“Finita, / è finita. / La nostra favola è finita. / Semplice e tragico: / è finita. / Tutto qua”.
Era da un po’ che non risentivo Uno, la title track dell’omonimo album dei Marlene Kuntz datato 2007. Un bellissimo pezzo: denso, amaro, struggente. Tutti, chi più chi meno, possiamo riconoscerci in quell’ipnotizzante ritornello:
“C’è qualche cosa di sbagliato nell’amore, / c’è che quando finisce porta un grande dolore… / perché quando un’amicizia muore non c’è / questo spasimo che sa di tremenda condanna”.
“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”. Intendendo per amore quello tra uomo e donna, vi è davvero in esso, post peccatum, “qualche cosa di sbagliato”. Liti, sopraffazioni, disarmonie, incomprensioni, abbandoni: percepiamo, in tutto questo, una dolorosa deviazione dall’ideale, la violazione di un “dover essere” che si dimostra stranamente inattingibile.
Ho sentito dire, e mi trovo d’accordo, che lo stato normale dell’uomo è l’innamoramento. Siamo fatti per essere innamorati: innamorati di Dio. L’uomo che non si innamora di Dio è l’essere più monco e irrealizzato della terra: una larva grigia che non conosce i colori.
L’amore umano, l’innamoramento tra creature diverse e complementari come l’uomo e la donna, è stato progettato per essere metafora di quell’amore più grande che è l’Amore divino. Sicuramente è per questo che, dopo il peccato e l’allontanamento da Dio, tendiamo a trasferire sull’amore umano la nostra fame di assoluto.
“Se penso a quelle cose che morranno perché / non potremo più condividerle… / muoio anch’io”.
“Muoio anch’io”: cioè muore in me la mia essenza, se viene meno l’oggetto del mio originario e strutturale “essere innamorato”. La fine di un amore umano, nella misura in cui esso non è stato subordinato e finalizzato all’Amore divino, è sempre un disinganno: scopro di aver assolutizzato il relativo, ed ora al mio slancio mancano appigli.
“…questo è il mio tormento, la mia fatalità / il motivo della fine della favola…”.