Travaglio: suicidio assistito? Ma siamo matti?

Ho sempre faticato a leggere Marco Travaglio. Spesso dice cose vere, ma quasi sempre lo fa, a parer mio, animato da una vena critica perentoria e unilaterale, senza considerare la possibilità di essere, come tutti, fallibile. Eppure lo leggo con assiduità: confrontarsi con le opinioni altrui non è mai una perdita di tempo, e poi scrive molto bene. Anche se questa lettura, dicevo, spesso mi risulta indigesta. Oggi no.

Succede infatti che dopo innumerevoli dissensi mi sia trovato – nella consueta rassegna di tutti i quotidiani – a leggere un editoriale di Travaglio che, cosa più unica che rara, ho condiviso in larghissima parte. L’articolo, intitolato “Il medico salva, non uccide”, riporta un commento del vicedirettore del Fatto Quotidiano a proposito della pratica del suicidio assistito, tornata tristemente alla ribalta con la morte di Lucio Magri, che vi ha fatto ricorso in Svizzera, colpito – come ha confermato anche una fonte insospettabile come la Repubblica – da «una depressione vera». Ebbene, poiché ritengo che l’articolo di Travaglio di oggi sia tutto da leggere, mi permetto – senza commenti aggiuntivi – di condividerne un’ampia parte:

«Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia leggere può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?

Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero di suicidi è indice dell’infelicità, non della "libertà" di un Paese. E quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?» ("Il Fatto Quotidiano", 2/12/2011).

Come dicevo, davanti ad argomenti tanto lineari e convincenti, c’è poco da aggiungere. Eccetto un “bravissimo” che Marco Travaglio, questa volta, si merita senza tentennamenti. E’ un “fatto”, come direbbe lui.

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