«Le idee rivoluzionarie venute fuori dall’enciclica Caritas in veritate sono tre. La prima è che si tratta di un documento che non si limita a denunciare le cose che non vanno, ad indicare cioè i mali e i disagi di questa fase storica, ma individua le cause specifiche e suggerisce le linee di intervento su cui muoversi per risolvere i problemi stessi. In questo senso è un’enciclica propositiva. Non è solo un’enciclica di denuncia e neppure un’enciclica che fa riferimento ad opzioni di natura morale, ma addirittura interviene sul piano specifico dell’economico. La seconda grossa novità del documento è il linguaggio e le categorie di pensiero. In aggiunta a quelle tipiche di teologia, come è ovvio che debba avvenire, chi la legge attentamente, senza paraocchi, coglie che ci sono novità di fondo che non si riscontrano in tutte le altre encicliche precedenti. Faccio solo un esempio.
Per la prima volta in un’enciclica papale viene esplicitato il principio di fraternità, cosa che non era mai avvenuta in tutte le altre encicliche dove si parlava di solidarietà ma non di fraternità come principio di organizzazione del sociale. Lo stesso vale, per fare un esempio, in riferimento a quelle forme di organizzazione economica di tipo non capitalistico come sono le cooperative, come sono le imprese sociali, la finanza etica e così via. Il movimento cooperativo esiste da 160 anni, eppure in tutte le varie encicliche, a cominciare dalla Rerum Novarum, non una sola volta ricorre l’impresa cooperativa. In questa enciclica a questo tipo di impresa si fa riferimento almeno 4 volte. E questa è veramente una novità che hanno notato tutti. Infine la terza caratteristica è quella di dare una prospettiva al discorso economico-sociale in linea con quella scuola di pensiero che si sta diffondendo e nota come “economia civile”.
La linea di pensiero alla quale si richiama Papa Ratzinger è quella della scuola francescana, con interventi precedenti, della scuola agostiniana. C’è un’operazione importante che il Papa fa, e che secondo me avrà delle conseguenze nel prossimo futuro. C’è una presa di posizione, su questioni economiche, a favore della linea francescana rispetto a quella tomista. C’è una valorizzazione e recupero di questo pensiero francescano che secondo me farà parlare di se ancora per tanti anni a venire. D’altra parte chi conosce la biografia di Papa Benedetto XVI sa che non è una novità, visto che la tesi di dottorato fu su san Bonaventura da Bagnoregio, il “secondo san Francesco”.
In pochi sanno che il cardinal Ratzinger pubblicò, negli anni ’80, un saggio, in lingua tedesca poi tradotta in inglese, “The market and the Church”. Se uno leggesse quel testo di una conferenza che lui tenne all’accademia cattolica di Berlino capirebbe tanto».
Il professor Stefano Zamagni è uno di quegli economisti che si ascoltano volentieri.
Mentre capita di sentirne alcuni e correre il rischio di addormentarsi, la sua capacità oratoria – con qualche battutina emiliano-romagnola (è nato a Rimini nel 1943) – conquista, tanto che, dopo più di un’ora di convegno, quasi quasi vorresti che continuasse a descrivere l’economia e la società come solo lui sa fare.
Zamagni non ha certo bisogno di presentazioni. Ma per onor di cronaca bisogna dire che dopo la laurea (1966) in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e la specializzazione (1973) presso il Linacre College dell’Università di Oxford, è stato docente presso l’Università di Parma, poi (dal 1979) ordinario di economia politica all’Università di Bologna.
Dal 1985 al 2007 ha insegnato Storia dell’analisi economica alla Bocconi di Milano, mentre negli anni ha lavorato anche per la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, sede di Bologna. Per l’Università di Bologna ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del No profit, arrivando all’attivazione di uno specifico corso di Laurea in "Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non Profit".
Dal 2007 è presidente dell’Agenzia per le Onlus, un ente governativo con funzioni di vigilanza e controllo, promozione, consulenza a Governo e Parlamento in materia di associazioni No profit.
Noi abbiamo piacevolmente intervistato questo Cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno in qualità di membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (oltre che di consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace) e in qualità di stretto collaboratore di Sua Santità Benedetto XVI per la stesura del testo dell’Enciclica “Caritas in veritate”, che adesso promuove in Italia e all’estero attraverso convegni e momenti culturali.
Professore, cosa rappresenta l’enciclica Caritas in veritate nella chiesa e nel mondo di oggi?
«Si tratta di una enciclica che inaugura una nuova stagione, quella della società post moderna o post industriale, che dir si voglia. Come la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (Papa che aveva in animo di svolgere un’analisi analoga alla Caritas in veritate, ma poi sono venute meno le forze e quindi il nuovo papa Benedetto XVI ne ha raccolto il testimone…) ha chiuso il ciclo della modernità nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa, questa enciclica di Papa Ratzinger apre il ciclo della post-modernità».
Qual è l’oggetto principale dell’enciclica?
«I riferimenti empirici sono due fenomeni di portata epocale: da una parte la globalizzazione, dall’altra la terza rivoluzione industriale, entrambi fenomeni che si sono affermati nell’ultimo quarto di secolo. L’intenzione esplicita del Papa è quella di svolgere una riflessione su questi fenomeni alla luce dei principi della dottrina sociale della chiesa che sono antichi tanto quanto la Chiesa stessa».
Come è stato organizzato il lavoro per la redazione dell’enciclica?
«Un’enciclica non è mai il prodotto del pensiero e dell’opera di una sola persona, in questo caso del Papa, è sempre un lavoro corale. Dentro la chiesa c’è sempre molta più partecipazione democratica di quanto non si creda. In questo caso il Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace, trattandosi di una enciclica di dottrina sociale della chiesa, aveva avuto il compito di coordinare e stendere una prima bozza del documento. Questo è avvenuto sotto la direzione del segretario del pontificio, il vescovo Mons. Giampaolo Crepaldi, che ha dato un grande contributo nell’elaborazione del documento. Poi, come sempre si conviene in questi casi, man mano che il lavoro procedeva, si portava a conoscenza di gruppi selezionati di persone, in base alle loro competenze e, nell’ultima fase, un gruppo di lavoro di 11 persone era stato costituito con il compito di unire, assemblare, fare lavoro di sintesi. Ovviamente il materiale, come sempre accade in questi casi, viene consegnato al Santo Padre, che si assume la responsabilità definitiva di firmare il documento. Nel caso di specie, essendo Benedetto XVI un uomo di cultura, di grande cultura oserei dire, il suo compito non si è limitato soltanto alla verifica dell’attendibilità, da un lato, e dell’ortodossia teologica dall’altro, come tutti i Papi fanno, ma essendo uomo di cultura, professore di filosofia, e quale professore…, è entrato anche nel merito specifico dell’argomentazione per apprezzare o modificare quanto era stato predisposto in precedenza».
Lei non trova che anche tra politici dichiaratamente cattolici, che pure dovrebbero ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, si sia oramai imposto quel pensiero di stampo immanentistico che potremmo definire “occidentalismo”? Vale a dire che gli unici valori legittimi sembrano essere quelli economico-materiali? Gli ideali possono attendere, ma non la realtà. Le necessità più impellenti sono davvero di natura economica?
«È una questione grossa ed è ricorrente. Il punto è di comprendere che queste discussioni sono dovute in gran parte non a malafede ma alla non conoscenza. Ad esempio, nella mia esperienza quando racconto, spiego e documento che è stata la scuola di pensiero francescana a inventare l’economia di mercato, molte di queste discussioni scompaiono. La gente pensa che l’economia di mercato sia quella capitalistica, il che è una sciocchezza. L’economia di mercato nasce tre secoli prima del capitalismo, e nasce esattamente per il bene comune. L’idea di bene comune non c’entra niente con la cultura occidentale. L’idea del bene comune è uno dei principi della dottrina sociale della Chiesa che esiste da sempre, da quando Gesù Cristo ha insegnato quello che ci ha insegnato. È evidente che se io penso che l’economia di mercato sia identificata con il capitalismo, quello che noi abbiamo inventato in occidente, allora è ovvio che ci sia quella presa di posizione di chi dice che la Chiesa è universale e non si deve legare all’occidente. Ma il bene comune è universale. Il modo con cui si organizza l’economia di mercato – e la Chiesa lo ha sempre chiarito – deve tener conto delle matrici economiche, culturali e delle tradizioni dei paesi a quali si fa riferimento. Buona parte delle parabole del Vangelo sono legate ad una logica di tipo economico. Alcuni teologi, purtroppo, le interpretano come puramente casuali. Ci mancherebbe altro che Gesù usasse la casualità per esplicare il suo pensiero».
Il presidente dello IOR, Ettore Gotti Tedeschi, sostiene l’idea di una relazione tra denatalità e la recente crisi economica. Lei si sente di condividere questa tesi?
«La tesi del dott. Gotti Tedeschi è una tesi interessante che merita attenzione. Ovviamente una stessa tesi, a seconda del modo con cui viene presentata e, soprattutto, argomentata può sonare strana. In altre parole se io dico che la crisi attuale è dovuta alla diffusione, nel mondo occidentale, del tasso di natalità, detta così può risultare strana e suscitare, addirittura, ilarità. Ma se viene argomentata in maniera adeguata, allora acquista un significato, anche da un punto di vista economico, dotato di senso. Il dott. Gotti Tedeschi, non essendo un economista di professione, però intendendosene di economia, probabilmente nell’esplicitazione non mette in chiaro certi passaggi, però la tesi è robusta e merita di essere presa in attenta considerazione».
Sembra che il mondo si accorga solo adesso di quanto sia stato grande quello che ingiustamente è stato chiamato “Medioevo”, e che andrebbe chiamato, Cammilleri docet, “Il millennio della Cristianità”. Nonostante questo i libri di testo ne parlano ancora poco e male. Cosa ci può dire, soprattutto in ambito economico?
«Noi cattolici, per una sorta di complesso di inferiorità, quando parliamo di economia e di finanza andiamo sempre a rimorchio degli altri. E quando non c’è cultura si diventa vittime del proprio complesso di inferiorità. Ora, grazie a Dio, le cose stanno cambiando in questi ultimi tempi perché si rimette la storia nel suo giusto alveo. Si chiarisce che l’economia di mercato non l’hanno inventata i protestanti ma noi cattolici. E sono stati i francescani, che l’hanno portata avanti molto bene fino al 1500. Dopo è vero che è iniziata la parabola discendente e il periodo buio. Ma l’origine storica è quella medievale. Religiosi e laici (oggi diremmo terz’ordine francescano) hanno inventato tutti gli ingredienti dell’economia di mercato: le banche, la contabilità d’esercizio, la borsa valori, la lettera di cambio, le società per azioni, le assicurazioni, ecc. Perché? Perché i francescani hanno come obiettivo il bene comune. Scoprono che per realizzare il bene bisogna fare così. Prima c’era stato, all’interno dell’ordine benedettino, il paradosso della ricchezza, tanto che san Bernardo di Chiaravalle, nella sua Carta Caritatis del 1137, si chiedeva come mai attorno alle abbazie si potevano notare ricchezze, specie di coltivazioni, e fuori, invece, si poteva morire di fame. Dopo un po’ arrivano i francescani. Francesco era un grande economista. I francescani non stanno più nelle abbazie ma nei conventi (con-venire = venire assieme). E i conventi – dice s. Francesco – devono stare dentro le città, non fuori, nei luoghi dove si annida la povertà, dove ci sono i bisognosi. L’invenzione dell’economia di mercato permette alla ricchezza di circolare.
Riprendendo degli scritti del Padre della Chiesa Basilio di Cesarea (e il suo “Sul buon uso della ricchezza” del 370 d.C.) il mercato viene inventato per il bene comune perché come l’acqua, la ricchezza che non circola ristagna. Se la ricchezza ristagna nelle mani di qualcuno (ricordate il ricco epulone?) degenera, porta al vizio e non produce il bene. Ovviamente le cose vanno male quando il capitalismo successivo trasformerà il bene comune in bene totale. E nel momento in cui diventa bene totale diventa il bene di qualcuno e non degli altri. I beni così diventano appannaggio di pochi e non di tutti. Il gruppo dei capitalisti che poi diventeranno finanzieri, ecc. Noi cattolici non sappiamo valorizzare il nostro capitale. Lo sappiamo fare in campo letterario e filosofico ma non il altri campi. Tanto che, ancora oggi, nel campo dell’economia e della finanza siamo ancora a rimorchio degli altri, della Massoneria in particolare. Mi son sentito dire da alcuni massoni: “Noi abbiamo nelle nostre mani il 65% di tutte le transazioni finanziare mondiali. Voi cattolici occupatevi di sfamare gli affamati, di curare i malati, la finanza è roba nostra…”. Noi cattolici, invece, sappiamo che la funzione propria dell’economia è garantire il bene comune. Molti, confondendo le cose, pensano al mercato come ad un mercato esclusivamente capitalista. Ma non è vero che ci debba essere solo un mercato di questo tipo».
Parla del mercato che ha a che fare con l’economia dal volto umano?
«Esatto. Ricordo che i Padri della Chiesa, fino al sesto secolo, non avevano esitazioni a chiamare l’incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo – che è il mistero fondante e fondativo della religione cristiana – come “Sacrum Commercium”, un commercio sacro tra l’umano e il divino. Ed è grave che la gente non sappia queste cose, soprattutto i teologi che hanno un’ignoranza spaventosa. Ci rendiamo conto che gente come Ambrogio, Agostino, Basilio di Cesarea, chiamavano l’incarnazione il commercio sacro tra l’uomo e il divino. Se non è questa un’espressione economica che cosa deve essere! L’uomo deve partecipare al completamento della creazione attraverso le opere, che sono di natura economica. Il problema è stato solo negli ultimi tre secoli con la degenerazione capitalistica. Allora l’invito di questa enciclica è di ritornare alle origini e ai fondamenti. Se le cose le vediamo in questa maniera l’economia acquista un altro volto, l’economia dal volto umano, ed è quella verso cui ci invita a tornare l’enciclica del Santo Padre».