Il Concilio e il terremoto nella Chiesa

Se la società civile ha sentito le prime scosse telluriche col ’68, la Chiesa è entrata in clima di revisione almeno sei anni prima, col Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto nel ’62 e chiuso nel ’65. E con il rinnovamento (comprensibile e, per certi aspetti, accettabile e necessario), si son fatti sentire i primi segnali del terremoto che stava esplodendo. Qualcuno, ben più autorevole di me, ha già denunciato i cambiamenti tentati e riusciti per far cambiare rotta alla Chiesa: una diversa visione teologica su Dio, su Gesù Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo, una diversa impostazione pastorale del rapporto Chiesa/mondo e del rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane o tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, un diverso modo di concepire la disciplina. Nel maggio dell’89, il presidente della C.E.I., il Cardinale Ugo Poletti, preoccupato per quanto sessantatre cultori di scienze ecclesiastiche hanno scritto alla Chiesa italiana, ha ravvisato “alterazioni profonde del contenuto della fede cattolica e conseguenti divisioni nella compagine clericale”. E ancora: “Le preoccupazioni riguardano in particolare gli allievi dei nostri seminari e istituti teologici, coloro che domani saranno i nostri nuovi sacerdoti, e che certo non ricevono oggi da alcuni loro maestri un esempio formativo, sotto il profilo della teologia, della spiritualità e del senso della Chiesa”. Mi chiedo: se i vescovi italiani non si fossero limitati solo a qualche piagnisteo inconcludente, a delle lamentele senza un seguito, se avessero preso la decisione coraggiosa e dolorosa, ma necessaria, di disinfestare i seminari, non sarebbero usciti dei nuovi sacerdoti in piena sintonia con la dottrina, con le direttive e con le necessità della Chiesa? Dunque, il terremoto ormai permanente di cui da quarant’anni è vittima la Chiesa, è stato veicolato in basso dalle nuove generazioni di preti formati male nei seminari: l’infezione che essi hanno contratto negli anni della loro formazione (o deformazione!), l’hanno trasmessa poi nelle loro parrocchie. Oggi molti vescovi non governano più la Chiesa: davanti a certi comportamenti gravissimi di alcuni preti, si limitano a qualche amara constatazione e a dei pii consigli, ma nulla più. Pare che si vergognino del potere di governo, come se fosse il segno di una durezza di cuore. Non governano per timore dei contraccolpi che quasi sicuramente riceverebbero da una base (e sto parlando di sacerdoti) ormai anarchica e ingovernabile. Governare significa fare le Leggi, farle rispettare e colpire chi le viola. Gesù ha fondato la sua Chiesa su tre “gambe”: il potere di insegnare, il potere di santificare e il potere di governare. Cercare di far stare in piedi la Chiesa con due sole gambe, senza il potere di governo, è una pura e dannosa illusione. E l’anarchia presente oggi nella Chiesa lo dimostra ampiamente. Quando persino dei sacerdoti favorevoli all’aborto (e dunque assassini) restano impuniti, ogni altro ribelle sa che avrà garantita l’impunità. Se invece un prete sputa in faccia a Cristo con eresie e ribellioni sistematiche, qualche vescovo è sempre pronto a tirare in ballo la carità, la pazienza, la doverosa comprensione verso un fratello che sbaglia, la capacità di saper attendere un suo ravvedimento… Se fosse necessario, perché rinunciare a richiamare anche i vescovi? È San Paolo che ci insegna a farlo, criticando niente meno che l’apostolo Pietro, capo della Chiesa, il primo Papa, “di simulazione, di ipocrisia, di comportamento non retto secondo la verità del Vangelo” e lo corregge “in presenza di tutti” (Gal 2, 11-14). È il caso di meditare attentamente su quanto ha scritto Giovanni Paolo II parlando di sé: “Al ruolo del Pastore appartiene certamente anche l’ammonire. Penso che, sotto questo aspetto, ho fatto forse troppo poco… Forse devo rimproverarmi di non aver abbastanza cercato di comandare. In certa misura, ciò deriva dal mio temperamento. Se il vescovo dice: “Qui comando solo io”, oppure “Io sono qui solo a servire”, manca qualcosa: egli deve servire governando e governare servendo”. La critica è un bene quando nasce dall’amore alla Chiesa e dalla volontà di rendere migliore i nostri Pastori. E quando si critica il loro operato non in base a criteri nostri, ma ai criteri di Gesù Cristo. Se un vescovo non rimuove un prete abortista o eretico, gli altri preti e tutti i fedeli, pur soffrendone, non possono far nulla. Questo peccato di omissione ha permesso ai lupi di restare indisturbati in mezzo al gregge a far strage delle pecore indifese. Sono cosciente che chi avanza anche solo qualche riserva nei confronti del Concilio viene subito attaccato come ribelle alla Chiesa. Ma che qualcosa di poco chiaro ci sia stato in questo benedetto Concilio Ecumenico Vaticano II è fuori dubbio. Papa Paolo VI ha avuto l’onestà di riconoscere la tempesta spaventosa in cui naviga la Chiesa: “In numerosi campi, il Concilio non ci ha dato fino ad ora la tranquillità, ma ha piuttosto suscitato turbamenti e problemi non utili al rafforzamento del Regno di Dio nella Chiesa e nelle anime. […] Gran parte dei mali non assale la Chiesa dal di fuori ma l’affligge, l’indebolisce, la snerva dal di dentro”. Le dimensioni dello sfascio, Montini, le denuncia quando dice: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. Del resto, il teologo olandese padre Edward Schillebeeckx, lo ha affermato senza esitazioni: “In Concilio abbiamo usato dei termini equivoci e non sappiamo che cosa poi ne ricaveremo”. E Giovanni Paolo II si associa nella denuncia e nel lamento: “Bisogna ammettere realisticamente e con sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran pare si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si son sparse a piene mani idee contrastanti con la verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni; si è manomessa anche la liturgia. Immersi nel relativismo intellettuale e morale e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un cristianesimo sociologico, senza dogmi e senza morale oggettiva”. Responsabili sono quei teologi che, nelle facoltà universitarie, pure pontificie, e nei seminari, insegnano da anni vere e proprie eresie o hanno messo il silenziatore a verità scomode (inferno, purgatorio, comandamenti, castità, penitenze, indulgenze…). Responsabili sono quei pastori d’anime che, nella catechesi e nella predicazione, non tengono conto delle norme della Chiesa in campo liturgico e disciplinare. E responsabili sono anche quei laici che si sono rassegnati alle balordaggini di certi Pastori senza protestare. È lo stesso Benedetto XVI che ci esorta: “E’ tempo di ritrovare il coraggio dell’anticonformismo, la capacità di opporsi e di denunciare molte delle tendenze della cultura circostante, rinunciando a certa euforica solidarietà postconciliare”. In poche parole, ha esortato il Pontefice regnante in occasione della chiusura dell’Anno Sacerdotale, “la Chiesa usi il bastone contro i sacerdoti indegni”. Speriamo che questo saggio richiamo non cada nel vuoto.

L’uomo moderno tra nichilismo e speranza

Il dramma attuale è che mancano dei punti di riferimento: oggi un giovane si trova disorientato nella confusione del mondo. Io stessa ho dovuto mettermi in cammino per ricercare dei maestri, delle guide, perché ero consapevole che da sola non sarei riuscita ad auto-realizzarmi. L’uomo, da solo, non è mai felice. La tentazione che la società ti infila sottilmente nella testa è che la vita vada vissuta senza troppo pensare, senza porsi degli interrogativi: siamo uomini impegnati in tante cose ma poco impegnati con la nostra umanità. Spesso viviamo le nostre giornate con una rassegnazione verminosa, con pigrizia, senza luce, senza progetto, siamo vuoti di speranza: tutti noi viviamo senza pensare al destino. La società attuale ci impone l’immagine della libertà intesa come fare ciò che si vuole, divertirsi, non riflettere su nulla. In questo imbroglio abbiamo condannato i nostri giovani; io per prima mi sono sentita imbrogliata da questa cultura. Ho sempre avvertito però un’acuta malinconia esistenziale che non mi lasciava tranquilla, un’inquietudine interiore e un desiderio struggente di risposte vere. Sono moltissimi i giovani che buttano al vento il proprio tempo e parte della propria vita: i ragazzi si accorgono che si può essere amici quanto si vuole, ma senza sapere chi seguire non si sa dove andare e anche le amicizie care mostrano un’incompletezza, una difficoltà ad andare in profondità. Quello che ho constatato, al fondo, è davvero la mancanza di un senso esistenziale, di un motivo per cui vivere. La mia generazione in particolare vive questo dramma: è sradicata, è priva di motivazioni; ci sono milioni di persone che vivono senza sapere perché vivono, che non hanno la minima certezza sul significato ultimo del vivere. La tipica immagine che mi viene in mente è quella del consumatore triste che vive nell’immediato. La causa della nostra angoscia è la perdita del significato della vita: è su questo terreno che oggi rischiamo la catastrofe. Da una parte, infatti, abbiamo una società che concepisce la vita solo in termini di funzionalità, di efficienza e di produttività, quindi una società che ci dice che l’uomo non ha sempre una dignità: l’uomo ha dignità solo nel momento in cui ha un’utilità. Sembra cioè che si voglia fare una selezione naturale delle persone: quelle “buone” le teniamo, quelle “non buone” le buttiamo via. Si vuole l’eliminazione degli “inutili”. Sentiamo spesso parlare di dignità della persona, ma sarebbe più appropriato parlare di dignità dell’uomo, da difendere sempre: «non ti ho scelto perché vali ma perché ti amo» (Deuteuronomio, cap. 7 vers. 7). Nel ‘700, l’uomo ha cominciato a sentirsi padrone di se stesso, sostituendosi a Dio; pensiamo ad esempio all’illuminismo: se la ragione non è in grado di guardare oltre se stessa diventa una minaccia. Infatti, a causa di questo ragionamento che concepisce la dignità della vita in senso discriminatorio, viene automaticamente giustificata anche la pratica dell’eutanasia come soppressione del non produttivo, mascherata con il falso pietismo. Dove si parte con l’idea che la vita sia senza significato, non ha nemmeno più senso generare dei figli; siamo infatti il Paese europeo con il tasso più basso di natalità. Pensiamo poi a come questa società guarda all’embrione umano, considerato pari a zero: ecco la pratica dell’aborto e della fecondazione artificiale, leggi che contengono una serie infinita di ipocrisie. I disastri sono iniziati quando si è deciso di sovvertire le fondamenta cristiane. Si è passati dalla filosofia rivoluzionaria anticristiana all’elaborazione ideologica e all’eugenetica attraverso quattro fasi: l’esclusione di Dio, la pretesa di essere gli assoluti padroni della vita, il rifiuto della sofferenza e la morte come unica risposta, ovvero l’uccisione come cura. L’idea eugenetica è anticipatrice dell’eutanasia, diffusa poi nel mondo libero e democratico. La morte di Eluana Englaro è l’ennesimo esempio dell’incapacità dell’uomo di dare senso alla sofferenza, al punto da volerla eliminare. Ma dal sangue dei martiri Dio ha sempre tirato fuori grandi cose. Eluana mi ricorda i martiri innocenti, i bambini che senza colpa furono uccisi da Erode. Chi è il martire? La parola deriva dal greco e significa “testimone”, colui che con la sua vita rimanda ad Altro e lo fa scoprire agli uomini: il suo regalo è quello di farci discutere sulla vita e riflettere sul Destino. Ogni seme, per dare i suoi frutti, prima deve morire. Anche la morte in Croce di Gesù sembrava una sconfitta, invece ha preparato la salvezza. L’aspetto della speranza è fondamentale per decidere come spendere la vita. La nostra è una società in cui gli individui hanno perso la speranza perché tutte queste leggi e queste pratiche sono sorrette da una concezione della vita gestita solo dal caso, e quindi insensata. Nel caso dell’eutanasia il senso della sofferenza viene completamente rimosso: ho un dolore, lo devo sopprimere non solo fisicamente, ma anche “umanamente”. Della malattia si ha paura, infatti oggi sono sempre più diffuse le indagini genetiche prenatali con lo scopo di accertare la normalità del bambino. Nel 1999 uno studio internazionale ha mostrato come il 90% circa dei bambini diagnosticati con la sindrome di down vengano abortiti. L’idea che il dolore vada rifiutato ha anche connotati positivistici e darwiniani. Anche oggi, seguendo l’insegnamento di Darwin a proposito del concetto di casualità, l’uomo moderno crede in una visione casuale della vita. Interessante è invece notare come i più grandi scienziati della storia furono aperti alla categoria della possibilità, a partire dall’uomo greco fino a Copernico, Keplero e Newton. Nella Fides et ratio è scritto: «l’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza. Soltanto la prospettiva di poter arrivare a una risposta può indurlo a muovere il primo passo». I cosiddetti progressisti ci spingono a credere che la vita non ha senso. Siccome però la natura stessa dell’uomo è fatta per questo senso e le persone hanno bisogno di spiritualità, ci si butta nelle filosofie orientali, nel New Age, nelle pseudo-religioni, per colmare un vuoto dell’anima. L’omologazione e il conformismo di massa di oggi sono funzionali al sistema, esiste un vero e proprio laboratorio di plagio che ci rende tutti schiavi inconsapevoli: bisogni e desideri mai espressi prima vengono propagandati da un piccolo gruppo di intellettuali spalleggiato dai media e diventano alienabili diritti. La mistificazione storica si infila anche nei libri di testo grazie agli insegnanti sessantottini. Ci sono tre citazioni che mi piace ricordare a proposito della sproporzione tra la nostra era tecnologica e l’ignoranza diffusa: «Dov’è finita la vostra sapienza che avete perduto sapendo?» (T. S. Eliot); «Questa è l’età dell’informazione e nessuno sa nulla» (Ben Stein); «La clonazione dei corpi è soltanto il compimento di quella delle menti» (Jean Baudrillard). Chi è fuori dal coro viene classificato come bigotto. Io sono f
elicemente schierata tra i bigotti. Credo che debba uscire l’uomo vero, non quello alienato dalla mentalità comune. Lo svantaggio di essere cristiani è che si è obbligati ad essere coscienti di tutto ciò che si fa. Opposta a questa visione che concepisce la vita come insensata, c’è la posizione di chi crede che la sofferenza abbia un senso: dentro a un dolore c’è la strada misteriosa attraverso cui Dio ti conduce al tuo Destino. Queste persone insegnano che nel seguire il disegno di Dio ci si realizza di più che a fare ciò che si vuole. Esse ci dicono che c’è un gusto nella vita, c’è uno scopo di tutto, un significato, e che il Mistero lo si trova dentro il disegno delle cose. Noi siamo spesso indotti al cinismo perché vediamo il male, eppure non può essere tutto qua, qualcosa sfugge alla logica inesorabile del male, un desiderio istintivo di cercare il bene. Siccome però non abbiamo risposte sicure al problema del male, perdiamo fiducia in Dio perché le cose non accadono come le vorremmo noi. I giovani, soprattutto, non sanno collocare il dolore in una prospettiva esistenziale, c’è un’incapacità di dare senso alla sofferenza. Gesù dice che la sofferenza è come il travaglio di una donna che deve partorire: è una battaglia per la vita. Il valore non è tanto la sofferenza, ma la maniera con cui può essere vissuta; se tutto andasse sempre bene, infatti, l’uomo non si porrebbe mai delle domande. Io ero curiosa di questa posizione umana così antitetica, così fuori moda e quasi paradossale. Mi chiedevo: come fanno queste persone che soffrono, magari immerse in grandissimi dolori, ad essere nonostante tutto serene? Io voglio essere come loro. Allora ho raccolto delle testimonianze di alcune persone che hanno avuto, grazie alla loro fede, la forza interiore per affermare una positività ultima. Vorrei riportarne una su tutte, un articolo pubblicato su Avvenire il 25 luglio 2008 dal titolo “Tutto le viene tolto, dal vivo della carne”. La scorsa estate, una madre olandese vide cadere dal Monte Bianco il marito e i suoi tre figli. Fu un evento che ammutolì tutta l’Italia, e anche in quel caso molti parlarono di destino crudele. Ma una voce diversa si sollevò, quella di Marina Corradi, un’amica e scrittrice cattolica: «È il più crudele dei destini, quello toccato alla donna olandese che ieri sul Monte Bianco ha visto precipitare nel vuoto il marito e i tre figli adolescenti. Un momento prima saliva con loro sul ghiacciaio, nella luce accecante di una giornata di sole. Un momento prima, era il "paradiso": la montagna, l’alba radiosa di luglio, e quei tre – un maschio e due femmine, fra i 17 e i 23 anni – che seguivano il padre, il passo agile sulle gambe di ragazzi. Forse la madre li guardava con intenerito orgoglio: sono grandi ormai, guarda come vanno su per queste cime. E forse a un certo punto avrà detto: andate voi, io non ce la faccio, mi manca il fiato. "Sono vecchia", avrà esclamato ridendo, e anche i figli e il marito avranno riso con lei, nel salutarla. La corda che legava tutti e quattro è diventata in un istante una "catena di morte". Da duecento metri di distanza, la madre ha visto. Deve avere pensato di stare sognando. Uno di quegli incubi atroci da cui ci si risveglia sudati, con un "sussulto" grato: è stato solo un terribile sogno. Ma ieri mattina sul Bianco, dopo le urla, e l’eco che ne tornava indietro nell’assoluto silenzio, più niente. Il ghiacciaio, il sole alto sulla roccia incombente, e nessun risveglio, a dire: è stato un sogno. Il più atroce dei destini, toccato in una mattina di luglio a una donna straniera venuta da lontano per amore di quel "gigante di pietra". In un secondo, tutto le è stato tolto, dal vivo della carne. E chi ascolta questa storia fatica a sfuggire alla domanda che eternamente ritorna, davanti alle sciagure più intollerabili: al dubbio del "nulla", di un Dio che ieri mattina guardava altrove, e non s’è accorto che, nello schianto di ghiaccio e sassi a precipizio nel vuoto, dietro a quei quattro rimaneva, viva, una moglie, una madre. Perché? Non c’è risposta che si possa dare a questa domanda. Noi non sappiamo. E se tentiamo di immedesimarci in quella sconosciuta, con paura pensiamo che a lei Dio, dei suoi volti, abbia mostrato il più terribile. Per quale "disegno"? Non possiamo sapere. Restiamo con le mani aperte e vuote, impotenti. Nessuna parola può bastare oggi a quella donna. È ciò che ne I fratelli Karamazov intuisce lo "starec" Zosima, di fronte a una popolana che piange il suo bambino perduto. Il vecchio monaco le ricorda che suo figlio ora è un angelo, ma la donna non smette di singhiozzare: «Ogni cosa – dice – è finita; per me è finita con tutti». E il monaco comprende che la donna non può smettere di piangere: «È Rachele che piange i suoi figli, e non può consolarsi, perché essi non sono più». «Non consolarti», le dice allora, «piangi»: «per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno, ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia». Ci sono destini dei quali non si può non piangere fino a esserne svuotati. All’apparenza crudeli come "tagliole": ti lasciano vivo, e "mutilato". Destini che ci rivelano spietatamente la nostra impotenza: e che nulla veramente, nemmeno i nostri figli, ci appartiene. La differenza sta nel come si fronteggia questa "mole" opaca di dolore. Si può esserne schiacciati, "annichiliti" da un Dio ai nostri occhi terribile e distratto. Si può voler morire, o lasciarsi morire. Oppure si può restare muti, senza capire – ciò che, oggi, ci è così intollerabile – e però disperatamente ostinati nel domandare. «Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri», disse il Dio dell’"Antico Testamento". L’"Apocalisse" sul Bianco sotto agli occhi di una madre ricorda a noi, padroni di tutto, che non siamo padroni di nulla. Eppure, nel non capire, chi crede può mantenersi "cocciutamente", audacemente certo. Certo che anche il più terribile dolore è per un bene più grande – e niente, di un uomo, è per il nulla». La persona forte accetta la sofferenza e la malattia perché ha delle certezze interiori: è veramente libero colui che accetta questo disegno. Nelle testimonianze che ho raccolto si comprende come la vita di queste persone sia tutta giocata su un fidarsi, l’esatto contrario della mia garanzia milanese. È anche la posizione di Manzoni che fa dire a Lucia: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dè suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande». Il cammino al Destino è una prova, per costruire bisogna passare attraverso la fatica. Ma c’è un punto di riferimento sicuro: la Croce, e subito dopo la risurrezione, segno della vittoria sulla morte che si contrappone alla cultura del rifiuto della sofferenza. Di fronte a queste posizioni sono rimasta colpita e affascinata, perché mi si presentava sotto agli occhi un modo di vivere più vero, che mi realizzava di più. In passato ho abbracciato il pensiero di Leopardi con la sua malinconica interpretazione della vita, che diceva che la natura è crudele, perché ci mette nel cuore un desiderio di felicità che non può essere realizzato: «a me la vita è male
» (anche il bene perde di senso, perché destinato a finire). Leopardi, rispetto ai progressisti di oggi, ha comunque insita questa domanda urgente, questo grido; Montale invece è ancora più netto e afferma con amarezza l’insensatezza della vita: il significato resta per l’uomo “oltre la muraglia”, l’uomo è dunque condannato all’infelicità. Simile il pensiero di Sartre: «l’uomo è una passione inutile»: “tutto è niente” è infatti la filosofia più in voga. Credere che la vita ha valore è possibile solo se, in primis, si fa esperienza di ciò su di sé, se questa positività è vissuta nel proprio quotidiano: soltanto se sono convinto che valga la pena di vivere in ogni circostanza, bella e brutta, posso trasmettere un messaggio propositivo. Se uno non è in grado di sacrificare se stesso nelle piccole cose non può proporlo agli altri. Io lavoro come educatrice di asilo nido e ho capito che non è tanto importante il fatto di trasmettere al bambino delle nozioni, ma lo sguardo che si ha su di lui, trasmettergli che vale la pena vivere: la speranza per me è data dalla presenza stessa dei bambini; solo per il fatto di esserci sono la testimonianza di un positivo, sono tutta una domanda di senso. Se una persona crede che la vita sia un valore, sa di avere tra le mani un tesoro e lo custodisce perché cresca maggiormente, ma chi non conosce il valore di ciò che ha rischia di trascurarlo, lo sciupa. Fin da piccolo quindi l’uomo può essere educato alla speranza, può comprendere che la vita ha un senso e che c’è un disegno buono. In una lettera alla diocesi e alla città di Roma, Benedetto XVI ha affermato che la crisi dell’educazione deriva dalla mancanza di fiducia nella vita: «le leggi, gli orientamenti complessivi della società in cui viviamo, l’immagine che essa dà di sé attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano un grande influsso sulla formazione delle nuove generazioni. Rischiamo di diventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini senza speranza e senza Dio». In definitiva mi sono chiesta cos’è la speranza cristiana, perché trovare ciò che fonda la nostra speranza è fondamentale: dobbiamo trovare il fondamento di ciò che speriamo. In un’intervista a Marina Corradi, le ho chiesto che cos’è, secondo lei, questa speranza. Lei mi ha risposto: «la speranza è che tutta questa sofferenza non sia un cieco destino diretto a un nulla. La speranza inaudita è che tutto questo abbia un senso, a noi uomini difficilmente leggibile, eppure reale. È la certezza di un Destino buono che ci attende. Non siamo fatti per un nulla, la vita non è per un male». Quindi la speranza non è aspettare che succeda qualcosa di nuovo, ma è abbracciare quello che accade. La speranza è fondata su quello che già c’è. Questo non significa che la sofferenza e la morte non facciano paura, però la mia esigenza di felicità non è un’illusione. Il cuore dell’uomo è una promessa: siamo stati fatti con un cuore che è esigenza di felicità. Le ideologie, quando c’è un grande dolore, non sono in grado di sorreggere il senso della vita: quando ti è tolto tutto, ti devi legare a qualcosa che non passi. La fiducia non va riposta nelle circostanze, che sono provvisorie, ma in Cristo. La vita è bella non perché ti va bene tutto, ma perché sei accompagnato da una Presenza buona. Ne vale la pena perché il destino che ti attende è buono. Da ciò ne deriva che la speranza o è cristiana o non è speranza. La reincarnazione infatti non è speranza, perché la speranza cristiana è che si realizzino le cose indicate dalla fede. Io credo che oggi un atto di speranza sia battersi per la difesa della vita contro quella che senza retorica si delinea sempre più chiaramente come la cultura della morte. San Paolo ha detto: «siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi». Ho iniziato questo discorso dicendo che ho sentito la necessità di cercare dei maestri. Concludendo, vorrei dirvi chi sono per me i maestri: un vero maestro è colui che lancia alla speranza. Nella vita dei maestri non c’è niente a cui non attribuiscano un valore; essi aiutano a riconoscere il proprio destino in una cultura che porta a dubitare che ciascuno abbia un destino. L’amicizia vera tra le persone è allora quella che ci ricorda il pensiero della Grande Presenza. Un maestro ad esempio fu Virgilio quando ricordò a Dante il senso della vita. Fa questo ponendogli un interrogativo: «perché ritorni a tanta noia?». Nella fatica quotidiana viene infatti spesso da voltarsi dalla speranza verso il nulla. Oggi, pur non negando le difficoltà che possono presentarsi nella vita di ognuno di noi, sono vicina alla posizione di un filosofo, Kierkegaard: «Nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno». Se abbiamo fame è perché possiamo avere da mangiare; se abbiamo sete è perché l’acqua c’è; se abbiamo inciso nel cuore un desiderio di bene è perché questo Infinito esiste. Da sempre, il problema che si pone ogni generazione è quello di trovare una risposta al desiderio di felicità e di bene che l’uomo trova costituzionalmente nel suo cuore. C’è un’inquietudine che ci fa gridare che non vale la pena niente, e il rischio di questa posizione è anche quello di trasformare i giovani di oggi in spietati cinici. Questo tipo di inquietudine è una malinconia negativa, un ripiegamento su se stessi, in fin dei conti è un lamento. L’inquietudine però può anche essere il sentore di un’umanità viva: c’è dunque una malinconia che ci apre alla ricerca, ed è positiva. Dante scriveva: «Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende». I giovani d’oggi si trovano tra due fuochi, ed è questa la sfida: scegliere a chi affidarsi.

Contro il benpensante soddisfatto, l’homo viator

Mi ha sempre colpito l’immagine del pellegrino come viandante alla ricerca della verità, con un’insaziabile sete di conoscenza e spinto dal profondo desiderio di riscoprire la propria umanità. Provo nostalgia per queste figure emblematiche e tenaci, così cariche di speranza e di certezza da pormi inevitabilmente di fronte agli occhi il confronto con la nostra società materialista e superficiale. Anche la solitudine ricercata dagli eremiti era in passato una condizione interiore che arricchiva l’animo per impreziosirlo di doni spirituali; l’isolamento individualistico di oggi, invece, rende l’uomo contemporaneo estraneo a se stesso. Perso l’orizzonte ideale, ci spogliamo di ciò che di più prezioso possediamo: il degrado dell’uomo coincide con la rinuncia all’uso della ragione e del cuore. Le coscienze sono assopite, l’oggetto del proprio tendere è confuso. Si è persa la memoria storica e questa mancanza di identità crea generazioni ignoranti e presuntuose: i ragazzi espongono, con sicurezza e orgoglio, i più banali luoghi comuni come se fossero verità intoccabili. Per riempire la propria vita molti giovani si uniformano a mode e tendenze, abusano di sostanze stupefacenti, inseguono idoli e falsi profeti che incarnano il vuoto, bramano oggetti materiali, soddisfazioni effimere e passeggere. Ma alla fine, cosa resta? Soltanto il disorientamento, la mancanza di radici, di punti di riferimento e di valori autentici. Inseguendo ciò che credono essere la libertà, si incatenano a forme moderne di schiavitù, dimenticando il monito di S. Paolo: «non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5, 1). Zero assunzione di responsabilità. Responsabilità, re-spondere, assumersi un impegno nei confronti di qualcuno, attitudine impossibile se prima non si compie questo lavoro su se stessi. Il problema è di natura culturale: dobbiamo costruire una nuova antropologia, recuperare l’impegno personale a scapito del soddisfacimento di ogni capriccio. Al predominio attuale dell’incertezza bisogna che facciano da contraltare delle convinzioni forti e dei punti saldi. Coraggio, c’è solo da costruire.

Dedizione e sacrificio per educare alla vita. La dimensione umana del lavoro. L’esperienza di Daniela Santanchè

Daniela Santanchè è imprenditrice nel campo della comunicazione e del sociale, prima donna relatrice della legge finanziaria nella storia parlamentare. È impegnata nella difesa dei diritti delle donne musulmane e dal 2006 è seguita da una scorta armata. È stata attiva per anni nel mondo delle cooperative sociali che lavorano nelle carceri. Attualmente è sottosegretario all’attuazione del programma e lavora nel marketing dei gruppi editoriali. Cosa l’ha spinta a mettersi in moto fin da giovane? La mia ricerca d’indipendenza e di libertà parte da lontano, fin da quando, all’Università, per mettere insieme un po’ di soldi, trattavo svariate attività, dall’infilare perline per collanine o bracciali, a piccoli lavori a maglia -di cui mi è rimasta la passione- a pubblicità o vendite porta a porta. Compiti che svolgevo di notte o nei ritagli di tempo dopo aver studiato e che mi hanno permesso anche di conoscere meglio l’universo umano, ampliando quella limitata sfera studentesca a cui in quegli anni di piombo in una Torino targata Fiat non mi sentivo legata e che non mi rappresentava. Quali sono state le sue convinzioni di base e da dove le derivano? La volontà di “decidere” di me stessa come desideravo mi ha fatto interpretare il fattore lavoro nella vita come emancipazione, comunicazione, stabilità e punto di riferimento. Ho sempre lavorato per costruire il mio futuro. D’altronde, a sventare il rischio di abbandonarmi all’inerzia della studentessa foraggiata dai genitori sono stati i miei stessi famigliari, che, quando seppero che volevo frequentare la facoltà di Scienze Politiche, stabilirono di sovvenzionarmi soltanto l’alloggio: per il resto avrei dovuto provvedere da sola. E così feci, tra mille paure, ma con la convinzione che indietro non sarei tornata. Ricordo poi quando aprii, nel 1992, la “Dani Comunicazione”, avevo trent’anni. E’ stata una sfida esaltante ma anche una strada obbligata da percorrere per sfruttare l’esperienza acquisita dalle realtà aziendali precedenti e per mettere a frutto il mio know-how. E anche se molti mi hanno “appiccicato” addosso l’etichetta di signora dei salotti sono andata avanti per la mia strada che mi ha portato ad essere quella che sono, senza falsità e ipocrisie, orgogliosa degli oneri che mi sono assunta e degli obiettivi raggiunti. Ho ricondotto poi la mia esperienza nell’ambito del sociale fondando l’associazione no profit Solidarietà 2000, che ha promosso diverse iniziative a favore di persone portatrici di handicap e, in collaborazione con le Cooperative sociali Alice e Granserraglio, anche in favore di persone detenute. Ritengo che il lavoro di queste ultime rappresenti da una parte la condizione imprescindibile per l’inserimento sociale di chi intende voltare pagina, e dall’altro uno degli strumenti che lo stato e la società devono perseguire al fine di assicurare maggiore sicurezza ai cittadini. L’idea del lavoro proviene soprattutto dalla cultura occidentale (ora et labora) ed è quindi un nostro bagaglio culturale. Perché secondo lei il lavoro è un aspetto fondamentale della vita? Al contrario di ciò che era il pensiero antico, in cui il lavoro fisico era considerato non onorevole, nella cultura moderna è riconosciuto che il lavoro dell’uomo, fisico o intellettuale che sia, fa parte della sua dignità specifica. Anche la nostra Costituzione, nell’art. 4 sancisce che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Sono parole importanti che hanno un percorso lungo, di fatto iniziato con l’era cristiana. La rivoluzione che attuò Gesù Cristo, con la sua umile provenienza e poi con il suo lavoro di carpentiere, ha elevato l’idea stessa del lavoro oltre che come ode e preghiera al Signore, anche come evoluzione dell’essere umano e solidarietà verso il prossimo. Scomodando uno dei “grandi” del nostro tempo, Giovanni Paolo II, ritrovo lo stesso pensiero della tradizione contadina della mia famiglia, nella sua lettera sul lavoro umano intitolata Laborem exercens del 1981 e scritta per il novantesimo anniversario dell’enciclica Rerum novarum. Oggi, con occhi adulti di donna e genitore, sono grata a mia madre e mio padre per tutto ciò che mi hanno insegnato; offrendomi esempi di vita per farmi capire in cosa consiste il merito della parola lavoro e ciò che comporta: dedizione e sacrificio. A non averne paura o sconforto ma a carpirne l’essenza che racchiudono. Molti ragazzi di oggi non si impegnano per alcun ideale ma si aspettano il piatto pronto, convinti che tutto sia loro dovuto. Oggi i tempi sono cambiati e la grave crisi che ha colpito l’economia mondiale si ripercuote maggiormente sui soggetti più deboli come i giovani e le donne. Inoltre, nella nostra cultura si è radicata da decenni una mentalità di approccio al lavoro completamente sbagliata e concetti come flessibilità, lavoro a progetto, job sharing hanno acquisito un’accezione completamente negativa, sia a causa degli abusi e per la mancanza di regole e tutele da parte degli operatori, sia per una forma mentis da parte dei salariati improntata sull’omologazione di quelli che si ritengono standard sociali invariabili e intoccabili. Tutti fattori che, insieme all’esasperato consumismo della nostra epoca, hanno destrutturato la vita lavorativa e reso i soggetti di entrambe le parti poco motivati. Infine, se da un lato gli imprenditori non hanno compreso che, oltre alla prospettiva del guadagno, è necessario anche un apprezzamento sociale, dall’altro i lavoratori si sono spesso lasciati trasportare da diktat sindacali e politici che dovevano invece restare estranei ai processi aziendali. Potrebbe tracciare una possibile strada di speranza? Per il bene del futuro dei nostri ragazzi è fondamentale una seria rimodulazione dell’istituto del lavoro. Con riforme strutturali che diano modo di ritrovare la giusta collocazione dell’effettivo valore del lavoro stesso inteso come bene comune e manifestazione della persona e non mera “produzione economica”. Non esistono ricette speciali ma soltanto la volontà di far convergere sinergie, responsabilità e disciplina in un unico progetto che dia modo di trasformare e modificare l’assurda condizione di caos attuale. Ci si deve riappropriare della dimensione umana del lavoro per poi fondare su di esso una nuova solidarietà, libera da interpretazioni ideologiche e tesa al rispetto della vita.

Autorità e sacrificio: valori da riscoprire

L’uomo moderno, rifiutando di seguire gli antichi battistrada, si è illuso di decidere da sé, restando in questo modo assoggettato al vangelo televisivo: siamo talmente bombardati ai messaggi mass-mediatici che rischiamo di vivere trascinati, senza nemmeno rendercene conto. I bambini si trovano ad avere più nonni: la mamma e il papà della fidanzata del papà, la mamma e il papà del fidanzato della mamma! Li si bombarda di attività per riempire affannosamente la loro esistenza: nuoto, calcio, corso di inglese, corso di musica… come se la materialità potesse colmare lo smarrimento di crescere in famiglie sfasciate, in cui si insegna che l’amore eterno non esiste: «gli uomini, fin dall’infanzia, vengono schiacciati dal peso degli affari, dallo studio delle lingue e dagli esercizi, e si fa intendere loro che non potrebbero essere felici se la loro salute, il loro onore, la loro fortuna e quella dei loro amici non andassero bene […] è un modo strano di renderli felici!, direte voi. Che cosa si potrebbe fare di meglio per renderli felici? – Come!, cosa si potrebbe fare? Bisognerebbe togliere loro tutte queste preoccupazioni, perché allora vedrebbero se stessi, penserebbero a quello che sono, donde vengono, dove vanno». Se questo è il frutto dell’abbandono dell’autorità, crediamo sia giunta l’ora di recuperare i valori primordiali: così come per la nostra salute è importante l’autorità medica, dobbiamo riconoscere la necessità di una guida per la nostra esistenza. Il discorso educativo è importante perché quando un popolo è ignorante è più semplice governarlo. Alcuni videogiochi, ad esempio, fanno parte di questa corrotta pedagogia educativa, che sostituisce i valori cristiani con dei “valori” che non contano nulla. Vi è poi una forte propaganda subliminale che mira a propalare il relativismo valoriale e che genera in primis nuove solitudini. Così facendo, i bambini, anche se non ne sono consapevoli, iniziano a prendere confidenza con nomi e simbologie esoteriche. Si vuole dare all’umanità l’idea che Dio non serva più; il sincretismo è il primo passo verso la distruzione della religione: “Dio sei tu” è la grande sottesa verità. Gli effetti di questo edonismo sfrenato sono devastanti, è il dominio del permissivismo. Abbiamo disimparato l’arte di educare; c’è, negli adulti, una paura diffusa di esercitare la propria autorità: sulla scia di Rousseau, le mamme di oggi non dicono più di no e mirano a essere le migliori amiche dei loro figli, creando con loro un rapporto di tipo paritario. Ma un’educazione che prescinde dall’autorità non è più educazione: il concetto stesso di pedagogo riflette l’idea della conduzione e della guida, il termine deriva dal greco paidagogòs e si riferisce allo schiavo che conduceva i ragazzi a scuola: anche i giovani di oggi sentono l’esigenza di essere guidati e sostenuti, di avere dei validi modelli da seguire; diversamente, vivranno disorientati, senza punti di riferimento. La pedagogia che elimina ogni ostacolo ha comportato la nascita di una generazione senza grinta, incapace di seguire con forza una direzione precisa. Chi, in casa, è stato abituato a ottenere tutto, non è stato altrettanto abituato a subire le inevitabili delusioni della vita: al primo ostacolo cadrà, perché potendo avere sempre tutto a disposizione non è stato stimolato ad affrontare le difficoltà. Un bambino sempre esaudito in ogni sua richiesta diventa egoista e incivile perché non avverte l’autorità, non conosce l’esistenza dei limiti sociali. È la dittatura degli immaturi: «l’uomo che non incontra il dolore, rimane per sempre un bambino» (Niccolò Tommaseo). I nostri ragazzi crescono in una famiglia non più normativa ma affettiva: ciò li rende immaturi e tendenti all’autocommiserazione. Dove manca l’educazione al sacrificio nascono il conformismo e l’indecisionismo: uomini di 30-40 anni che non si compromettono per alcun ideale, che si accontentano di vivere senza battersi, senza faticare, senza costruire. Si genera così il virus della noia: «troppo benessere genera il mal-essere, genera i gaudenti scontenti, genera il disagio dell’agio» (Paolo Crepet). La nostra società è ammalata di falsi problemi: avere dei disturbi è diventato una moda, ma il mito della sofferenza è soltanto un fatto di comodo, una giustificazione per rimandare impegni e responsabilità. La nostra generazione è invertebrata: ognuno soffre per qualcosa, ma proprio perché si ha sofferto bisogna dimostrare maturità e disposizione all’impegno. Creare una società di confusi, invece, è oggi un business: genitori e insegnanti sono facilmente propensi ad affidare alle cure dello psicologo un bambino difficile, invece di cercare di scoprire se a fargli perdere l’orientamento sia stato un eccesso di libertà o di attenzioni, i timori dei genitori o i troppi vizi. Quale rimedio? La ricetta è il sacrificio: i bambini, fin da piccoli, devono essere allenati a credere in se stessi, a rendersi indipendenti e a lavorare autonomamente. Crediamo fortemente in ciò che scrisse il grande inventore Thomas Edison: «il genio è fatto dell’1% di ispirazione e del 99% di sudorazione». Rilanciamo la pedagogia dell’ostacolo: i giovani hanno diritto di essere educati al lavoro. Una controcultura sana parte dal desiderio di ciascuno di andare oltre, di capire: bisogna «trasmettere interesse. E quel che più di ogni altra cosa stimola l’interesse è la conoscenza, la passione di conoscere. Non è una ricetta magica, anzi, è una via virtuosa e faticosa ma che, se percorsa, dà un risultato sicuro […] è l’ostacolo oltre il quale c’è un grande premio. Una scuola basata invece sul principio che non bisogna stancarsi mai e tutto deve essere facile come il gioco più banale, crea un esercito di disperati».

Il ’68 e i giovani d’oggi. Ritratto della società postmoderna

Il panorama attuale è sconfortante, la società contemporanea ci propone una cultura contro la vita, ma proprio per questo non dobbiamo abbatterci: il pessimismo significa staticità, invecchiamento, rassegnazione. Oggi i giovani sono lasciati a loro stessi, buttati nel nulla.

Moltissimi si sentono disorientati, soli e smarriti; tanti ragazzi sembrano più vecchi degli anziani stessi: li vediamo sopravvivere senza energia, senza grinta, senza passione. Da una parte, la società non lascia spazio alla meritocrazia e non offre grandi possibilità per costruire un vero futuro; dall’altra è di moda un’educazione permissiva che evita qualsiasi sacrificio: ne deriva una generazione stanca, priva di valori, che si distrae per non pensare agli interrogativi seri della vita. L’emergenza attuale, come ha affermato anche il Santo Padre, è proprio il dramma educativo: riattivare cervelli spenti, omologati, non abituati a compiere alcun approfondimento, incapaci di formulare giudizi autonomi e di usufruire di quell’immenso patrimonio culturale e linguistico che tutti noi abbiamo a disposizione.

Possiamo dire, con Frédéric Le Play e Joseph de Maistre, che ogni nuova generazione è una generazione di piccoli barbari da educare e a cui trasmettere l’incivilimento; la moralità non è automatica, non è un progresso addizionale come quello scientifico: con ogni nuovo bimbo si riparte da zero. Ciò è possibile soltanto se si rispetta una cultura dell’educazione, un modello forte di responsabilità e di stabilità. Dobbiamo dirlo: è in atto un livellamento verso il basso, prodotto da un preciso e voluto laboratorio di plagio.

Il vero cancro è rappresentato dalla rovinosa Rivoluzione culturale del ’68, che ha scardinato ogni forma di autorità, da quella di Dio a quella del pater familias, con la tragica conseguenza che per i nostri giovani non esistono più punti di riferimento: molti padri, ad esempio, non solo non credono nei propri figli, ma, peggio ancora, non vogliono garantire loro un futuro. In termini pratici basta pensare alla riforma Dini delle pensioni, che ha svenduto la possibilità di accesso alla pensione degli anziani di domani per garantirla agli anziani di oggi. L’idea dell’autodeterminazione dell’individuo, di fatto, ha esaltato una forma di libertà distorta, distruttrice dell’autorità, del merito e della memoria storica. In tutti gli ambienti la situazione è la stessa: dalla politica all’università, dal mondo dell’associazionismo a quello sindacale, dal lavoro all’impresa, il nostro Paese manifesta sempre di più una profonda crisi strutturale.

È impossibile discutere del disagio giovanile senza fare un salto indietro per capire la radice dell’attuale degenerazione. Siamo ormai anni luce da quelle certezze incrollabili che avevano caratterizzato la società dei nostri nonni, è cambiato radicalmente il sistema dei valori che ne sta alla base: alla sicurezza della famiglia, fondata sul matrimonio come vincolo sacro, si è sostituita la precarietà delle relazioni interpersonali, giocate sul sentimentalismo più istintuale; alla fiducia riposta nella fede cattolica sono subentrate le teorie nichiliste del nuovo millennio. La “filosofia” che sottostà alla moderna concezione della vita è la presuntuosa convinzione di bastare a se stessi: si vive del principio sessantottino “vietato vietare”.

È alla luce di questa impostazione mentale che lentamente si è cercato di scardinare, con successo, il criterio della gerarchia e la presenza dell’autorità. È l’era dell’informazione, di Internet e delle Tv satellitari, ma gli italiani non leggono più e c’è sempre meno cultura: la velocità di comunicazione, d’altronde, allena a sfogliare una pagina web dopo l’altra, rendendo difficoltosa la concentrazione. Nonostante tale ricchezza di vocabolario, di Shakespeare oggi se ne vedono pochi in giro e la gente continua ostinatamente a leggere quello “povero”(1).

Ma una società che punta ad uniformare i cervelli non può che creare omologazione, menti plagiate, formattate, unanimi nel modo di vestire, nel modo di parlare, nel modo di non pensare. Quella odierna è una civiltà in cui si sostengono opinioni costruite su slogans, in cui non si hanno più proprietà lessicali, anzi, la volgarità del linguaggio domina incontrastata e dalle bocche gentili delle ragazzine sgorgano fiumi di parolacce senza filtri: la liberazione è compiuta. Il clima di libertinaggio prodotto dal ’68 non ha generato una crescita della serenità individuale, ma ha reso i ragazzi sempre più chiusi alla vita, cinici e carichi di fobie: ci chiediamo come mai questo permissivismo auspicato per noi giovani non abbia comportato, di pari passo, una proporzionale felicità interiore. Mai come in questo contesto storico si evidenzia infatti una crescita vertiginosa dell’uso di alcool e di droga, si registrano numerosissimi casi di suicidi giovanili, per non parlare dell’utilizzo degli psicofarmaci: non abbiamo più regole e siamo tristi, non è bizzarro?! «Stanco e disfatto è il mondo», scriveva G. K. Chesterton nel suo A Christmas Carol. Non si fa altro che parlare di emancipazione: abbiamo tutto, non dobbiamo più fare alcun sacrificio per ottenere nulla, ma siamo apatici e annoiati. Immersi nel niente, molti ragazzi non sanno perché vivono e vagano lungo l’esistenza senza un preciso scopo, se non quello della celebrità raggiunta senza impegno (vedi Grande fratello).

Abbandonati a loro stessi, i ragazzi si lasciano andare proprio negli anni in cui dovrebbero trasformare il mondo. E allora subentra il divertimento come alibi per non riflettere: il “mito del sabato sera” è diventato oggi il mito di tutta una vita. Pascal parlava di divertissement riferendosi a questo problema già nel ‘600: «L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie» (Pensieri, 171).

La conseguenza più evidente è il senso di smarrimento e di tristezza palpabile nel cuore di moltissimi giovani: ci si annoia perché non si hanno più scopi e contenuti da condividere. In fondo, se uno è vuoto, cosa può trasmettere agli altri? I valori, che per secoli hanno guidato i popoli più creativi e leggendari, sono oggigiorno derisi apertamente da giullari intellettuali di bassa statura, elevati a guru della società. Quest’ultima ci “insegna” che si vale tanto più se si è scaltri: essere furbi, anche a scapito degli altri, è diventato un titolo di merito; pensiamo a Fabrizio Corona che, supportato dalla pubblicità e da un seguito più che mai ignorante, ha fatto dell’immoralità il proprio personal business. La solidarietà e il bene nei confronti del prossimo non sono contemplati fra gli interessi collettivi, lo sguardo sui bisognosi e sugli anziani è quasi annullato, anzi, questi sono giudicati inutili e retrogradi, ultimo scarto di una generazione ormai mentalmente sorpassata (sono invece un enorme patrimonio, un’eredità andata persa).

Su cosa è basata la modalità di rapporto tra le persone? L’individualismo è la legge attuale: è stato spento il senso del sacro e ogni sentimento, anche il più puro, viene sporcato. Non esiste più il corteggiamento, il rispetto e quella devozione reverenziale che in passato il cavaliere mostrava alla dama: sono andate perdute le antiche forme cavalleresche tipiche dell’epoca Biedermeier. Nelle discoteche, ci si “conosce” incontrandosi sulla pista da ballo, ci si apparta come animali, senza bisogno di parlarsi.

 I preservativi sui pavimenti dei bagni tradiscono un sesso miseramente programmato: «i ragazzi non reggono il nulla in cui galleggiano. Si fanno per non pensare, per credere per una notte di essere forti, belli, importanti. Perché nessuno gli ha mai detto che lo sono davvero, importanti, e anzi unici. Perché nessuno gli ha mai detto quanto vale un uomo (e quelle corse nella notte a centottanta all’ora, ubriachi, non sono forse una sfida estrema al nulla?(2)».

Agire contro la morale sessuale sembra essere di fatto una moda comodamente accettata, ma i ragazzi nemmeno sanno che tutto è stato preventivamente pilotato: oggi chi si crede trasgressivo è in realtà il più omologato di tutti. Tutta l’attuale propaganda sulla libertà sfrenata è funzionale al sistema: l’idea del divertirsi a tutti i costi implica ad esempio il consumo smisurato dell’alcool; la Tv ci propone delle chimere, come l’apparenza e il successo immediato, ci suggerisce il disordine comportamentale: diventiamo tutti consumatori presuntuosi e il gioco è fatto. È questa la nostra idea di indipendenza?

La Chiesa cattolica aveva indicato certi dettami; noi li abbiamo rifiutati, facendo uno scambio di mentalità sociale: cosa ci abbiamo guadagnato? Ci vergogniamo di dirci cristiani, ma chiediamoci: quali sono le altre concezioni di libertà? Il problema di fondo è che l’uomo non si piega più di fronte a Dio, anzi, si dice libero, ma è schiavo dell’opinione pubblica; in sostanza la nostra società compie una diseducazione voluta, propone una vita facile, concede tutte le libertà materiali, ma non la libertà di pensare e di spiritualizzarsi. La gente subisce i concetti, perdendo la verticalità della vita. Il modello che ci stiamo proponendo è sbagliato: è il modello dell’uomo consumatore e omologato che quando non consuma va eliminato con l’eutanasia infarcita di pietismo! Il nostro non è più un popolo unito da un Ideale, ma una massa di individui surrogati; non è più una comunità, ma solo una società, un involucro colmo di monadi isolate: Bauman parlerebbe di società liquida e del resto il XLI Rapporto Censis conferma questa tendenza anche in Italia(3).

Noi ci prefiggiamo lo scopo di uscire dalla mediocrità delle idee preconfezionate per poter creare un presente degno della nostra portata umana. Vogliamo farlo senza presunzione, convinti che i maestri siano di vitale importanza: bisogna costruire partendo dalle radici storico-culturali, avendo come bussola orientativa la nostra tradizione. A voi giovani, da giovane, grido: non viviamo le giornate come vegetali, ma impegniamoci, lavoriamo. Come ci propone saggiamente Seneca, «la vita è lunga se è piena»!

Credere nella politica dei valori

La definizione di politica non può essere ricercata solo riaccostandosi alla forma classica del concetto, perché la modernità l’ha rigettata, sostituendola con un’altra diversa. Difficile fare una sintesi e definire univocamente la politica: essa può essere vista come una teoria del diritto e della morale e in questo caso è subalterna a queste due entità concettuali, nei confronti delle quali si presenta anche come un possibile strumento di realizzazione. Allo stesso tempo potremmo essenzialmente definirla una teoria dello stato e della società, ma non dobbiamo dimenticare la definizione machiavelliana che la intende come tecnica dell’esercitare e del conservare il potere, in cui si intrecciano le questioni più importanti e anche le questioni più complesse. Nessuna definizione potrebbe essere assunta a detrimento o a esclusione delle altre. Il problema vero è che tipo di concetto di politica scegliere: io scelgo una politica che è passione e ricerca del bene comune, una politica che non può essere limitata all’aspetto tecnico o all’apparato politico.

Oggi vi è una pseudo-politica incentrata sul pettegolezzo; il sistema è delegittimato dal basso: i cittadini identificano la politica con il governo. Questo genera nelle masse un naturale rigetto della stessa invece che una naturale compartecipazione conformata alla propria posizione nella vita sociale. Ma chi abbandona la politica ad un ruolo marginale, legittima l’esistenza di un governo distante dai suoi interessi. Il dramma della politica italiana è che è spesso diventata fine a se stessa riducendosi a mero governo. La gente comune percepisce la distanza e si allontana ancor di più ritenendolo un lavoro che non spetta ad essi, aumentando così le distanze e fornendo un deleterio eccesso di potere. Non possiamo far altro che constatare come questo distacco sia causato in primis dallo smarrimento della politica stessa che non è più in grado di darsi dei punti di riferimento e che di conseguenza non può indicarne alla popolazione.

Questa concatenazione di fattori produce un disorientamento dei cittadini che non riescono più a trovare una linea interpretativa in cui riconoscersi e non sanno più qual è l’orizzonte sul quale immaginare la costruzione del proprio avvenire. Soltanto in una dimensione valoriale e culturale riconoscibile è possibile immaginare la restaurazione della politica. La realtà quotidiana ci dimostra quindi come l’interesse per la politica sia circoscritto e marginale, dal momento che i partiti sono forze autoreferenziali che non agiscono nella società ma soltanto al loro interno, e dal momento che restano segnati da lotte di potere che la gente percepisce con disgusto. La crisi della politica ha portato ad una società al centro della quale vi è l’individuo-consumatore e non la persona portatrice di valori. La politica è invece una filosofia pratica, non è confinata ad una dimensione individuale né fine a se stessa. Poiché lo spirito di base che muove il politico dev’essere quello del servizio, la politica deve mettere al centro i bisogni dei cittadini e non farsi definire dalla figura del politico per professione, altrimenti è già stata tradita la vocazione iniziale. Politica è dimenticarsi di se stessi per servire gli altri, è sacrificio: se si perde questa dimensione si diventa dei politicanti.

Si deve considerare poi che l’efficacia dell’azione politica in Italia tende ad essere misurata dai rappresentanti dei partiti e dai politologi, attraverso l’analisi dei numeri, delle percentuali, degli esperimenti, ma questo basta a dimostrare di aver fatto un buon lavoro? No, non è sufficiente aver cambiato un numero per cambiare una situazione. In passato i cittadini si sentivano coinvolti nella politica, mentre oggi si è fratturato il rapporto di fiducia tra i rappresentanti e i cittadini, e non solo: con la cancellazione del voto di preferenza anche le idee sono state separate dai rappresentanti stessi e la politica è diventata autoreferenziale. La non utilizzazione degli strumenti di democrazia diretta è un limite ed impedisce il vero coinvolgimento della gente. In Italia è accaduto che la politica si trasformasse in un sistema di privilegi e di garanzie che ha di fatto stravolto l’ordine dei valori, dando luogo ad una profonda crisi interna. Ora non capita più che due pensieri così diversi come quelli del repubblichino Almirante e del partigiano Berlinguer si rispettino, perché mentre loro avevano la stessa concezione della politica, oggi il desidero di potere e di privilegi viene posto davanti all’amore per il destino del proprio popolo. Ecco perché tutt’oggi manca il dialogo tra maggioranza e opposizione, anche su materie di prima urgenza: si è persa questa concezione alta della politica. Se non vogliamo che il popolo italiano naufraghi definitivamente dobbiamo riaffermare la centralità della politica, ma per fare ciò dobbiamo dare di questa una nuova idea: fino a che la politica sarà percepita dai cittadini come un arengo di disonesti i quali badano solamente al proprio interesse o ai propri giochi di potere, fino a quando la politica rimarrà il luogo della confusione, fino a quando la politica sarà identificata solo con le campagne elettorali, fino a quando i cittadini percepiranno i partiti come “tutti uguali”, nessuna attività di riaffermazione avrà successo. È necessario evitare che si affermi una politica senz’anima le cui avvisaglie si sono già abbondantemente manifestate. Se è vero che la crisi attuale deriva da un eccesso di politicizzazione dovuto ai condizionamenti delle ideologie, «non si può curare un ammalato uccidendolo con la pretesa che in tal modo si sconfigga la malattia» (G. Malgieri). Vi è la necessità di recuperare un protagonismo ed una responsabilizzazione dei soggetti, delle singole persone, delle famiglie, dei corpi intermedi. Bisogna procedere ad un’ottimizzazione delle responsabilità istituzionali fra governo, regioni, province e comuni, e ricercare la risposta più adeguata ai bisogni sociali della collettività. Oggigiorno molte menti brillanti preferiscono mantenersi distanti dalla vita politica perché questa non è più concepita dall’intellettuale medio come uno strumento in grado di incidere sulla società, ma come un apparato di èlite che tende a difendere se stesso. Molti cercano allora spazio nel campo giornalistico o delle associazioni culturali e rifuggono dalla politica dei partiti, che, a loro volta, tendono ad esiliare i propri intellettuali e a far sì che ricoprano ruoli marginali: l’uomo di cultura è temuto perché non mira all’opportunismo di una scelta, ma alla sua legittimità. Sono anche convinta che il discorso di certi intellettuali che si disinteressano per questi motivi della politica sia un banale trasferimento di responsabilità che non accetto. Bisogna che le menti brillanti si occupino e tornino ad occuparsi di politica, rifiutando che qualcuno metta altri nella condizione di non occuparsene; bisogna rompere il gioco nelle mani di chi ha un vantaggio da questa situazione.

E sono profondamente convinta che cultura e politica non debbano esser distinte, ma al contrario possono e devono integrarsi ed arricchirsi reciprocamente. Faccio mia la posizione di Prezzolini che rifiutava sia la cultura politicizzata che la politica acculturata, per prediligere una soluzione che mantiene queste due realtà tanto svincolate nei compiti quanto unite nel formare ed orientare le coscienze. Prezzolini condannava sia lo scarso interesse che la classe colta dedicava alla politica, spesso limitato ad una critica preconcetta, sia la sua scarsa capacità di incidere sulla vita dei cittadini. Dalle pagine de «La Voce» sosteneva che «gli italiani colti, che […] talvolta vedono più in là delle circostanze immediate, non solo non riusciranno ad imporre una direzione alla vita storica del loro paese, ma non sapranno nemmeno far ascoltare il loro consiglio e la loro voce».

Una simile frattura ha come risultato che tanto la politica quanto la cultura si impoveriscono nella mutua segregazione, con conseguenti danni: «la politica, infatti, quando non vi aliti dentro lo spirito della nazione ricco di tutte quelle orientazioni ideali che si chiamano cultura, diventa una mediocre faccenda composta di piccole cose quotidiane – più vicina assai alla pratica minuta degli affari di un mercante che non alla complessità vasta e concitata della storia. E la cultura, segregata dalla politica, – e in generale dalla vita vissuta, immiserisce nella “letteratura”».

La politica si svuota di ragioni ideali, mentre la cultura si confonde con la letteratura, perdendo la sua dimensione distintiva. Uno dei temi maggiormente trattati dal dibattito filosofico-politico è poi la questione relativa al rapporto fra etica e politica. Se non esiste un sistema universale di valori, l’uomo brancola nel buio: ogni decisione individuale assume valenza di giustizia e si è pronti anche ad avanzare leggi contro la vita, a tutelare i diritti degli animali e nello stesso tempo a sostenere l’aborto. Purtroppo la politica con cui abbiamo a che fare è basata più su principi utilitaristici individuali o di gruppo. E la mancanza di principi genera l’impressione quasi collettiva di una civiltà in degrado, di fronte alla quale è forte la tentazione della rinuncia e del distacco.

L’impegno politico deve essere qualificato e vissuto secondo la categoria tipica del servizio, con un’attenzione diligente e intelligente all’uomo, partendo da chi soffre maggiori disagi. Si può dire che compito di ogni impegno politico è quello di concorrere a realizzare una società nella quale ogni uomo possa vivere davvero nella pienezza della sua umanità. Un’autentica azione per il bene comune richiede inevitabilmente che si sia capaci di offrire una testimonianza d’impegno eticamente credibile. L’orizzonte spirituale e culturale è segnato da una grande incertezza. È evidente che sono venuti meno molti punti di riferimento perché il secolo scorso è riuscito a stravolgerli ed a distruggerli, sia pure parzialmente. È necessario che siano i valori a guidare i mutamenti e non più gli apparati ideologici, è ai valori che si deve far riferimento per comprendere la complessità del presente.

La politica non ha alcuna possibilità di produrre cambiamenti nella società se si riduce solamente ad un insieme di persone che propongono esclusivamente soluzioni tecniche a problemi tecnici. Emergono ora nuove insidie totalitarie che possono essere battute soltanto dall’affermazione delle identità fondate sui valori e sulle specificità culturali dei popoli. Secolarizzazione, materialismo pratico e relativismo etico sono le nuove forme di totalitarismo: prevedono un uomo unico, “l’uomo consumatore”. L’etica serve invece alla politica per fare della persona il cuore della società. La politica deve credere nella persona. Il naturale completamento di ognuno risiede nella primaria forma di comunità storica: la famiglia, che nasce unicamente dall’incontro tra uomo e donna.

Abbiamo poi dei corpi intermedi che con essa si raccordano fino ad arrivare alla nazione, che è la comunità più vasta nella quale si integrano gli interessi spirituali, morali e materiali di un popolo. Alain de Benoist, nel suo Le sfide della postmodernità afferma infatti che «i valori non sono oggetto di una scelta, né revocabili a volontà […] Nella concezione greco-cristiana l’io è anteriore ai fini che si dà e non è possibile concepire l’individuo al di fuori della sua comunità».

Sembra una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano radicalmente la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme contestative che tendono ugualmente a negare il concetto stesso di identità nazionale: il mondialismo, il pensiero unico, l’omologazione culturale. I nostri ragazzi sono pienamente immersi in questo vuoto valoriale ed etico. Le conseguenze possono essere devastanti. Di fronte ad una società in continuo cambiamento è necessario avere dei principi di ancoraggio; nel momento stesso in cui si accellera il mutamento, è necessario dall’altra parte avere la possibilità di aggrapparsi a qualcosa che non cambia. È importante da una parte modernizzare, assecondare il cambiamento tecnologico, ma dall’altra tener presente che il cambiamento serve all’uomo e che l’uomo, fino a prova contraria, ha delle radici che non cambiano: il bisogno religioso, il bisogno di comunità, il bisogno di pensare ad alcuni principi e ad alcuni valori di solidarietà e di identità collettiva.

L’uomo non deve rincorrere esclusivamente l’arricchimento o il successo personale e materiale, ma la ricerca del primato dell’essere, il primato del trionfo della vita spirituale contrario ad ogni egoismo, ingiusto e sterile, fonte di insoddisfazione singola e di frustrazione per la collettività. Il giovane di oggi si ritrova inoltre in un contesto storico in cui non ci sono spazi professionali né culturali, non c’è più possibilità di esprimersi. La generazione dei padri ha non di rado trasferito la propria scontentezza ai figli, disincentivandoli e schiacciandone le speranze. In piena crisi della famiglia i ragazzi crescono senza rischi né pericoli, non sanno più affrontare i problemi, non vogliono rinunciare ai propri privilegi, continuando così a rendere gloria ad una società consumistica e materialista. Ciò che è più grave è la mancanza di meritocrazia: questo induce spesso i giovani volenterosi ad abbandonare l’irta strada del sacrificio, a cedere al “servilismo” e a rinunciare alla politica.

Questa può e deve tornare ad essere uno degli “scrigni preziosi” in cui le nuove generazioni possono trovare un patrimonio di valori e principi sapientemente custoditi. I giovani rappresentano l’espressione più intensa dell’esistenza e proprio per questo dovrebbero essere i protagonisti per definizione della politica, perché essa ha una dimensione esistenziale indiscutibile. La partecipazione alla politica dovrebbe appartenere in prima istanza proprio alla gioventù e se questo non accade vuol dire che nella struttura di uno stato qualcosa non funziona, significa che chi fa politica si auto-isola e che gli esclusi sono privi degli strumenti per incidere nella vita sociale. Uno stato in cui i giovani sono soggetti disinteressarsi della politica è uno stato corrotto, uno stato che non funziona, uno stato che ha delle contraddizioni dentro di sé e il cui funzionamento è in gran parte compromesso. La politica non si esprime in un ambito limitato: tutto è politica, tutto quello che è rapporto tra individui è politica. Il carattere verticistico connaturato nella storia del nostro paese è una delle carenze più gravi dell’impianto politico italiano, ma questo non deve scoraggiare le giovani generazioni.

La nostra è una politica troppo spesso fatta al livello dei palazzi del potere. Per riappropriarcene dobbiamo recuperare una dimensione della politica stessa: quella che si fa nei quartieri, negli istituti scolastici, nelle università, nei circoli culturali, nelle redazioni dei piccoli giornali e ovunque ci sia rapporto. Lì si può costituire una classe giovanile di responsabilità, di iniziativa, di consapevolezza.

Se dovessi individuare nello specifico un percorso formativo per giovani politici, distinguerei tre livelli di formazione: uno dedicato alla cultura (perché senza cultura non si può guardare al mondo politico con capacità critica), uno dedicato agli strumenti per amministrare (dato che i giovani saranno chiamati a ricoprire ruoli di rappresentanza negli enti locali) e infine approfondirei il tema della comunicazione (perché nell’era dei total media non si può far politica senza saper comunicare).

Sono solita regalare ad ogni giovane che incontro e si appassiona di politica una cartolina stampata in ricordo di Marzio Tremaglia che contiene il suo “testamento spirituale”. Quando a quattordici anni le lessi, queste parole mi cambiarono la vita e mi spinsero verso l’attivismo politico: «Credo nei valori del radicamento, dell’identità e della libertà; nei valori che nascono dalla tutela della dignità personale. Sono convinto che la vita non può ridursi allo scambio, alla produzione o al mercato, ma necessita di dimensioni più alte e diverse. Penso che l’apertura al sacro e al bello non siano solo problemi individuali. Credo in una dimensione etica della vita che si riassume nel senso dell’onore, nel rispetto fondamentale verso se stessi, nel rifiuto dei compromesso sistematico e nella certezza che esistono beni superiori alla vita e alla libertà per i quali, a volte, è giusto sacrificare vita e libertà».

La filosofia abortista del femminismo: l’inganno della libertà di scelta e la manipolazione dell’informazione

Opporsi all’aborto non significa tanto avversare una pillola, quanto piuttosto una mentalità: sotto la spinta del ’68 e del femminismo, ideologie figlie della rivoluzione, la donna in Occidente si è livellata, si è abbassata a imitare l’uomo, spogliandosi della propria essenza.

La questione dell’aborto è strettamente connessa alla riflessione sulla donna: è necessario allora interrogarci su quale sia il suo ruolo, per non cadere nel pericoloso errore di considerare l’omicidio del proprio bambino come un diritto inalienabile. Il femminismo, che negli anni Settanta si connota come movimento per la liberazione di genere a fianco della sinistra, rincorrendo una sterile uguaglianza, ha fatto sì che la donna tentasse di appropriarsi di caratteristiche maschili, deformando la sua naturale originalità.

Le donne, che un tempo erano le paladine dell’amore, sono diventate così le paladine di un’uguaglianza astratta. Possiamo identificare un presupposto filosofico del femminismo nel relativismo, che afferma come la verità delle cose non sia conoscibile: se non è possibile conoscere il bene né i valori in modo oggettivo, le scelte sono inevitabilmente determinate dagli orientamenti soggettivi e dalle circostanze. Si impone allora la libertà assoluta: alla volontà individuale della donna deve essere riconosciuta una priorità rispetto al feto, considerato un elemento di disturbo per l’autonomia stessa della madre.

Da questa convinzione si è sviluppata poi anche l’ideologia di genere: gli esseri umani nascono senza orientamento sessuale, che dipende invece dalla cultura. Ognuno può scegliere la propria sessualità: una delle battaglie del fronte femminista è infatti proprio l’equiparazione delle unioni di fatto – anche omosessuali – al matrimonio. L’obiettivo è quello dell’uguaglianza a tutti i costi e la cancellazione, forzata e innaturale, delle diversità di funzione, allo scopo di riequilibrare i rapporti di potere.

Alla condizione “snaturata” della femminilità si somma il venir meno della funzione del padre, che lascia spesso la donna in uno stato di massima libertà, cioè paradossalmente di massima solitudine esistenziale. Il problema dell’aborto è infatti concepito da gran parte della società come una questione esclusivamente femminile, dalla quale il padre è completamente escluso. Egli non è l’unico a non avere diritti: anche il concepito viene rimosso dalla sfera della decisione, che spetta soltanto alla madre. Il problema viene spostato dal rispetto della vita del bambino al diritto della donna di scegliere.

Oggi l’uomo non può incidere sulla scelta dell’aborto proprio perché si è affermata questa idea dell’autodeterminazione della donna, secondo cui questa deve avere l’assoluto controllo della gravidanza. Ma quando la soppressione è considerata, come accade oggi, un servizio dovuto e un esercizio di libertà, tutto è stravolto nelle sue fondamenta e anche la famiglia comincia a essere inesorabilmente concepita come una forma di schiavitù e di oppressione per la moglie che, secondo il pensiero femminista, desidera svincolarsi dal ruolo domestico per rivolgersi a quello pubblico, generalmente esercitato dall’uomo: la triste conseguenza è che la maternità viene intesa solo come gravidanza.

? infatti davvero raro che oggi ci si soffermi sul percorso psicologico emotivo della donna, preso in considerazione solo nel caso in cui avvengano interventi terapeutici. Quest’immagine della maternità è limitativa, in quanto il fondamento di ogni rapporto è l’amore e la persona si realizza soltanto nella misura in cui ama. La relazione materna è il prototipo dell’amore: la madre raduna tutte le sue ricchezze personali per donarle al bambino. Oggi invece tutto viene medicalizzato e la gravidanza assume le forme di una malattia. La liberazione richiede allora il controllo assoluto del corpo, della sessualità e dei mezzi per regolare le nascite, tra i quali l’aborto. Ma quando, tramite l’aborto procurato, il meccanismo di fiducia con la vita viene interrotto, si apre una ferita, un grido di un’umanità violata.

Non si può infatti apprezzare la vita dell’altro quando la si sopprime dentro di sé, come affermò anche Madre Teresa di Calcutta: “Se continuiamo a sostenere l’aborto, come possiamo pretendere che non si faccia la guerra?”. Ci si è dimenticati che uno dei principali compiti e doni della donna è proprio quello di dare e saper dare la vita. Se siamo oggi il primo Paese europeo per eccellenza in quanto a denatalità, lo dobbiamo anche a questo: generare figli, nel clima sociale venutosi a creare, accentuato poi dalla recente crisi economica, non ha più senso e non rappresenta più l’ambizione di giovani coppie, blindate dall’egoismo e chiuse alla possibilità di una nuova vita. Inoltre, la profonda crisi del sistema politico, costantemente alla ricerca di elettorato e di consenso, dominato da un populismo che non cerca di orientare coscienze ma che insegue solo voti facili, ha spinto la politica a fare scelte troppo spesso orientate ai bacini più diffusi di elettorato: in un Paese in cui la popolazione over 50 rappresenta la fetta più ampia, la ricerca del consenso spinge sulle leve dell’assistenza sociale e del sistema pensionistico, non certo su quello della promozione della natalità.

? la conseguenza logica di una società che ha perso coscienza dei propri valori, che non valorizza più la vita e nella quale, sopra ogni cosa, il popolo sembra assopito di fronte ad una piaga tanto devastante come quella dell’aborto. Quest’ultimo, considerato un omicidio già dai tempi di Ippocrate, è dapprima diventato, con la legge 194, male minore, per essere oggi considerato un vero e propro diritto. Da donna ritengo invece che la legge sull’aborto non solo non sia una conquista di civiltà, ma che umilii la dignità stessa della donna. Su cosa consisterebbe, infatti, questa libertà? La tanto ambita autodeterminazione altro non è che la possibilità di uccidere legalmente i propri figli.

Con la pillola RU-486 la liberazione è compiuta: ha vinto il fronte nichilista e anche in Italia sarà possibile eliminare il proprio bambino ingerendo una pillola, un farmaco che condanna la madre ad abortire in solitudine, scaricanmdole addosso tutta la responsabilità e il peso di una morte innocente. C’è dell’altro. La kill pill, com’è stata ribattezzata, talvolta uccide anche le donne che vi ricorrono: è la stessa azienda produttrice di questa pillola, la francese Exelgyn, a parlare di 29 decessi riconducibili alla sua assunzione.

Guarda caso, in America, già nel lontano 1991, J. G. Raymond, R. Klein e L. J. Dumble, tre femministe dichiaratamente abortiste – e pertanto non sospettabili di simpatie clericali – denunciarono la RU-486 e le sue pesantissime ripercussioni sulla salute delle donne, tra le quali ricordiamo: dolore o crampi nel 93,2 % dei casi, nausea nel 66,6%, debolezza nel 54,7%, cefalea nel 46,2%, vertigini nel 44,2% e perdite di sangue prolungate fino a richiedere una trasfusione nello 0,16% dei casi.

E fu sempre una donna, Donna Harrison, ricercatrice e ginecologa di Berrien Center, in Michigan, a pubblicare uno studio nel quale ha identificato ben 637 casi di effetti collaterali nell’uso della RU-486. Addirittura, nel dicembre 2005, un editoriale del “New England Journal of Medicine”, “bibbia” mondiale della scienza, denunciava una percentuale di mortalità con il metodo chimico della Ru-486, ben 10 volte più alta di quella rilevata con il metodo chirurgico. Pensare che in Italia si proclama che quello della pillola sia un metodo meno invasivo! ? evidente come dietro la commercializzazione di questo farmaco vi siano, prima d’ogni cosa, interessi economici ben precisi; basti pensare che era stata inventata per curare una disfunzione della ghiandola surrenale ma, non funzionando, è stata convertita dalla casa produttrice in facilitante abortivo. Che l’aborto sia privo di conseguenze e di dolore è la grande bugia che i suoi sostenitori perpetrano nel tentativo di non mettere in discussione le ragioni politiche della loro battaglia per la legalizzazione. Ma anche se la comunità scientifica mondiale smentisce quotidianamente queste posizioni, abortisti e femministe negano i risultati di studi, ricerche e statistiche. La parola d’ordine è eliminare ogni informazione sul dolore fisico e psicologico post-aborto; nascondere tutto ciò che potrebbe indurre perplessità sul consenso all’aborto di una donna.

Così, chi si proclama difensore della libertà di scegliere è semplicemente libero di nascondere e chi omette quelle informazioni plagia una donna libera e sceglie al suo posto. Quest’ultima ha invece il diritto di essere informata sui rischi per la propria salute riproduttiva e psicologica. Il vero diritto da difendere è il diritto alla conoscenza delle patologie fisiche e mentali connesse ad una interruzione volontaria di gravidanza. Il femminismo pro-aborto, che sostiene di difendere e promuovere i diritti della donna, di fatto compie su di essa un abuso pesantissimo. La tragedia dell’aborto lascia nell’animo femminile tracce indelebili, ferite aperte nella memoria e nella sfera sentimentale, spesso addormentate, ma profondamente irrisolte, che anche a distanza di anni irrompono prepotentemente nel presente attraverso patologie psicologiche di varia natura.

Noto è il caso della Christchurch School of Medicine in Nuova Zelanda che, partendo da uno studio per dimostrare l’assenza di conseguenze psicologiche della pratica dell’aborto, è giunta a conseguenze diametralmente opposte: dall’analisi dei risultati statistici è risultato che le donne che hanno avuto un aborto hanno quasi il doppio della probabilità di sviluppare malattie mentali e fino al triplo di diventare alcolizzate o tossicodipendenti.

Questo studio, confermato successivamente da un altro, analogo, dell’università di Otago e pubblicato dal “Journal of Child Psychiatry and Psychology“, ha riscontrato l’insorgere di tendenze suicide, consumo di droghe, depressione e ansia patologica. Dati che trovano riscontro in tantissime altre pubblicazioni scientifiche: una media fra i risultati di tre diversi studi sugli effetti dell’aborto in USA, UK e Finlandia (pubblicati rispettivamente da l’ “Archives of Women’s Mental Health“, il “British Medical Journal” e dagli “Acta Obstetrica et Gynecologica Scandinavica”) evidenzia un’incidenza di aumento nei tassi di suicidio sopra al 300%. Ci sembra un dato che smentisce categoricamente la credenza che l’aborto sia una scelta sicura. Non ci sono prove che una gravidanza indesiderata possa aumentare il rischio di depressione o altri problemi, mentre è certo che l’aborto abbia conseguenze devastanti. Gli studi in materia mostrano come le donne che si sono sottoposte a questa tragica pratica ricorrano a cure psichiatriche fino a quattro volte di più rispetto a donne che hanno concluso serenamente la gravidanza.

Sono vittime di psicosi depressive, reazioni di aggiustamento, disturbi neurologici e bipolari. E secondo l'”American Journal of Drug and Alcohol Abuse British Medical Journal“, le donne che hanno abortito sono 4,5 volte più portate alla tossicodipendenza e all’alcolismo. Il dr. Vincent Rue (direttore dell’Institute for Pregnancy Loss in Jacksonville, Florida), in uno studio volto a riassumere le conseguenze traumatiche post aborto negli USA, ha riscontrato questi disturbi presentarsi mediamente nel 50% delle donne che hanno avuto un aborto: incubi e ossessione, flashback, pensieri suicidi riferiti direttamente all’aborto, sfiducia in se stesse, sensi di colpa, timori per future gravidanze, sensazione di disagio vicino ai neonati, insensibilità emotiva, disfunzioni sessuali, disordini alimentari, aumento del consumo di tabacco, attacchi di panico e di ansia, relazioni conflittuali.

Parlare di aborto vuol dire allora affrontare anche l’angoscia che affligge la società d’oggi. Non è un fatto individuale, ma riguarda l’intera collettività. La gente non vuole soffermarsi sulla problematica per nascondere l’evidente disagio di un comportamento egoistico contro natura. Negli USA il 77% della società ritiene che l’aborto sia la soppressione di un essere vivente, ma la maggior parte della stessa opinione pubblica è favorevole alla legalizzazione dell’aborto, almeno in certi casi. Pur riconoscendo il profondo turbamento morale provocato da questo atto, si reagisce negando il dolore che ad esso consegue. L’influenza culturale dell’ondata femminista si ripercuote nei giorni nostri minando seriamente l’ossatura della nostra società, anche confondendone i ruoli: non più padri, non più madri, non più educatori.

La dittatura consumistica ha comportato il dilagare della pornografia e l’aumento della prostituzione, delle violenze sessuali e degli stupri, derivati proprio dalla concezione che si ha della donna. A ciò si aggiunga l’annullamento della famiglia, la mancanza di validi punti di riferimento e il morbo del nostro tempo, la depressione, che colpisce soprattutto il gentil sesso. Fondare il rapporto uomo/donna solo sui diritti e sul potere significa non avere nessuna stima dell’identità femminile, il cui principale compito è quello di dare la vita: in questo orizzonte culturale in cui la libertà ha cambiato connotati, la vita non ha più senso. Il laicismo, il relativismo e il nichilismo hanno portato all’annullamento dei valori e dello spirito ed è da questa constatazione che bisogna ripartire: siamo vuoti a livello di spiritualità. La donna deve rivedere i propri parametri, tenedo presente che uomini e donne hanno un destino molto diverso e che avere una diversa funzione non significa avere diversa dignità.

Uomini e donne non sono uguali: la natura ci è data, non la creiamo noi. Accettare questo è, per l’uomo moderno, il primo passo per rispondere al bisogno di felicità che c’è nel suo cuore. Non occorre dunque ricercare un’uguaglianza innaturale con l’uomo, ma esaltare le differenze e la femminilità. Spetta alla donna rivalutare le proprie peculiarità specifiche, che hanno consegnato alla storia tante illustri eroine, scrittrici e sante. Per recuperare la dignità di donne, dobbiamo riprendere in mano la grande questione dell’amore, nulla è infatti così sacro come l’esperienza della maternità: tutto è per l’altro, fino al sacrificio della vita. A quel punto, non ci sarà più bisogno di nessuna pillola.

Da donna occidentale alle donne occidentali

Il ’68 e il femminismo, ideologie figlie della rivoluzione, hanno seriamente minato l’ossatura della nostra società, confondendone i ruoli: non più padri, non più madri, non più educatori.
Il risultato di tutto ciò è scritto nelle cifre: il dilagare della pornografia e l’aumento della prostituzione hanno raggiunto budget economici impressionanti, con un fatturato di 2 miliardi di euro all’anno; migliaia di aborti, l’annullamento della famiglia, la mancanza totale di validi punti di riferimento e l’inesorabile scristianizzazione del nostro continente. E ancora, pensiamo all’aumento delle violenze sessuali e degli stupri, derivati dalla percezione che si ha sul valore della donna, oppure pensiamo al messaggio mediatico che spesso induce le ragazzine all’anoressia e talvolta alla morte nel vano tentativo di inseguire dei modelli vacui e irraggiungibili.
Oggi, grazie a questa ubriacatura di materialismo, il parametro di valutazione è diventato il consumo, e anche la donna si è voluta adeguare a tale legge; rincorrendo la moda e l’apparire.
Questa dittatura ideologica ha portato alla parificazione mentale, in una società di massa falsamente libera, in cui la donna finisce per correre dietro al pseudo-apprezzamento esteriore. Ma questo parametro è diseducativo in quanto la donna in Occidente si è livellata, si è abbassata a copiare l’uomo e mercificata, spogliandosi della sua dignità.
? veramente necessario allora, interrogarci su quale sia il ruolo della donna, che non deve porsi come oggetto di dominio e di possesso maschile.
Il femminismo non è una soluzione perché, rincorrendo una sterile uguaglianza, ha condotto alla “mascolinizzazione” della donna, che ha tentato di appropriarsi di caratteristiche maschili, deformando la sua naturale originalità.
Chiediamoci cosa intendiamo per libertà: la libertà non il poter tornare alle 3 di notte, non è nemmeno la legalizzazione dell’aborto. Noi occidentali che modello stiamo proponendo? Cosa hanno portato il femminismo e l’emancipazione? Cosa significa emancipare la donna? Cos’è l’identità occidentale? A cosa crediamo? Qual è il nostro modello di donna?
Parliamo di solidarietà, di emancipazione, di parità, ma non abbiamo più cultura, siamo schiavi dell’alto tasso delle droghe, degli aborti, dei divorzi.
Come mai il movimento femminista parla di conquiste sociali ma non si concentra sulla prima vera conquista delle donne, che è quella di veder rispettata la nostra dignità? Non occorre dunque ricercare parità innaturali con l’uomo, ma esaltare le nostre differenze e la nostra femminilità.
La vera rivoluzione in questo senso è stata allora il Cristianesimo. Cristo, di fronte ai suoi contemporanei, si è reso il promotore della vera dignità delle donne. Infatti le parole e le opere di Gesù esprimono sempre il rispetto totale nei loro confronti e questo esprime una novità senza precedenti che si affaccia nella storia. Quando, per esempio, nel discorso della montagna Gesù afferma che “chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” non si rivolge soltanto all’uomo. Scrive infatti Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem che “queste parole riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché, nell’ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo, le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. Questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, ed è nello stesso tempo compito dell’uomo”.
Questa riflessione mi sembra più che mai attuale oggi, in un clima universale che porta alla schiavitù fisica e mentale, seppur con enormi differenze, sia in Islam sia in Occidente.
Le donne che nel Vangelo hanno a che fare con Cristo riscoprono se stesse, si sentono amate, era come se Gesù dicesse loro: “Non venir meno alla tua umanità, sii donna fino in fondo!”; in questo senso possiamo dire che il Cristianesimo ha portato alla vera liberazione delle donne.
Sono infatti numerose le testimonianze e i carismi femminili che possiamo riscontrare, a partire dalla figura di Maria che viene significativamente chiamata “donna” dall’apostolo Paolo. La Madonna infatti, grazie al suo fiat e al dono sincero di sé, è l’archètipo di tutto il genere umano, rappresenta l’umanità intera; il culto mariano è proprio la massima esaltazione della donna.
Abbiamo poi delle sante martiri, come Santa Caterina da Siena o Santa Teresa D’Avila che, a proposito della valorizzazione delle donne afferma che “le anime che non curano il loro spirito sono come un corpo paralizzato o rattrappito che, pur avendo mani e piedi, non li può muovere”.
Vi è la dignità di molte madri di famiglia che, grazie al loro coraggio, hanno avuto un’incidenza significativa sulla società.
Oggi bisogna ripartire da qui, dalla radice: siamo sazi e vuoti a livello di spiritualità, siamo assuefatti. Il laicismo, il relativismo e il nichilismo hanno portato all’annullamento dei valori e dello spirito. Anche le ideologie hanno spogliato la donna della sua essenza; pensiamo ad esempio al comunismo che concepiva la donna come una compagna nella lotta.
La scristianizzazione riporta alla schiavitù: più togli Cristo e più la donna torna indietro nei secoli. Togli Cristo e la donna è schiava: se la civiltà islamica copre le sue donne, la nostra le spoglia!
Sono notizie di questa settimana che un dentista è stato denunciato perché lavorava in cambio di prestazioni sessuali, o che un uomo relegava in casa la sua fidanzata perché voleva, cito le sue parole, “che lei adempisse il suo ruolo di donna di casa”!
Credo fortemente, senza essere fraintesa, non essendo femminista, che sia in Islam che in Occidente la donna è in tutti i casi diventata oggetto; il problema cruciale è proprio l’aver eclissato la donna ad oggetto, con la differenza enorme che qui abbiamo la possibilità per farci valere.
Bisogna allora che si riparta dal concetto di dignità universale e che stia a noi donne rivalutare quelle nostre peculiarità che hanno consegnato alla storia tante illustri principesse, scrittrici e sante. Il coraggio, che ci appartiene, la sensibilità e l’intelligenza dovranno – a mio avviso – essere nostre prime credenziali.
La donna deve rivedere i propri parametri, farsi considerare intellettivamente. Per esempio la donna può fare politica ma si deve differenziare dall’uomo, avendo un ruolo definito perché ognuno – uomo e donna – porta nella società un arricchimento grazie a specificità diverse che si compensano. Una donna che ricopre il suo ruolo in politica come in qualsiasi altro campo, resta donna rivelando così tutta la sua ricchezza.
Allora, è solo riavvicinandoci al cattolicesimo, che rappresenta le radici dell’Occidente, che potremo essere in grado di indicare una contro proposta culturalmente valida per affrontare il problema delle donne in Islam.

Super-uomini o esemplari umani difettosi? L’uomo moderno tra nichilismo ed estetismo

“Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e non di meno sono l’opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto… solo a partire da me ci sono di nuovo speranze”.
Con Friedrich Nietzsche, che non a caso rappresenta uno dei pensatori più amati dai giovani d’oggi, si giungerà alla negazione della libertà del volere: l’io è soltanto un contenitore disordinato di impulsi e di motivazioni che riflette tutti i disagi e la crisi dell’epoca contemporanea.
L’esperienza tragica sulla quale verte la riflessione del filosofo non sfocerà mai in una soluzione positiva: la Chiesa è, per il pensatore della “morte di Dio”, un simbolo dell’illusione umana e di quei concetti consolatori e poco vitali che impoveriscono la vita.
Anche oggi il denominatore comune della mentalità dominante è il merito attribuito al totale disincanto: il fatto di non credere a niente è ritenuto un segno del coraggio e della forza dell’uomo. L’attenzione dello sguardo non è più così rivolta, com’era in epoca classica, all’esterno, ad Altro, ma si focalizza soltanto sul proprio singolo caso, concorre all’affermazione della propria persona. Nietzsche non maschera questo individualismo, anzi, lo esprime parafrasando il linguaggio del Vangelo ma invertendolo di segno: non bisogna amare il prossimo ma “imparare ad amare se stessi” (Così parlo Zarathustra).
Nonostante le sue contraddizioni e il nichilismo di fondo della sua posizione, Nietzsche rimane senza ombra di dubbio un personaggio fuori dal coro: la sua riflessione è profondamente sentita e rappresenta l’espressione della propria esperienza esistenziale,
Il vero dramma si verifica quando, a elevare a schema di pensiero le sue posizioni, sono coloro che aderiscono con entusiasmo alla teoria del superuomo, ma che non percepiscono con la stessa profondità la tensione tragica che ha spinto il filosofo a formulare tali riflessioni. Manca, nell’uomo postmoderno, la coscienza iniziale di ciò che viene da lui riportato e riproposto al mondo intorno a sé.
Emblema dell’auto – esaltazione è, ad esempio, Gabriele D’Annunzio, seguace e sostenitore della teoria dell’oltreuomo nietzschiano: istante, immediatezza ed esteriorità sono le parole chiave dell’esperienza estetica.
Egli coglie soprattutto l’idea del superuomo come affermazione di individualismo, di volontà di potenza. Il vero esteta diviene così colui che è in grado di maneggiare le folle e di distinguersi dalla massa. Il superuomo non possiede nessun legale, è superiore a tutto e a tutti, è padrone di sé e posto “al di là del bene e del male”. Tom Antongini, il segretario personale del poeta, racconta nel suo libro “Vita segreta di D’Annunzio”: “Quando D’Annunzio accenna a tutto quello che la gente fa o dice, usa queste frasi curiose ‘Voi che dite questo…Voi che fate questo…’ oppure ‘Come dite voi…Come fate voi…’. E, intendiamoci, non si rivolge, dicendo così, ai soli italiani, ma al mondo intero. Dal che si dovrebbe dedurre che egli consideri l’umanità come divisa in due sezioni: Gabriele D’Annunzio da una parte e il resto dall’altra. Prova, questa, di una sua persistente aderenza alle teorie di Nietzsche, che arriva al punto di dichiarare che un giorno la storia dell’umanità sarebbe stata divisa in due grandi periodi: quello prima e quello dopo di lui”1.
D’Annunzio coniò la famosa espressione “fare della propria vita come di un’opera d’arte” per indicare questa ricerca continua e quasi ossessiva di nuove sensazioni, spesso anche ai margini dello scandalo.
Il vero esteta deve inoltre essere appassionato di arte, la forma suprema del bello. Questo comporta però una perdita di spontaneità, un calcolo minuzioso per ricavare il massimo dalle situazioni, falsità, artificio e attenzione alla preparazione di luoghi e contesti.
Ritroviamo qui un altro concetto cardine della “filosofia estetica”: l’enorme disprezzo nei confronti della massa dalla quale D’Annunzio-esteta emerge, ma rispetto alla quale non si isola, anzi vive sempre al centro della scena per dimostrare di essere diverso e migliore.
A questo proposito, la superiorità ostentata lo portò a far attendere Mussolini nella stanza degli ospiti (la Stanza del mascheraio), lasciandolo a contemplare, per due ore, la scritta collocata sopra allo specchio: “Al visitatore: Teco porti lo specchio di Narciso?/ Questo è piombato vetro, o mascheraio./ Aggiusta le tue maschere al tuo viso/ ma pensa che sei vetro contro acciaio”2.
La visione edonistica che lo scrittore ha del mondo si traduce nelle più svariate forme, ma singolare è l’aspetto della sostituzione Dio – uomo che viene manifestata con decisione in una sua particolare creazione. Infatti, all’interno del Vittoriale, l’enorme dimora in cui lo scrittore trascorre gli ultimi anni della sua vita, vi è la Stanza del Lebbroso, un luogo ascetico e mortuario, allestito per l’esposizione della sua salma (il che avviene nella notte fra l’1 e il 2 marzo 1938). Il Letto del lebbroso è chiamato da D’Annunzio, “Letto delle due età”, “quasi culla e quasi bara”, sopra il quale possiamo osservare un dipinto di Guido Cadolin raffigurante San Francesco che abbraccia D’Annunzio lebbroso.
Perché il lebbroso, a cui la stanza s’intitola, è proprio lui, il poeta, che così si definisce rinnovando la credenza medievale secondo la quale il lebbroso è toccato da Dio, e quindi sacro.
Nella stanza vi è anche un San Sebastiano ligneo del XVI secolo: D’Annunzio ha scritto nella lingua d’oltralpe l’opera Le martyre de Saint Sébastien, ma, nonostante l’interesse dimostrato nei confronti di una tematica religiosa, non è mai stato credente.
Ironicamente, ma con molto realismo, Charles Péguy scriverà che “San Sebastiano è il patrono di tutti, tranne che di D’Annunzio”3.
Una vita spesa per raggiungere fama e successo e per imporre il proprio io al di sopra e al centro di tutto è un cammino volto al (calcolo del) godimento in ogni esperienza della vita: non esiste che il presente, ed il presente sganciato da passato e da futuro non comporta nessuna continuità e dunque nessuna responsabilità.
Una bellissima ed acuta testimonianza di ciò che questa tipologia di vita comporta ci è data dalla riflessione di un filosofo dell’800: S. A. Kierkegaard afferma che la forma a priori della vita estetica più raffinata è la disperazione dovuta alla consapevolezza del proprio stile di vita basato sul nulla dell’esistenza, sull’assenza di un suo valore intrinseco.
Scrive infatti: “L’esteta. Riguardo al godimento stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico; quello per cui tu sei soddisfatto è l’assoluta insoddisfazione. Io non voglio ora unirmi alle critiche che sento spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile; preferisco dire: in un certo senso hai ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno”.
L’elemento commovente del pensiero del filosofo è la scoperta di una positività nella vita estetica: l’esteta, infatti, nel suo desiderio di numerose e sempre nuove sensazioni, cerca una risposta di senso assoluto, vuol dare un senso alla sua vita e per questo si impegna. Pensiamo, ad esempio, all’attivismo politico in D’Annunzio.
Cercando di possedere tutto, però, l’uomo che rifiuta Dio finisce per non scegliere niente: scegliere tutto equivale ad affermare che nulla ha realmente valore.
Qual è quindi lo stato d’animo che prevale nella persona che sceglie questo percorso di vita? Continuando a rivolgersi all’esteta, Kierkegaard afferma: “Non credere che io voglia entrare nei tuoi segreti, ma vorrei soltanto farti una domanda; rispondi una buona volta, sinceramente e senza tante digressioni: ridi veramente quando sei solo? […] Verrà un momento in cui si deve una buona volta cominciare a vivere. Allora è molto pericoloso essersi frammentati in modo tale da non potersi quasi più raccogliere e si corre il rischio, nella furia e nella fretta, di non poter prendere tutto con sé. E, come conclusione, invece di diventare una persona eccezionale, si diventa un esemplare umano difettoso”4.
L’uomo che si concentra unicamente su di sé e sulla propria affermazione alla fine si perde, si sente svuotato.
Cristo è per Kierkegaard l’unico interprete della “tragedia assoluta”, poiché ha assunto su di sé responsabilmente non il suo peccato, ma quello del “mondo intero”. La religione supera il tragico e la disperazione in quanto mette al centro Dio: la posizione dell’uomo di fede è liberante poiché non sono più le circostanze a decidere per lui e non è più il caso ad avere l’arbitrio di operare delle scelte.