“Oggi prevenire l’aborto significa ricostruire vite che sono passate attraverso questa esperienza”: inizia così il terzo ed ultimo incontro
organizzato dal CAV magentino dal titolo “Aborto e riconciliazione”. Chiamata a testimoniare è la prof.ssa Elena Vergani, neuro-psichiatra, Docente dell’Università di Torino e Primario ospedaliero. La premessa fondamentale è che “per capire il post-aborto dobbiamo capire la maternità”: la cultura attuale compie un riduzionismo biologico, concependo la maternità solo in quanto gravidanza. ? infatti davvero raro che oggi ci si soffermi sul percorso psicologico emotivo della donna, preso in considerazione soltanto nel caso in cui avvengano interventi terapeutici. Quest’immagine della maternità è limitativa, in quanto il fondamento di ogni rapporto è l’amore e la persona si realizza solo nella misura in cui ama: “la relazione materna è il prototipo dell’amore: “voglio che tu ci sia” è l’espressione più forte, perché è senza clausole”. Il microcosmo madre-figlio esprime questo punto segreto dell’umanità: noi non siamo fatti per la solitudine, l’esistenza è reciprocità. Questo processo dell’interpersonalità non si improvvisa, anzi è delicato, è un continuo gesto di donazione nel quale la donna raduna tutte le sue ricchezze personali per donarle al bambino. Nonostante le pressioni della cultura della morte, il modello della madre autentica resiste, perché resta nell’uomo il senso di quella che dovrebbe essere la maternità: “parlare della maternità significa parlare dell’umanità”. Quando, tramite l’aborto procurato, questo meccanismo di fiducia con la vita viene interrotto, “si apre una ferita, il grido di un’umanità violata, di un amore tradito!”. Non si può apprezzare la vita dell’altro quando la si sopprime dentro di sé, come affermò in altre parole anche Madre Teresa: “Se continuiamo a sostenere l’aborto, come possiamo pretendere che non si faccia la guerra?”. Quando la soppressione è considerata un servizio dovuto tutto è stravolto nelle sue fondamenta. Oggi dunque non basta solo prevenire l’aborto, ma bisogna anche ricostruire la vita dove esso è passato, creando così una sofferenza non solo psichica, ma intima, profonda. Ecco l’esperienza di una donna che, dopo l’aborto, vive adesso “come se quella scia di morte lasciata con l’aborto mi avesse completamente risucchiata e avvolta”. Questa sofferenza e questo danno non riguardano solo i diretti interessati, ma ciascuno di noi, perché di fatto “toccano il senso che l’uomo ha del suo venire al mondo”. Se tu parli di diritto di aborto vanifichi anche il mio valore, umili anche me! Come nel Vangelo, in quel passo in cui la donna dopo le doglie del parto, non afferma di essere felice perché è nato suo figlio, ma di essere felice “perché è venuto al mondo un uomo”. La necessità allora è quella di un intervento non solo per il singolo caso, ma sul piano culturale ed educativo: “la madre va aiutata ad interpretare la maternità non come un fatto che le accade, ma come un fatto che lei fa accadere!”.
Nulla è così sacro come l’esperienza della maternità: tutto è per l’altro fino al sacrificio della vita. Nella ricostruzione del rapporto tra la madre e il bambino abortito è importante sottolineare che, togliendo la vita, non si è tolta anche la libertà al bambino di esistere: in qualche modo esiste, anche grazie a te che l’hai concepito; Dio non ha permesso che lui tornasse nel nulla perché l’amore è più grande del male e questo salva. Sapere che il figlio c’è non è una fantasia compensatoria, ma è la forte convinzione che “chi è stato chiamato all’esistenza non è perso”.
Autore: Irene Bertoglio
Femminismo: dalla parte della donna?
Riprendendo un’espressione di Sant’Agostino, per il quale “in interiore homine habitat veritas”, Giuliana Kantzà introduce il suo intervento in occasione della conferenza dal titolo “Nell’intimo delle madri”, secondo incontro organizzato dal CAV magentino.
Lo scorso 12 aprile, infatti, la psichiatra psicoanalista membro della scuola Lacaniana, ha spiegato al pubblico che “accogliere l’altro si può solo se ci si guarda dentro”.
? questo l’approccio della psicoanalisi che ci spinge a trasformare il nostro bisogno in domanda e ci spinge a chiederci: chi sono io? Che cosa vuole una donna?
La stessa base etimologica della domanda è l’amore, in quanto in greco erotao, che contiene il termine eros, significa domandare.
Per Freud, l’assunto fondamentale è che uomini e donne non sono uguali, ma hanno un destino molto diverso. ? a questo livello che si impone la discussione ancora attuale sulle rivendicazioni del femminismo, che negli anni ’70 si connota come movimento per la liberazione di genere a fianco della sinistra.
Le donne cominciano ad allontanarsi dalla “condizione dell’essere” per parlare un linguaggio diverso, quello degli uomini: “quelle che un tempo erano le postulanti dell’amore, sono diventate così le postulanti dell’uguaglianza”.
Ma, come ricorda la docente dell’Istituto freudiano, “noi non siamo come ci immaginiamo di essere, siamo quello che siamo, e ci dobbiamo confrontare con questo”.
L’influenza culturale dell’ondata femminista si ripercuote anche ai nostri giorni: “abbiamo accettato il mutamento che ci ha imposto la società, spostandoci sul versante del consumismo”. Le conseguenze sulla società non sono irrilevanti; basti pensare al morbo del nostro tempo, la depressione, che colpisce soprattutto le donne. A questa condizione “snaturata” della femminilità, si somma il venir meno della funzione del padre, che lascia la donna in uno stato di massima libertà, cioè paradossalmente di massima solitudine esistenziale.
Quelle che, nei secoli scorsi, sembravano conquiste sul fronte femminile, rischiano di diventare oggi una sconfitta: “grazie a questa bulimia dell’avere, abbiamo perduto ciò che ci legava all’essere”. Oggi, infatti, tutto viene medicalizzato; la gravidanza è concepita come una malattia e “ognuno di noi è il referente della propria solitudine”.
Per recuperare la dignità di donne, dobbiamo invece riprendere in mano la grande questione dell’amore, perché “se ci facciamo togliere di mano quello che è nostro non siamo più noi, ma restiamo incapaci di indicare qualcosa per l’altro, e di essere preziose per noi stesse”.
Femminismo: una teoria anti-donna
Davanti alla sconcertante realtà dell’aborto, il “Centro di Aiuto alla Vita Abbiategrasso-Magenta” ha deciso di interrogarsi sul valore della “donna-persona” e della “donna-madre”.
Nasce così la conferenza dal titolo “Liberi di accogliere la vita” dello scorso 5 aprile, alla quale ha partecipato Laura Boccenti, docente di filosofia e collaboratrice del “Timone”.
Secondo la giornalista, per rispondere a questa originaria domanda di significato è fondamentale analizzare il contesto culturale in cui siamo immersi, il quale “si è distaccato dalla verità su ciò che l’uomo è come persona”: spesso si identifica il senso della vita soltanto con la dimensione fisica e biologica. Questo errore parte da un rifiuto del principio secondo il quale “la verità non è proprietà del pensiero, ma è proprietà dell’essere”: la realtà contiene sempre un residuo di mistero che non è governabile e “questo fatto per l’uomo contemporaneo è insopportabile!”.
L’idea più diffusa è quindi quella secondo cui solo la ragione scientifica è libera, neutrale e senza una propria visione del mondo e dell’uomo. In realtà oggi una larga frangia di scienziati tenta di assolutizzare la ragione misurante, idealizzandola come unica ragione, unico paradigma che abbia dignità: ma il “dimezzamento” della ragione non è legittimo, in quanto gli stessi intellettuali, “quando educano i figli, li educano a dei valori, dovendo riconoscere a loro malgrado che i valori sono conoscibili”.
Tuttavia, questa visione della ragione nasce da un’idea di uomo ben precisa: l’uomo è un prodotto casuale di un processo evolutivo della materia, e la ragione serve solo per capire ciò che è utile per affermarci come individui (vedi evoluzionismo, lotta per la sopravvivenza). Il compito della ragione invece dovrebbe essere un altro, quello di “scoprire cosa compie la nostra umanità di uomini”!
? a questo livello che si pone una seconda riflessione: se l’uomo non pensa più di dipendere da una causa e diventa dio di se stesso, allora si impone la “libertà assoluta”: “io decido ciò che è bene e ciò che è male per me. Io non ti impongo la mia scelta e tu non mi imponi la tua”. Ecco l’origine dell’individualismo e del relativismo: la verità delle cose non è conoscibile, esistono solo opinioni soggettive ed emozioni, che diventano guida per l’autenticità della vita. Se non si può conoscere il bene, le scelte sono inevitabilmente determinate dagli orientamenti soggettivi e dalle circostanze. Questa mentalità trova nel femminismo un forte alleato: “la famiglia comincia ad essere concepita come una forma di schiavitù della donna”. La liberazione richiede allora il controllo assoluto dei mezzi per regolare il concepimento e la nascita. Perché oggi un uomo non può incidere sulla scelta dell’aborto? Perché si è affermata questa idea secondo cui la donna deve avere l’assoluto controllo della gravidanza. Da questa convinzione si sviluppa poi anche l’ideologia di genere: “gli essere umani nascono senza orientamento sessuale, che dipende invece dalla cultura. La tua sessualità è libera, te la decidi tu, è polimorfa”. Ecco spiegata la richiesta di legittimazioni giuridiche dell’omosessualità, della bisessualità, dell’amore tra le specie e dell’amore intergenerazionale (leggi: pedofilia).
Se tutto ciò vi sembra teorico vi basti pensare che questa posizione ideologica è sostenuta a livello accademico da molti centri culturali dominanti che hanno imposto termini e testi scolastici, facendo diventare un problema quella che prima era la tesi di una piccola lobby: vi sono scuole nelle quali gli esperti di educazione sessuale presentano teorie pedagogiche in cui le tipologie di gioco non educano alla differenza, anzi, aiutano nella decostruzione dei ruoli e delle identità.
D’altra parte oggi “dire che per natura ci sono uomini e donne è diventato quasi un reato, è considerato discriminazione e omofobia”. Gli obiettivi sono così l’uguaglianza a tutti i costi e la cancellazione forzata e innaturale delle diversità della funzione, senza tener conto che essere donne o uomini non significa affatto avere diversa dignità.
Concepire l’umanità solo sui diritti civili e sul potere vuol dire invece non avere nessuna stima dell’identità femminile, il cui principale compito è quello di dare la vita: significa che in questo orizzonte culturale in cui è la libertà ha cambiato connotati, la vita non ha valore.
Ma la natura ci è data, non la creiamo noi. Accettare questo è, per l’uomo moderno, il primo passo per rispondere al bisogno di felicità che c’è nel suo cuore.
Ferrara: “L’aborto? Una pratica disumana in guanti bianchi”
Quando, lo scorso venerdì 4 aprile, Giuliano Ferrara ha parlato di un “popolo sommerso che ama la vita e che deve essere sostenuto”, non aveva ancora ascoltato le parole che il Papa ha affermato questa mattina:
“il divorzio e l’aborto sono piaghe per la famiglia e per la società e contro chi ne soffre c’è una congiura del silenzio”.
Invitato dal “Centro di Aiuto alla Vita Abbiategrasso-Magenta”, il direttore del Foglio parla alla platea insistendo sulla de-responsabilizzazione caratterizzante la nostra società, che ha attuato un vero e proprio “tradimento dei principi basilari dell’umanesimo”, e che si presenta come “inospitale, fredda e distante dall’idea di maternità”.
Nel presentare le ragioni della sua lista, Ferrara sottolinea in primis come la sua battaglia non nasca “per vanità o per fanatismo” ma per una profonda convinzione, che non si è mai tradotta in una bandiera ideologica. Senza eufemismi, il discorso verte immediatamente sul grave pericolo dei tempi moderni, ossia la selezione eugenetica: “dopo il nazismo che consegnava l’imperfezione fisica ad una logica di abbandono ed eliminava i deformi, si afferma oggi una nuova forma di infanticidio non meno barbarica, quella che si compie attraverso gli strumenti tecnico-scientifici”. Si è imposta infatti oggigiorno l’infausta idea che, per il loro bene, i malati andrebbero eliminati: i più deboli, i “malformati” o coloro che hanno problemi fisici, possono essere così cavie dell’aborto selettivo ed eugenetico, considerato come una fiera conquista sociale. Qui si colloca il grande paradosso della cultura moderna, che “non capisce che l’aborto di Stato come politica demografica non è soltanto inumano, ma è anche un tremendo arcaismo: non c’entra niente con la modernità!”. Forse questo crimine contro la vita è accettato con più indifferenza da parte della collettività, proprio perché è più subdolo. Ma – si chiede il giornalista – “come si può tornare ad una selezione della razza in guanti bianchi?”. Eppure Veronesi (“il santone in camice bianco”) è convinto che oggi sia finalmente possibile creare l’uomo perfetto, una vita futura che deve necessariamente soddisfare i nostri capricci, poiché questo ci permette di essere più liberi, quando in realtà “l’aborto non è moderno; l’abortificio come cultura della soppressione della vita umana è ancestrale”.
Bisogna contrastare la convinzione che la scienza, invece di curare i malati, debba sopprimerli; bisogna smetterla di svilire, di svalutare l’individualità, concepita solo come il prodotto di un incontro biologico!
Ferrara cita un articolo da lui recentemente letto in cui si definiscono coloro che hanno contrastato la 194 come “pervertiti che godono nel vedere il corpo di una ragazza deformata dalla gravidanza”. La gravidanza è diventata così una malformazione. Ecco perché Ferrara si chiede: “come fanno, i ragazzi che sostengono l’aborto, a pensare di essere dalla parte della libertà? Questi ragazzetti di Bologna che si credono marxisti non sanno che l’aborto non è un totem, ma che a volte è una costrizione”. Spesso, infatti, la donna in stato di gravidanza, soprattutto se indesiderata, vive in un clima di solitudine: con la pillola Ru 846 poi, tutta la responsabilità stessa grava sulla donna, che la sostiene in perfetta solitudine.
Il problema allora è innanzitutto culturale: vi è una “indifferenza morale” da parte della società che lascia alla classe medica la possibilità di erigersi a potere dispotico e allo Stato il compromesso della legalizzazione e della depenalizzazione della pratica abortiva. La responsabilità personale è stata così drammaticamente tradita e si esprime nell’insensibilità collettiva di ognuno di noi di fronte alla strage di questi bambini abortiti, “chiusi in sacchetti di plastica come rifiuti”, e vittime di questa nuova forma di selezione demografica.
A questa cultura della morte deve contrapporsi un’altra concezione della vita e del mondo: “la nostra assoluta certezza è quella di trasmettere un modo di concepire l’esistenza che vede il bambino non come un clandestino, ma come una vita che va accolta”.
Per fare ciò, queste sono le domande che Ferrara ci pone: “Dopo aver praticato un miliardo di aborti, cos’è diventato il mondo occidentale? ? veramente possibile separarci da una tradizione durata 2000 anni, nella quale si è incarnata l’idea della libertà dell’uomo moderno? ? lecito e auspicabile abrogare con un colpo di spugna il cuore della nostra civiltà per indifferenza, per rimozione psicologica? Davvero pensiamo sia possibile una società in cui la vita viene disumanizzata? Vi sembra moderno? Riformista? Umanitario? Degno di una società che si dice per la libertà?”.
Al lettore, sicuramente obbiettivo, la risposta.
Aborto. Nella festa della donna le femministe cancellano la maternità
Non è un caso che sia stata fissata per domani, 8 marzo 2008, la manifestazione per la difesa della legge 194. Il problema dell’aborto è infatti concepito da gran parte della società come
una questione esclusivamente femminile,
dalla quale il padre è completamente escluso. Egli non è l’unico a non avere “diritti”, poiché anche il concepito viene rimosso dalla sfera della decisione, spettante soltanto alla madre. Oggi la cultura che si contrappone a quella pro life non si fa chiamare pro death ma pro-choice: il problema viene spostato dal rispetto della vita del bambino al diritto della donna di scegliere.
Sentiamo oggi nei telegiornali alcune femministe che affermano sia arrivato il momento di dare voce “all’autodeterminazione della donna”, compiendo però così un subdolo parallelismo: l’uguaglianza aborto-diritto della donna. Ma questo sarebbe come chiedere a tutti gli omosessuali d’Italia di riconoscersi nelle manifestazioni del gay pride, e far sì che una presuntuosa minoranza imponga la propria visione ideologica su tutta la comunità.
Da donna ritengo che la legge sull’aborto non solo non sia una conquista di civiltà, ma che essa umilii la dignità stessa della donna. Sarebbe allora meglio che domani queste signore sventolassero una mimosa in meno per ridare un po’ di orgoglio alla femminilità, che significa anche difesa di ciò che di più prezioso vi sia al mondo: la vita.
Grazie Oriana. Dopo un anno dalla sua morte
? il momento di usare la penna, ed è con onore che ti dedichiamo queste parole, sperando di trasmettere quello che a te piaceva comunicare: passione per la Vita.
Sì, perché ciò che amiamo ricordare di te è la tenacia e il coraggio con i quali hai sempre scritto fuori dai denti, talvolta appellandoti alla “rabbia e l’orgoglio”, altre volte alla “forza della ragione”.
Perché, per quanto le tue idee possano essere state amate da una parte, ed odiate dall’altra, ciò che tutti dovrebbero riconoscere è il motivo della tua battaglia intellettuale.
Il motivo è lo stesso che ti ha portato a scrivere Un uomo: un libro su un eroe che si batte da solo per la libertà e per la verità, senza arrendersi mai.
Non vogliamo qui soffermarci su tutte quelle tematiche attuali che hai sempre affrontato, costante e determinata, nei tuoi scritti – in quanto sarebbe inutile sottolineare il nostro totale accordo- ma ci pare opportuno ricordare un altro aspetto della tua persona, che unisce tutti i diversi pensieri politici, e addirittura (non si scandalizzino, signori) comunisti, pacifinti, no global, arcobalenisti, pluriculturalisti…
e questo denominatore comune lo lasciamo spiegare a te: “E se la parola Insciallah- destino- Insciallah avesse significato il trionfo della Vita? Se fosse stata la Vita il destino di tutte le cose?”.
Intorno ad ogni tua riflessione possiamo cogliere la profondità e l’acutezza che hai dimostrato di avere nei confronti delle domande esistenziali.
Traspare nei tuoi libri questo forte desiderio di restare attaccata alla Vita, parola curiosamente scritta con la maiuscola, ed accompagnata da un leggero velo di malinconia. Tuttavia, hai capito che solo l’uomo superficiale riesce ad essere indifferente ed apaticamente felice: l’inquietudine spesso è il sentore di un’umanità viva, in continua ricerca. Così hai espresso questo disagio interiore: “Vedi quant’è breve la Vita! Troppo breve, troppo. Sia che tu sia fatto di parole anzi di carta, sia che tu sia fatto di carne, dura quanto un fiore del deserto. Uno di quei fiori che sbocciano al mattino per seccare al tramonto. Ho letto che sono molto belli, i fiori del deserto. Forse sono belli proprio perché durano lo spazio d’un giorno. Questo li rende preziosi e… Mi hanno chiamato, mi chiamano”.
O ancora, più recentemente: “Amo troppo la vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere il regalo dei regali. Anche se si tratta di un regalo difficile. A volte doloroso. Con la stessa passione odio la morte, non la capisco. Capisco soltanto che fa parte della vita e che senza lo spreco che si chiama morte non ci sarebbe la Vita”.
Hai voluto racchiudere queste tue riflessioni in una “filosofia di Vita”: sono diventate, in questa maniera, il tuo modo di pensare, di agire, di amare. Infatti, in Intervista con la storia domandi ad Alekos cosa significhi essere un uomo: “Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere”.
La tua sensibilità interiore lascia spazio alla speranza raccontata, esternata, perfino gridata, ma mai relegata in un angolo: “Morire, una semplice battuta d’arresto: una pausa di riposo, un breve sonno per prepararsi a rinascere, a rivivere, per rimorire si ma per rinascere ancora, rivivere ancora, vivere vivere all’infinito…”.
Te lo auguriamo Oriana.
THANK YOU ORIANA – After a year of her death.
It is time now to write it down, and it is with a great honour that we dedicate to you these words, with the hope that we can do it as you did: with the passion of life.What we would like to remember of you, is the courage and perseverance with which you always wrote, sometimes referring to the “Rage and pride”, or to the “Force of reason”.
Even if your ideas were in part loved and in part hated, what everyone should recognize is the motive of your intellectual battle. It is the same reason that lead you to write “A man”: a book about a hero that fought alone for freedom and truth, without surrender.
Let’s not focus on the topics that you always wrote about with which we completely agree, but we find appropriate to remember another aspect of your being, which links all different political views and – don’t be shocked, gentlemen! – communists, pacifists, no-global,
arcobalenisti and pluriculturalists…
We let you explain this common denominator: “what if the world Insciallah – destiny – Insciallah means the triumph of life? What if it was Life the destiny of all things?”.
In any of your thoughts we can see the deep effort and perspicacity you put towards existential questions.
Through your books we can feel a strong desire towards Life,
with a capital letter, accompanied with a subtle veil of melancholy. However, you understand that only superficial man can be regardless and sluggishly happy: uneasiness often is what makes humanity alive. This is how you have expressed you being uneasy with yourself: “see how short Life is!, Too short, much too short. Both if you are made of words, or rather paper, or made of flesh, hard as a desert’s flower. One of those flowers who blossoms in the dawn and dries out in the sunset. I’ve read they’re really beautiful, maybe because they last just one day. This makes them precious and…they’ve called me, they are calling me”.
Even more recently: “I love Life so much, do
you know what I mean? I’m sure that Life is beautiful even when it’s awful, that birth is the master miracle, Life is the major Gift. Even if it is a hard gift, sometimes painful. With the same passion I hate death, I cannot figure it out. I only comprehend that it is part of Life and without death there won’t be Life”.
These thoughts became your philosophy of Life, your way of thinking, acting and loving. In fact in “Interview with history” you ask to Alekos what does it mean being a man: “means being brave, have dignity and believe in humanity…fight and win”.
With your sensitivity you told, you shout but never put the hope in a corner: “dying…, a break, a short sleep to rebirth, to live again, to die again, but reborn once more, live again, live, live to infinity”.
We wish you all that, Oriana.
Tra scuse e giustificazioni, una vita se n’è andata
Sembra un racconto tragico ma è successo realmente. Una donna incinta di due gemelli ha deciso di
praticare l’aborto selettivo su uno dei due feti affetto da varie malformazioni. L’intervento milanese può fare affidamento solo sullo strumento ecografico per rilevare la posizione del gemello malato.
A confermare la tesi che la vita è appesa a un filo e che una virgola può cambiare il corso degli eventi, accade che – all’ultimo momento – i due feti si invertano e viene così rimosso il feto sano.
Quest’articolo non viene scritto per giudicare insensibilmente una scelta sicuramente sofferta come quella della madre di questi due bambini, ma per porre un quesito. Può una storia del genere essere liquidata con una semplice constatazione, “è un errore medico”?
L’opinione comune si schiera in difesa dell’aborto come scelta matura e responsabile, sottolineando il diritto della madre di scegliere per ciò che viene ritenuto di sua proprietà.
Ma rendere legittima una pratica come questa apre le porte ad ogni ulteriore degenerazione. ? vero, qualche ente pagherà per questo sbaglio, per questo tragico errore, per questo “caso sfortunato”.
Quale consolazione per quel bambino senza nome e senza futuro!
Between excuses and justifications a life is gone. Sounds like a movie trailer but it really happened. A pregnant woman of twins choose a selective abortion of one of the two foetus affected by congenital malformations. The only medical instrument with which the Milan surgery hospital could trust is the ultrasound to reveal the position of the suffered fetus.
But things sometimes change and it confirmed that life is unpredictable: the two fetus inverted their position and they killed the healthy one.
This article is not try to judge a suffered choice this mother made, but to put up a question.
How could you call such a situation a medical error? Public opinion lines up defending abortion as a mature and responsible choice, underling the right of the mother to choose what belongs to her. The risk of creating other degenerated situations like the previous one is much easier considering lawful this practice.
It’s true, certain institutions will pay for this mistake, for this “unlucky case”. What a consolation for that child without name and without future.
Sex and money (di Irene Bertoglio e Giovanni Lissandrini)
? di giovedì 7 giugno il servizio che il quotidiano “Libero” ci presenta sul fenomeno di una nuova piaga che sta paurosamente aumentando, ossia la prostituzione minorile.
Il titolo dell’articolo è estremamente eloquente: “Cacciatori di lolite all’uscita da scuola: basta un regalo”.
Le ragazzine, la cui età oscilla tra i 13 e i 14 anni (appartenenti alla cosiddetta buona società) scelgono volontariamente di prostiuirsi con quarantenni, allo scopo di guadagnare somme per l’acquisto di abbigliamento firmato. Il “dio mammona” sta trionfando; le considerazioni a riguardo sono parecchie ma vogliamo appuntarne qualcuna senza sciorinare ipocriti moralismi e senza la presunzione di risolvere tale problema. Parlare di prostituzione è come parlare della storia del mondo, ma ultimamente – grazie a queste nuove tendenze – emerge il sospetto che il vendere il proprio corpo sia diventato cosa normale, per poter poi usufruire di quei beni di consumo che la nostra opulenta società ci propina in modo martellante. Fenomeni di questa gravità non si sono mai verificati nel corso della storia; l’idea, non sempre vera, che la donna abbia scelto il “mestiere” per necessità e, a volte, per sopravvivenza, viene stravolto da questo nuovo fenomento dove, al contrario, il corpo viene ceduto per acquistare il superfluo. Siamo arrivati al punto che i mass media, con perniciosa forza, regolano la nostra vita, condizionandoci su ogni decisione: oggi è la pubblicità che ci guida nella scelta di qualsiasi cosa, dal come ti devi vestire, come ti devi alimentare, come devi parlare, chi devi votare, dove trascorrere le ferie, …
Non siamo più persone in grado di decidere autonomamente, e il condizionamento psicologico è diventato troppo forte. Occorre, a nostro avviso, uscire al più presto da questo nuovo totalitarismo che, alienandoci, ci rende tutti uguali: tutti schiavi di inesistenti necessità, tutti omologati nel rincorrere chimere; non più persone, ma numeri, consumatori funzionali a questo perverso sistema, dove vali soltanto se appari. Da qui derivano le cosiddette malattie post-moderne, quali l’ansia, la depressione, l’apatia: si cercano sempre nuovi stimoli per riempire il vuoto di esistenze perennemente insoddisfatte. Pur di appagare i nostri istinti tutto è ormai lecito, e si arrivano a scardinare anche quelle sacre e inviolabili regole che hanno guidato l’esistenza dei nostri avi. Nessuno vuole più essere schiavo degli altri e in questo modo tutti sono schiavi di se stessi. Il caso delle lolite è simile a tanti altri fenomeni analoghi in cui, come filo conduttore, vi è sempre l’appagamento egoistico dei propri appetiti. Crediamo e auspichiamo che una soluzione possibile sia quella di ritrovare la nostra autenticità personale, magari rileggendo i testi immortali di autori quali Seneca, Cicerone, San Tommaso, Sant’ Agostino, Ortega y Gasset, per riscoprire ciò che veramente conta.
Shopping: il mercato dello sperma
Nel numero di marzo 2007 di “Flair” viene riportato un servizio intitolato: “donne che decidono di fare un figlio da sole (trovando il donatore su internet)”. La storia racconta di una trentottenne che,
desiderosa di avere un figlio e non avendo trovato l’uomo “giusto”, si rivolge ad un sito internet per acquistare lo sperma da un donatore. Il primo colpo di scena lo si ha leggendo che questi “donatori di sperma, proprio come i cuori solitari, devono rispondere a miliardi di domande: salute, educazione, valori, hobby, passioni…” in modo tale che la “single mother” possa sceglierne uno di suo gradimento. Nel nostro caso, l’aspirante madre in questione, ha privilegiato un uomo “molto richiesto” al quale erano rimaste soltanto “otto unità” per un prezzo di 3100 dollari. Ciò non sembra però sconfortarla, dato che nell’articolo è specificato che la donna “si è messa in lista d’attesa per comprare altro sperma dello stesso donatore non appena fosse stato disponibile”.
Ma vediamo come funziona questa organizzazione “Single mothers by Choice”. Il sito “ospita undici liste e donne di tutto il mondo lo affollano per scambiarsi consigli ed informazioni o per vendere le fiale di sperma avanzate. Tre quarti di loro hanno scelto di concepire con un donatore come fanno le coppie lesbiche da anni: perchè l’adozione è lenta, costosa e spesso negata ad un single, anche se in America è legale. Mentre acquistare sperma su internet non è molto diverso dal comprare un paio di scarpe”.
Jane Mattes, sessantaduenne fondatrice dell’associazione, afferma: “se oggi dovessi scegliere tra diventare mamma o trovare l’uomo ideale, sceglierei di diventare mamma. Per trovare un uomo c’è tutta la vita”. Ora, tralasciando una domanda che tuttavia sorge spontanea su quanto pensi di aspettare ancora la signora Mattes nel crearsi una famiglia, vista la sua non più giovanissima età, un’altra questione sorge all’orizzonte.
Perchè l’impressione è proprio quella che, nel desiderio sfrenato ed ingovernabile di queste donne che pretendono un figlio a tutti i costi, sembra ch’esse dimentichino che dare la vita non è un gioco senza conseguenze e che un bambino non è frutto della soddisfazione di un capriccio momentaneo ed egoista.
Una posizione irresponsabile come quella sopra descritta non tiene conto di quale sia l’ambiente propizio per la crescita di un figlio, ossia quello costituito da un padre e da una madre. Se anche quest’ultima, dopo aver partorito, si trovasse un compagno, egli non sarebbe comunque il padre del nascituro e ciò creerebbe un clima ancor più confuso per il bambino.
Il racconto di “Flair” prosegue con il caso di una donna, Daniela, che ha scelto come donatore non un anonimo, ma “una persona conosciuta, un suo caro amico omosessuale”. Sì, perchè la maggior parte dei bambini nati con questa pratica non conosceranno mai il loro vero padre, padre che avrà figli sparsi per il mondo, figli che non sapranno nemmeno della loro esistenza.
Che fortuna, invece, il futuro figlio dell’intervistata, che potrà conoscere suo padre, un omosessuale!
L’asserzione della stessa giornalista è sintomatico, infatti scrive: “Lo SVANTAGGIO è che il donatore noto avrà sempre pieni diritti parentali… ma questo non preoccupa Daniela: lei vuole che suo figlio abbia un padre, anche se parziale”.
Dopo numerosi tentativi falliti di inseminazione “amichevole”, Daniela si rassegna all’idea del donatore anonimo: “ne aveva anche trovato uno che le piaceva […] ha aperto il computer per mostrarmi il prescelto. Carnagione olivastra, media altezza, capelli folti. Aveva origini cinesi, peruviane e italiane”. Il tutto viene ulteriormente condito dalla convinzione della donna: “ho sempre creduto nel multiculturalismo. E mischiare le razze è più sano: hai presente l’intelligenza dei bastardini? E poi è cattolico come me”…
Il donatore viene dunque scelto sulla base dei propri gusti personali: “la maggior parte delle madri single spiega così la scelta dell’uomo che dovrà dare metà DNA al loro bambino: “Mi è sembrato davvero speciale…””!
Sarà questo bambino il dono di un gesto d’amore, del calore di due corpi che si uniscono per dare alla luce una nuova creatura? No, egli sarà il semplice prodotto di una pratica fredda, disumana, di una situazione folle in cui sembra di assistere ad un concorso di bellezza in cui il vincitore avrà come premio la possibilità di procreare…
Ma nel momento in cui queste madri si accorgono dell’errore di crescere da sole il proprio figlio cosa succede? “Voglio che mio figlio, che è già senza padre, abbia almeno un fratello”: ed ecco un nuovo tentativo di restare incinta grazie alla stessa originaria pratica.
“Voglio un figlio, voglio che mio figlio, voglio…”: è davvero lecito permettere alla nostra società di continuare su questa falsa riga di buonismo pretenzioso senza mai far fronte ad alcuna responsabilità? Pur sapendo che avrebbe dovuto crescere il figlio in maniera solitaria, la madre ha anche il coraggio di puntare il dito contro: “quando è nato Christopher, per settimane siamo rimasti letteralmente soli, nessuno si faceva vivo”.
E le delusioni di Single mothers proseguono con la storia di “una certa Q. che ha raccontato del colpo al cuore che ha provato scoprendo che il suo uomo aveva generato ventuno bambini, comprese quattro coppie di gemelli. E non era finita, dato che era ancora attivo. Nessuno di questi bambini oggi ha più di tre anni, e le loro famiglie – quattro coppie lesbiche, tre eterosessuali e sei madri single – una volta superato lo shock hanno creato una lista tutta loro, dove regolarmente aggiornano le foto dei bambini (tutti biondi e molto somiglianti) e si scambiano notizie”.
Tutte queste persone vorrebbero incontrare il comune donatore e “se non succederà”, dice Q, “non so cosa potrò rispondere a mio figlio quando ad un certo punto mi chiederà “chi è mio padre?””.
Sguardo realista o cecità ideologica
Il vero dramma è descritto da De Lubac: l’umanesimo ateo ha organizzato il mondo contro Dio ma alla fine si è rivelato anche contro se stesso!
Ciò nonostante, all’interno di questa tragedia è stato possibile riproporre all’uomo l’annuncio cristiano nella sua assoluta originalità, rivolgendosi non al militante di una ideologia, ma direttamente a Dio.
L’uomo, vinto ma non annichilito dal peccato, può ritrovare la propria umanità attraverso la presenza positiva del Creatore, può erigere la sua vita sulla speranza: è in questo incontro che la ragione umana nell’impatto con la fede trova possibilità di essere valorizzata. Il compito dell’uomo è allora quello di ricercare ciò che ancora non possiede, il domandare greco come cammino per la conoscenza di sé. Questa tensione è il requisito per un’esistenza umana finalmente rilevata nella sua identità profonda.
Non si incoraggia ad una critica nauseante e superficiale: non sosteniamo un ottimismo ingenuo ma nemmeno uno sconfittismo pessimista; il realismo ci motiva ad essere attivi e non dei meri telespettatori del teatrino politico. Questa dose di sano realismo permette di tenere lo sguardo vigile cercando di scoprire il bene ed il bello e di lasciarsi stupire dalla realtà.
Il problema è un atto profondo di orgoglio giocato sul concetto di Chiesa, vista come un’organizzazione umana o come corpo di Cristo: essa è detta universale proprio perché ha un respiro più ampio. La fede è il semplice riconoscimento di una Presenza, un incontro che ci abbraccia: altrimenti, qualsiasi altra visione della fede, seguace della disciplina o dell’ordine mentale, ci portano a vedere un Dio pronto ad aspettare la nostra morte, per decidere con una biro ed un block notes in mano per quanti anni, mesi, giorni, minuti e secondi dovremo scontare la nostra pena eterna.
Uno scritto di C.S. Lewis, L’uomo nato cieco, ci aiuta a capire quale sia il giusto atteggiamento da tenere di fronte alle cose: Robin, appena rientrato dalla clinica per un’operazione che gli ha donato la vista, non riesce a darsi pace nella ricerca della luce. Tutte le spiegazioni che gli vengono date dalla moglie circa la luminosità degli oggetti, dei paesaggi circostanti, sembrano non esaurire la bramosia dell’uomo. Inizialmente il lettore viene affascinato da questo desiderio del protagonista di guardare oltre la superficialità, poiché sembra che ci sia un significato più profondo nascosto dietro ogni cosa, che ancora non si riesce però a cogliere.
Una mattina, mentre la moglie Mary è a letto ammalata, Robin compie in casa delle azioni chiudendo deliberatamente gli occhi per provare ancora le sensazioni che aveva sperimentato quando era cieco: facendo ciò trova inaspettatamente piacere e sollievo dati anche dalla “dolce sensazione di fuga che giungeva dall’assenza di lei”. Decide poi di uscire di casa e giungere nel luogo in cui era stato pochi giorni prima con Mary. Scorge così un pittore nei pressi dei bordi di un precipizio che, disegnando, gli spiega la sua intenzione di voler catturare la luce: Robin entusiasta e con tono vendicativo nei confronti del mondo si compiace nel credere di aver trovato qualcuno con cui condividere la sua presunta superiorità intellettuale.
Si avvicina poi al precipizio: “l’espressione del volto del pittore cambiò: “Ehi, è pazzo?”. Fece per afferrare Robin, ma era troppo tardi. Era già solo sul viottolo. Dal fondo di un nuovo e subito svanito squarcio nella nebbia non giunse alcun grido, ma solo un suono così secco e netto che ce lo si sarebbe difficilmente aspettato dalla caduta di una cosa così soffice come un corpo umano; quello, e il rotolare di alcune pietre spostate”.
Una morte priva di umanità dunque, un tonfo come di qualcosa di prettamente materiale, privato dell’anima: ecco il destino di una figura impregnata di ottusità ideologica, che decide di cercare in modo solitario la Verità. Questa presunzione, che spesso tutti ci portiamo dentro, ci fa spacciare per “luce e reale” ciò che invece non è altro che la nostra idea: davanti alla realtà corriamo il rischio di negare l’evidenza in nome di una raffigurazione che noi stessi compiamo, che ci siamo prefigurati a priori, prima di “acquistare la vista” (tanto che di fronte ad una realtà diversa dall’immaginata, Robin preferisce richiudere gli occhi e vivere come prima, piuttosto che affrontarla).
Ma questa non è nient’altro che la posizione infantile di chi, senza esperienza e infastidito da una guida, si ritiene in grado di quella forma mentis che coglie e capisce tutto, senza nemmeno riuscire a gustare ciò che ha intorno.
Non a caso è il titolo del libro: non si parla di cecità fisica, ma di una condizione esistenziale insolubile.
Robin aveva riacquistato la vista, ma, indipendentemente da tutto, era cieco.