gli otri con acqua di fonte. Fratel Silvestro, che ha appreso alla Scuola di Fratel Gabriele, chiamato la «Tonaca senza prete», l’amore di portare Cristo alle genti, ha la vocazione per la missione e con sua grande gioia gli viene domandato di partire il 3 ottobre 1958 per l’Alto Volta, oggi Burkina Faso[7], con altri due confratelli (primo insediamento della Sacra Famiglia in Africa). Qui diventerà pioniere missionario, avviando un progetto di promozione umana sociale e religiosa. «La mia vocazione?», dirà un giorno ad alcuni giovani che gli posero delle domande a Villa Brea, sede della Sacra Famiglia in Chieri, «Non sono io che me la son messa nel cuore, è il Signore che l’ha data, è un dono di Dio la vocazione, è una chiamata. San Giovanni Bosco diceva che il 95 % dei giovani ha la chiamata nel cuore, ma ordinariamente questa è soffocata da tante cose, generalmente è soffocata dal benessere e dalla poca corrispondenza che abbiamo verso il Signore. Bisogna fare attenzione perché il male si serve del benessere per distogliere l’uomo da Dio. Benessere, ricchezza; guardate: la ricchezza è lo strumento con cui il diavolo ha allontanato l’umanità dal Signore. È terribile. E l’uomo ne ha fatto il suo dio. Con la ricchezza l’uomo non pensa più a Dio, non pensa più, non si pensa, siamo allontanati da Dio e allora quando uno è in una nebbia fitta, fitta non vede più la sua strada».

Fino al 1965, secondo le indicazioni e lo spirito del fondatore dei Fratelli della Sacra Famiglia, si occupa dei giovani e delle famiglie, realizzando alcuni brevi viaggi ricognitivi per comprendere la realtà del Paese, con particolare attenzione al territorio e alle attività agricole, in vista di un riscatto dell’uomo e della nazione. Nel 1966, per favorire uno sviluppo socio-economico nella lotta contro la fame, Fratel Silvestro viene incaricato di erigere un Centro pilota con indirizzo ortofrutticolo. Tanto coraggio, tanta voglia di fare, molta competenza, sono gli ingredienti utilizzati da Fratel Silvestro per portare a compimento questa impresa che servirà come modello per la popolazione locale e per le stesse autorità governative. Mago agricoltore, sapeva praticamente tutto dei segreti della terra e da essa riusciva a trarre il più e il meglio. Goundì, villaggio a pochi chilometri da Koudougou, è la destinazione di Fratel Silvestro.

Lui non ha problemi di sorta. Abbraccia la povertà con lo slancio dell’uomo libero, perché spogliatosi di tutto: la missionarietà e la carità scorrono nelle sue vigorose vene e non impara ad amare i poveri, li ama già. Il paesaggio di Goundì è caratterizzato dalla savana, in parte erbacea, in parte arborea. Il clima è sudanese di tipo tropicale, con una stagione molto secca (da novembre a maggio) ed una stagione delle piogge (da giugno a ottobre); stagioni che condizionano e regolano tutte le attività della popolazione. La vegetazione è varia. Si possono trovare il gigantesco baobab (ritenuto benefico e anche sacro), il formagere o lapok (che produce una lanugine), il karatè (dal cui frutto si ricavano burro e sapone), il neré (i cui baccelli sono utilizzati come condimento nelle salse), il tamarindo, ma anche acacie, mimose ed alberi da frutta come il mango, la papaia e l’anacardio. I principali prodotti agricoli sono: il miglio, che costituisce la base dell’alimentazione dei gourounsi, il sorgo, il mais, l’arachide, l’igname, il sesamo.

Nella stagione secca si riescono a coltivare ortaggi come il pomodoro, le cipolle, i cavoli, le melanzane, i fagioli ed una specie di grosso pisello. L’allevamento si basa sui caprini, i maiali e gli animali da cortile. Nei limitati e fangosi bacini d’acqua si pratica una misera pesca e in queste acque vivono anche i caimani. L’artigianato è poco sviluppato e si basa sulla falegnameria, la carpenteria, la saldatura, la tessitura con telai a mano. La popolazione è suddivisa per clan e vive in gruppi familiari e in «concessioni», un insieme di abitazioni e granai in terra cruda, raggruppati e chiusi verso l’esterno. Al centro dell’area abitativa, cioè nella corte, si svolgono praticamente tutte le attività quotidiane delle persone e qui si tengono anche le principali cerimonie previste dalla tradizione[8] della comunità dove è tuttora presente e vivo un forte legame con la terra e gli antenati, un costume che continua a scandire i ritmi della vita di ogni giorno. Normalmente un gruppo familiare è costituito da più famiglie legate da parentela e composto da circa 15-20 persone. Il 60 % è in età di lavoro (dai 10 anni in su) e di essi oltre il 50 % sono donne[9].

Lascia scritto in uno dei suoi molteplici messaggi, illuminanti ed invitanti, che abbiamo spigolato qua e là e che non conoscevano né ipocrisie, né edulcorazioni di sorta; la medicina amara ed evangelica arrivava dritta al destinatario: «Voi offrite un digiuno nel breve periodo della Quaresima, ma quanti milioni di uomini, soprattutto bambini, digiunano per lunghi mesi! Parlo di gente che mangia, quando può e non sempre a volontà, al massimo una volta al giorno. «Gente che ha fame, tanta, da morire. Polenta e frittelle di miglio, qualche arachide, alcune foglie di radici… Costituiscono la loro principale fonte di alimentazione. Disgraziatamente non ce n’è sempre. «Un giorno il capo villaggio di Goundì, mi chiama perché saluti e battezzi la sorella lebbrosa che sta per morire. Accorro. Le parlo di Dio, della Madonna… Lei ascolta, sorride… Poi con un filo di voce: “Mi porti della farina, tanta farina…”. Sì, le ho portato farina, olio, una coperta nuova… «Come dimenticare quella richiesta estrema, quel grido di una vita passata nella fame, negli stenti, nella sofferenza? «Come dimenticare quella donna con tre bambini aggrappati alla gonna che mi supplica di darle un po’ di miglio perché, lei e i suoi, stanno per morire di fame? «Le riempio un sacchetto di miglio, mi ringrazia con ampi gesti, mi saluta con uno sguardo radioso… riprende la strada. «Poco dopo, vengono a dirmi che è morta di fame prima di arrivare a casa sua».

In una radura ai margini della savana, Silvestro costruì, in meno di due anni, un agglomerato di sei piccoli edifici che costituivano la sua missione: una comunità di accoglienza e di lavoro. Il corpo centrale era un basso fabbricato che aveva per tetto delle semplici assi poste l’una accanto all’altra, senza nessun’altra copertura. Al suo interno c’era un cucina, una camera usata come infermeria e una stanza-magazzino dove Silvestro dormiva. Alle spalle dell’edificio centrale c’era un fabbricato più piccolo, composto da tre stanzette destinate agli ospiti. Sul davanti, nei pressi della recinzione, aveva eretto con amore una piccola cappella. Sul lato opposto, c’era invece la «casetta-laboratorio», con dei piccoli telai che Silvestro aveva costruito per insegnare ai ragazzi poliomielitici a tessere filati e tessuti. Dietro a questi edifici, ai margini della savana, si trovavano la casetta per gli attrezzi, il pollaio, gli orti, il frutteto e la vigna, tutti in uno spazio ordinato e ampio che Silvestro aveva sottratto all’aridità di una durissima terra.

Fratel Silvestro amava scrivere: lettere, appunti, meditazioni, preghiere, riflessioni, dove Cristo e Maria erano sempre al centro dei suoi pensieri, come del resto erano al centro delle sue azioni. Qualsiasi foglio, foglietto o pezzettino di carta erano utili per scrivere le sue considerazioni, le sue esortazioni, i suoi consigli… insomma, tutto ciò che gli sgorgava dal suo paterno e straripante cuore. Maturava pensieri, colloquiava con Cristo e Maria Santissima, dialogava con l’Altissimo, pertanto soliloqui e dialoghi venivano impressi sulla carta, ma anche monologhi di Gesù, e noi oggi possiamo così leggerli, meditarli e goderne. Recitava il Padre nostro riflettendo parola per parola, indicandola come preghiera che unisce nello stesso spirito i fratelli in Cristo: «Padre nostro! E ci ha dato la grazia di esserci Padre; per amore ci ha creati, ci ha tratti dal Suo amore per portarci nell’amore! «Padre nostro! Sei nei Cieli e ovunque perché tutto ciò che è armonioso, buono, bello, santo, è opera tua. «Dacci la forza d’essere sempre nel giusto e questo avverrà se il pane dello spirito sarà per noi forza e salvezza. «E dacci la tua Provvidenza divina affinché noi possiamo meglio passare dal mondo in pace con Te… Aiutaci Padre, ad essere buoni e leali, fa’ che non dobbiamo avere bisogno d’essere perdonati, col tuo aiuto rendici forti per sapere perdonare. Fa’ che non ci tenti il maligno! Noi con la volontà nostra, Tu col Tuo aiuto divino. «Sia santificato il Tuo nome attraverso le opere sante dell’umanità in grazia. «E venga sulla terra il Tuo Regno di grazia. «Sia fatta la tua volontà. La tua volontà è la più giusta: tu conosci e sai ciò che per la mia anima è bene. «Pregatemi per coloro che non mi sentono! E se confidate in Me molte anime mi saprete portare». E Fratel Silvestro di anime al Signore ne porterà in abbondanza.

[1] “Quanto è bello morire quando si è vissuti sulla croce”; [2] Il nome del protomartire, frequente in numerose località del Piemonte, caratterizza molte istituzioni monastiche che nel Medioevo vennero intitolate al santo. Santo Stefano Belbo fu concesso da Ottone I ad Olderico Manfredi nel 1001 e appartenne a Bonifacio del Vasto che lo lasciò in eredità ai figli, marchesi di Busca e di Saluzzo. I primi cedettero una parte al comune di Asti, donando il rimanente ai marchesi del Monferrato. Successivamente vi ebbero giurisdizione i Del Carretto, gli Incisa e i Corti. Nel 1613 il territorio di Santo Stefano passò a Casa Savoia; [3] La chiesa abbaziale di San Gaudenzio, di probabile origine benedettina, ma dichiarata extra usum religiosum dal 1891 e destinata ad uso privato, si presenta con una navata centrale terminante con un’abside semicircolare che sovrasta le due absidiole laterali e reca un arco trionfale; [4] Al piano superiore della casa di Cesare Pavese è allestita una mostra fotografica permanente nella quale sono esposti alcuni manoscritti pavesiani. Molto interessante è l’allestimento della cantina, dove sono sistemati attrezzi agricoli ed enologici di un tempo; [5] Il fortunato connubio fra produzione letteraria e produzione enogastronomica è evidente nel decennale sodalizio maturato fra «Gli amici del Moscato» e la casa natale di Pavese, dove qui l’ente enologico ha la propria sede sociale con lo scopo di valorizzare, in un’ atmosfera dal sapore culturale e letterario, il vino Moscato, principale attività produttiva dell’area collinare santostefanese; [6] Quando nacque Gabriele Taborin stavano per terminare i giorni dell’infausta Rivoluzione francese, conclusasi con il colpo di Stato del 9 novembre (18 brumaio ) 1799, portando Napoleone Bonaparte all’autoproclamazione di Primo Console. Settimo ed ultimo figlio di Claudio Giuseppe Taborin e di Maria Giuseppina Poncet-Montange, Gabriele fu un precoce chierichetto, crescendo nell’attenzione scrupolosa per le funzioni liturgiche. Amava tutto ciò che riguardava la Chiesa, la preghiera e la devozione alla Vergine Maria. Si mise al servizio della sua parrocchia come sacrestano, catechista ed insegnante. Resosi conto che, usciti dalla Rivoluzione francese, dilagava l’ignoranza e grande disordine morale e religioso, egli volle cercare di essere attivo e disponibile strumento di bene e di rinascita. Gabriele Taborin lasciò Belleydoux e si recò nel vicino capoluogo di St.-Claude, dove diede inizio ad un’esperienza di vita comune, secondo la sua spiritualità e, sostenuto da alcuni sacerdoti, chiamò il neogruppo «Fratelli di San Giuseppe». Esso era composto da cinque giovani, i quali nel 1824 vestirono l’abito religioso, assumendo il compito di servire nella chiesa cattedrale e di gestire una scuola a St.-Claude, con il permesso del vescovo monsignor de Chamon. Ma l’esperienza durò poco, in quanto le difficoltà fecero naufragare il tentativo, per cui i giovani si dispersero e Taborin andò dai Fratelli della Croce di Ménestruel e, in qualità di catechista, a Châtillon-des-Dombes. Era il 1827 quando, nella canonica di Genay, Taborin incontrò il vescovo di Belley, Alexandre-Raymond Devie, al quale espose i propri disegni per il futuro, ne ebbe incoraggiamento e aiuto. Così gli fu possibile aprire un convitto a Belmont nella diocesi di Belley e poi nel 1835 si raccolsero i primi novizi del nuovo Istituto dei Fratelli della Sacra Famiglia. Tre anni dopo si ebbero le prime tre professioni, mentre il venerabile pronunciò i voti perpetui. Nel 1840 lasciò Belmont per Belley, dove fu apostolo instancabile fra i giovani e guida della sua Istituzione fino alla morte, sopraggiunta il 24 novembre 1864. Il primo decreto per la sua beatificazione risale al 13 giugno 1966 e il 14 maggio 1991 è stato dichiarato venerabile. Gabriele Taborin, aveva i titoli accademici per l’insegnamento elementare, ma era fondamentalmente autodidatta, rimase un Fratello laico e fu in grado di reggere una famiglia religiosa. Si recò a Roma due volte e nel 1841 ottenne da papa Gregorio XVI l’approvazione della sua fondazione. Nel 1854 aprì una missione nel Minnesota, negli Stati Uniti, (poi chiusa) e fu disponibile a tutte le richieste provenienti dalla Savoia e dalla Francia. Alla sua morte i religiosi erano più di centosessanta divisi in una cinquantina di piccole comunità. I Fratelli della Sacra Famiglia sono impegnati ad evangelizzare, ad insegnare alla gioventù e oggi sono sparsi in diversi Paesi del mondo;[7] Il Burkina Faso confina con il Mali a nord e a ovest, con il Niger e il Benin a est, con il Togo, il Ghana e la Costa d’Avorio a Sud. Costituito in prevalenza da un vasto altopiano chiuso a est da modesti rilievi e a sudovest dal Téna Kourou (747 metri), è attraversato da corsi d’acqua confluenti nel Volta;[8] Vengono celebrate cerimonie con sacrifici, danze e riti, però non esistono, fra i gourounsi specifiche cerimonie di iniziazione, così indossano le maschere spesso utilizzate dalle altre etnie; [9] La donna partecipa al 60% del lavoro di raccolta nei campi e all’80% nel trasporto a casa dello stesso raccolto. Fornisce circa il 50 % della mano d’opera per la sorveglianza e la cura del bestiame. È suo esclusivo compito la raccolta e il trasporto del legname e dell’acqua, la raccolta dei prodotti naturali non coltivati come foglie, erbe, radici, frutti… usati come integratori alimentari e componenti essenziali per l’igiene e la salute. La donna si occupa della prole, della trasformazione quotidiana dei prodotti alimentari per le necessità familiari. È inoltre esclusiva competenza della donna il piccolo commercio, la vendita e lo scambio dei prodotti, che rappresenta l’unica fonte di guadagno personale. Così, pur avendo un ruolo secondario per molti aspetti della vita del clan e di quella familiare, la donna rappresenta l’elemento di forza e di riferimento della stessa comunità.

Rosetta e Giovanni Gheddo

di Cristina Siccardi

La coppia di sposi Rosetta Franzi (1902-1934) e Giovanni Gheddo (1900-1942), candidata alla beatificazione, emerge come alternativa forte a una società mediatica e culturale, editoriale, televisiva e cinematografica che propone il matrimonio come atto fragile e costantemente in bilico. Invece Rosetta e Giovanni offrono, in quanto testimoni del Vangelo, un modello di sodalizio sponsale dove l’amore è realmente inteso per sempre. Non hanno inseguito sogni o illusioni, né banalità o superficialità. Il loro amore si è concretizzato in una casa solida edificata sulla roccia e che ha avuto, per cemento armato, la fede in Cristo. Sacrifici, dolori, tragedie sono stati sublimati sull’altare del sacramento nuziale e attraversati con lo stesso spirito che anima i martiri. ? in corso la causa canonica per la loro beatificazione.

12. A tutto pensa

Il 10 giugno 1940 l’Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. La preparazione bellica per questa iniziativa è decisamente inadeguata. L’impresa etiopica e la partecipazione alla guerra civile spagnola, contrariamente a quanto sostenuto dalla propaganda, non erano servite ad accrescere e a rinnovare gli apparati militari. Delle tre armi soltanto la Marina aveva completato i propri piani di ammodernamento. L’esercito aveva in dotazione sistemi d’arma obsoleti e in numero insufficiente. I mezzi corazzati, che fin dalle prime fasi del conflitto si erano imposti come i protagonisti della nuova tattica della Blitzkrieg (guerra lampo), basata sull’estrema rapidità e decisione delle manovre offensive, erano scarsissimi e limitati ai modelli leggeri e medi; totalmente assenti, invece, i carri pesanti, arma che sarà determinante. Gli aerei su cui l’aeronautica militare poteva contare erano, comunque, per velocità, armamento, autonomia e installazioni di bordo, meno efficienti di quelli delle altre forze in campo. Pure l’equipaggiamento e l’addestramento degli uomini, così come l’organizzazione dei reparti e degli stessi comandi, presentavano deficienze consistenti. Tuttavia Mussolini decise l’entrata in guerra a causa dei successi schiaccianti dell’esercito tedesco e la repentina capitolazione della Francia. Pareva sensibile ed evidente una guerra lampo, veloce e vittoriosa. Ma la scelta della Gran Bretagna di proseguire nel conflitto anche da sola, con il sostegno, per il moneto solo economico degli Stati Uniti, dimostrò ben presto la fallacia del calcolo.

Gli effetti della guerra piombarono anche in casa Gheddo. Il geometra di Tronzano venne subito richiamato sotto le armi. Compì il suo servizio dal 9 giugno al 15 agosto 1940. Venne inviato, in qualità di capitano d’artiglieria della Divisione Cosseria, alla frontiera con la Francia, dove non sparò alcunché. In luglio il capitano scrive al direttore dell’ “Associazione d’irrigazione agro ovest Sesia” di Vercelli, domandandogli una dichiarazione per poter presentare “domanda per ottenere una licenza illimitata” dal servizio militare: era vedovo, padre di tre figli minorenni. Nella lettera egli scrive che il suo dovere militare l’ha compiuto e desidera richiedere l’esenzione dal servizio militare a causa della sua otosclerosi (patologia ereditaria che rende sordastri), “arretramento dei timpani in seguito a rinite”, come egli stesso scrive.

Il 26 ottobre 1941 da Civitavecchia descrive in questi termini il suo tragitto sanitario:
Quanto alla mia posizione sanitaria, saprete che all’ospedale di Novara ove sono stato visitato minutamente dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli (tanto che mi hanno trovato il fegato leggermente gonfio, mentre io non ho mai, grazie a Dio, avvertito alcun disturbo) sono stato dichiarato “idoneo incondizionato“.
Siccome poi dovevo firmare per accettazione o meno, io ho scritto testualmente: “Il sottoscritto non accetta perché realmente affetto da sordità come risulta dalle note caratteristiche”. Dovevo quindi passare una visita superiore a Torino; e speravo almeno di restare a casa fino al corso successivo. Invece niente. Mi han fatto partire dicendo che la visita superiore l’avrei fatta a Roma; e giorni or sono ho saputo dalla Scuola che la Commissione Medica, in base al reperto della prima visita collegiale, ha giudicato non necessaria la richiesta visita superiore. Eccomi servito.
Si vede che s’accontentano di poco perché sono sordo e vedo poco, il naso è ammalato, i denti se ne sono andati in gran parte e quei pochi sono guasti, ho il fegato gonfio, ecc. ecc. Avrò certamente anche un poco di mattoide, e con tutto questo po’ po’ di roba, sono “idoneo incondizionato”. Sono proprio di facile contentatura!” . Giovanni richiese più volte visite mediche specialistiche a causa della sua scarsa salute.
Avrebbe avuto la possibilità di far intervenire amici influenti, lo stesso cognato Lancia avrebbe potuto agire in qualche modo. Invece non lo fece. A Roma ebbe l’opportunità di incontrare il conte Emilio Pagliano, vercellese, ambasciatore di Stato in Filandia, poi in Brasile ed Egitto, del quale Giovanni Gheddo amministrava due sue proprietà: una a Tronzano e l’altra a Villareggia. Il conte Pagliano invitò a pranzo il suo amministratore nell’albergo Plaza. Avrebbe avuto la possibilità di chiedere una sua raccomandazione se non proprio per tornare a casa, almeno per rimanere a Civitavecchia, in una batteria da costa.

Ai familiari, proprio da Civitavecchia il 19 ottobre 1941, scrisse:
Ma che cosa dovevo chiedere a Sua Eccellenza? Che mi faccia mandare a casa? Non so se mi conviene, anzi temo di no. Mi son limitato a dire, cose ovvie del resto, che mi spiacerebbe andare in Russia per il freddo, e in Africa per il viaggio“.
Il direttore dell’Associazione redasse una dichiarazione in cui si afferma che egli è “l’unico impiegato amministrativo e tecnico del Distretto irriguo di Tronzano”, pertanto, “la sua presenza in servizio sarebbe particolarmente utile e necessaria”.
La domanda viene inviata. Ma non arriverà alcuna risposta.
Nel 1941 il suo stipendio mensile subì una diminuzione: da 2.174 lire si passò a 1.739. Di fronte a tale “palese, patente ingiustizia”, come egli stesso definisce, non riuscì ad ottenere una variazione. Protestò, ma nessuno gli diede, nuovamente, risposta.
Su tali decisioni deve aver influito la sua posizione nettamente antifascista. Come membro attivo dell’Azione Cattolica era fortemente contrario all’ideologia del Regime, il quale cercava, soprattutto prima dei Patti Lateranensi (che suggellarono la conciliazione fra Stato e Chiesa, chiudendo definitivamente la “questione romana” iniziata con la presa di Roma da parte del regno sabaudo) di imbavagliare i movimenti cattolici, insidiando la loro autonomia. Eppure la famiglia veniva sempre prima di tutto, anche della politica. Afferma Mario Gheddo: “Durante l’anno i due fratelli del papà, Giuseppe e Paolo, abitanti a Torino, venivano a Tronzano a trovare la mamma e tutti noi. Succedeva che i due fratelli (uno di orientamento socialista e l’altro vicino all’ideologia fascista) alzassero il tono della conversazione. Mio padre, dichiaratamente non fascista (nel senso che n on ha mai dato il consenso al progetto fascista, ma allo stesso tempo non ha mai compiuto atti di resistenza attiva) non alzava mai la voce, ma richiamava i fratelli sostenendo che il vero valore era volersi bene ad incominciare dalla famiglia”.
Francesco Ansermino di Trozano ha spiegato molto bene l’antifascismo del geometra Gheddo e le ripercussioni su tale manifesta scelta: suo padre era socialista e dunque non aveva preso la tessera fascista, perciò si era messo a lavorare per conto proprio, ma nessuno andava da lui perché era etichettato, un “sovversivo”. Uno dei pochi che gli commissionavano lavori era proprio Giovanni Gheddo e lo aiutò molto proprio perché era segretario del Distretto Irriguo Ovest -Sesia, perciò lo chiamava per le riparazioni delle opere in muratura della distribuzione delle acque. Negli anni Trenta i non iscritti al partito fascista, in età da lavoro, erano pochissimi, perché essere antifascisti significava non lavorare. Soltanto uomini forti e coraggiosi prendevano tale strada. Tuttavia Giovanni continuò a lavorare perché era molto stimato in paese, considerato uomo retto e di chiesa, sempre pronto ad aiutare gli altri e a mettere pace fra le famiglie.
Giovanni non voleva che i suoi bambini mettessero la divisa di figli della lupa o da balilla, divisa che però la zia Adelaide fece indossare per non creare disparità con i compagni di scuola. Inoltre aveva sempre appuntato alla giacca il distintivo dell’Azione Cattolica che urtava non poco le autorità e non si iscrisse mai al Partito fascista, un fatto alquanto riprovevole per un uomo che in paese ricopriva un ruolo di responsabilità cittadina.
Partecipava, con la propria famiglia, a tutte le processioni religiose del paese, ma non si vedeva mai ai cortei civili. Ha raccontato alla figlia Chiara, Mario Gheddo:
“Questi cortei percorrevano in lungo e in largo il paese con la banda musicale, che suonava il Piave (“Il Piave mormorò, non passa lo straniero…”) e altri inni patriottici, il Montegrappa (“Montegrappa, tu sei la mia patria…”).
Sentire la banda che suonava queste cose e tutti che cantavano, erano cose che a noi bambini ci riempivano il cuore. Ma papà non partecipava. Ho un ricordo preciso di questo perché io, bambino di 7-8-9 anni, sognavo di partecipare a questi cortei per le vie del paese vestito da ufficiale. Papà era ufficiale, aveva la divisa in casa, aveva gli stivali, persino il cinturone, persino la spada (che si usava nelle sfilate) e la pistola (che teneva nel cassetto: il primo cassetto del comò chiuso a chiave, altrimenti noi andavamo a toccare). Io sognavo di partecipare a questi cortei e papà invece… non partecipava.
La zia mi diceva, abbiamo parlato spesso, lei e io, di suo fratello e nostro padre Giovanni, che il papà era stato sollecitato non solo dal Partito Fascista, ma anche dagli altri ufficiali in congedo che c’erano in paese – due o tre, non ricordo più – ma lui diceva che partecipare a questi cortei con la banda musicale era una esaltazione patriottica che elettrizzava, inebriava troppo le persone. Lui rifuggiva dalle infatuazioni, era schivo di queste cose. Per cui non partecipava, mentre aveva il diritto di essere in prima fila in divisa, come reduce della prima guerra mondiale. Allora il fascismo esaltava gli ufficiali e i militari in congedo, gli uomini che avevano partecipato alla prima guerra mondiale. Papà non ci stava e il suo dissenso chiaramente dava fastidio” .

Così fastidio da mandarlo, poi, sul fronte russo…
A Civitavecchia frequentò la Scuola Centrale di Artiglieria per ufficiali. Per tre volte sperò di tornare a Tronzano: ottobre, novembre, dicembre 1941. Prese appuntamenti precisi, assicurò la sorella Adelaide che si sarebbe occupato di molte questioni, si propose di stare un po’ con la famiglia, di andare a far visita a Piero in seminario e Francesco in collegio a Vercelli.
Dunque non erano stati presi in considerazione né la sua vedovanza con tre figli minorenni, né la sua sordità; inoltre, come una sorta di punizione il suo stipendio era addirittura calato. Che fare? Per lui, così religioso e fidente in Dio, non spera meglio per sé, ma si abbandona alla volontà del Padre, rassegnandosi: “Pazienza”, scrive, “è così e bisogna rassegnarsi, poiché non c’è rimedio” e “poi sarà quel che Dio vuole”.
Lavora molto e lo comunica alla famiglia. Scrive, infatti, il 26 ottobre 1941:
“Mi vorrete scusare se non vi ho risposto subito come era mio dovere, ma sono veramente molto occupato. Non per studiare, no, ma per il tempo che si passa a scuola (da 6 a 8 ore al giorno) e per i compiti che dobbiamo fare a casa; e quelli bisogna farli. Mi consolo pensando che gli ufficiali del Genio hanno molto più lavoro di noi e devono alcune volte stare alzati fino alle 2-3 del mattino per fare i compiti. Non vi pare che si esageri un pochettino!? Io almeno non ho mai lavorato oltre le 10 ore, ed è anche troppo per lo stipendio che ci danno!!!”.
Dai suoi scritti si evince la sua capacità di accettare la realtà com’è, essendone ben cosciente, ma non ribellandosi ad essa. Ancora da Civittavecchia scrive (10 novembre 1941):
“… non ho mai saputo, nemmeno ora so con certezza, se finito il corso ci trattengono in servizio o se ci mandano a casa in attesa di un prossimo richiamo. Le voci che circolano sono parecchie e contraddittorie.
Pare però che per ora ci mandino a casa. Se è vero, martedì mattina, al più tardi, sarei costì […] a giorni sarò congedato e potrò sbrigare il mio lavoro. Se poi non fosse… pazienza, non sarebbe colpa mia.
Non mi dicono nulla, anzi, neanche al comando della Scuola sanno nulla di preciso. A pochi giorni dalla fine del corso!!!
Quello che si sa è che si costituiscono parecchie batterie di costa e penso che mi metteranno a comandarne una, per tanti motivi. Ci andrei volentieri per lo stipendio (3.400-3.500, quindi 2.500 mensili netti a casa), per la relativa tranquillità nel senso che non ci sarebbe più pericolo di andare né in Russia né in Libia; per il soggiorno al mare ove non fa freddo e mi curo l’orecchio”.
Riuscì a tornare a casa nella metà di novembre del 1941. Cinque giorni appena.
Nel prezioso epistolario l’attenzione è costantemente rivolta ai suoi figli: a Piero, che si trovava nel Seminario di Moncrivello, a Francesco, che studiava presso il collegio di Vercelli, a Mario, che frequentava le scuole elementari e viveva con la nonna e le zie.
Papà Giovanni proseguiva la sua opera pedagogica attraverso le epistole. Bellissima la lettera da Civitavecchia del 26 ottobre 1941:
“Carissimo Piero,
da qualche po’ di tempo non ho tue notizie e naturalmente desidero averne.
Intanto ti ricordo che oggi è il VII? anniversario della morte della povera Mamma, che è spirata esattamente alle ore 4 del mattino di venerdì 26 ottobre 1934. Ricorda questa triste data, caro Pierino, e prega per l’anima bella e nobile della povera Mamma e Lei pregherà il Signore perché ti dia la vocazione Sacerdotale, e perché tu vi corrisponda con slancio, con entusiasmo, con spirito di sacrificio (indispensabile per la Missione) cosicché tu possa un giorno essere un santo Sacerdote di Cristo.
Questo era il Suo desiderio vivissimo, l’aspirazione della Sua anima, di avere almeno un figlio sacerdote.
E io pure, carissimo Piero, ti raccomando tutti i giorni durante il Memento dei vivi nella S. Messa e durante la Comunione che ho la fortuna di poter fare quotidianamente anche qui a Civitavecchia. E speriamo che il Signore ti benedica”.
Il capitano Gheddo continuava ad accostarsi quotidianamente all’Eucaristia, doveva rinunciarvi quando i suoi superiori gli davano incarichi ed incombenze.
Si preoccupava continuamente dei propri figli, così come avrebbe fatto la sua Rosetta: non delegava gli affanni alla mamma e alle sorelle, le prendeva su di sé, ricoprendo il ruolo terreno che la moglie aveva lasciato. Ne è prova questa lettera indirizzata a casa il 19 ottobre 1941:
“Piero mi ha scritto or sono parecchi giorni. M’ha detto in risposta a mia domanda che il vitto è sufficiente e il pane non fa difetto. Quindi m’ha tolto un peso dallo stomaco. In questi giorni ero molto preoccupato per Francesco, perché so che cosa vuol dire a quell’età alzarsi da tavola con parecchio appetito. Io qui ho molto appetito e mangio molto. ? effetto del mare e della vita saluberrima che facciamo. Ma vi dico francamente che avevo quasi rimorso a saziarmi completamente e di cibi buoni (perché alla mensa non manca proprio nulla) e pensare che Francesco non avesse pane a sufficienza. Ora sono contento che avete provveduto”.
? un papà che pensa alla cura del corpo e dell’anima delle proprie creature. Insegna a sopportare sacrifici e privazioni, per temprare la propria personalità, ma è solerte nel porre rimedi là dove viene a mancare il necessario, perciò, sapendo che Francesco, nel collegio, patisce la fame, provvede affinché le zie facciano recapitare periodicamente al bambino gli alimenti che occorrono alla sua crescita sana.
In una lettera al piccolo Francesco di 10 anni (Civitavecchia, 26 ottobre 1941), rammenta la dipartita della mamma e non ha paura di turbarlo, di creare “traumi” come oggi si direbbe, perché sa che presentare con amore la verità, quindi anche la durezza della vita, aiuta ad essere migliori:
“Ti ricordo che oggi è il VII? anniversario della morte della povera Mamma, che è mancata esattamente alle ore 4 del mattino di venerdì 26 ottobre 1934. Cerca di ricordare questa data, caro Francesco, e prega per la povera Mamma che certo eleva le sue preghiere a Dio per i suoi bambini (perché siano sempre buoni, studiosi, ubbidienti) e per me che ho tanto bisogno di aiuto.
Ho saputo da casa e da te direttamente, che hanno incominciato a mandarti del pane a mezzo di un balilla che viene a scuola al Del Pozzo, vero? Così non soffrirai la fame. Mi ha scritto zia Fiorenza che manderà anche a te qualche cosa, come a Piero, e quindi non ti mancherà neanche il companatico. Sii riconoscente a Dio che ti aiuta e alle zie che ti mandano pane, marmellata e cioccolata.
Sono tempi tristi, caro Francesco, e bisogna essere disposti e pronti a fare dei sacrifici. Sono stato anch’io in collegio col pane e la minestra razionati e so cosa vuol dire. E anche lo zio Pillo [il fratello Paolo] ha sofferto la fame in collegio e si è anche ammalato. Non parliamo poi dello zio Giuseppe che è stato prigioniero 14 lunghi mesi [nella prima guerra mondiale].
Vedi dunque che non sei il primo a fare qualche sacrificio.
Sopporta volentieri queste privazioni e offrile a Dio perché ritorni presto la pace e l’abbondanza in questa povera terra […] Studia volentieri, caro Francesco, alla fine dell’anno sarai molto, molto contento. Scrivimi qualche volta, prega la Vergine Santissima che ti aiuti e ti conservi sempre buono.
Hai scritto a Piero? ? venuto a vederti zio Angelo ? E il cugino Giuseppe Molinaro con Olimpia sono venuti a vederti? Se non sono venuti, verranno perché oggi scrivo loro che sei in collegio e che vengano a vederti.
Tanti affet
tuosi saluti e baci da Papà”.
Insomma, questo padre, con mille affanni, mille angosce, mille problemi continuava, nonostante la sua lontananza da casa, a pensare a tutto, coordinando e guidando la vita dei propri figli.

Presentazione in aforismi di un reazionario colombiano

“I libri seri non istruiscono, interrogano”, parola di Nicol?s G?mez D?vila. E leggendo i suoi, di libri, non si può non sottoscrivere la verità di tale aforisma.

G?mez D?vila nella sua vita “lesse, scrisse e morì”. Nato a Bogot? il 18 maggio 1913, all’età di sei anni si trasferì a Parigi, dove ebbe un’istruzione umanistica degna di nota. A ventitré anni fece ritorno in patria e si ritirò a vita privata. I suoi giorni trascorrevano tra la lettura e la scrittura, in compagnia dei suoi amici più cari: i libri. Si dice di lui che l’unica cura che ritenesse utile contro il tedio dell’esistenza fosse la biblioterapia; G?mez D?vila si rintanava nella sua biblioteca e ne usciva solo a notte fonda, dopo aver scritto su piccoli quaderni verdi i propri pensieri, sotto forma di aforismi. Infatti, più che scrivere lunghe opere in prosa, lo studioso colombiano preferiva esporre le proprie considerazioni attraverso brevissime frasi, che hanno il pregio di andare direttamente al nocciolo della questione: “[…] tra poche parole è difficile nascondersi come tra pochi alberi”. In fondo, “scrivere è far sì che la frase aderisca al suo significato senza sbavature”.

Per le sue posizioni, G?mez D?vila è stato spesso definito un “reazionario”, epiteto di cui andava molto orgoglioso. Il suo è un antimodernismo inflessibile e intransigente, basato sull’inestirpabile convinzione che “l’umanità sia caduta nella storia moderna come un animale cade nella trappola” (Escolios, II, 471) e che la società attuale “ha sostituito il mito di una passata età dell’oro con quello di una futura età della plastica” (Escolios, II, 88).
Per D?vila i tre nemici più radicali dell’uomo sono: il demonio, lo Stato e la tecnica. Il primo perché è la perversione della trascendenza e perché “il più grande errore moderno non è l’annuncio della morte di Dio [che è “un’opinione interessante, che però non riguarda Dio”], ma l’essersi persuasi della morte del diavolo”; il secondo in quanto, più aumenta lo Stato più decresce l’individuo; e infine la tecnica, perché costituisce una perenne tentazione del possibile: mica per niente “il progresso è il flagello che Dio ha scelto per noi”.

Ma le frasi pungenti di G?mez D?vila toccano ogni ambito del vivere moderno.
Se “coltivare la lucidità è il fine della cultura” e “la prolissità non è un eccesso di parole, ma una carenza di idee”, la diretta conseguenza è che “forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita a leggere scrittori mediocri perché sono nostri contemporanei”. Infatti, “a volte basta una virgola per distinguere una banalità da un’idea”, ma è altresì vero che “un tocco di volgarità rende popolare qualsiasi libro”. “I progressi della stampa hanno incoraggiato la moltiplicazione di libri sciatti e prolissi, mentre l’obbligo di ricorrere allo scrivano e al rotolo di papiro induceva all’accuratezza e alla brevità. Ieri l’imperfezione di un testo era involontaria, oggi non è detto che lo sia. Le rotative vomitano immondizia che non aspira a essere nient’altro”, quindi meglio mettersi in guardia dagli scrittori moderni.
Ma il colombiano ne ha anche per chi legge, infatti: “le frasi sono pietruzze che lo scrittore getta nell’animo del lettore. Il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalla dimensione dello stagno”.
“Educare non consiste nel contribuire al libero sviluppo dell’individuo, ma nel fare appello a ciò che tutti hanno di buono contro ciò che tutti hanno di perverso”. Ecco quindi che, in tale contesto, “i pregiudizi proteggono dalle idee stupide”, perché “la verità è la gioia dell’intelligenza” e “chi scrive ragione con la maiuscola si prepara ad ingannare”: infatti, “il diavolo è troppo intelligente per essere razionalista, ma suggerisce oracoli razionalisti ai sui devoti perché lo venerino senza scrupoli”.

Secondo G?mez D?vila “questo secolo sta diventando uno spettacolo interessante: non per quello che fa, ma per quello che disfa”. Purtroppo “la democrazia non è tanto l’impero delle parole quanto quello delle menzogne” perché “la vita è officina di gerarchie. Solo la morte è democratica”. Allo stesso modo, anche la Chiesa è giusto che mantenga solido il suo assetto gerarchico e “chi richiede alla Chiesa di adattarsi al pensiero moderno, confonde per lo più l’esigenza di rispettare certe regole metodologiche con l’obbligo di adottare un repertorio di postulati imbecilli”.
“Il cristiano moderno non chiede che Dio lo perdoni, ma che ammetta che il peccato non esiste”; “progressisti atei e progressisti cattolici hanno rinunciato gli uni alla bestemmia, gli altri alla preghiera, per condividere, gli uni con gli altri, lo stesso culto delle fognature suburbane”, in nome del paradigma sociale secondo il quale “molti amano l’uomo solo per poter dimenticare Dio con la coscienza a posto”. “Il cristiano moderno sente l’obbligo professionale di mostrarsi affabile e allegro, di sfoggiare un benevolo sorriso a trentadue denti, di ostentare cordialità ossequiosa per convincere il miscredente che il cristianesimo non è un religione >, dottrina >, morale >. Il cristiano progressista ci stringe forte la mano con un ampio sorriso elettorale”.
Però “l’attuale crisi del cristianesimo non è stata provocata dalla scienza, o dalla storia, ma dai nuovi mezzi di comunicazione. Il progressismo religioso è il continuo sforzo di adattare le dottrine cristiane alle opinioni patrocinate dalle agenzie di stampa e dagli agenti pubblicitari”: “l’obbedienza del cattolico si è trasformata in un’infinità docilità a tutti i venti del mondo”.
Insomma, “imbecille è chi percepisce solo l’attualità”, mentre “il pensiero reazionario è impotente e lucido”.
Il problema della religione non ha investito unicamente i fedeli, infatti “è difficile simpatizzare con il clero moderno da quando è diventato anticlericale”. “La più grande preoccupazione della teologia moderna è il ruolo del cristiano nel mondo. Preoccupazione singolare, visto che il cristianesimo insegna che il cristiano non ha alcun ruolo nel mondo”.
G?mez D?vila si spinge fino a dire che “sul Concilio Vaticano Secondo non sono discese lingue di fuoco, come sulla prima assemblea apostolica, ma un torrente di fuoco: un Feuerbach”. E questo in virtù del fatto che “il Concilio Vaticano Secondo più che un’assemblea episcopale sembra[va] un conciliabolo di manifatturieri spaventati per aver perso la clientela”… Però, si sa, oggigiorno “addurre a difesa di qualcosa la sua bellezza irrita l’animo plebeo”, quindi meglio non dire troppo a voce alta quanto solenne è la Messa di Pio V, celebrata con canti gregoriani e silenzi carichi di Mistero…

Per chi volesse approfondire la conoscenza di G?mez D?vila, morto a Bogot? il 17 maggio 1994, consigliamo i libri “In margine a un testo implicito” (Ed. Adelphi, Milano, 2001, pp. 192, euro 10,33) e “Tra poche parole” (Ed. Adelphi, Milano, 2007, pp. 228, euro 14), da cui abbiamo tratto tutti gli aforismi sopra citati.

Renzo e Lucia e la tematica dell’amore

Renzo e Lucia sono i due oppressi de I promessi Sposi. Semplificando, si potrebbe abbozzare uno schema quadripartito degli otto personaggi principali del romanzo – quattro laici e quattro religiosi -, suddividendoli in quattro coppie. Si diceva, Lucia e Renzo sono gli oppressi e sono affiancati, nel loro ruolo positivo, dalle due figure protettrici di padre Cristoforo e del cardinal Federigo Borromeo. Il versante negativo è invece incarnato da don Rodrigo e dall’Innominato (almeno fino alla conversione), che rappresentano gli oppressori; e dalla Monaca di Monza e da don Abbondio, che sono semplicemente degli strumenti nelle mani dei potenti.

Come abbiamo già visto nel precedente articolo, Lucia è una figura fondamentale nella struttura narrativa. Manzoni la ammira per il suo abbandono alla Provvidenza e la fa veicolo della propria visione etica della storia e della propria poetica.
Anche per Renzo, però, l’Autore ha una particolare predilezione. Egli è, infatti, il vero narratore dell’intera vicenda. Attorno a Renzo, Manzoni crea un romanzo avventuroso, picaresco. Se il cronotopo di Lucia è la casa, quello del suo promesso è la strada. Renzo è sempre rappresentato in cammino; per tutto il romanzo la sua vera occupazione è quella di andare alla ricerca della propria identità, che conquisterà solo grazie all’ausilio della moglie. Negli ultimi capitoli del romanzo, il protagonista dimostrerà di non essere stato modificato in maniera radicale dagli eventi occorsegli. Nel lazzaretto quello che lo guida è ancora un’idea umana di giustizia, e solo l’ennesimo rimprovero di padre Cristoforo riuscirà a fargli capire il reale valore del perdono. Ancora, nell’elencazione dei suoi “ho imparato”, Renzo mette in luce una visione pelagiana della vita, molto simile a quella di don Abbondio: se si riesce a rifuggire i mali, allora tutto procederà per il meglio. Inoltre, l’elevazione sociale conseguente all’acquisto di un filatoio alle porte di Bergamo denota l’ottica ottimistica e borghese di Renzo; questa sua visione delle cose verrà sminuta dalla constatazione dell’assenza di idillio della moglie Lucia che, anche con lui, funge da chiave di volta, e lo aiuta a conquistare la propria individualità.

Ma com’è rappresentato da Manzoni l’amore tra Renzo e Lucia?

Per prima cosa bisogna sottolineare come i due protagonisti vengano rappresentati assieme ne I promessi Sposi solo nei primi otto capitoli, per poi separarsi e ricongiungersi nuovamente solamente nel corso del trentaseiesimo capitolo. La loro è, però, solo una divisione fisica, perché nel corso dell’opera vi sono continui pensieri dell’uno all’altro, continui riferimenti, sottili collegamenti.
Nel Fermo e Lucia Spolino e Zarella erano uniti già nella filanda, grazie ai loro cognomi.
Nel romanzo il loro amore viene rappresentato in maniera molto casta: fuggevoli sguardi tra imbarazzi e rossori, brevi frasi rispettose e pensieri molto pudici.
Questa reticenza nella descrizione dell’amore porta, all’inizio del primo capitolo del secondo tomo del Fermo e Lucia, all’introduzione di una “digressione sull’amore”, atta a spiegare la concezione manzoniana dell’introduzione della tematica amorosa nei romanzi. Infatti, un personaggio ideale rivolge all’autore una critica, affermando che il romanzo parla di due innamorati, ma che “questa vostra storia […] non li dimostra innamorati”.

L’autore risponde: “Perdonatemi: (il manoscritto) trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi la parte la più elaborata dell’opera: ma nel trascrivere, e nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere. […] Perché sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione. […] Se io potessi fare in guisa che questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non potrebbe certamente avere nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand’anche fosse trattato da tutt’altri che dal mio autore e da me; perché quale è lo scritto dove sia trasfuso l’amore quale il cuor dell’uomo può sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d’una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n’abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll’idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po’ che bell’acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti.

Ponete il caso che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa storia: giacchè non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia a leggere: e ditemi un po’ che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei sentimenti ch’egli debbe soffocar ben bene nel suo cuore, se non vuol mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si potrebber fare.

Concludo che l’amore è necessario a questo… mondo: ma ve n’ha quanto basta… e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo: ma dell’amore come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quel che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei“.

Dunque, di amore ce n’è anche troppo nel mondo, meglio incentivare la gente a compiere altre azioni virtuose, più rare e più necessarie.

Anche ne I Promessi Sposi su questa tematica la reticenza la fa da padrona. Mai un eccesso, o un’allusione troppo ardita. Alcuni critici hanno cercato di spiegare questo moralismo – derivato a Manzoni dal gruppo di Port Royal – dicendo che l’Autore voleva che il romanzo potesse essere letto anche dalla figlia Giulia, all’epoca adolescente. Altri si sono spinti fino a dire che l’opera manzoniana potrebbe essere letta anche dalla Vergine in circolo con le Sante…

Di certo, tutto questo non può che generare qualche breve riflessione.
A ben guardare, il fatto che il romanzo sia così pudico nella rappresentazione del fidanzamento, non è affatto una pecca stilistica, anzi si presenta come una scelta perfettamente coerente con il resto dell’opera. La reticenza non è dissonante.

In secondo luogo, si potrebbe approntare una discussione sul fidanzamento odierno.
Come bisognerebbe vivere questo fondamentale momento della vita di coppia? Oggi vige un permissivismo tale per cui i due fidanzati vivono la loro relazione senza porsi troppi limiti che, anzi, vengono giudicati come “cose dell’altro secolo”. Salvo poi sposarsi e separarsi nel giro di pochi mesi o qualche anno, dimostrando così in maniera lampante come l’assenza di un fidanzamento incentrato sul sacrificio reciproco risulti, alla fine, determinante nel far fallire quel totale dono di sé che è il matrimonio. Il periodo del fidanzamento (vissuto cristianamente) è una palestra dura, ma necessaria; solo in questo modo si possono costruire delle basi solide e certe, su cui poi costruire una famiglia e dare alla luce dei figli. Le esperienze comuni dimostrano come matrimoni idilliaci non ne esistano, perché inevitabilmente delle difficoltà subentrano in tutte le coppie. La differenza è, però, costituita dagli sposi che hanno già un “allenamento” di sacrificio alle spalle, e da coloro che questo “allenamento” non lo hanno, che sono governati – anche nel matrimonio – da una legge fondamentalmente egoistica. Queste coppie alla prima difficoltà scoppiano.

Non bisogna poi dimenticare che le conseguenze di questi “legami liquidi” ricadono su tutta la società: sempre più persone vivono da sole; i matrimoni sono in diminuzione; aumenta il numero dei giovani che vivono con i propri genitori; diminuisce il numero di figli; crescono i problemi infantili ed adolescenziali connessi alla separazione dei genitori… e chi più ne ha, più ne metta.

Rivisitazione di Lucia Mondella: non è affatto una ragazza bigotta e remissiva

Lucia Zarella del Fermo e Lucia, poi divenuta Lucia Mondella, è spesso stata dipinta dalla critica come una ragazza senza spina dorsale, tutta casa e chiesa, succube degli avvenimenti che la travolgono. Ma, ad una lettura scevra di pregiudizi de I Promessi Sposi, la figura che emerge è tutt’altra. E’ il ritratto di una ragazza salda nelle sue idee, sempre impegnata nel lavoro − come già nelle Osservazioni sulla morale cattolica, che costituiscono la base teorica del suo unico romanzo, Manzoni fa trasparire la propria concezione secondo la quale l’ozio è il padre dei vizi −, giustamente timorata di Dio…
Non a caso, l’Autore le attribuisce un nome “parlante”, che denota la sua funzione di guida, di luce interpretativa dell’intera vicenda, è lei che fa emergere il Deus absconditus di gianseniana memoria.
E’ vero, Lucia incarna l’archetipo della perseguitata, ma alla fine la vittoria è sempre sua: su don Rodrigo, su Gertrude (Geltrude nel Fermo e Lucia), e sull’Innominato (il Conte del Sagrato del Fermo e Lucia, che nel romanzo del ’42 perde però il privilegio di avere un nome).

Moltissimi critici si sono sbilanciati e hanno definito in vari modi l’eroina manzoniana.
Per Alfredo Cottignoli, Lucia incarna la Provvidenza, che agisce tramite di lei; per esempio, gettando il seme della Grazia nel cuore dell’Innominato con la frase: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”.
Secondo Salvatore Silvano Nigro, Lucia è il personaggio più forte del romanzo: è l’aspro che governa l’intera storia, motore degli imbrogli e degli sbrogli. Lo studioso riporta le frasi di Bortolo, il cugino che a Bergamo accoglie Renzo in fuga. Il parente ricorda Lucia tra chiesa e casa: “sempre la più composta in chiesa”; e nella sua “casuccia”, a lavorare con quell’”aspro, che girava, girava, girava”. “Una buona ragazza”, insomma. Non proprio bella, secondo Renzo; ma “una buona giovine”: una “contadina”, e non certo una “principessa”. La bellezza viene dopo la “fortitudo” e il “decor”. La sposa ideale “non mangia il pane della pigrizia”.
Anche da Marchese definisce Lucia come il “perno ideologico” de I Promessi Sposi.

A ben vedere, Lucia è anche l’unico personaggio del romanzo che non subisce un’evoluzione, che non impara nulla dagli avvenimenti cui è soggetta: fin dall’inizio lei ha già le proprie, incrollabili certezze. E, alla fine del romanzo, sarà proprio Lucia che aiuterà “il suo moralista” Renzo a conquistare il “sugo della storia”, affermando che i guai le sono caduti addosso senza che lei facesse nulla affinché ciò avvenisse, ma che la fede in Dio li rende utili e li raddolcisce. Con questo finale Manzoni affida a lei, il suo personaggio portante, la rifinitura morale di tutta la storia, e con essa anche la chiave della propria poetica.

Diamo ora una scorsa al testo de I Promessi Sposi, e nel contempo a quello del Fermo e Lucia, che costituisce un testo a sé stante, un romanzo autonomo rispetto all’elaborato manzoniano del 1840/42, e non mero un abbozzo come spesso si sente dire.
Molti sono i punti in cui emerge il carattere forte di Lucia, la sua superiorità − non solo morale − sugli altri personaggi della vicenda.
Fin dal primo capitolo del primo tomo del Fermo e Lucia, la nostra eroina apostrofa don Rodrigo chiamandolo “demonio in carne”; nel secondo capitolo, poi, riferendo a Renzo e alla madre Agnese il retroscena del suo incontro con il signorotto locale, racconta di come abbia dovuto fare una “baruffa” con Marcellina per non andare più alla filanda a lavorare, dando con questo prova di notevole fermezza. Entrambi questi episodi verranno aboliti ne I promessi Sposi, dove però abbiamo una dimostrazione del nerbo di Lucia nel terzo capitolo, quando la ragazza dona a frate Galdino − che è andato a bussare alla loro porta, e che vive nello stesso convento di fra Cristoforo − una quantità di noci sproporzionata rispetto al momento di carestia che tutti stanno subendo. Una volta che il frate si è congedato dalle due donne, Lucia replica con decisione al rimprovero della madre affermando che “se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora Dio sa quanto”, rischiando di dimenticare di avvertire padre Cristoforo di andare a far loro visita.
Anche negli altri capitoli introduttivi ambientati nel paese natio (dal primo all’ottavo), Lucia è protagonista di momenti topici, primo su tutti la pagina lirica di congedo dalle proprie terre: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a che è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”.
Ma i due episodi in cui emerge in maniera più netta la funzione catartica svolta da Lucia nel romanzo sono quelli in cui è in relazione con la Monaca di Monza e l’Innominato. In entrambe le situazioni Lucia incarna la Provvidenza: dà chiara dimostrazione di come la Grazia Divina dia la possibilità di riscattarsi, lasciando da parte le empietà. Perché la misericordia di Dio abbia frutto, però, occorre che vi sia una libera adesione dell’animo: cosa, questa, che si verifica solo nel caso dell’Innominato, mentre la Monaca di Monza rimane schiava della gravità del corpo.
Ecco quindi che tramite un’ingenua contadinella lombarda, Manzoni riesce ad affrontare due temi cardine della morale cattolica: l’immensa misericordia di Dio − che perdona anche per “lagrimetta” in extremis, come scriveva già Dante −, e la tematica del libero arbitrio; come dire: le carte ci sono state fornite tutte, sta alla bravura di ognuno il saperle utilizzare nel modo eticamente più consono.
L’innominato viene scosso profondamente dalla visione e dalle parole di Lucia, la quale, nel momento di maggior pericolo, dà prova di grande forza d’animo: già durante il viaggio in carrozza verso il palazzo dell’Innominato, supplica i bravi di liberarla, prega il Rosario, sviene, si riprende… e muove così a compassione perfino l’indomito Nibbio. In seguito, quando è costretta in una stanza del castello dell’Innominato, Lucia si rifiuta di mangiare e dormire e proibisce alla sua carceriera di fare entrare persone nella stanza. Rimane così agitata fino a quando non prende la risoluzione di fare voto di castità in cambio della libertà e, solo a questo punto, messasi la corona al collo, “s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo”. Nuovamente Lucia dà dimostrazione di una certezza incrollabile nella fede, abbandonandosi totalmente nella mani di Dio, Colui che tutto sa e tutto organizza per il bene degli uomini, a patto che si riponga in Lui tutta la nostra vita.

Insomma, Lucia Mondella è colei che “pulisce dalle impurità” (S. S. Nigro) e che dà una rifinitura morale all’intero romanzo manzoniano, legittimandolo così come genere letterario che “ha come oggetto il vero, come mezzo l’interessante e come scopo l&r
squo;utile”. E nel contempo si fa anche portatrice della voce di Dio nella storia, dimostrando di non essere affatto passiva rispetto agli eventi, ma piuttosto supportata da una fede che la porta ad abbandonarsi totalmente alla Provvidenza, semplicemente, come un bambino nelle braccia della madre.

Alessandro Manzoni e la questione della lingua. Un problema ancora attuale, seppure in forma diversa

Alessandro Manzoni, su esempio di Walter Scott, nel 1821 decise di avventurarsi nella composizione di un romanzo storico. L’autore milanese scelse di ambientare la propria vicenda nello scenario della Lombardia del Seicento, cercando di mantenersi il più possibile fedele alla realtà e lasciando all’invenzione solo lo stretto indispensabile. Per riuscire in questa opera documentaria di descrizione, Manzoni fece molte ricerche d’archivio, cercando le varie Grida emanate tra il 1628 e il 1630, leggendo svariati libri, sia narranti vicende storiche dell’epoca, sia autobiografie.
L’elemento di studio personale, però, non fu il solo tema ad impegnare Manzoni. Infatti, il problema di più vasta portata che l’Autore milanese dovette affrontare fu quello della lingua da adottare.
Il tema è affrontato esplicitamente nella “Seconda Introduzione” del Fermo e Lucia, allorquando lo scrittore milanese afferma di non poter trascrivere l’intero manoscritto che ha trovato in prosa barocca, perché questo stile sa essere “rozzo insieme e affettato nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo“, senza tralasciare il fatto che l’Anonimo compositore del manoscritto inserisce tra le righe della sua vicenda alcune affermazioni con cui Manzoni non si trova affatto d’accordo.

Ma, rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi abbiamo sostituito? Qui giace la lepre.
Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola, qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l’abbiamo presa, perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d’Italia, si fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intellegibili, ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia l’imitazione d’una verità locale alla purezza della lingua;
persuasi come siamo che quel primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si possa conciliare col secondo. […] Basta all’autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno per gloria lo scriver male. Per gloria! Quand’anche ella fosse impresa difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di se: è un privilegio delle prefazioni, un piccolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I doni dell’ingegno non si acquistano, come lo indica il loro nome stesso; ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch’io non lo acquistassi.[…] A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favella tori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole o frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodochè se un parlante o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’essere molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del nò
. Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l’egregio cavino dallo stesso fondo, e dopo d’averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d’idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro significato che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l’idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell’uso particolare.

Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l’ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che abbia posto studio nell’udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori come d’accordo abbiano formata questa lingua ch’egli debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali.

Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere. E’ ben certo che v’ha molte lingue particolari a diverse parti d’Italia, che in una sfera molto ristretta d’idee certamente, ma hanno quell’universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale, fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc. era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto sempre libri pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un’altra quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto, desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori, convengano una volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono avere ragione soli in una tale materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel che convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o quasi universale uso d’una lingua comune“.

Manzoni è convinto che per affrontare compiutamente questa “questione della lingua” sia necessario scrivere un intero libro. Cosa che aveva anche cominciato a fare, salvo poi gettare tra le fiamme le pagine scritte.

Il passaggio tra Fermo e Lucia, l’edizione Ventisettana e la Quarantana de I Promessi Sposi, vede un progressivo evolversi della lingua impiegata nella narrazione.
Se nella prima tappa della revisione del romanzo, che va dall’estate del 1824 alla pubblicazione in tre tomi de I Promessi Sposi del 1827, oltre ad una revisione linguistica per mezzo libresco, con l’ausilio soprattutto del Vocabolario del Tommaseo, si ha anche una revisione strutturale, tematica e stilistica, la successiva fase – quella che porterà all’edizione definitiva del romanzo – si concentra esclusivamente sulla forma linguistica, dando luogo a quella che è stata chiamata “la risciacquatura in Arno”. Manzoni, infatti, nell’estate del 1827 farà un viaggio a Firenze per studiare sul campo la lingua toscana e, una volta tornato a Milano, si farà aiutare nel certosino lavoro di correzione dalla domestica toscana Emilia Luti e da altri amici provenienti dalla medesima regione. Quello che più importa all’autore è, certamente, utilizzare espressioni toscane, ma stando ben attento che tali espressioni siano realmente utilizzate nella lingua corrente dalle gente, che non siano forme obsolete o troppo affettate.

Oggi dobbiamo essere grati ad Alessandro perché è anche grazie a lui (oltre che a libri come Pinocchio di Collodi o Cuore di De Amicis) se noi parliamo un italiano uniforme su tutta la Penisola italiana.
Per esempio, senza I Promessi Sposi, probabilmente l’imperfetto si formerebbe ancora con la terminazione in -a, invece della ormai consueta in -o…

L’unica riflessione che si potrebbe fare è la seguente. Se nell’Ottocento c’era il problema di creare una lingua italiana universalmente intesa, oggi la questione che si fa sempre più pressante è quella della degenerazione che tale lingua sta subendo. E, affermando questo, non ci si riferisce solamente al modo – alle volte rasente la crittografia – di scrivere SMS e mail (Hola, ke mi kombini? 6 a kasa nel pomer? Baci8, è un esempio abbastanza comune). Quello che desta ancora più preoccupazione è il modo in cui vengono scritti determinati libri che escono sul mercato, oppure alcune tesi di laurea…

Il romanzo, un genere letterario controverso

Il romanzo è un genere letterario relativamente recente che – in Italia, ma non solo – ha faticato molto ad imporsi, sia perché non aveva una legge codificata a cui rifarsi, non avendo una tradizione alle spalle, sia perché trovò una forte censura in alcuni esponenti intellettuali, che lo giudicavano come immorale e nocivo alla salute.

Fino alla fine del ‘500 si intendeva con il termine romanzo “una narrazione in versi”, generalmente strutturata sul modello ariostesco del poema cavalleresco.
Solo nel 1600 si cominciò ad in tendere per romanzo “una narrazione lunga in prosa“.
Questo è il secolo del romanzo barocco, il quale – benché temporalmente limitato – ha avuto una grande importanza, perché ha portato all’affermazione di un nuovo genere letterario di massa, fondato su logiche di mercato.
Per convenzione, si è soliti circoscrivere il romanzo barocco nel lasso temporale che va dal 1624, data in cui uscì L’Eromena di Gian Francesco Biondi, al 1662, anno di pubblicazione di La peota smarrita, ultimo libro di una trilogia di ambientazione veneziana di Girolamo Brusoni.
Il romanzo barocco si rifà essenzialmente al poema cavalleresco, per cui punta a generare interesse e meraviglia nel lettore, sviluppando una trama interessante e avventurosa. I protagonisti dei romanzi di questo periodo devono superare innumerevoli peripezie, per terra e per mare, per riuscire a dare concreta realizzazione, generalmente, ad una amore a lungo protratto.
In queste composizioni si pone l’accento sulle descrizioni delle varie situazioni, senza toccare in alcun modo quello che è l’aspetto psicologico, interiore, dei vari personaggi.
Con La peota smarrita del Brusoni, si diceva, si suole definire concluso il periodo di produzione barocco, anche se fino al 1680 circa si ha ancora qualche pubblicazione in tal senso.
In Italia, dopo questa data, c’è un vuoto che si protrae fino alla seconda metà del Settecento, momento in cui c’è una rinascita del romanzo grazie alle opere dell’abate Pietro Chiari.
Per sopperire a questa lacuna di più di mezzo secolo, in Italia vengono importate le traduzioni, rigorosamente in francese, dei grandi romanzi europei, in prevalenza provenienti da Francia ed Inghilterra, i due veri poli letterari di questo periodo. Le avventure di Gulliver, Robinson Crusoe, La nouvelle Heloise, Tom Jones, La Pamela… sono solo alcuni dei titoli maggiormente noti.
Verso la metà del Settecento c’è anche la nascita di quella che è stata definita la “letteratura rosa”, perché specificatamente rivolta ad un pubblico femminile, che cerca nella lettura uno specchio della propria vita.

E’ con il Settecento e con l’affermazione della classe borghese, quindi, che il romanzo si diffonde, cominciando ad essere visto come un bene di cui godere nel privato della propria camera, magari davanti al fuoco. Nel contempo, anche gli autori di tale genere letterario prendono sempre più consapevolezza del ruolo pedagogico delle proprie opere e, di conseguenza, della loro funzione di guide all’interno della società.
Infine, è proprio in questi anni che nascono due concetti strettamente connessi tra di loro: quello del “diritto d’autore” e quello, rispondente alla logica di mercato, per cui un autore vive delle proprie opere.


Le critiche al romanzo

Come si accennava sopra, il genere “romanzo” ha stentato molto ad imporsi anche perché ha trovato, nel corso del Seicento e del Settecento, una nutrita schiera di oppositori.
Per esempio, per il piacentino Pio Rossi, il romanzo era la fonte principale della decadenza morale sempre più dilagante nel ‘600 e lo considerava un male sia per il quanto che per il quale perché, oltre a far perdere del tempo, era anche causa di malattie fisiche e di pervertimenti viziosi.
Anche nel 1700 ci sono dei fieri oppositori del nuovo genere. Nel 1764 Baretti, recensendo su “La Frusta Letteraria” La Pamela fanciulla del Goldoni, suggerisce alle nobildonne di lasciare la lettura dei romanzi alle donne del popolo, incolte. Pochi anni dopo, nel 1769, Roberti nel suo Del leggere i libri di divertimento, avanza l’accusa per cui i romanzi sono da evitare in quanto distraggono le classi sociali dalle loro legittime occupazioni.
Ovviamente non è solo l’opera finita ad essere oggetto di critica, ma lo sono anche coloro che a tale prodotto danno la vita. Gozzi, nelle sue Memorie inutili (1787), interpretando il pensiero di tutta l’Accademia dei Granelleschi, definisce i romanzieri come dei “logora tori di penne”.

Si sa, inizialmente le novità vengono sempre viste come un potenziale pericolo. L’importante è però non fermarsi al pregiudizio, ma andare a verificare in profondità le varie opportunità che una innovazione comporta.
Nel caso del romanzo, già Ferrante Pallavicino nel 1660 affermava che dilettarsi nella lettura è come fare una passeggiata in un giardino, dove il lettore può cogliere liberamente ciò che vuole, distinguendo ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, affermava Pallavicino, vi sono dei romanzacci di cui mondo ha ben donde di dirsi nauseato, perché la loro lettura non è fonte né di diletto, né di utilità.

Oggi la situazione è la medesima. Sul mercato continuano a comparire nuovi libri, romanzi ma non solo.
La bravura dei lettori sta nel non lasciarsi abbindolare dai grandi casi di mercato, anche perché il numero di persone che leggono più di un libro all’anno è talmente ridotto che sarebbe bene che almeno quel singolo libro su cui mettono le mani fosse veramente meritevole di essere letto.

“Forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita a leggere scrittori mediocri perché sono nostri contemporanei.” (Nicolàs Gòmez Davila)

“I Dialogi”: l’esempio di San Benedetto da Norcia

“I Dialogi” sono l’unica opera agiografica di papa Gregorio I Magno (590-604). Sono stati composti tra il luglio del 593 e il maggio del 594 su richiesta dei suoi confratelli al monastero di S. Andrea sul Celio, da lui fondato alla morte del padre. Il titolo completo dell’opera sarebbe “Dialogi de vita ed miraculis patrum Italicorum et de aeternitate animorum”, appunto perché il testo è volto a dimostrare che anche in Italia – come nel fiorente oriente – ci sono figure di Santi e che l’anima ha una vita dopo la morte, fatto attestato, per esempio, dai miracoli compiuti attraverso le reliquie. L’opera ha una struttura dialogica: il diacono Pietro ha il ruolo importantissimo di incalzare il racconto e di chiedere spiegazioni, qualora vi sia qualcosa che non lo convince: in questo modo Gregorio riesce ad inserire, accanto alla narratio, anche una parte di expositio, in cui fornisce insegnamenti morali, dottrinali ed ecclesiastici.
“I Dialogi” constano di quattro libri; il primo e il terzo riportano un insieme di miracoli o di opere virtuose compiute da santi italiani pressoché contemporanei a Gregorio Magno, con l’unica eccezione nel III Libro di Paolino di Nola (355-431). Il secondo libro è interamente dedicato alla figura di S. Benedetto da Norcia (480-547ca): nel Prologo il papa espone brevemente i punti salienti della biografia del Santo, soffermandosi sulla sua conversione e sulla decisione di abbandonare il mondo, le ricchezze paterne e gli studi (fatto, questo, sottolineato con un doppio ossimoro di grande effetto letterario: Benedetto, “soli Deo placere desiderans, […] recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus” Prologo, 13-15). Nei capitoli successivi, Gregorio Magno narra alcuni miracoli compiuti da Benedetto e che lui ha appreso da fonti certe: si va dai miracoli prettamente pratici (che raggiungono il culmine con la resurrezione del figlio di un contadino, nel capitolo 32) a miracoli spirituali, quali il discernimento delle anime, le profezie storiche e le visioni. Solo nel capitolo 36, vi è un breve accenno alla “Regola” scritta da Benedetto: Gregorio la nomina in maniera funzionale per dire che chi vuole conoscere meglio la vita del Santo basta che legga questo suo unico scritto, perché egli fu perfettamente coerente nel dire e nell’agire.
Il quarto ed ultimo libro esula dall’argomento prettamente agiografico, perché analizza il tema della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Gregorio affronta questo argomento per confortare il popolo, per assicurare che non c’è nulla di cui avere timore: se ci si comporta in modo pio, Dio ha in serbo per tutti la vita eterna.

Riporto qui sotto un estratto del II Libro, in cui Benedetto incontra la sorella Scolastica e pochi giorno dopo vede la sua anima ascendere al cielo.

33. Il miracolo di sua sorella Scolastica

Gregorio: Credi, Pietro, che al mondo ci sia stato uno più degno di Paolo? Eppure egli supplicò tre volte il Signore per essere liberato dallo stimolo della carne, e non riuscì ad ottenere quanto voleva. Perciò è necessario che io ti racconti come ci fu una cosa che il venerabile Benedetto desiderò, ma non gli fu concesso di ottenerla.

Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero.
Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto. Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: “Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo… “. Ma egli le rispose: “Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero”.
La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube. Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione.
La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia.
L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: “Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?”. Rispose lei: “Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero”.
Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.
Con questo racconto ho voluto dimostrare che egli ha desiderato qualcosa, ma non riuscì ad ottenerla. Certo, se consideriamo le disposizioni del venerabile Padre, egli avrebbe voluto che il cielo rimanesse sereno come quando era disceso; ma contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna.
E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: “Dio è amore”; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più!
Pietro: confesso che mi piacciono moltissimo questi racconti.

34. L’anima di sua sorella vola al cielo

Gregorio: il giorno seguente tutti e due, fratello e sorella, fecero ritorno al proprio monastero.
Tre giorni dopo Benedetto era in camera a pregare. Alzando gli occhi al cielo, vide l’anima di sua sorella che, uscita dal corpo, si dirigeva in figura di colomba, verso le misteriose profondità dei cieli. Ripieno di gioia, per averla vista così gloriosa, rese grazie a Dio onnipotente con inni e canti di lode, poi andò a partecipare ai fratelli la sua dipartita. Ne mandò poi subito alcuni, perché trasportassero il suo corpo nel monastero e lo seppellissero nel sepolcro che egli aveva già preparato per sé.
Avvenne così che neppure la tomba poté separare quelle due anime, la cui mente era stata un’anima sola in Dio.

Dan Brown e la massoneria

Mr. Dan Brown ha già ottenuto uno strepitoso successo anche con l’ultimo libro, Il simbolo perduto.

 Il successo, lo ricordiamo tutti, era arrivato con Il codice da vinci, un best seller incredibile, che ha fatto di Brown uno degli uomini più ricchi del mondo. Ma è adesso, col nuovo libro, che è finalmente completo il pensiero dell’autore: per lui la Chiesa, che è pubblica e non ha nulla di segreto, avrebbe segreti inconfessabili, e omicidi svariati per mantenerli, e sarebbe una perfida macchina da oppressione, mentre la Massoneria, al centro de Il simbolo perduto, che è per definizione una società segreta, sarebbe sì segreta, ma non avrebbe nulla, in verità, da nascondere, essendo solamente una organizzazione filantropica tesa al vivere civile e pacifico.

 In una conferenza stampa a Milano l’8 dicembre, Brown ha espresso il suo pensiero, a cui mi sembra sia stato dato ben poco rilievo, benché in verità la cosa avrebbe dovuto suscitare maggiori interessi. Essa infatti chiarisce finalmente la sua formazione massonica o filo massonica, confusamente esoterica ed anti-cristiana, già visibile ne Il Codice da Vinci.

Ecco una breve rassegna stampa sulle dichiarazioni di Brown: D. Brown:

Ah, se durante le mie ricerche avessi trovato un solo documento che denunciasse che i massoni hanno commesso delle malefatte, l’avrei scritto a chiare lettere. Invece ho sempre trovato massoni aperti e tolleranti. Questo è un bene, in un mondo dove spesso ci si uccide perché si tiene troppo alla propria versione della verità. Nella Massoneria, invece, vi sono le persone più diverse, ma tutti si chiamano fratelli! Dopo Il simbolo perduto mi hanno fatto capire che le porte erano spalancate anche per me, ma sapete – e qui Dan fa l’occhiolino – mi hanno chiesto un giuramento sulla segretezza, e a me i segreti piace svelarli, mica conservarli».Il Giornale, 9 dicembre 2009

«Ma noi negli Stati Uniti abbiamo una idea diversa, meno sporca rispetto alla vostra, dei liberi muratori. I quali riescono a convivere e chiamarsi fratelli pur essendo di origini, di religione, di credo politico diversi. Non è una cosa da poco». Il Messaggero 9 dicembre

Lei critica la Chiesa cattolica nel Codice e in Angeli e demoni, e esalta la massoneria nel Simbolo perduto. È la sua posizione anche fuori dei romanzi? «La Chiesa cattolica ha fatto tonnellate di cose buone, e alcune meno buone. Quando ho cominciato a fare ricerche sui massoni ha scoperto gente con una mentalità davvero aperta. Voi la pensate diversamente, ma la massoneria da noi è così». La stampa 9 dicembre

Mr. Brown, cosa l’affascina della massoneria? «Conosco le storie della P2 e della vostra massoneria, ma il concetto massonico che avete in Italia è molto diverso da quello americano. Oggi tutti si ammazzano perché ognuno crede in un dio che reputa il migliore. Ognuno ha una visione diversa del proprio dio. Allora la massoneria ha riunito ebrei, cristiani, musulmani e altri religiosi, esortandoli a dimenticare la semantica e a capire che, se tutti crediamo in un essere superiore, tutti siamo fratelli. Credo che questo sia un approccio molto giusto verso le varie religioni». Il Tempo 9 dicembre

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”

“Finita, / è finita. / La nostra favola è finita. / Semplice e tragico: / è finita. / Tutto qua”.

Era da un po’ che non risentivo Uno, la title track dell’omonimo album dei Marlene Kuntz datato 2007. Un bellissimo pezzo: denso, amaro, struggente. Tutti, chi più chi meno, possiamo riconoscerci in quell’ipnotizzante ritornello:

“C’è qualche cosa di sbagliato nell’amore, / c’è che quando finisce porta un grande dolore… / perché quando un’amicizia muore non c’è / questo spasimo che sa di tremenda condanna”.

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”. Intendendo per amore quello tra uomo e donna, vi è davvero in esso, post peccatum, “qualche cosa di sbagliato”. Liti, sopraffazioni, disarmonie, incomprensioni, abbandoni: percepiamo, in tutto questo, una dolorosa deviazione dall’ideale, la violazione di un “dover essere” che si dimostra stranamente inattingibile.

Ho sentito dire, e mi trovo d’accordo, che lo stato normale dell’uomo è l’innamoramento. Siamo fatti per essere innamorati: innamorati di Dio. L’uomo che non si innamora di Dio è l’essere più monco e irrealizzato della terra: una larva grigia che non conosce i colori.

L’amore umano, l’innamoramento tra creature diverse e complementari come l’uomo e la donna, è stato progettato per essere metafora di quell’amore più grande che è l’Amore divino. Sicuramente è per questo che, dopo il peccato e l’allontanamento da Dio, tendiamo a trasferire sull’amore umano la nostra fame di assoluto.

“Se penso a quelle cose che morranno perché / non potremo più condividerle… / muoio anch’io”.

“Muoio anch’io”: cioè muore in me la mia essenza, se viene meno l’oggetto del mio originario e strutturale “essere innamorato”. La fine di un amore umano, nella misura in cui esso non è stato subordinato e finalizzato all’Amore divino, è sempre un disinganno: scopro di aver assolutizzato il relativo, ed ora al mio slancio mancano appigli.

“…questo è il mio tormento, la mia fatalità / il motivo della fine della favola…”.