Suor Gian Paola Mina

Una missionaria certamente fuori dal comune suor Gian Paola Mina (1917-2000). Nei vent’anni trascorsi in Africa, questa missionaria della Consolata sollevò, partendo da zero, l’identità della donna in Kenya, promuovendo la persona con gli studi, la professionalità e la coscienza, in quanto donna, di essere perno della famiglia. Per questo mondo femminile, fino allora dimenticato e disprezzato, fondò degli enti nazionali dai riflessi internazionali come il Gitoro Women Center e la Women’s union for social action (Wusa).

Realizzò tutto ciò affrontando mille difficoltà in un’epoca storica molto travagliata per il Kenya, una terra che per liberarsi dall’autorità inglese e in nome dell’indipendenza venne insanguinata duramente e tragicamente dall’insurrezione Mau Mau.

Suor Gian Paola venne sradicata dal luogo tanto amato. Eppure continuò a essere Makena, la gioiosa, come veniva chiamata dalla gente del Kenya. Ciò che non poté più fare sul campo, in Africa, lo fece dalla sua scrivania di giornalista e di scrittrice, narrando la missione e diffondendo l’amore per essa in migliaia di anime. 

 Itinerario di un’anima

 Il suo programma di vita è scritto in due taccuini che suor Gian Paola, prossima alla fine della sua vita, affidò al suo amato fratello. Due taccuini tascabili e di poco valore economico, scritti per sé con una calligrafia fitta, fitta: parole dettate dalla sua coscienza con una convinzione che stupisce e meraviglia.

Il primo è stato compilato dal luglio 1940 all’avvento 1960, il secondo dal febbraio 1961 al gennaio 1992. Il cammino ascetico è evidente, ma non è così graduale come si potrebbe pensare per una comune progressione d’anima. Ci sono fasi alte e basse, chiaroscuri di una coscienza che è sempre stata assetata di Dio. Sorprende poi quella continua autocritica, il guardare ai propri difetti e mai a quelli degli altri e pur vivendo in prima persone sofferenze arrecate da chi le è superiore gerarchicamente, arrestando i suoi spazi di dilagante azione, lei non protesta e non inveisce, macina il dolore dell’umiliazione e se ne serve per migliorarsi.

 Fin dall’inizio le tracce della sua maturità spirituale sono bene evidenti, nonostante la giovane età. Illuminante la citazione di don Pier de Hemptinne che suor Mina, ad appena 23 anni, scrive nel primo giorno di vita religiosa (Sanfrè, 29 luglio 1940): «Sono risoluto di convertirmi all’amore di Cristo… Voglio amare pazzamente. Spezzerò la mia volontà, sottometterò l’intelletto, farò tutto quello che mi si chiederà pur di non perdere il solo bene, Gesù Divino; anzi son sicuro che Egli non mi lascerà mai. Le nostre anime debbono piacere a Gesù e non ad altri» e poco dopo annota tre regole personali: «Un ideale solo: N.S. Gesù Crocifisso. Un desiderio solo: le anime. Un metodo solo: ardenter audenter. In nomine Jesu et Mariae».

 È ben chiaro che Gian Paola ebbe come suo fine quello di essere una lode eterna di gloria a Dio: «Tutto è tuo. Ma ch’io sia e mi senta, o meglio, sia certa di essere veramente tua. Che ti ami con tutte le fibre dell’anima mia. Che Tu sia il fine di tutta la mia vita e di ogni azione». Propositi, meditazioni e preghiere ricorrono in queste pagine intime dove non si trovano soltanto i punti didattici di ritiri spirituali frequentati con impegno e trasporto, ma anche personali colloqui con il trascendente: Sanfré, Natale 1940: «Caro Gesù Bambino, in questo pomeriggio di Natale, il primo che passo lontano da casa, sento il bisogno di parlare con qualcuno che mi voglia bene e mi comprenda. E questo qualcuno sei Tu solo, mio dolce Signore. Tu che mi amasti da tutta l’eternità, che hai intessuta tutta la mia vita d’amore, che hai fatto della bimba e dell’adolescente turbolenta e ribelle di un tempo, la tua piccola sposa. Tu che mi hai segregato dal mondo non solo, ma dalle anime che pur mi avevi affidato, e mi hai condotta qui, perché sola con te solo, non avessi altra preoccupazione, altro lavoro, altro programma, che la mia identificazione con te, Gesù Crocifisso.

Ed io ti amo tanto. Voglio assecondarti in tutto, docilmente, volenterosamente, lietamente. Non ti seguii forse prontamente quando un giorno lontano, giovanissima, mi facesti sentire la tua voce, e alla mia giovinezza ansiosa di vita, di amore, di gioia, di dedizione, mostrasti un ideale di santità, di sacrificio di apostolato, riassunto in un nome, il tuo? E da allora, non mi sforzai forse di seguirti, di lavorare per te, anche se il cammino era duro, se la sofferenza si acuiva, se l’ideale pareva un sogno, un assurdo, una chimera irraggiungibile? Non forse cercai la tua volontà con rettitudine d’intento, fino a sacrificarti tutto? Caduta, è vero, migliaia di volte, ma la tua mano mi rialzò; peccai, ma nel tuo amore trovai perdono, fui debole, vile di fronte al sacrificio, ma tu mi rivestiti della tua forza. Perciò, mio Signore, oggi che questo mio povero cuore umano invoca con nostalgia tremenda, la sua casa, la sua mamma, oggi che i ricordi affollano e trascinano, e qui, in questa casa, fra tanti, io mi sento tanto sola, perdutamente sola, e mentre rido e scherzo per non turbare con le mie lacrime, la pace degli altri, mio Signore, io invoco te. Riempimi di te. Sii tutto! Appaga con il tuo amore questa mia anima che ha sete di te, ma perché la sua miseria la irretisce e le impedisce di volare a te, scendi tu a lei! Io mi offro ancora una volta a te, tutta! Possiedimi, alfine, interamente».

Qui, forse, sta il segreto della realizzazione di suor Gian Paola: lei voleva appartenere, come una vera sposa, tutta a Cristo, essere tutta sua, completamente sua e ogni minuto della sua vita religiosa doveva, secondo il suo intendimento, segnare l’aumento di Gesù in lei.

Riflessioni consistenti anche quelle del 1° gennaio 1941 quando dichiara che ogni istante è importante nel disegno del Padre per raggiungere il pieno possesso di Cristo «nella misura da lui stabilita». Perciò ogni minuto perso in pigrizia, suscettibilità, sciocchezze, colpe, negligenze, fantasie «è perduto per sempre e mancherà al completamento della mia santificazione e della mia missione di apostolato».

Si scuoteva e si pungolava per un perenne miglioramento: «Devo rinfocolare sempre il mio amore, la mia fede, perché a lungo andare, non abbia a cadere in mediocrità e banalità di vita qui, ove Dio, la Chiesa e le anime hanno il diritto di pretendere santità di opere» e così dimostra a noi, lettori indiscreti e non da lei autorizzati a leggere e commentare questi splendidi colloqui con il cielo, la sua cocente e solida personalità carica di volontà e di determinazione: «Se il pensiero delle migliaia di minuti sciupati, nulli, mi spaventa e mi umilia avanti a Dio, deve d’altra parte, raddoppiare il fervore della volontà per intensificare, riparare al tempo perduto».

Eppure Gian Paola si lamenta della sue giornate: una ridda di vibrazioni, di sentimenti contrastanti, di luci e di dubbi, di amore e di freddezza. Dubbi, perpessità per un’anima troppo intelligente per buttarsi nel vuoto senza conoscere la propria forza e allora scrive da Sanfrè agli esercizi spirituali in preparazione della vestizione (gennaio 1941): «Oh mio Signore, non badare ai gemiti della mia natura ribelle ed eccessivamente sensibile alla sofferenza morale, e continua l’opera che hai iniziata! Non posare lo scalpello fin tanto che l’ultimo colpo non sia dato! Ravviva la mia fede! Fa che il lamento e il pianto si trasformino in un grido: t’amo, Signore! Fa che oggi in cui sento iniziarsi il martirio della vita religiosa, io sappia soffrire sorridendo, morire cantando e camminare senza soste, con fede anche se intorno è buio e la tormenta avvolge, anche se dentro la mia volontà umana insorge e si ribella, anche se il cuore tenta di attaccarsi ad abbracciarsi alle piccole cose e creature del passato! T’amo, Signore, aumenta il mio amore!».

Senza illusioni e senza colpi di testa, suor Gian Paola si pone subito di fronte ai problemi della sua scelta. Possiamo dire che non si tratta di dubbi da dissipare, ma di considerazioni: la vita religiosa, come quella matrimoniale è costellata di sacrifici, occorre prenderne atto e dunque non è tutto petali di candore e pozze d’acqua pulita. Gian Paola, responsabile fin da ragazza, sa a cosa va incontro ed è più pronta per la sofferenza che per la gioia e ciò ci permette di comprendere la sua realizzazione di suora, di missionaria. Non si aspettava mai nulla dagli altri, ma pretendeva sempre da se stessa e dava al sacrificio il giusto valore di chi pretende molto dalla vita e sa che un prezzo va pagato.

Il noviziato fu per Gian Paola «il deserto al quale Iddio mi ha condotta per essere provata in tutti i modi. La tentazione più forte e frequente, dalle quali dipendono i turbamenti, le malinconie, i dubbi, le ripugnanze cui sono soggetta, sono quelle dell’amor proprio. Esso mi ispira ripugnanze ad assoggettare le mie azioni alla dipendenza, a chiedere permessi» (marzo 1941). Riteneva infatti l’amor proprio il suo difetto peggiore e lo combatteva quotidianamente, facendo violenza a se stessa. Nella domenica delle Palme dell’aprile dello stesso anno così riflette: «Anch’io oggi agito i rami di ulivo e canto l’osanna a Gesù! Ma so per esperienza che potrebbe bastare una piccola prova a farmi dimenticare ciò che devo a Gesù. Non è forse tutta la mia vita un alternarsi di atti d’amore e di concessioni a me stessa, al mio amor proprio? Perché questo? Perché il mio amore non è alimentato da una fede viva, umile, e preferisco la mia volontà all’umile sottomissione, e mi ribelllo quando mi sento contrariata. Per essere fedele al Signore e dargli gloria, sempre, cercherò di abituarmi: 1) a sottomettere protamente la mia volontà e il mio giudizio alle disposizioni e consigli dei Superiori nei quali vedo Dio. 2) a contrariarle anche in cose indifferenti».

 Fra le meditazioni del ritiro datato maggio 1941 Gian Paola si espone in propositi dal peso non indifferente: «Gesù si è fatto Ostia. Diventare, con Gesù, ostia d’amore e di gloria al Padre, ecco ciò che voglio fare della mia vita religiosa, nell’anima e nel corpo, in tutto cioè il mio essere. Ma il mio contegno esterno, non dà certo il senso di questa consacrazione mia a Dio, perché sa troppo di mondo e di natura… In questo mese di maggio cercherò quindi, camminando e parlando, di tenere quella compostezza religiosa, semplice e disinvolta, lungi da ogni affettazione, che spanda attorno il buon profumo di Cristo».

 La caparbietà nel contrastare i suoi difetti è costante e insistente e la si riscontra soltanto nelle anime sante. Ma Gian Paola la santità la ricercava. Scrive nelle Meditazioni del ritiro spirituale datato giugno 1941: «Lo Spirito Santo scendendo sugli Apostoli, opera in loro una trasformazione radicale, istantanea. Perché? Essi, fedeli all’ordine di Gesù l’avevano atteso nella preghiera e nella umiltà, e non avevano opposto alcun ostacolo alla sua azione. «Da tanti anni lo Spirito Santo lavora nell’anima mia, per la mia santificazione. Ma perché dunque così scarso è il frutto che io porto e così lenta la mia trasformazione?». Invoca continuamente l’umiltà, la semplicità, l’ubbidienza, l’annientamento del proprio orgoglio e segna mancanze e vittorie. Vuole imparare a «tesoreggiare» ogni momento della vita e «Com’è bello, del resto, agire semplicemente con l’occhio fisso in Dio, non curando né l’onore né l’umiliazione che può venirmi dalle persone».

 Il suo modo di parlare e di camminare non è mai rientrato nei classici stereotipi delle suore: Gian Paola non era una religiosa standard, era lei. Spigliata, gioviale, sguardo vivace, attivo con un suo modo di fare spontaneo, privo di affettazioni e atteggiamenti di pietà religiosa ipocrita. Eppure Gian Paola, non rientrando in certi parametri comportamentali, si sforzava di correggersi: «Mi sforzerò di correggere il mio modo di parlare e di camminare per acquistare il contegno religioso. Ne seguirò mancanze e vittorie» (agosto 1941).

Di grande spessore spirituale sono le sue meditazioni sulla morte (agosto 1941): «Aver vissuto 30 o 50 anni, che me ne importerà, davanti alla morte? Non mi giova a nulla l’aver occupato un posto di gloria nel mondo, aver cercato me stessa, aver assecondato la mia volontà… Come cambiano d’aspetto le cose viste nella luce della morte, della eternità. Occorre quindi che davanti all’imminenza della morte, io imparo a tesoreggiare ogni momento della vita. Il Signore me la conceda ancora, non perché vegeti, ma, perché cresca in santità fino al giorno in cui Egli mi chiamerà. E se voglio che la morte segni per me l’inizio della vita, devo morire quaggiù ogni giorno a me stessa, alla mia volontà, al mio amor proprio. Mi costa tanto ubbidire e tacere! Eppure, Signore Gesù, se voglio poter dire con Te, il giorno della mia morte, il mio consumatum est devo fare il sacrificio totale della mia volontà nell’ubbidienza. Dammi Tu la forza di battere la strada che tu prima di me e per me hai battuto per andare al Padre».

Verso la fine della vita Gian Paola raggiungerà le sue speranze. Queste memorie sono un vero e proprio scrigno dove è custodito il segreto della vincente missionarietà e realizzazione di Gian Paola come donna e sposa di Cristo ed è molto netta e determinata nel condurre la sua esistenza: «Ho scelto Lui, perché Egli solo è buono, grande, degno di essere amato, Egli solo non possa e non fallisce come le creature, perché Egli mi ha amato per primo e tutto gli devo» (settembre 1941). Nel dicembre 1943 suor Gian Paola dà prova di grande volontà, di rinuncia e di sacrificio volendo mortificarsi nel camminare, nello stare seduta e nel dormire «evitando ogni posizione troppo comoda».

 È una persona che vuole perfezionarsi giorno dopo giorno, affinare la sua anima per assurgere sempre più a Dio ed è più grande la volontà di farcela che lo sforzo di realizzazione, concetto avvalorato dal pensiero che troviamo scritto in data 1° gennaio 1944, quando si sta per staccare dalle proprie radici, dalle persone care e amate: «Da anni, Signore, io sento il tuo pungolo che mi spinge, che mi tormenta in un anelito mai soddisfatto di amore vero, di donazione completa, di santità. Io non so che cosa tu vuoi fare di me e in me» e non comprende ciò che Dio vuole fare di lei: «È un vuoto tremendo che mi scavi attorno. Le creature si allontanano. Anche quelle che mi sono più care sento che mi vengono meno; non sono più mie ed io non sono più loro. Sono tua, dovrei esserlo. Ma quando, Signore, io ti apparterrò completamente? Quando sciolta da ogni vincolo umano, libera di me stessa, io non mi occuperò che di te e di ciò che ti riguarda e non penserò a me se non per disprezzarmi, per dimenticarmi? Signore, io credo che tu devi essere il mio Tutto, e che lo sarai. E se vieppiù cresce la mia miseria e la vista di questa vorrebbe sgomentarmi, Signore io credo alla potenza del tuo amore per cui nessun abisso è incolmabile, nessuna miseria che non possa essere trasformata in un capolavoro di grazia Signore, io ammiro la tua opera nelle anime che mi circondano, in particolare in quelle di mio fratello e di mia sorella. Essi si son dati a te senza riserva, e tu lavori in essi liberamente. Essi ti amano. E di ciò ti ringrazio». Ed ecco sgorgare, percependo quasi un senso di inadeguatezza, l’autocritica: «Io mi sento invece troppo bambina, moralmente. E i tuoi santi sono dei forti. Signore, quando mi darai tanta forza da uscire da me stessa, da superare e domare le esigenze della natura per non inabissarsi che in te?». Gian Paola invoca aiuto e pietà al Creatore: «Signore, tu solo puoi compiere il miracolo della mia trasformazione morale. Compilo, dunque. Come posso correre dietro di te, se non dilaterai il mio cuore? Quante volte te n’ho pregato? E non mi stancherò di domandartelo ancora. Perché voglio seguirti nella via dell’amore e della croce. Tu sai quanta paura ho della croce. Tu conosci la mia debolezza». È chiaro che sorella Mina non si accontenta di aver accolto la vocazione, di essere suora, di portare Cristo agli altri, ma ha sete di santificazione: «Or dunque, se tu mi vuoi, come ne ho la certezza, nella via più alta dell’amore, rivestimi della tua forza. Rivestimi di te, o mio Signore diletto, come hai rivestito i tuoi santi. Perché tanto tardi a rivelarti nell’anima mia? Eppure lo sai che ti aspetto e ti cerco». E da queste parole rileviamo tutta la sua umiltà: « Sono cattiva, è vero, sono l’ultima delle tue spose, ma tu mi hai chiamato e io sono venuta qui per te, per te solo». Poi osa domandare a Cristo: «Signore Gesù, mostrami il Padre! Fino a quando mi lascerai nella oscurità, in cerca di una via, la via che tu mi hai segnata, e che mi deve condurre a te? Quando mi riempirai di Te e mi sazierai?». Infine la speranza fa capolino. Anche nei momenti più bui Gian Paola si rialza con vigore: «Signore, fa ciò che vuoi. Io ti amo, io sono sicura che tu verrai e mi aprirai gli occhi dell’anima ed io conoscerò che cosa racchiuda il nome di Dio. Io t’aspetterò senza stancarmi con la mia piccola lampada accesa. Questo ti dico oggi, alla soglia di un nuovo anno. Sarà tutto per te, nella ricerca di te». Sente di doversi sforzare di vivere sotto lo sguardo di Dio, con l’amore semplice della sposa, cosciente di avere su di sé gli occhi dello Sposo e desiderosa di acquistare purezza di cuore e libertà di spirito. S’impone non solo di smussare, ma anche di evitare le angolosità del suo carattere e indirizzare tutto a Dio. Già nell’ottobre dello stesso anno Gian Paola ha superato turbamenti, oscurità di pensiero e di anima precedenti: «Signore, ora finalmente posso guardare e vedere nella tua luce l’anima mia, posso guardare indietro e cercare di vedere ciò che tra te e l’anima mia è passato in quest’anno. Un senso di meraviglia, di gioia, di riconoscenza mi invade, poiché vedo chiaramente ciò che hai operato in me, vedo l’abbondanza di grazia di cui mi hai colmato e doni di luce che a tratti, ma intensamente, hai irradiato nella mia anima». Quando la grazia arriva è travolgente e invade l’anima della creatura rapita, creatura che dapprima si sente abbandonata, come chi è innamorato, ma non è corrisposto e poi viene avvolto dall’amore Infinito e trova la pienezza. «Potrò io specificare», afferma ancora suor Gian Paola in quell’ottobre del 1944, «e catalogare i tuoi doni. E chi mai può penetrare appieno in essi? È stato un anno duro. Qualche volta m’è parso di non poterne più, che tu fossi tanto lontano ed io impegnata in una lotta senza speranza di vittoria. Ogni giorno più povera e cattiva». Talvolta si era fermata e si era lasciata andare alle lacrime. «Ma nessuno ha saputo mai ciò che passava nell’anima mia, il torchio da cui ero premuta; tu solo sapevi. Come sono felice ora nel pensare che anche in quei momenti, fra le lacrime, a denti stretti stretti e con solo uno sforzo di volontà ti ho ripetuto: Signore, io credo in te, sono contenta di te, tutto ciò che fai è buono ed è bene per l’anima mia, tu sai quale cibo occorre all’anima mia. Signore, grazie di tutto». Gian Paola compie un tuffo in Dio, che lei definisce «oceano di amore» e nel dimenticare sé, emerge con maggior intensità la sua personalità, la sua vitalità, quelle potenzialità che ancora dovevano sprigionarsi. E l’incanto si fa luce di esistenza: «Come sposa a Sposo, perché sulla mia anima e sul mio corpo Egli eserciti i suoi diritti. Senza riserva. Irrevocabilmente. Patto d’amore e di fedeltà consacrato e firmato davanti a Maria, Madre di Gesù e Madre mia (Madre dello sposo e della sposa) perché renda più intima l’unione, perché la sposa non torni a galla mai più. Dimenticarmi!». Il patto d’amore, d’ora in poi sarà inscindibile e indissolubile. Generosità, apostolato, carità diventano conseguenza del suo sentirsi di Dio, «cosa sua». Passa sopra i turbamenti interiori con frequenti atti di abbandono in Dio e «dimenticanza di sé». Meticolosa come è suo uso, registra ogni mese le meditazioni maturate negli esercizi spirituali . Nell’agosto 1946 scrive: «Io mi preoccupo di determinare un proposito mentre vorrei formularne uno che dicesse così: Dimenticarmi – Andare fino in fondo… Penso pure che un giorno, al posto di scrivere il nome di una virtù da raggiungere ogni mese sul libretto dei propositi, mi piacerebbe scrivere il nome del Maestro delle virtù: il Signore Gesù! Ci vorrà tanto cammino ancora? Sono senza guida, non so aprirmi con nessuno: mi conduca lui Gesù dove vuole! Ad Patrem». Gian Paola come non si accontenta mai dei risultati ottenuti nelle sue attività, così non si siede di fronte ai traguardi spirituali e pretende sempre più dalla sua anima assetata di amore. Nell’ottobre 1946 scopriamo che il pensiero della carmelitana Elisabetta della Trinità (1880-1906), la beata innamorata di Dio Trino, risponde «così bene alle mie aspirazioni» e dunque «tutte le corde dell’anima mia
, possono vibrare all’unisono ad ogni tocco della Mano Divina». Vuole combattere «a spada tratta» contro l’orgoglio, umiliarsi internamente, riducendo ogni sentimento di vana compiacenza e «andare fino in fondo nel sacrificio del cuore» e addirittura «rompere la mia volontà» per essere a disposizione di tutti, sforzandosi di agire «non sotto lo sguardo delle creature, ma sotto lo sguardo del Diletto». Tuttavia nell’ottobre 1947 ci pare di scorgere un salto di qualità, ora tutti i suoi sforzi e tutti i suoi propositi convergono su un punto, diventare cioè stulta propter Christus: «Allo stato attuale della mia anima impigliata in un vano raziocinare mi pare che ciò sia il perfezionamento di quel “dimenticarsi” programmatico della mia vita spirituale da qualche anno. Sento di essere ad una svolta decisiva della mia vita… Diventare “stolta per Cristo” sarebbe la mia resa a Lui, per amore. … Oh se potessi essere semplice e piccola come una bimba, la vita sarebbe ancora facile e bella come un tempo! Devo diventarlo: devo innamorarmi così di Colui che mi ama, da essere pronta anche a questo: diventare stolta, rinunciando alla mia personalità, alla mia facoltà di raziocinio, ad ogni lume umano». E così in quel 1947 comprende che, quando l’assalgono ondate interne di ribellione o la mente si perde in ragionamenti troppo umani a «fil di logica», deve porsi davanti a Dio nell’atteggiamento del bimbo che non sa o «in quello della sposa che ama e che crede». La sua maturità di trentenne la disturba: gli arabeschi del pensiero della sua fervida e attiva intelligenza la portano a farsi troppe domande e a volte il suo sorriso nasconde il turbamento di chi prende sul serio la vita: «Chi intravede ciò che passa dentro di me?» si domanda nel dicembre 1947, «Chi può scrutare l’abisso che si nasconde dietro uno scherzo o una frase buttata là come per gioco? Ma non è un gioco, no, il mistero della mia vita. È un tormento. Guai se continuo a scrutarmi con occhio umano! Dio, Dio della mia giovinezza, discendi ancora, rivolgiti ancora verso di me, come un tempo. È una pazzia la santità, è una pazzia il tuo amore, è una pazzia credere al tuo Vangelo? Ebbene, sarò pazza, ma voglio credere e amare fino alla fine [sottolineato]… Ego stulta propter Christum!». Allora Gian Paola aveva l’intenzione di farsi santa? A noi pare di sì per quella adesione alla pazzia di cui parla, per quella passione con la quale si rivolge al Padre. La sua sapienza, dice, è la sua stoltezza. Nel luglio del 1948 la luce di Dio largheggia su di lei e le ha «aperto i pascoli delle scritture» ed «Egli mi possiede e io lo possiedo. Non credevo fosse così bello avere 30 anni! È un possedere ed un essere posseduti, una stabilità nuova, calma, sicura. È inoltre la padronanza di sé, la consapevolezza di essere completa nel pensiero e nel carattere». È la sposa realizzata che parla, è l’identità pienamente trovata che si rivela a noi con la profondità di un cuore cristallino e trasparente che sale a Dio non attraverso cerebrali studi teologici, ma attraverso l’amore e i sentimenti più veri del suo umano sentire. E straripante è la sua umiltà: «Io non so se sono nella luce o nelle tenebre, se porto calore o gelo, se semino o la mia mano è vuota. Eppure il tormento della mia vita sterile, è placato nella certezza di una fecondità insondabile e vera che è oltre la carne e il sangue. La mia anima sta preparando un volto, non so ancora definirlo con una parola, o con un nome, ma sono certa di scoprirlo un giorno. Sarà il nome col quale Dio mi ha chiamato dal seno di mia madre, e in esso sarà sintetizzata la mia vocazione interiore e apostolica». Voleva giudicare cose e avvenimenti nella luce di Dio. Il 24 giugno 1949 (a cinque mesi dalla professione perpetua) la Madre Generale comunica a suor Gian Paola che è destinata alla Missione e nel suo taccuino spirituale lei comunica tre pensieri che le danno fiducia: è la festa del Sacro cuore e «A me che sono il minimo, è stata data la grazia di evangelizzare alle genti il mistero di Cristo»; è la festa di san Giovanni Battista: «il Precursore la cui figura mi è stata sempre tanto cara: vox clamatis… E poi l’introito: “Dal seno di tua madre io ti ho chiamato” come la mia predestinazione». Infine «Il babbo morto: oggi è la mia festa. Mi pare che lui sia venuto tanto vicino per farmi coraggio. Sarà con me…». La partenza è ormai prossima, siamo nell’ottobre del ’49 e lei, lapidaria, annota nel mese di ottobre, con quella semplicità che illumina grandi realtà esistenziali: «Fare tutto bene: sono le ultime cose che faccio. Come se partire equivalesse a morire». Muore Rita, definitivamente, e nasce Gian Paola che salta nel buio e si affida totalmente a Dio che ha «segnato le vie, i buchi, di questo mio esilio terreno: Tu, tu, non le creature, anche se apparentemente sono esse a segnarle… Tu e tu ancora ne raccogli il pianto. Oh Padre, vederti sempre così, curvo sulla tua creatura ad ascoltarne il pianto, a numerarne le lacrime». Sa di essere accompagnata attimo per attimo e a Mojwa il 2 aprile 1950 annota sul taccuino di aver già visto la sua missione, l’ambiente, la gente, il lavoro da svolgere e con accento sagace commenta: «Al solito, Egli mi prepara prima. Buon psicologo. Egli sa che alle situazioni e richieste improvvise mi ribello. Perciò mi fa sempre vedere prima ciò che vuole, perché abbia tempo a prepararmi l’anima alla nuova prova». L’umiltà è dote perenne e sorprende quando annuncia a se stessa: «Comportarmi in modo che gli altri non abbiano soggezione ad usarmi come vogliono». È poi bellissimo ritrovare lo slancio affettivo della sua adolescenza quando scrive lo stesso giorno: «Che gioia! Ho ritrovato il Signore con la freschezza del mio primo incontro con Lui a 14 anni! Dovevo fare tanto cammino per ritrovarlo! Ma ne valeva la pena» e come chi ha trovato la felicità ha paura di perderla così invoca: «Potessi, mio Dio, non perderti mai più». Dio solo, questo il pensiero ricorrente: «Lavoro… con la strana convinzione che tutto è secondario se non si cerca Dio per primo… Basta questo per una missionaria? Ma non sono religiosa, ossia di Dio, prima di essere missionaria? Dio, Dio conducimi nella verità». È un grido il suo. Scruta e indaga nella sua anima e con insistenza, siamo nel 1951, si propone di lasciarsi «espropriare» da tutti e da tutto «anche dalla matematica e dai fagioli, dagli insetti di cui mi devo occupare» cioè delle cose alle quali non è affatto interessata. Si lascia usare e vuole lasciarsi «sciupare da Dio». Pagine e pagine di colloquio con la propria anima e di domande a Dio e indaga su di sé come l’investigatore scrupoloso.

Nell’agosto 1953 per gli esercizi spirituali di Egoji Gian Paola afferma di non sussultare più alla parola «Sposa di Cristo» e di non più parlare di «tuffi in Dio» perché «Mi pare di vivere dentro tutto questo… non mi scappa più di dire che la vita è un nonsenso, perché Dio e l’Africa le hanno dato un senso infinito». Leggere le pagine di suor Gian Paola ci pare di assistere ad uno spettacolo di un’anima appagata del suo Dio e allora non sfoglia più libri in cerca delle parole che la conducano al Padre, non interpreta più con geniali spunti la Sacra Scrittura e «mi sorprendo a dire molti Rosari mentre un tempo uno mi bastava».

 Ora gli esami di coscienza non li compie più ad un’ora fissa del giorno, le servono quelli fatti camminando per la strada, la sera al buio, sotto le stelle o in classe «mentre le ragazze mi guardano e io so che mi scrutano l’anima». I propositi sono quelli di sempre: fedeltà a Dio, obbedienza, bontà, «non ne vedo altri novi» e a volte le prende il desiderio di inginocchiarsi ai piedi di un sacerdote, per sapere se è nella verità, per essere sgridata «ma in Africa queste sono cose che capitano di rado, ed è bene che sia così, perché qui tutto si invischia di gomma e ci si attacca perdutamente». Gian Paola ha raggiunto i 40 anni e a Mojwa l’8 novembre 1957 sul taccuino scrive: «…ho scoperto con gioia che la mia vita vera a cui sono chiamata è sempre quella d’unione con Lui».

Continua a credere che Dio scrive diritto su righe storte, cercando per primo il Regno di Dio e la sua giustizia perché sa che tutto il resto «vi sarà dato in soprappiù». È strano vedere come sia progressivo, a mano a mano che gli anni passano, il suo interesse per Gesù Crocifisso e si fa presente «il desiderio di appassionarmi alla Croce» perché, comprende, senza l’approfondimento di questo mistero l’apostolato avrebbe il sapore del «dilettantismo». È l’albero della croce che dà frutti veri e salutari ed è per questo che fa entrare (agosto 1962) nella sua vita la Madonna Addolorata alla quale domanda di essere da lei accompagnata sulla via del Calvario «con lei voglio soffrire, con lei crocefiggermi alla Tua croce: il grande doloroso talamo dell’Amore».

È attratta dalla croce e ciò lo notiamo in più tempi della sua vita: non aveva forse scoperto in tutto il suo valore il concetto di sacrificio e di sofferenza sperimentato da suor Irene Stefani? A mano a mano che trascorrono i decenni Gian Paola si avvicina sempre più al mistero della croce ed è per questo che la figura di Madre Teresa Fasce, la monaca agostiniana del Novecento vissuta nel monastero di Santa Rita a Cascia e innamorata della Croce (beatificata il 12 ottobre 1997), negli ultimi anni la affascina in maniera del tutto singolare. Il 6 settembre 1964 scrive che le è stato detto di recarsi a Getoro, ma la direzione di ogni cosa è stata affidata ad un’altra, non a lei, lei dovrà solo collaborare e tutto ciò, ammette, le provoca grande sofferenza: «È come aver generato una creatura desideratissima e poi non poterla portare tra le braccia… vederla in quelle di un’altra che ne farà forse una cosa diversa da quello che avevi pensato o creduto bene… A tutta prima mi sono ribellata. Mi pareva impossibile che non si capisse l’assurdità di ciò che mi si sta chiedendo… Ho pianto la mia sofferenza».

Quando è già in Italia (è il 25 marzo 1970), Gian Paola con tristezza confida l’immenso dolore provato in quell’aereo che la portava via dall’Africa e poi «che cosa terribile questo ritorno senza mamma, senza più casa – senza neppure Fausta, perché è malata… con padre Giuseppe che invecchia, Rina vicina e lontana». E da queste righe comprendiamo tutta la fatica che Gian Paola ha dovuto superare per reinserirsi in Italia, una fatica spossante, logorante. Si sente amata nell’Istituto di Torino «tutti mi vogliono bene – troppo – Ho tutto quello che voglio. Ma sono così sola, perché non so dire nulla di me. So ascoltare: non so ricambiare le confidenze… Sento che non so esprimere, senza lasciar urlare l’anima; meglio tacere». Il destino di Gian Paola è stato spesso quello di disboscare, di aprire varchi, di preparare il terreno per altri e battere vie nuove «L’eterno mio destino di battistrada, di Giovanni Battista» e la fatica del «pagare di persona» è immensa. Ma è comunque in grado di scuotersi la polvere di dosso e rinnovarsi e ringiovanire. Il suo grido d’amore si fa alto e sublime: «Mio Dio, ch’io ti ami. Che voglia di te, di te solo. Come una volta. Come sempre. Di te, il Fedele, l’immutabile, mia Roccia e Speranza!». Gian Paola ha già sessant’anni (1977) e il suo canto d’amore si fa frutto maturo, radioso come grano al sole: «Il grano della mia spiga, i chicchi dei miei giorni – 60 per 360 – finalmente unificati/frantumati perduti/ in farina pura/ servono per una piccola ostia/una povera ostia/un poco di pane» ed è bello notare come, nel suo diario di viaggio spirituale, non ci sia più il bisogno di annotare tutti i pensieri e i propositi. Passano cinque anni prima di trovare altre sue meditazioni.

Dall’anno Santo 1983 (quarantesimo di professione), si passa poi direttamente al 1987, quando esprime la sua volontà di porsi sotto il giogo del Signore «proprio in questi tempi in cui i pesi si succedono ai pesi e le spalle sono stanche. Prenderlo però con Lui, aggiogta con Lui che è il più Forte – il forte – e che porterà anche il mio peso… Nella speranza in cui devo crescere [è stanca nel fisico, ma non è mai stanca di crescere dentro] in questo mio prossimo settantennio, con gratitudine per “ciò che è stato il mio ieri”, con fede tranquilla, per ciò che è il mio “oggi”; con speranza per quello che sarà il mio “domani”, se ci sarà ancora. Non c’è del resto nulla di “mio” – Cristo solo è ieri, oggi, domani. Cristo è la nostra Pace!». Potrebbero, con tranquillità, essere le riflessioni di una suora di clausura e invece è suor Gian Paola, apostola delle genti, la missionaria impavida che ora segue la mitezza e si ripete: «Beati i miti perché possederanno la terra». L’ultimo messaggio è datato gennaio 1992. Ormai si propone programmi a termini brevi «che possano essere interrotti serenamente al suo arrivo, ad ogni ora». L’arrivo di Cristo che giunge a prendere la sua sposa innamorata e fedele.

Concilio Ecumenico Vaticano II

Il Concilio Vaticano II non è più un tabù. Questa sorprendente e provvidenziale realtà è stata sancita innanzitutto con lo storico discorso alla Curia romana di Benedetto XVI del 5 dicembre 2005, quando il Papa rimise sul tavolo delle questioni il Concilio stesso parlando di "ermeneutica della continuità", evidenziando perciò una lettura conciliare alla luce della Tradizione, elemento necessario, fondante e imprescindibile della Chiesa.

Pareva che il "superdogma" conciliare fosse intoccabile e chi tentava di trattarlo, senza glorificarlo, veniva guardato con grande sospetto, come fosse un nemico, che occorreva tenere a debita distanza e del quale bisognava diffidare…

A confermare ulteriormente che il Concilio non è più un tabù è stato in questi giorni il significativo e bellissimo Convegno di studi "per una giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa" che è stato organizzato dal Seminario teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell’Immacolata.

L’iniziativa, dal titolo "Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio pastorale analisi storico-filosofico-teologica", è stata una prima seria risposta al dibattito aperto dal Sommo Pontefice: un’eccellente sintesi delle ricerche sul Concilio e sulle ermeneutiche, sul valore dei documenti conciliari, sull’esame dei punti meno chiari e più problematici.

L’importante evento, quasi apripista per altre iniziative di questo carattere, si è tenuto a Roma nei giorni 16-17-18 dicembre all’Istituto Maria SS. Bambina (via Paolo VI 21) e ha visto alternarsi sulla cattedra nomi di altissimo livello: Monsignor Luigi Negri (Vescovo di Marino-Montefeltro), Monsignor Brunero Gherardini (Pontificia Università Lateranense), Don Rosario M. Sammarco (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Ignacio Andereggen (Professore all’Università Pontificia Gregoriana), Professor Roberto de Mattei (Università Europea di Roma), Professor Yves Chiron (Direttore del Dictionnaire de biographie française), Don Paolo M. Siano (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Giuseppe Fontanella (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Monsignor Atanasio Schneider (Vescovo ausiliare di Karaganda, Kazakistan), Don Serafino M. Lanzetta (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Florian Kolfhaus (Dottore della Segreteria di Stato del Vaticano), Monsignor Agostino Marchetto (Segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti), Don Nicola Bux (Professore all’Istituto ecumenico di Bari), Cardinale Velasio de Paolis (Presidente della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede).

Al raduno di Roma, destinato a rimanere agli atti della storia, sia per il numero e la qualità dei relatori, sia per la materia trattata, erano presenti anche il Cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Monsignor Guido Pozzo e altri membri della Curia romana.

Dopo quarantacinque anni di culto conciliare, dove la prassi ha compiuto un’opera secolarizzante a vasto raggio, svuotando seminari e chiese e demotivando la Fede stessa, è giunto il momento di fare un’accurata riflessione su ciò che è stato il Concilio, su come sono stati condotti i lavori preconciliari e quelli propriamente conciliari. Insomma, è giunto finalmente il tempo di tornare ai contenuti della Fede e di analizzare tutto alla loro luce, dopo l’euforia innovativa e gli entusiasmi di una presunta "nuova Pentecoste", che aveva la specifica tensione a rendere antropomorfe le realtà soprannaturali; euforia ed entusiasmi tipici degli anni Sessanta, carichi di rivoluzionaria voglia di novità.

Con grande onestà intellettuale, il Convegno ha offerto il suo apporto su ciò che il Concilio è stato. Esami approfonditi e sistematici sono stati presentati con grande rigore e spessore intellettuale, facendo presente anche l’ambiguità di certuni testi conciliari, un’ambiguità che, ormai, nessuno può più far finta di non vedere o trascurare, visto che dai frutti si riconosce l’albero: "Voi li riconoscerete da’ frutti loro; colgonsi uve dalle spine, o fichi da’ triboli?" (Mt 7,16).

Ha dichiarato Don Kolfhaus (nel suo intervento dal titolo "Annuncio di un insegnamento pastorale-motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate"): "Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale".

Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato "come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili". Noi tutti lo constatiamo giorno per giorno: molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II, che senza dubbio ci sono, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. In effetti, non mancano oggi forti richiami che mettono in guardia da un arretramento rispetto al Concilio e da una sua arbitraria svalutazione. Ciò è fuori discussione, non si tratta di questo.

Al contrario: quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E d’altra parte, il Vaticano II è stato un concilio come mai ve ne erano stati prima. Questa affermazione troverà d’accordo tutti, per quanto differenti possano essere le valutazioni su di esso. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità". Il problema centrale è la tensione creata dal concetto di "Concilio pastorale" o di "Magistero pastorale".

 Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di Concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il Magistero, inteso almeno come esercizio del "munus determinandi", sia affatto presente in tutti i documenti. "Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del Papa nelle sue encicliche?" ha posto il quesito Don Kolfhaus, al quale ha così risposto: "Nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale […]. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi "moderni" un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono "nuove" verità. Il Concilio stesso non voleva questo".

Per esempio, a riguardo della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964, il relatore del Segretariato per l’unità dei cristiani dichiarò nell’aula conciliare: "Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali" (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644).

Quanti teologi, invece, richiamandosi proprio alla Nostra aetate, da questi principi miranti alla prassi del dialogo hanno elaborato una teologia delle religioni che vede nelle fedi non cristiane vie di salvezza autentiche e indipendenti da Cristo e dalla sua Chiesa? Ha ancora spiegato il rappresentante della Segreteria di Stato: "Quanto spesso si è sostenuto, citando la Unitatis Redintegratio, che il Vaticano II avrebbe rinunciato alla "pretesa di assolutezza" della Chiesa, la quale dovrebbe comprendersi finalmente come una tra molte chiese? Chi legge gli atti, resta sorpreso. Nel decreto sull’ecumenismo si dichiara espressamente che le sue asserzioni non toccano nel modo più assoluto la verità dell’assioma "Extra Ecclesiam nulla salus" (cfr. AS III/7. 32) e che non v’è alcun dubbio che solo la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo ("Clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica … dicitur … una et unica Dei Ecclesia" AS II/7. 17.)".

 I Padri conciliari e i loro teologi, nelle cartelle portadocumenti, avevano i libri scolastici (preconciliari, dunque) utilizzati nei loro anni di studio, perciò, ha ancora sostenuto Kolfhaus: "Chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con "una nuova realtà pastorale" si sviluppi una "nuova" dottrina. Esempi di ciò ve ne sono in abbondanza nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Questo vale anche per molti teologi che – sorridendo delle semplici verità del catechismo – considerano le affermazioni pastorali conciliari alla stregua di asserti dottrinali, per poi sviluppare di qui nuove posizioni (personali)".

Proprio a questo riguardo si può individuare il grande problema che, prima o poi, dovrà essere preso in considerazione e risolto. Un Concilio, il XXI, non può per la sua caratterizzazione pastorale, nel deludente tentativo di confrontarsi e dialogare con il mondo, ergersi a solenne interprete dei venti concili precedenti. È indubbio che urge mettere ordine e delineare le diverse terminologie per fare, innanzitutto, un distinguo fra "magistero dottrinale", "magistero disciplinare", "magistero pastorale" e dunque definire il "Concilio pastorale", l’unico della Storia della Chiesa.

 In questa sistematizzazione trovano ampia risonanza i due volumi di immenso valore di monsignor Brunero Gherardini, illustre esponente della Scuola teologica romana: Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana Editrice 2009) e Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa (Casa Mariana Editrice 2010).

 Il teologo Gherardini nel suo illuminante e chiarificatore intervento ha esordito facendo riferimento ad una figura allegorica: "C’era una volta l’Araba Fenice. Tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista. E c’è oggi una sua versione aggiornata, di cui pure tutti parlano e nessuno sa dire di che cosa si tratti: si chiama Pastorale. […]. La pastorale come aggettivo qualificativo o come aggettivo sostantivato ricorre in effetti decine e decine di volte. Non una sola, però, per darne se non la definizione, almeno un accenno di spiegazione. Riconosco che, analizzando criticamente le varie dichiarazioni, è possibile farsene una vaga idea; essa, però, non sarebbe espressione diretta dell’insegnamento conciliare. L’esempio più probante è dato da Gaudium et spes, qualificata addirittura come "Costituzione pastorale", tutta essendo un fermento ideale e propositivo a favore dell’uomo, della sua libertà e dignità, della sua presenza nella famiglia, nella società, nella cultura e nel mondo, allo scopo di conferire alla vita privata e pubblica un respiro ed una dimensione a misura umana. L’abbinamento dei due lemmi – Costituzione pastorale – è la novità più novità di tutto il Vaticano II […]. È forse dipeso da questa irrisolta aporia la problematicità che accompagna tuttora, dopo circa mezzo secolo di postconcilio, ogni discorso sulla pastorale. In pratica, essa serve per legittimar un po’ tutto ed il suo stesso contrario. Le due ermeneutiche conciliari, alle quali s’è spesso riferita l’analisi del Santo Padre, quella che fa del Vaticano II l’inizio d’un nuovo modo d’esser Chiesa e quella che lo collega invece alla vivente Tradizione ecclesiale, son ambedue legittimate dall’irrisolta aporia".

Chi ha dimestichezza non solo con la Gaudium et spes, ma con tutti i sedici documenti conciliari, ha proseguito monsignor Gherardini, si rende conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti (è possibile ascoltare l’intera conferenza di Monsignor Gherardini su http://catholicafides.blogspot.com/ connettendosi sulla TV dei Francescani dell’Immacolata): 1. Generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;

2. Specifico del taglio pastorale;

3. Dell’appello ad altri Concili;

4. Delle innovazioni.

Da ciò si deduce che molti teologi e interpreti del post-Concilio dogmatizzarono un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.

Altra rilevante relazione è stata quella del professor Roberto de Mattei, autore del recente e importante volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau 2010), giunto in pochi giorni alla seconda edizione: un testo fondamentale per chi vuole comprendere veramente la storia di questo snodo della vita della Chiesa e non continuare, pervicacemente, a coprirsi gli occhi. Il professore ha evidenziato come il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni, trascurando le profonde radici e le profonde conseguenze che ebbe nella Chiesa.

Fu, per il professor de Mattei, una vera e propria Rivoluzione in seno alla Chiesa; inoltre non è sostenibile la tesi di poter separare il Concilio dal post-Concilio, come non lo è quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. "Ancora oggi viviamo le conseguenze della "Rivoluzione conciliare" che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, "non deve temere la verità"".

Il Vescovo ausiliare di Karaganda, monsignor Atanasio Schneider, si è soffermato sul concetto di interpretazione del Concilio e dei suoi documenti e per fare ciò non si può fare certo riferimento ad una scuola particolare, come per esempio quella celebre, ma faziosa di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli episcopati per avere giudizi oggettivi e avulsi da posizioni sia minimaliste che massimaliste. Proprio per tale ragione monsignor Schneider ha coraggiosamente evocato la necessità di un nuovo Sillabo per evidenziare gli errori sorti nella interpretazione del Concilio e se un giorno tale documento pontificio dovesse essere pubblicato, ha affermato, sarà un grande beneficio per tutta la Chiesa.

Il 14 dicembre 2010, sul sito web Zenit padre Serafino Lanzetta aveva scritto che il Convegno si sarebbe tenuto "in un clima abbastanza rovente e in un crescente dibattito, segno che qui si nasconde un problema unito ad una speranza. Si desidera lumeggiare la vera natura del Concilio […]. Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo sol di lodi e di encomi. Eppure, dopo quarant’anni e più, siamo dinanzi ad un dato innegabile: la rottura e lo spirito del Concilio, ovvero quel modo di decontestualizzarlo dalla Tradizione bimillenaria, hanno prevalso e la Chiesa si è lentamente e progressivamente secolarizzata. Il mondo, in un certo senso, ha vinto sulla Chiesa; quel mondo che la Chiesa voleva raggiungere in ogni modo. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro post-conciliare non sono solo nel post-concilio. Il post-concilio non dà ragione di sé. Dunque, bisogna prendersi la briga, per amore della Chiesa e per il futuro della fede nel mondo, di andare ad esaminare la radice del problema".

La tre giorni si è chiusa con un nuovo intervento di monsignor Brunero Gherardini, il quale ha ribadito come il Concilio Vaticano II fu, appunto, un Concilio pastorale e su tale piano va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, cioè interpretative che ne "impongono la dogmatizzazione". La strada ormai è aperta e tracciata, sta agli uomini di buona volontà, coloro che desiderano servire il Regno di Dio e non il mondo, intraprenderla per amore di Cristo e della Sua Chiesa.

da www.messainlatino.it  Roma 16-17-18 dicembre 2010

Fratel Silvestro, la vite di Dio

L’avventura di un missionario italiano, fratel Silvestro Pia (1920-2003), dei Fratelli della Sacra Famiglia, innamorato di Dio e dell’azione apostolica della Chiesa. Nel 1958, assieme a due confratelli, è inviato dalla Congregazione in Africa. Nel 1966 fonda a Goundì, in Burkina Faso, il Centro di formazione agricola e di accoglienza dei giovani abbandonati o orfani. Fratel Silvestro, come scrive l’Autrice del volume, è stato un "uomo d’azione e di lavoro, uomo di preghiera e di contemplazione. Un uomo di pace, della vera paceUn uomo che si è lasciato consumare dall’amore, dalla carità, dall’agape". Un libro che guida il lettore nel profondo dei sentimenti, della fede e dell’opera di quest’umile missionario delle Langhe.

1. Dalle Langhe al deserto

Occhi neri, penetranti, intensi, accesi e mobilissimi, da furetto. Profondi solchi su una pelle macerata e arata dal sole, dalla terra, dalla fatica e dalla sofferenza. Grandi orecchie e labbra sottili, sorridenti. Sempre pronto all’incontro, alla condivisione, alla partecipazione, al soccorso. Quando parlava di Dio o dei poveri teneva spesso l’indice sollevato. Aspetto semplice, umile, da contadino. Aria smarrita, stupita, con una forza d’animo impressionante ed una tenacia smisurata, dettata da una fede incrollabile. Magro come un fuso, quasi arso da una siccità corporea, talloni screpolati dentro sandali scassati e polverosi. Innamorato di Cristo, della Madonna, della Sindone. Mani grandi, nevrili, nutrite di lavoro e di amore, mani in grado di lenire, di alleviare, di guarire… Mani inchiodate alla Croce, quella Croce che ha sempre portato dentro di sé: «Qu’il est beau de mourir quand on a vécu sur la croix»[1], abbiamo trovato scritto di suo pugno su un’immagine raffigurante il volto di Cristo sofferente che custodiva nel suo breviario. Era il breviario di Fratel Silvestro Pia. Breviario e Croce, Croce e breviario i suoi compagni inseparabili. L’uomo del Piemonte, dalle idee chiare, precise, forti, dall’animo gonfio di carità, è stato salutato, per l’ultima volta, nel gennaio del 2003, da una folla grandiosa, eterogenea, variopinta e da tutti i suoi ragazzi che hanno reso omaggio ad un padre che li aveva sollevati dalla sofferenza migliaia di volte e per quarantacinque anni di seguito. I «notabili» in prima fila, gli uomini con lo sguardo attento, molte donne con il capo coperto e chino, i giovani seduti a terra. Qualcuno traccia segni sulla sabbia, altri sussurrano parole, qualche mamma allatta il proprio piccolo e, più in là, sotto il sole, un asino e delle pecore pascolano tranquillamente. Una tortora emette suoni dal ramo di un mango.

Poi domina su tutto la voce di Fratel Silvestro: è una registrazione di un incontro di preghiera con i suoi giovani. È un momento toccante, particolarmente forte e sono in tanti a piangere. L’uomo che aveva fatto crescere gli alberi e i frutti e le verdure e l’uva nell’arida terra africana, l’uomo che aveva portato il verde, la speranza, la rinascita nei corpi e nei cuori del Burkina Faso, non c’è più. «Lo stregone bianco» che rendeva fertile la sterile terra, che assisteva i bisognosi, che curava i lebbrosi, che formava giovani contadini, che dava lavoro ai poliomielitici, che battezzava e portava Cristo alle genti… e ancora scriveva, al lume della lampada a petrolio, fino a notte fonda, lettere in tutto il mondo per chiedere aiuti economici e per soffiare nel vento mille parole di conforto, di amore e di pace, non c’è più.

Tuttavia c’è tanto sole in questo 1° febbraio del 2003 a Goundì e il sole più forte proviene dalle persone che al passaggio della bara, lungo la strada che conduce da Koudougou a Goundì, ripete: «Dai Silvestro, se l’acqua si compra a 5 franchi, che tu possa bere gratuitamente»; «Bravo Silvestro, che la terra d’Africa, la terra dei nostri antenati, ti sia leggera». Lo segue un corteo di automobili, di motorini, di biciclette, di persone. Ad un chilometro dal centro della missione, si forma un gruppo che danza, canta, lancia grida benauguranti al ritmo dei tam-tam, dei flauti e delle calebasse. A Goundì, il suono del tam-tam risuona fino alla veglia di preghiera: dalle ore 20 alle 6,00 del mattino seguente. La popolazione di Goundì aveva scavato la tomba, nella terra adiacente alla cappella della missione. Dopo la sepoltura, vengono collocati una sua fotografia, un ramo d’orchidee ed un crocifisso. «È la Croce per tanta gente», aveva detto Fratel Silvestro il 19 novembre 2002, «Questa sofferenza salverà l’umanità. È l’ora della sofferenza, del Crocifisso: Cristo soffre con noi. Non si pensa abbastanza a questo compagno dolente che abbiamo accanto. È lui che valorizza tutta la nostra sofferenza. Quando la Croce mi opprime penso alla Croce di Gesù e il coraggio ritorna» e poi «Il Signore ci manda la Croce. La sofferenza riscatterà l’uomo».

Considerava il dolore dei suoi figli africani un mezzo per salvare tante anime e si beava quando vedeva pregare la sua gente, una preghiera convinta, concentrata, vera, capace di sollevare il mondo nella stessa misura della preghiera delle monache e dei monaci. Fratel Silvestro era figlio di una numerosa famiglia di viticoltori, gente con tanta voglia di lavorare. Era nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 26 ottobre 1920. Guarda caso nel mese missionario. Era stato battezzato con il nome di Ettore. I primi undici anni li trascorse in famiglia fra vitigni, scuola e parrocchia. Acquisì tutte le caratteristiche langarole: amore per la terra, attitudine alla coltivazione, senso del dovere, propensione al sacrificio. Fin da ragazzo, caratteristica che sempre manterrà, sapeva cogliere le occasioni per sorridere e si distingueva per quel suo muoversi in mimiche facciali simpatiche e accattivanti. Santo Stefano[2] è disposto sui due lati del fiume Belbo, fra il Monferrato e le Langhe. La parte più alta dell’abitato conserva ancora tracce del suo passato storico, come i ruderi dell’antica Abbazia di San Gaudenzio, dove papa Innocenzo IV sostò nel 1244, e la torre medioevale, unico residuo dell’antico castello distrutto nel 1635 dagli eserciti spagnolo ed austriaco. L’Abbazia di San Gaudenzio [3] risale al X secolo ed oggi è incorporata in un edificio privato. Essa sorge lungo la riva sinistra del Belbo.

Fu innalzata su di un tempio romano preesistente, come testimonia una stele funeraria che adorna l’attuale facciata. I luoghi più conosciuti di Santo Stefano Belbo sono quelli cosiddetti «pavesiani»: paesaggi e località resi celebri dallo scrittore nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Così scopriamo la casa Museo di Nuto Revelli, che Pavese descrisse come «il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo». Un altro edificio, meta continua di visitatori, è la casa contadina dove nel 1908 nacque Cesare Pavese, peraltro molto amato e stimato da Fratel Silvestro Pia. Dal 1914 al 1947 è di proprietà dei Padri Giuseppini che la trasformarono in collegio. La Casa di Pavese conserva la caratteristica struttura della cascina d’inizio secolo, con quattro camere disposte su due piani, divise da una scala[4]. In viale San Maurizio si trova la sede del Centro Studi Cesare Pavese dove, oltre ad una fornita biblioteca, si trova una mostra documentaria permanente sulla vita e l’opera dello scrittore piemontese. La valle del Belbo ha ispirato lo scenario naturale di alcune fra le principali opere letterarie di Pavese: il paesaggio dell’infanzia, il palcoscenico straordinario delle vigne e delle colline, i colori e i sapori di questa meravigliosa terra dove nasce il Moscato, dove si svolge la tradizionale fiera di San Rocco con i suoi falò (accesi lungo la dorsale delle colline che giungono a Moncucco) e la settembrina festa dello spumante. Torna alla mente, dunque, il più famoso romanzo pavesiano, La luna e i falò, vicenda ambientata nell’area geografica fra Santo Stefano e Canelli. È stato proprio grazie a Cesare Pavese che questo luogo, celebre per i prodotti del lavoro della sua gente, è uscito dai suoi confini per trasformarsi in simbolo di riferimento culturale e letterario[5], nazionale e internazionale.

Ottantaduenne, Fratel Silvestro così esprimeva agli «Amici di Pavese», il suo amore per il grande scrittore compaesano (Goundì 3 dicembre 2002): «Grazie per la vostra così bella e interessante rivista “Le colline di Pavese”. Mi fa molto piacere leggere i bei articoli, così ben fatti e molto interessanti, che toccano un po’ tutti i settori della nostra bella Langa. Dio ci ha dato delle belle meraviglie che non sempre si valorizzano. Anche il nostro caro Pavese è un dono di Dio, che non sempre si valorizza». Fratel Silvestro, dal Burkina Faso, pensa al valore umano e letterario dello scrittore piemontese. Il suo animo raffinato tocca il cuore di chi lo legge: «Certo che era un carattere un po’ melanconico. Forse siamo noi un po’ colpevoli nel non apprezzarlo e amarlo con una giusta misura. Per me, non si è sentito abbastanza amato, era troppo sensibile. Ma Dio è buono, ha dovuto fargli una buona accoglienza alla morte per il bene che ha fatto con i suoi meravigliosi scritti. Lui amava la Natura; dunque amava Dio.

Dio lo si trova in modo particolare nella Natura. Si può dire che la Natura è Dio». Ora è il mistico Silvestro, l’uomo avvezzo a parlare del Signore e con il Signore, che afferma: «Cristo mi diceva: “Dietro ogni fiore, ogni foglia c’è il mio animo”. Cesare amava Dio. C’è pure un bravissimo signore, amico mio, di Abbiategrasso (MI) che, ogni volta che mi scrive, mi scrive in poesia, è un grande ammiratore di Pavese ed è già venuto parecchie volte in pellegrinaggio a Santo Stefano Belbo». Da notare la definizione «in pellegrinaggio», dimostrando così che Fratel Silvestro aveva non solo rispetto, ma «culto» per le persone, ognuna aveva in sé la sacralità di Cristo perché, come sostiene san Paolo, l’uomo può, se vuole, essere tempio di Dio.

E prosegue: «Pavese aveva un cuore grande: un grande amore verso Dio, perché amava la Natura e il prossimo. È forse l’amore del prossimo che gli è mancato. L’uomo ha bisogno di essere amato e compreso! Ma Dio l’ha amato e compreso; anche voi state amandolo e comprendendolo. Mi felicito. Quel che ci manca oggi è quest’amore dell’uomo, lo vediamo e constatiamo tutti i giorni». Nel 1932 Ettore Pia si reca a Chieri dai Fratelli della Sacra Famiglia, dove prosegue gli studi e dove matura l’idea di farsi religioso. «Da ragazzo, nei momenti di ricreazione», racconta Fratel Angelo Raimondo che fu suo amico ed oggi ci racconta con affetto la straordinaria vita del suo amato confratello, «nei momenti di ricreazione non si lasciava affascinare dal gioco individuale o di squadra. Aveva sempre qualche cosa da fare: era sempre a disposizione del superiore o dell’assistente, pronto a qualsiasi lavoro extra o normalissimo.

Dava l’impressione di non aver tempo da perdere». E i ricordi proseguono: «Negli ultimi mesi di guerra, quando i caccia inglesi spadroneggiavano nei nostri cieli e prendevano di mira persone o macchine in movimento, Silvestro non rimaneva tappato in casa, si dedicava con passione alle sue colture, e non si arrendeva se non quando il rombo degli Spitfire diventava troppo minaccioso e solo allora si mimetizzava tra i filari o nel verde tenue degli asparagi». Il 9 marzo 1939 emette i primi voti come Fratello della Congregazione religiosa laicale fondata nel 1835 dal venerabile Gabriele Taborin (Belleydoux, 1° novembre 1799 – Belley, 24 novembre 1864)[6].

Completa i suoi studi e gli vengono affidate mansioni all’interno e all’esterno della comunità. Non era portato alla teoria e alle discipline astratte. Era un giovane pratico, concreto, un gran lavoratore. Non ha perciò conseguito lauree; ma ebbe comunque l’occasione di svolgere l’attività di maestro al Collegio Sacra Famiglia di Torino quando per un trimestre fu chiamato a sostituire in seconda elementare Fratel Raimondo, assente per malattia. Afferma quest’ultimo: «La figura di Fratel Silvestro sta a dimostrare che nel lavoro per il Regno di Dio possono contare studi, conoscenza, cultura ma contano soprattutto passione, abnegazione-altruismo, fede e fiducia in Dio e soprattutto uno smisurato amore per il prossimo, visto come immagine di Dio, in particolare per il povero e il diseredato, dal volto sfigurato dalla sofferenza, come quello del Maestro crocifisso. Defunctus adhuc loquitur, soprattutto additandoci la fede intesa come fiducia e la grande povertà che lo teneva vicino al Cristo in croce e ai fratelli crocifissi».

Questo operaio nella Vigna del Signore trascorre poi alcuni anni in Francia dove accresce la sua formazione. Qui ha modo di conoscere più a fondo Taborin ed entra perfettamente nel carisma e nella spiritualità del suo fondatore. Si racconta che il Padre fondatore della Sacra Famiglia, trovandosi in ristrettezze economiche la sua Comunità, decise di allungare abbondantemente con acqua il vino. Un episodio che si ripeterà con Fratel Silvestro quando, nel tempo in cui ricoprirà la carica di economo, senza alcun rimorso, colmerà gli otri con acqua di fonte. Fratel Silvestro, che ha appreso alla Scuola di Fratel Gabriele, chiamato la «Tonaca senza prete», l’amore di portare Cristo alle genti, ha la vocazione per la missione e con sua grande gioia gli viene domandato di partire il 3 ottobre 1958 per l’Alto Volta, oggi Burkina Faso[7], con altri due confratelli (primo insediamento della Sacra Famiglia in Africa). Qui diventerà pioniere missionario, avviando un progetto di promozione umana sociale e religiosa. «La mia vocazione?», dirà un giorno ad alcuni giovani che gli posero delle domande a Villa Brea, sede della Sacra Famiglia in Chieri, «Non sono io che me la son messa nel cuore, è il Signore che l’ha data, è un dono di Dio la vocazione, è una chiamata. San Giovanni Bosco diceva che il 95 % dei giovani ha la chiamata nel cuore, ma ordinariamente questa è soffocata da tante cose, generalmente è soffocata dal benessere e dalla poca corrispondenza che abbiamo verso il Signore. Bisogna fare attenzione perché il male si serve del benessere per distogliere l’uomo da Dio. Benessere, ricchezza; guardate: la ricchezza è lo strumento con cui il diavolo ha allontanato l’umanità dal Signore. È terribile. E l’uomo ne ha fatto il suo dio. Con la ricchezza l’uomo non pensa più a Dio, non pensa più, non si pensa, siamo allontanati da Dio e allora quando uno è in una nebbia fitta, fitta non vede più la sua strada».

Fino al 1965, secondo le indicazioni e lo spirito del fondatore dei Fratelli della Sacra Famiglia, si occupa dei giovani e delle famiglie, realizzando alcuni brevi viaggi ricognitivi per comprendere la realtà del Paese, con particolare attenzione al territorio e alle attività agricole, in vista di un riscatto dell’uomo e della nazione. Nel 1966, per favorire uno sviluppo socio-economico nella lotta contro la fame, Fratel Silvestro viene incaricato di erigere un Centro pilota con indirizzo ortofrutticolo. Tanto coraggio, tanta voglia di fare, molta competenza, sono gli ingredienti utilizzati da Fratel Silvestro per portare a compimento questa impresa che servirà come modello per la popolazione locale e per le stesse autorità governative. Mago agricoltore, sapeva praticamente tutto dei segreti della terra e da essa riusciva a trarre il più e il meglio. Goundì, villaggio a pochi chilometri da Koudougou, è la destinazione di Fratel Silvestro.

Lui non ha problemi di sorta. Abbraccia la povertà con lo slancio dell’uomo libero, perché spogliatosi di tutto: la missionarietà e la carità scorrono nelle sue vigorose vene e non impara ad amare i poveri, li ama già. Il paesaggio di Goundì è caratterizzato dalla savana, in parte erbacea, in parte arborea. Il clima è sudanese di tipo tropicale, con una stagione molto secca (da novembre a maggio) ed una stagione delle piogge (da giugno a ottobre); stagioni che condizionano e regolano tutte le attività della popolazione. La vegetazione è varia. Si possono trovare il gigantesco baobab (ritenuto benefico e anche sacro), il formagere o lapok (che produce una lanugine), il karatè (dal cui frutto si ricavano burro e sapone), il neré (i cui baccelli sono utilizzati come condimento nelle salse), il tamarindo, ma anche acacie, mimose ed alberi da frutta come il mango, la papaia e l’anacardio. I principali prodotti agricoli sono: il miglio, che costituisce la base dell’alimentazione dei gourounsi, il sorgo, il mais, l’arachide, l’igname, il sesamo.

Nella stagione secca si riescono a coltivare ortaggi come il pomodoro, le cipolle, i cavoli, le melanzane, i fagioli ed una specie di grosso pisello. L’allevamento si basa sui caprini, i maiali e gli animali da cortile. Nei limitati e fangosi bacini d’acqua si pratica una misera pesca e in queste acque vivono anche i caimani. L’artigianato è poco sviluppato e si basa sulla falegnameria, la carpenteria, la saldatura, la tessitura con telai a mano. La popolazione è suddivisa per clan e vive in gruppi familiari e in «concessioni», un insieme di abitazioni e granai in terra cruda, raggruppati e chiusi verso l’esterno. Al centro dell’area abitativa, cioè nella corte, si svolgono praticamente tutte le attività quotidiane delle persone e qui si tengono anche le principali cerimonie previste dalla tradizione[8] della comunità dove è tuttora presente e vivo un forte legame con la terra e gli antenati, un costume che continua a scandire i ritmi della vita di ogni giorno. Normalmente un gruppo familiare è costituito da più famiglie legate da parentela e composto da circa 15-20 persone. Il 60 % è in età di lavoro (dai 10 anni in su) e di essi oltre il 50 % sono donne[9].

Lascia scritto in uno dei suoi molteplici messaggi, illuminanti ed invitanti, che abbiamo spigolato qua e là e che non conoscevano né ipocrisie, né edulcorazioni di sorta; la medicina amara ed evangelica arrivava dritta al destinatario: «Voi offrite un digiuno nel breve periodo della Quaresima, ma quanti milioni di uomini, soprattutto bambini, digiunano per lunghi mesi! Parlo di gente che mangia, quando può e non sempre a volontà, al massimo una volta al giorno. «Gente che ha fame, tanta, da morire. Polenta e frittelle di miglio, qualche arachide, alcune foglie di radici… Costituiscono la loro principale fonte di alimentazione. Disgraziatamente non ce n’è sempre. «Un giorno il capo villaggio di Goundì, mi chiama perché saluti e battezzi la sorella lebbrosa che sta per morire. Accorro. Le parlo di Dio, della Madonna… Lei ascolta, sorride… Poi con un filo di voce: “Mi porti della farina, tanta farina…”. Sì, le ho portato farina, olio, una coperta nuova… «Come dimenticare quella richiesta estrema, quel grido di una vita passata nella fame, negli stenti, nella sofferenza? «Come dimenticare quella donna con tre bambini aggrappati alla gonna che mi supplica di darle un po’ di miglio perché, lei e i suoi, stanno per morire di fame? «Le riempio un sacchetto di miglio, mi ringrazia con ampi gesti, mi saluta con uno sguardo radioso… riprende la strada. «Poco dopo, vengono a dirmi che è morta di fame prima di arrivare a casa sua».

In una radura ai margini della savana, Silvestro costruì, in meno di due anni, un agglomerato di sei piccoli edifici che costituivano la sua missione: una comunità di accoglienza e di lavoro. Il corpo centrale era un basso fabbricato che aveva per tetto delle semplici assi poste l’una accanto all’altra, senza nessun’altra copertura. Al suo interno c’era un cucina, una camera usata come infermeria e una stanza-magazzino dove Silvestro dormiva. Alle spalle dell’edificio centrale c’era un fabbricato più piccolo, composto da tre stanzette destinate agli ospiti. Sul davanti, nei pressi della recinzione, aveva eretto con amore una piccola cappella. Sul lato opposto, c’era invece la «casetta-laboratorio», con dei piccoli telai che Silvestro aveva costruito per insegnare ai ragazzi poliomielitici a tessere filati e tessuti. Dietro a questi edifici, ai margini della savana, si trovavano la casetta per gli attrezzi, il pollaio, gli orti, il frutteto e la vigna, tutti in uno spazio ordinato e ampio che Silvestro aveva sottratto all’aridità di una durissima terra.

Fratel Silvestro amava scrivere: lettere, appunti, meditazioni, preghiere, riflessioni, dove Cristo e Maria erano sempre al centro dei suoi pensieri, come del resto erano al centro delle sue azioni. Qualsiasi foglio, foglietto o pezzettino di carta erano utili per scrivere le sue considerazioni, le sue esortazioni, i suoi consigli… insomma, tutto ciò che gli sgorgava dal suo paterno e straripante cuore. Maturava pensieri, colloquiava con Cristo e Maria Santissima, dialogava con l’Altissimo, pertanto soliloqui e dialoghi venivano impressi sulla carta, ma anche monologhi di Gesù, e noi oggi possiamo così leggerli, meditarli e goderne. Recitava il Padre nostro riflettendo parola per parola, indicandola come preghiera che unisce nello stesso spirito i fratelli in Cristo: «Padre nostro! E ci ha dato la grazia di esserci Padre; per amore ci ha creati, ci ha tratti dal Suo amore per portarci nell’amore! «Padre nostro! Sei nei Cieli e ovunque perché tutto ciò che è armonioso, buono, bello, santo, è opera tua. «Dacci la forza d’essere sempre nel giusto e questo avverrà se il pane dello spirito sarà per noi forza e salvezza. «E dacci la tua Provvidenza divina affinché noi possiamo meglio passare dal mondo in pace con Te… Aiutaci Padre, ad essere buoni e leali, fa’ che non dobbiamo avere bisogno d’essere perdonati, col tuo aiuto rendici forti per sapere perdonare. Fa’ che non ci tenti il maligno! Noi con la volontà nostra, Tu col Tuo aiuto divino. «Sia santificato il Tuo nome attraverso le opere sante dell’umanità in grazia. «E venga sulla terra il Tuo Regno di grazia. «Sia fatta la tua volontà. La tua volontà è la più giusta: tu conosci e sai ciò che per la mia anima è bene. «Pregatemi per coloro che non mi sentono! E se confidate in Me molte anime mi saprete portare». E Fratel Silvestro di anime al Signore ne porterà in abbondanza.

[1] “Quanto è bello morire quando si è vissuti sulla croce”; [2] Il nome del protomartire, frequente in numerose località del Piemonte, caratterizza molte istituzioni monastiche che nel Medioevo vennero intitolate al santo. Santo Stefano Belbo fu concesso da Ottone I ad Olderico Manfredi nel 1001 e appartenne a Bonifacio del Vasto che lo lasciò in eredità ai figli, marchesi di Busca e di Saluzzo. I primi cedettero una parte al comune di Asti, donando il rimanente ai marchesi del Monferrato. Successivamente vi ebbero giurisdizione i Del Carretto, gli Incisa e i Corti. Nel 1613 il territorio di Santo Stefano passò a Casa Savoia; [3] La chiesa abbaziale di San Gaudenzio, di probabile origine benedettina, ma dichiarata extra usum religiosum dal 1891 e destinata ad uso privato, si presenta con una navata centrale terminante con un’abside semicircolare che sovrasta le due absidiole laterali e reca un arco trionfale; [4] Al piano superiore della casa di Cesare Pavese è allestita una mostra fotografica permanente nella quale sono esposti alcuni manoscritti pavesiani. Molto interessante è l’allestimento della cantina, dove sono sistemati attrezzi agricoli ed enologici di un tempo; [5] Il fortunato connubio fra produzione letteraria e produzione enogastronomica è evidente nel decennale sodalizio maturato fra «Gli amici del Moscato» e la casa natale di Pavese, dove qui l’ente enologico ha la propria sede sociale con lo scopo di valorizzare, in un’ atmosfera dal sapore culturale e letterario, il vino Moscato, principale attività produttiva dell’area collinare santostefanese; [6] Quando nacque Gabriele Taborin stavano per terminare i giorni dell’infausta Rivoluzione francese, conclusasi con il colpo di Stato del 9 novembre (18 brumaio ) 1799, portando Napoleone Bonaparte all’autoproclamazione di Primo Console. Settimo ed ultimo figlio di Claudio Giuseppe Taborin e di Maria Giuseppina Poncet-Montange, Gabriele fu un precoce chierichetto, crescendo nell’attenzione scrupolosa per le funzioni liturgiche. Amava tutto ciò che riguardava la Chiesa, la preghiera e la devozione alla Vergine Maria. Si mise al servizio della sua parrocchia come sacrestano, catechista ed insegnante. Resosi conto che, usciti dalla Rivoluzione francese, dilagava l’ignoranza e grande disordine morale e religioso, egli volle cercare di essere attivo e disponibile strumento di bene e di rinascita. Gabriele Taborin lasciò Belleydoux e si recò nel vicino capoluogo di St.-Claude, dove diede inizio ad un’esperienza di vita comune, secondo la sua spiritualità e, sostenuto da alcuni sacerdoti, chiamò il neogruppo «Fratelli di San Giuseppe». Esso era composto da cinque giovani, i quali nel 1824 vestirono l’abito religioso, assumendo il compito di servire nella chiesa cattedrale e di gestire una scuola a St.-Claude, con il permesso del vescovo monsignor de Chamon. Ma l’esperienza durò poco, in quanto le difficoltà fecero naufragare il tentativo, per cui i giovani si dispersero e Taborin andò dai Fratelli della Croce di Ménestruel e, in qualità di catechista, a Châtillon-des-Dombes. Era il 1827 quando, nella canonica di Genay, Taborin incontrò il vescovo di Belley, Alexandre-Raymond Devie, al quale espose i propri disegni per il futuro, ne ebbe incoraggiamento e aiuto. Così gli fu possibile aprire un convitto a Belmont nella diocesi di Belley e poi nel 1835 si raccolsero i primi novizi del nuovo Istituto dei Fratelli della Sacra Famiglia. Tre anni dopo si ebbero le prime tre professioni, mentre il venerabile pronunciò i voti perpetui. Nel 1840 lasciò Belmont per Belley, dove fu apostolo instancabile fra i giovani e guida della sua Istituzione fino alla morte, sopraggiunta il 24 novembre 1864. Il primo decreto per la sua beatificazione risale al 13 giugno 1966 e il 14 maggio 1991 è stato dichiarato venerabile. Gabriele Taborin, aveva i titoli accademici per l’insegnamento elementare, ma era fondamentalmente autodidatta, rimase un Fratello laico e fu in grado di reggere una famiglia religiosa. Si recò a Roma due volte e nel 1841 ottenne da papa Gregorio XVI l’approvazione della sua fondazione. Nel 1854 aprì una missione nel Minnesota, negli Stati Uniti, (poi chiusa) e fu disponibile a tutte le richieste provenienti dalla Savoia e dalla Francia. Alla sua morte i religiosi erano più di centosessanta divisi in una cinquantina di piccole comunità. I Fratelli della Sacra Famiglia sono impegnati ad evangelizzare, ad insegnare alla gioventù e oggi sono sparsi in diversi Paesi del mondo;[7] Il Burkina Faso confina con il Mali a nord e a ovest, con il Niger e il Benin a est, con il Togo, il Ghana e la Costa d’Avorio a Sud. Costituito in prevalenza da un vasto altopiano chiuso a est da modesti rilievi e a sudovest dal Téna Kourou (747 metri), è attraversato da corsi d’acqua confluenti nel Volta;[8] Vengono celebrate cerimonie con sacrifici, danze e riti, però non esistono, fra i gourounsi specifiche cerimonie di iniziazione, così indossano le maschere spesso utilizzate dalle altre etnie; [9] La donna partecipa al 60% del lavoro di raccolta nei campi e all’80% nel trasporto a casa dello stesso raccolto. Fornisce circa il 50 % della mano d’opera per la sorveglianza e la cura del bestiame. È suo esclusivo compito la raccolta e il trasporto del legname e dell’acqua, la raccolta dei prodotti naturali non coltivati come foglie, erbe, radici, frutti… usati come integratori alimentari e componenti essenziali per l’igiene e la salute. La donna si occupa della prole, della trasformazione quotidiana dei prodotti alimentari per le necessità familiari. È inoltre esclusiva competenza della donna il piccolo commercio, la vendita e lo scambio dei prodotti, che rappresenta l’unica fonte di guadagno personale. Così, pur avendo un ruolo secondario per molti aspetti della vita del clan e di quella familiare, la donna rappresenta l’elemento di forza e di riferimento della stessa comunità.