Puttanieri e moralisti d’Italia

La stessa cultura che ha sostenuto il divorzio e l’aborto, eliminazione cruenta di una creatura innocente, e che ha veicolato la pornografia, il “libero amore” e quant’altro; quella stessa cultura che ha portato in Parlamento, come simboli di una visione “aperta”, e non “sessuofobica” della vita, Cicciolina e Luxuria, e che ogni giorno che Dio manda in terra combatte la morale cristiana della famiglia e degli affetti, oggi, improvvisamente, riscopre nientemeno che la purezza verginale, e marcia con sciarpe bianche come gigli, urlando contro il mercimonio, la promiscuità e ogni altra morale nefandezza.

 Potenza dell’ipocrisia. Onnipotenza della mentalità giacobina, che utilizza tutto e il contrario di tutto, senza vergogna, pur di demonizzare il Nemico, trasformandolo nell’ostacolo, metafisico, all’avvento del Bene e della Giustizia. Ebbene, questa breve riflessione, mi apre ad un invito, a tutti i partecipanti alla manifestazione di indignati/e sciarpati di bianco: passando lungo le strade e le piazze che vi porteranno al grande raduno catartico, in preda al furore sacro che vi anima, abbattete le lapidi e i simboli che ancora ricordano i “padri della patria”!

 Fate un lavoro completo, per favore, contro i satiri di oggi e di ieri, negandovi solo, se la coscienza richiamasse, improvvisa, il suicidio. Troverete sicuramente, lungo la strada, almeno una statua equestre di Garibaldi: abbattetela.

L’eroe dei due mondi, è ora finalmente di dirlo, era un grande puttaniere, anche se per “Repubblica” di allora era un eroe, del libero pensiero, dell’anticlericalismo, dell’odio alla Chiesa “sessuofobica”. Lo raccontano i suoi biografi, anche i suoi entusiasti celebratori. Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi”, ricorda solo alcune delle sue amanti: Anita, Emma Roberts, la serva Francesca Armosino, la baronessa Maria Esperance von Schwatrz, la contadina analfabeta Battistina Raveo, “tra i pochi abitanti dell’isola (Caprera) l’unica donna cui può rivolgere la sua virilità”; e poi la trentenne Paolina Pepoli, vedova del conte Zucchini, la diciassettenne marchesina Giuseppina Raimondi…

 Senza contare le innumerevoli avventure lampo. Scrive infatti Scirocco che Garibaldi, già anziano, “da vecchio marinaio coglie facili occasioni quando va alla Maddalena e in Sardegna, per la caccia e gli acquisti. La presenza di una donna giovane, senza pretese, è una tentazione cui cede volentieri. Non è abituato a precauzioni”, e sparge a destra e a manca figli cui non dedicherà alcuna attenzione. Sulle avventure sentimentali di Garibaldi, Luca Goldoni ha scritto un intero libro, “Garibaldi, l’amante dei due mondi”, da cui emerge il ritratto di un donnaiolo senza scrupoli, capace di consumare amori furibondi tra una battaglia e l’altra come pure nei periodi di noia e di inattività, sino alla fine.

 Eppure Garibaldi era anche un perfetto moralista: distruggerne la statua, o invitarlo alla manifestazione? Ricorda Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita”, che “l’ultimo suo ventennio di vita l’eroe dei due mondi lo impiegò anche a scrivere, dedicandosi alla letteratura. Si mise a comporre patetiche opere anticattoliche, tutte a sfondo sessuale, con gesuiti depravati e assassini che si innamoravano di belle donne, le violentavano e poi venivano puniti dai patrioti”.

 Ma non c’è solo Garibaldi tra i tombeur de femmes, magari moralisti, che hanno creato l’Italia risorgimentale.

Camillo Benso, conte di Cavour, il re Vittorio Emanuele II, Mazzini, Crispi, e tanti altri, non erano da meno. Racconta le loro gesta Gilberto Oneto nel suo “La strana unità”. Se Garibaldi “ha tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti” e di figli, “anche Mazzini miete successi amorosi” in gran numero, approfittando della sua aria di profeta e di rivoluzionario misterioso: “al suo fascino soggiacciono Adelaide Zoagli, madre di Goffredo Mameli; Giuditta Bellerio, vedova del cospiratore reggiano Giovanni Sidoli; Susan, moglie inglese del patriota Pio Tancioni: Emile, moglie del carbonaro Carlo Venturi; l’inevitabile Jessie White, che tanto ama l’Italia da frequentarne appassionatamente tutti gli eroi più indomiti…”.

E Cavour? Il conte, ricorda Oneto, “ha un debole per le signore un po’ attempate, ovviamente mogli di altri, come la Marchesa Clementina Guasco di Castelletto e la contessa Emilia Nomis di Pollone, ed ha una lunga relazione con la ballerina ungherese Bianca Sovertzy, moglie di Domenico Ronzani…”.

Vito Di Dario, nel suo “Oh, mia patria!” rammenta che le numerose lettere d’amore a svariate donne di Cavour erano così “sconvenienti” che vennero distrutte dagli eredi. Il conte era l’uomo, ricordiamolo, che non esitò ad inviare a Parigi la cugina diciottenne, già amante di Vittorio Emanuele – anche lui un vero puttaniere alla caccia continua di donne di corte e di bordello, di cui Cavour teneva nota per poterlo ricattare- , per sedurre Napoleone!

E Crispi, il feroce nemico della Roma papale, vagheggiatori di imperi africani? “Neppure in età avanzata smette di essere un impenitente donnaiolo”, tanto che la moglie Lina Barbagallo deve scrivere al vecchio servitore di famiglia: “Vi ordino di non portare più puttane a don Ciccio”. Il Foglio, 10/2/2011 continua

Domenica 6 febbraio: giornata delle primule

Domenica 6 febbraio i volontari del Movimento per la Vita venderanno le primule davanti alle chiese per finanziare la loro attività in favore delle ragazze madri.

Di seguito uno scherzoso "Manuale della perfetta venditrice di primule" di Anna Maria Pacchiotti:

 La persona in questione, deve essere una volontaria pro-life, alla quale vengono richiesti i seguenti requisiti:

A) essendo la "giornata per la vita" programmata nel periodo invernale, è indispensabile che

1) la volontaria non sia soggetta a malattìe da raffreddamento;

2) che sia dotata di almeno 3 cambi di calzettoni da neve, (onde evitare congelamento delle estremità inferiori), sciarpe ed altri indumenti adatti alla bisogna (i guanti non sono concessi perchè intralciano il lavoro). Indispensabile un giubbotto dotato di tasche interne, dove nascondere il denaro faticosamente incassato (sigillato in appositi sacchetti etichettati con giorno, ora, nome Chiesa) se ci sono tante monete tutt’al più si camminerà un po’ inclinati su un lato; attenzione a scippatori, pie donne che trafugano i fiori, colleghi cleptomani ecc..

3) che abbia il dono dell’ubiquità, nel caso debba trovarsi in tre o più Chiese dove le S.Messe siano programmate a mezz’ora l’una dall’altra;

4) che sia gaia, sorridente, dalla battuta pronta e disponibile ad accorrere in aiuto alle persone più anziane che, avanzando in equilibrio precario sulla neve compattata, rischiano di scivolare; deve saper sapientemente adescare i possibili acquirenti con frasi da ripetere centinaia di volte, che non devono tuttavia apparire banali;

5) l’atteggiamento di cui al punto 4) non deve mutare neppure nel caso in cui il Sacerdote Titolare non ricordi che è la Giornata per la Vita, perchè è anche quella del Malato, e la Direttrice del CAV abbia dimenticato di telefonargli: tante scuse e dolci sorrisi rivolti all’illustre prelato basteranno per potersi piazzare ugualmente con tavolino, fiori, volantini, locandine possibilmente interno chiesa (qualora riscaldata)

Si badi che non tutte le volontarie sono dotate dei requisiti su indicati: i raggiunti limiti di età (donne stupende che hanno fatto tantissimo); le analisi cliniche recenti che evidenziano aumenti di colesterolo, glicemia; sbalzi pressori, artrosi, reumatismi e geloni, sono motivi di esenzione.

B ) Vale la pena di considerare le varie tipologie degli acquirenti:

• quello che ne ha piene le tasche; non di denaro, ma di raccolte fondi (a beneficio di terremotati, alluvionati, oratorio, caritas diocesana ed altro), tira diritto starnutendo, viene colto da improvviso senso di soffocamento e tosse: meglio lasciar perdere..!(30%)

• l’indifferente: arriva normalmente dopo l’omelìa e scappa dalla porta laterale subito dopo la Comunione; " ringraziare se prende un pezzo di Messa" (20%)

• quello che si ferma, infila alcune monetine nel salvadanaio ma non prende la piantina perchè i fiori in casa sua muoiono: (10%)

 • il furbastro, tipo temibilissimo, che infila 1 euro e poi vorrebbe portar via 3 o 4 vasetti (per la mamma, la suocera, l’amica dell’amica..) … stare continuamente ALLERTA, come Bertolaso. (10%)

• quello che dimentica a casa il borsellino; elemento da evitare accuratamente, senza alcuna pietà.. (10%)

• il generoso che, grazie a Dio, sopperisce alle carenze altrui, offrendo 10-20 euro, che innalzano l’incasso e incoraggiano la volontaria a mantenere la "postazione" (Solitamente lo si deve addirittura invitare a scegliere la primula) (20%)

Quando Pio IX voleva un’Italia unita e federale

Il 1848 è l’anno delle rivoluzioni. A questa data sul soglio pontificio siede Pio IX. I moti del 1820-21, guidati dalle sette, si sono rivelati un flop. Lo stesso può dirsi dei moti del 1831. Qual è la posizione del nuovo papa? Pio IX è convinto che sia giunto il tempo di unificare l’Italia, senza spargimento di sangue e senza rivoluzioni: il suo desiderio è una Confederazione.

 A questa data sono in auge le idee dell’abate Vincenzo Gioberti, che col suo neoguelfismo, probabilmente machiavellico, ottiene ascolto non solo in Vaticano ma presso un pubblico piuttosto ampio di moderati e cattolici che vedono nelle sue proposte la possibilità di unificare il paese senza passare da una rivoluzione. Secondo Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita”, Gioberti è l’uomo che volutamente avvicina alle masse il programma nazionale borghese che altrimenti non avrebbe avuto alcun successo. Il suo scopo non sarebbe dunque quello di una confederazione neoguelfa, con a capo il papa, ma la strumentalizzazione del papa stesso per avvicinare i cattolici ad una rivoluzione che altrimenti li spaventerebbe.

Fatto sta che Pio IX, anche su consiglio dell’abate Rosmini, aspira ad una Italia confederata. L’idea federale è così chiara a Pio IX che egli lavora ad una Lega doganale, ostacolata dai Savoia, e chiama, come I ministro pontificio, Pellegrino Rossi, giurista di fama e redattore della Carta Costituzionale della Confederazione Elvetica. Si può tranquillamente dire che nel 1848, oltre al papa, buona parte del clero parteggi per quella che il gesuita Giuseppe Romano chiama una “Lega federativa, diretta a tutelare a ciascuno dei popoli federati i suoi diritti, gli istituti, le proprietà, le franchigie…”.

 Allo scoppio della I guerra di indipendenza, nello stesso 1848, Pio IX, piuttosto ingenuamente, concede l’invio di un corpo di spedizione, guidato dal generale Durando, “come partecipazione simbolica allo sforzo congiunto di quasi tutti i monarchi italiani contro l’Austria”. Durando va ben oltre gli ordini ricevuti, mettendo il papa in grosse difficoltà. In Curia infatti c’è chi, come Corboli Bussi, intimo del pontefice, paragona la ribellione lombarda a quella americana e la ritiene giusta e motivata, e chi invece frena perché ha meglio del papa compreso le mire di Carlo Alberto.

 Pio IX, scrive Giacomo Martina nel suo “Pio IX”, si trova dunque tra più fuochi: “il suo stesso entusiasmo nazionale, vivissimo in quelle infuocate giornate”, che gli fa credere di rivivere i fasti dell’antica alleanza tra i comuni lombardi e Alessandro III contro i tedeschi, e una serie di altre considerazioni che lo spaventano. Anzitutto: può un pontefice partecipare ad una guerra contro una nazione cattolica, senza che vi sia una iusta causa? In secondo luogo: quanto sono forti le spinte anticristiane nel movimento unitario? Soprattutto è presto chiaro, al papa come agli altri sovrani italiani, che Carlo Alberto è disinteressato ad una Lega italiana e non persegue altro che la propria espansione.

Egli, inoltre, mentre da una parte perseguita i Gesuiti, dall’altra cerca di fare del papa il cappellano della sua guerra sabauda. Mentre dunque i piemontesi strumentalizzano il patriottismo di Pio IX, sino a volerlo banditore di una guerra santa antiaustriaca, dall’altra, in Austria, il papa, le cui simpatie italiane non sono ignote, viene al contrario presentato come un perfido nemico del paese. Addirittura come il fomentatore della ribellione lombarda.

 In Austria comincia una campagna di stampa molto violenta contro Pio IX i cui soldati sono accusati di “uccidere gli austriaci”. Le forze anticristiane ne approfittano per andare all’attacco, facendo leva sulle vecchie tendenze giuseppiniste e sui protestanti. Si chiede a gran voce la separazione da Roma, la soppressione di vari ordini religiosi. Mentre in Italia i Gesuiti vengono attaccati con violenza, in Austria il 7 aprile i Redentoristi vengono espulsi da Vienna. Se non bastasse il primate d’Austria minaccia lo scisma.

 In questa condizione Pio IX corre ai ripari: stende un abbozzo di Allocuzione, che viene pubblicata il 29 aprile del 1848, in cui dichiara sia la propria neutralità sia il carattere religioso e non politico della missione della Santa Sede, senza però nascondere la sua simpatia per la causa italiana. Ma l’Allocuzione, che condanna anche l’idea di mettere il papa a capo di un futuro Stato italiano, viene rimaneggiata dalla Segreteria di Stato, che sfuma la simpatia di Pio IX verso la causa italiana: ne esce un proclama, giusto ma “mediaticamente” improvvido, che non soddisfa né l’Austria, né i suoi nemici, ed anzi dà il fiato agli avversari italiani della Chiesa, che colgono al balzo la possibilità di additare la neutralità non indifferente di Pio IX come complicità con il “tiranno straniero” .

 E’ l’uccisione di Pellegrino Rossi, il 15 novembre 1848, accoltellato da un carbonaro, a precipitare le cose, segnando la vittoria dei facinorosi e dei violenti, la fine delle speranze federaliste e l’allontanamento definitivo di Pio IX, costretto alla fuga, da Roma prima e dalla causa unitaria, così come si era delineata, poi. continua Il Foglio, 3 febbraio 2011

Nichi, ma che stai a di’?

Claudio Cerasa, de Il Foglio, raccoglie scherzosamente ogni giorno sul giornale alcune perle di Nichi Vendola. Ne copio qualcuna: "La ri-nominazione del mondo è un punto fondamentale anche per restituire al principio speranza quel profumo di verità che lo distingue dal puzzo di merce contraffatta dei trafficanti di speranze di tele-vendite. La speranza è tensione verso il futuro attraverso l’abbraccio con il mio prossimo. Avanti il prossimo, potremmo dire: che non è il seguente, ma è il vivente nella sua interezza”. Nichi Vendola, “I dilemmi della speranza: un dialogo”, la meridiana, pag. 32

 "Le primarie sono una vera spinta di vita, immettono un alito profumato nel centrosinistra che dice parole che sono in sintonia con la società". Nichi Vendola, 30 novembre 2010

"Perché ho l’orecchino? Mi piaceva l’idea di firmare il mio corpo, inserire una micro-mutazione nella mia corporeità". Nichi Vendola, invasioni barbariche, 26 novembre 2010

 "La soluzione ai problemi non la troviamo se ci sediamo attorno a un tavolo noi che siamo portatori di codici criptati. Noi abbiamo bisogno di fare l’alleanza fuori da questo tavolo con quei soggetti sociali che per esempio si arrampicano sui tetti". Nichi Vendola, 27 novembre 2010

 “Vengo rimproverato, anzi mi viene mossa un’imputazione di reato. Io sono reo di porto abusivo di sogno e devo dire che tendenzialmente mi dichiaro colpevole”. Nichi Vendola, distico introduttivo all’invito per la presentazione del cofanetto (con dvd) “La parole del futuro – La ballata di Nichi Vendola”

Sia pure calibrando ogni verso, ogni suono, ogni stilema, ogni mitologema, con la maestria dei vecchi orologiai (e qui la poesia è tutto un danzare insieme al dio del tempo), in questa densa e rapida silloge Pino Pisicchio ci offre un lavoro persino sorprendente”. Dalla prefazione di Nichi Vendola al libro di poesie di Pino Pisicchio, Ecloga civile, Levante editore, 2010

 “Violenza significa lasciare che la brutalità dei mezzi diventi il cannibale che si mangia la bontà dei fini”. Nichi Vendola, 17 dicembre 2010

 “Cambia molto se la democrazia è non soltanto la fotografia sincronica degli umori ideologico-culturali del presente ma se, in qualche maniera, ha una capacità, se possiamo dire così, di proiezione diacronica, di prospettazione che va oltre il limite generazionale, se il ‘bene comune’ lo preserva con lungimiranza, se assume la bisessuazione del linguaggio che la fonda come principio di realtà ed esodo dalla gabbia del neutro-maschile”. Nichi Vendola, “I dilemmi della speranza: un dialogo”, edizioni la meridiana, pagina ventitrè

 “Viviamo davvero, come nell’apologo orwelliano, in un mondo nel quale le parole significano il loro contrario, sono gusci vuoti, fonemi e sintagmi che danzano nel vuoto, le parole sono evaporate o rinsecchite e per renderle frizzanti c’è chi le riempie di idrolitina”. Nichi Vendola, “I dilemmi della speranza: un dialogo”, edizioni la meridiana, pagina trentuno

 “C’è quel bellissimo discorso di Obama sull’impotenza di fronte alla macchia di petrolio, che è una manifestazione emblematica di consapevolezza del limite del riformismo: dentro il recinto delle compatibilità date non esiste una risposta strutturale”. Nichi Vendola, “La sfida di Nichi”, manifestoLibri, pagina 166

 “Dopo una lunga stagione di modernità orwelliana, di inversione semantica del significato delle parole, una manipolazione del linguaggio e dei segni continuo e permanente, abbiamo bisogno di creare un nuovo vocabolario che ci restituisca il significato autentico delle parole: quel significato umano delle parole che arricchisce il vocabolario del cambiamento. Un vocabolario libero dall’inganno lessicale che abbiamo vissuto in questi anni: buono per un’antropologia di normodotati”. Nichi Vendola, “C’è un’Italia migliore”, Fandango Libri, pagina dodici.

Dostoevskij: se Dio non esiste tutto è permesso

Pensiamoci bene. Che senso ha la vita morale degli individui, se non esiste un criterio superiore di giustizia? Chi è autore della legge? Esiste una legge vera, giusta, che valga per tutti perché superiore, precedente all’uomo, oppure ogni uomo ha il diritto di credere ciò che vuole, di farsi la sua verità morale, la sua etica? L’uomo è un animale in-cosciente, le cui azioni sono sempre “buone”, come quelle degli animali, perché volute dalla natura, regolate dall’istinto, oppure è un essere cosciente (quale differenza!) capace di scegliere, padrone della sua vita, che può essere libero dall’imperiosità brutale dell’istinto e dei sensi?

A ben vedere proprio l’esistenza di una vita morale ha convinto grandi uomini della storia che la natura dell’uomo è non solo animale ma anche spirituale, e li ha portati a porsi la domanda su Dio.

Ne citerò solo due: il grande romanziere Fedor Dostoevskij e uno scienziato moderno, uno dei più importanti genetisti di questo secolo, Francis Collins.

Dostoevskij è il massimo rappresentante del realismo russo, nell’epoca in cui altri letterati, come l’ “ateo-diversamente credente” Emile Zola, ritengono che l’uomo possa col tempo diventare “onnipotente” grazie alle sue conoscenze scientifiche, e possa essere studiato esattamente come un “ciottolo della strada” (il riduzionismo di cui si è detto), non essendo, in fondo, nulla di più.

Dostoevskij “esplora le strade della città, i vicoli più solitari e ignorati, descrivendo le bettole più sordide, gli antri più sinistri, le stamberghe più malsane… il ventre infetto e brulicante di Pietroburgo, sede del vizio e della degradazione umana”, alcolizzati e prostitute, contadini trasformati in operai, costretti ad una vita infame, e poi in rivoluzionari violenti e nichilisti: ma c’è, nell’autore russo, una distanza enorme dal positivismo e dal determinismo di Emile Zola (che dà importanza assoluta all’ambiente, alle condizioni materiali e sociali); c’è una indagine continua sulla spiritualità del singolo uomo, dotato di libero arbitrio, chiamato a scegliere (e qui c’è il dramma esistenziale) tra il bene e il male, la Fede e l’ateismo…

Dio, il male, la colpa (cioè la morale) sono proprio la tematica fondamentale del nostro autore, ignorata dai naturalisti francesi, che fa di lui un romanziere profondamente dotato di senso religioso e, insieme, un "romanziere psicologico", precursore degli esistenzialisti: "i personaggi di Dostoevskij sono anime, spiriti. Anche nei suoi peccatori più immondi e sensuali (i mostri), il loro io carnale consiste non tanto nel corpo e nei loro nervi, quanto nell’essenza spirituale del loro corpo" (D. Mirskij).

Siamo dunque agli antipodi della cultura positivista dell’epoca, come pure di quella odierna: mentre Dostoevskij racconta e approfondisce gli abissi umani, medici positivisti come Emilio Littre affermano che "il delitto è pazzia"; criminologi come Cesare Lombroso analizzano e catalogano i "crani deficienti", ritenendo così di poter chiudere la personalità, la libertà, l’originalità di ogni singolo uomo nelle sue caratteristiche fisionomiche; credendo – anche qui la parola non è a caso – che l’uomo sia definito ed esaurito da ciò che si vede e si tocca, dall’ampiezza del cranio, dalla lunghezza degli arti, dalle malformazioni, dalla volumetria e dai bernoccoli della testa.

Esattamente come faranno i primi teorici del razzismo; o Charles Darwin, quando riterrà che il cranio della donna, di dimensioni più ridotte rispetto a quello del maschio, sia un segno della sua inferiorità ; o i nazionalsocialisti, quando gireranno il mondo, sino in Tibet, per fare calchi di gesso sul volto degli indigeni, per risalire, tramite misurazioni e fisionomia, all’originaria razza superiore.

Un po’ come oggi, allorché sempre più spesso si cerca di far passare una tendenza sessuale, una devianza, o una virtù, come una pura questione genetica.

Al punto che la rivista "Science" suggeriva tempo fa che vi siano dei geni, non ancora scoperti, associati all’altruismo, alla generosità: geni che sarebbero serviti, semplicemente, a mantenere in vita un determinato gruppo di uomini, rendendolo più forte nella "lotta per l’esistenza" .

Per comprendere la visione del mondo di Dostoevskij occorre ripercorrerne, brevemente, la vita: Fedor frequenta ambienti sovversivi, atei, propugnatori di una rivoluzione in Russia, per abbattere lo zar e creare una nuova società. Nel 1849, però, molti di loro, tra cui il nostro, vengono arrestati dalla polizia zarista. Dostoevskij viene condannato a morte, poi lo zar commuta la pena in quattro anni di deportazione in Siberia.

L’unica lettura, in questo lunghissimo periodo, sarà quella di un Vangelo, regalatogli da una donna mentre viene portato a scontare la pena. In seguito a questa esperienza il nostro muterà fortemente prospettiva, divenendo critico verso le proprie idee del passato e mostrando un profondo rispetto per la chiesa ortodossa e l’autorità costituita e un certo disprezzo per gli intellettuali russi che leggono gli illuministi europei disprezzando profondamente la propria terra e la propria patria. Intanto il suo matrimonio fallisce, viaggia per l’Europa, ricadendo di continuo nella passione per il gioco e per le donne, scrivendo articoli di giornale e romanzi a ritmo continuo, anche per far fronte alle spese ed ai creditori (spesso scrive i romanzi di notte, imbottito di caffè e di tabacco per rimanere sveglio).

 La sua vita disordinata si conclude nel 1881. Tra i grandi romanzi spiccano "Delitto e castigo" (1866), "I demoni" (1871) e "I fratelli Karamazov" (1880).

Nel primo di questi compare la tematica, che poi affascinerà Nietzsche, della ricerca della libertà come affermazione dell’io al di là di ogni morale, di ogni coscienza, "al di là del bene e del male". Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un "Napoleone" o un "pidocchio", se appartiene alla categoria della massa, degli "uomini comuni", per i quali la legge morale è sacra, o agli "uomini non comuni", destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie.

Per questo può dire: "Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!"

Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire "uomo-dio" (se si scarta Dio è l’uomo ad essere assolutizzato).

Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto?

Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Lei ascolta le sue miserie e gli dice: "Alzati!…dì a tutti, ad alta voce: "io ho ucciso", allora Dio ti manderà nuovamente la vita", allora la sofferenza, portata con fede, trasformerà l’esistenza: "E’ necessario accettare il dolore e riscattarsi con esso….Ora io porterò la croce di Lizaveta (che era stata uccisa da Raskòl’nikov insieme alla vecchia usuraia, ndr.) e questa qui la do a te….".

Alla fine Raskòl’nikov si reca dal giudice, a confessargli il delitto: viene condannato ai lavori forzati, in Siberia, per otto anni. Sonja lo segue. Ma Raskòl’nikov non è ancora pentito: "Oh come sarebbe stato felice se avesse potuto sentirsi colpevole! Avrebbe allora sopportato tutto, anche la vergogna, anche il disonore. Ma sottoposta a un esame severissimo la propria coscienza, non aveva scoperto nel suo passato nessuna colpa specialmente orrenda, all’infuori del suo fiasco, cosa che poteva accadere a chiunque…".

Si convince che gli uomini che "non si sono fermati" di fronte al cosiddetto delitto "avevano ragione": "io invece non ho saputo proseguire, e perciò non avevo il diritto di fare il passo che ho fatto".

Col tempo però le cose cambieranno: "una futura redenzione", "una nuova concezione della vita" si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un’altra storia, che non racconta.

Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio !

Per concludere, in "Delitto e castigo" è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare.

Nel romanzo "I demoni", invece, Dostoevskij parte dall’"affare Necaev", un intellettuale anarchico che piacerà molto a Lenin, autore del “Catechismo del rivoluzionario”, processato ai suoi tempi per aver fatto uccidere un membro del suo gruppo e che alla fine si suicida.

Dostoevskij sceglie dunque una vicenda reale per esprimere le sue nuove idee politiche. Nel romanzo, che descrive appunto i terroristi, definiti anche "nichilisti" o "demoni", Necaev diviene Verchovenskij e l’anarchico Bakunin diviene Stavrogin.

Entrambi, essendo atei, vivono nella dimensione del "tutto è permesso": Verchovenskij ha un progetto politico, di "distruzione universale", che non si arresta di fronte a nulla: come Marat all’epoca della rivoluzione francese, invita a "tagliare teste", a "lapidare" pur di costruire una società secondo il proprio disegno. Alla fine Stavrogin, impazzito, si impicca; così anche un altro protagonista, Kirillov: il suo è un suicidio metafisico, una dimostrazione di disprezzo verso la nozione di Dio.

Infatti Kirillov afferma: "Se non c’è Dio, io sono Dio…Possibile che non ci sia nessuno, su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio ed aver posto fede nel proprio libero arbitrio, non osi proclamare il libero arbitrio nel senso più assoluto?" E Verchovenskij: "Io, sapete, al vostro posto, per dimostrare il mio libero arbitrio, avrei ammazzato qualcun altro, non me stesso. Potreste essere utile. Vi indicherò chi dovreste ammazzare…".

Ma Kirillov, di rimando:" …io voglio l’affermazione più alta e ucciderò me stesso. Sento di dover proclamare l’assenza della fede. Per me non c’è idea più alta di quella che Dio non c’è…Capire che non c’è Dio, e non capire nello stesso momento che sei diventato tu stesso Dio, è una assurdità".

Anche in questo romanzo l’autore ci dà un messaggio esistenziale chiaro: escluso Dio, l’uomo non può che mettersi al suo posto. Chiamato a decidere, a scegliere, non ha altro metro, altro riferimento, che se stesso, la propria idea, la propria soggettività, il proprio egoismo. L’io che non riconosce una origine, una dipendenza, un limite, si fa inevitabilmente Dio, mentre si proclama ateo.

Ma il più grande romanzo di Dostoevskij è forse "I fratelli Karamazov": quest’opera ha, come altre del nostro, il fascino di un grande racconto poliziesco, ricco di suspanse, nato dalla riflessione su un vero parricidio, di cui Dostoevskij, in Siberia, aveva conosciuto l’autore. "La principale questione che sarà agitata in tutte le parti del libro – scrive Dostoevskij – è la stessa della quale ho sofferto coscientemente o incoscientemente per tutta la vita: l’esistenza di Dio".

Giganteggiano due figure, quella di Alioscia Karamazov, con la sua visione cristiana del mondo (il modello di ciò che l’autore russo vorrebbe essere?) e quella, opposta, di suo fratello Ivan, con la sua tormentata ricerca della libertà attraverso la rivoluzione nichilista, con il suo essere malato di occidentalismo, cioè, per Dostoevskij, di ateismo; con la sua incapacità di accettare certe realtà della religione, come la sofferenza, l’umiliazione e la croce. Ivan, con i suoi discorsi e le sue filosofie, è il vero ispiratore dell’uccisione del padre, sebbene non ne sia l’esecutore materiale.

Anche qui un’uccisione "filosofica", perché con i suoi discorsi ha convinto il futuro assassino, il fratellastro Smerdiakov, che tutto è legittimo, perché Dio non esiste. Lo ribadisce il diavolo ad Ivan: "La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!".

Si ripete, così, lo stesso concetto di Raskòl’nikov e di Kirìllov: "Se non esiste Dio, tutto è permesso".

Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Con la figura di Dimitrij ricompare la dialettica sopra illustrata: "Fratello – dice ad Alioscia – ho sentito nascere in me , dopo il mio arresto, un essere nuovo; un uomo nuovo è risorto. Esisteva in me, ma non si sarebbe mai rivelato senza quel colpo di folgore. Che cosa mi può importare di scavare vent’anni nelle miniere? Non ho paura. Ma un’altra cosa io temo: che quest’uomo risorto se ne vada da me…Anche laggiù, nelle miniere, si può amare, vivere, soffrire. Si può rianimare il cuore intorpidito di un forzato, si può ricondurre dall’ombra alla luce un’anima grande, rigenerata dalla sofferenza, risuscitare un eroe…Non ho ucciso mio padre, ma accetto l’espiazione. Sì, noi forzati saremo uomini sotterranei, privati della libertà, tenuti a catena, ma nel nostro dolore risusciteremo alla gioia, senza la quale l’uomo non può vivere, né Dio esistere, poiché è lui che dona la gioia…Un forzato non può vivere senza Dio, ancor meno di un uomo libero. E allora noi, uomini di sotto terra, dalle viscere della terra faremo salire un tragico inno al Dio della gioia. Viva Dio e la sua divina gioia”. E ancora: "Io voglio soffrire, e la sofferenza mi purificherà…sono innocente della morte di mio padre! Accetto il castigo, non perché io abbia ucciso quel vecchio, ma perché avevo desiderato di ucciderlo".

Delitto, coscienza, libertà, accettazione del castigo, riconoscimento che esiste una legge morale oggettiva, divina: questa, in sintesi, l’antropologia di Dostoevskij. Pochi anni più tardi la Russia sarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione comunista e dall’ondata di morte e di persecuzione di Lenin e Stalin. Il primo, inventore dei gulag, avrebbe affermato: “ Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità…La nostra moralità è nuova…A noi tutto è permesso…Sangue? E sangue sia…” .

Stalin, invece, prefigurato profeticamente, insieme ai suoi seguaci, nei “demoni” senza Dio di Dostoevskij, avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali…lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti” .

Dio, cioè una legge morale superiore e precedente all’uomo, non fu dunque per l’ “uomo d’acciaio”, per l’autore dello sterminio dei kulaki, per il carceriere dei gulag, per l’inventore della “grandi purghe”, un “impaccio” e un freno! Fu, Stalin, un uomo emancipato da Dio, un Raskòl’nikov, un Ivan, un Necaev coerente sino alla fine e senza pentimenti. Non temette la Giustizia di Dio, né ritenne di dover invocare la sua Misericordia, perché aveva deciso di non riconoscere alcuno al di sopra di sé.

da "Perchè non possiamo essere atei", Piemme, 2010

Risorgimento e società segrete

Il movimento risorgimentale, si dice spesso, prese una direzione anticattolica soprattutto dopo il 1849 e la decisione di Pio IX di non partecipare alla cacciata dell’austriaco. Questo è in parte vero, e ci torneremo, ma incompleto.

Una forte carica di odio verso il cristianesimo è presente sin dall’origine dei moti liberali. Essa è infatti implicita nella “religione della patria” promossa da svariati personaggi di tendenze romantiche. Quando un Foscolo o un Mazzini, parlano di Patria e di Nazione, si sente nei loro accenti il fanatismo, una eccitazione irrazionale, un furore passionale privo di qualsiasi profondità speculativa, che agli occhi dell’uomo contemporaneo, che del nazionalismo ha visto i frutti, risulta, oltre che retorico, ridicolo. Questa “nuova divinità del mondo moderno” (F.Chabod), la Nazione, più costruzione culturale che dato reale, alla quale si sarebbe costruiti altari e immolati i popoli, non può piacere a molti cattolici, anche a coloro che desiderino un’ Italia senza gli austriaci. Inoltre questa mentalità “patriottica” si afferma, oltre che tramite la fumosità della letteratura, nelle logge e nelle società segrete.

L’Italia dei moti liberali del 1820-1821 è brulicante di sette: i Federati lombardi, la Carboneria, gli Adelfi, i Sublimi Maestri Perfetti

Queste società segrete non sono tali solo per sfuggire alle polizie dell’epoca, come spesso si vuol far credere. Sono segrete come concezione. Sono gli stessi adepti che non ne conoscono gli scopi, se non strada facendo. I Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonaroti, per esempio, professano il deismo e la monarchia costituzionale, al primo grado; la repubblica, al secondo; una società di stampo comunista, al terzo. Ogni grado, ricorda il Candeloro, ha “un proprio fine senza conoscere il fine del grado superiore e in particolare quello del terzo, che era segretissimo e composto certo di pochissime persone”.

 Il tutto, come scrive Buonarroti stesso, il cui testo sulla cospirazione comunista di Babeuf viene pubblicato in Italia nel 1829 con grande successo, con una ulteriore ambiguità: una “società segreta è democratica nei suoi principi e obiettivi, ma le sue forme e la sua organizzazione non possono essere quelle della democrazia”. Esattamente come sostiene Garibaldi, che al principio delle sue Memorie, si definisce “repubblicano ma sempre più convinto della necessità di una dittatura onesta e temporaria”, per Italia, Spagna e Francia.

 Nelle logge, da cui anche Garibaldi proviene, si urla da mane a sera contro la tirannia e per la “libertà”, come usava nei club giacobini, mentre è proprio la struttura di queste società segrete, come lo era quella del partito giacobino, ad essere del tutto tirannica ed antidemocratica.

Chi fa parte delle società segrete? Chi scorra la storia di quegli anni non trova il popolo, quanto conti e marchesi (i Porro, i Confalonieri, i Santorre di Santarosa), ricchi borghesi, e militari filonapoleonici (i Pepe, i Morelli e i Silvati, i fratelli Bandiera…). Infine queste società segrete, che spesso lottano apertamente contro la Chiesa cattolica, costituiscono, esse stesse, una chiesa.

La Carboneria meridionale, ricorda lo storico M. Themelly, è composta soprattutto dalla nobiltà e dalla borghesia fondiaria, e prevede, oltre alla segretezza, giuramenti terribili, rituali macabri, persino “omicidi rituali” , “espropri e rapine”, accanto a parole d’ordine come “Filantropia”, “Libertà o morte”, ma anche “Tristezza, morte, terrore, lutto”.

 La retorica carbonara mescola poi “il linguaggio evangelico con quello democratico”, religione e politica, deismo e superstizioni popolari. “Al centro dell’esperienza settaria è il grande mito della rigenerazione che la Carboneria esprime assimilando lo schema cristiano della salvezza. Di questo processo di rigenerazione o ‘carbonizzazione’ il simbolo più alto è il Calvario, la passione, morte e risurrezione che diventano momenti centrali del mistero settario. Cristo diviene il simbolo del carbonaro…ma la salvezza carbonica non è come quella cristiana rigenerazione morale e perfezionamento morale, bensì ‘cambiamento politico’” (Themelly, introduzione a L. Minichini, “Luglio 1820: cronaca di una rivoluzione”, Roma, 1979).

 La Carboneria, che non disdegna l’ assassinio politico e l’attentato terroristico (vedi l’uccisione di Pellegrino Rossi o l’attentato alla caserma Serristori), ha infine le sue Iniziazioni, i suoi calendari, i suoi Catechismi e le sue Istruzioni.

Recita una di queste: “Vi ha un pensiero che ha sempre preoccupato gli uomini che aspirano alla rigenerazione universale. Il pensiero è quello della liberazione dell’Italia, da cui deve uscire, in un dato giorno, la liberazione del mondo intero, la Repubblica fraterna e l’armonia dell’umanità”.

Non è dunque difficile scorgere, nello spirito patriottico dei settari e di molti romantici risorgimentali, la violenza ed il furore del nazionalismo; nella loro “democrazia” settaria, l’embrione delle dittature “popolari”; nella loro “rigenerazione universale”, il messianismo e l’utopismo proprio delle ideologie di morte novecentesche. continua Il Foglio, 27 gennaio 2011

Un’ altra storia

Sono un figlio dell’Italia unita: un nonno di Genova, ex regno di Sardegna, due nonni siciliani, ex regno delle Due Sicilie, e una nonna romagnola, del fu Stato Pontificio. Vivo da sempre a Trento, città che fu asburgica, ultimo acquisto dell’Italia unita. Impossibile non sentirsi italiano. Ma italiano, penso, mi sarei sentito anche se fossi nato prima della data fatidica del cosiddetto Risorgimento.

 L’Italia, per me culla dell’impero romano e della cristianità; sede dei papi, di innumerevoli santi come Tommaso e Francesco, patria dei comuni, delle università, degli ospedali, di Dante, Petrarca, Giotto, Michelangelo, dell’arte e della musica…: senza bisogno né di Cavour, né di Garibaldi, né di alcun “risorgimento”. Mi sembra dunque inevitabile, in questo centocinquantesimo anniversario dell’ unità politica d’Italia, reagire alla retorica ufficiale, più blanda, certamente di un tempo, chè le rughe non si possono tener nascoste per sempre, ma ciononostante fastidiosa e petulante.

Se il Risorgimento non piacque ai cattolici, ma neppure ai comunisti come Gramsci; se Gobetti scrisse sul “Risorgimento senza eroi” e Tommasi di Lampedusa parlò dell’Italia degli sciacalli e delle iene…mi sarà permesso, sulla scia di altri, e non per puro gusto della polemica, intraprendere un piccolo viaggio, a puntate, sull’ “altro Risorgimento”. Non quello ufficiale, appunto, tutto eroi di cartapesta, magniloquenza romantica e ideologia, ma quello vero, con i suoi immensi difetti. Così immensi che 150 anni dopo un grande partito italiano del nord, propone una revisione della storia, mentre un astro della politica del sud, solo di nome Lombardo, toglie dalle strade della sua Sicilia i nomi degli eroi patri, che compaiono ancora, ossessivi, assillanti, dovunque. Come se la storia della Sicilia iniziasse nel 1861 e fosse fatta solo da un Nizzardo o da qualche piemontese che parlava meglio il francese dell’italiano.

Non avrò altro intento che dare un’altra visione della storia, non per dividere, come direbbe qualcuno: sia perché sono, come ripeto, italianissimo, e desidero rimanerlo, sia perché le divisioni che vi sono tutt’oggi non le produce chi le ricorda, ma le ha create, appunto, in buona parte, proprio il cosiddetto Risorgimento. Per parlare di questo periodo è giocoforza cominciar dalla Restaurazione, cioè da quell’avvenimento che, nella storia ufficiale, viene descritto a tinte fosche, perché funga da contraltare per le presunte grandezze successive.

Cosa fu la Restaurazione? Oggi ne conosciamo i limiti. Il più clamoroso dei quali fu forse che i restauratori violarono i loro stessi principi, “dimenticandosi”, su pressioni dell’Inghilterra, di restaurare due antichissime repubbliche: quella di Genova, regalata ai Savoia, e quella di Venezia, presa dagli austriaci. Errore gravissimo che costò all’Austria da una parte il rafforzamento di quello che sarebbe stato il suo principale nemico, il Piemonte sabaudo, dall’altra una occupazione che seppur ricca di buoni frutti, portò agli Asburgo l’odio di tanti italiani.
 Chissà se il Risorgimento ci sarebbe mai stato, se la Restaurazione non avesse fatto tali errori; se avesse limitato il potere della borghesia illuminista che aveva fatto man bassa di beni comuni e della Chiesa nell’epoca di Napoleone; se l’elite militare filo napoleonica, assetata di guerra e nutrita della “fraternità” delle baionette, fosse stata messa all’angolo… Fatto sta che la Restaurazione venne dopo gli orrori della rivoluzione francese, il genocidio vandeano, le migliaia e migliaia di ghigliottinati in nome della fraternitè rivoluzionaria.

Venne dopo ben 19 anni di guerre napoleoniche e dopo i suoi saccheggi – soprattutto, ma non solo, in Italia-, di opere d’arte, ricchezze, uomini. Ricordiamo almeno i 500.000 morti, mai strage simile si era vista prima, sacrificati nella campagna di Russia da quell’uomo che era stato giacobino e repubblicano e che si era poi messo in testa la corona, da solo, a significare che non vi era altro autore della legge che lui stesso: Napoleone, colui che, come aveva capito Dostoevskj, annunciava le dittature atee del Novecento… Il tanto vituperato Congresso di Vienna, dicevo, ebbe il grande merito di non umiliare la Francia, colpevole e vinta, e di permettere così numerosi anni di pace.

Come ricorda Massimo de Leonardis infatti non vi fu “nessuna guerra tra stati europei fino al 1853, quando scoppiò la guerra cosiddetta di Crimea, nessun conflitto su scala continentale per un secolo, fino al 1914”.

 Ma la Restaurazione sarebbe stata battuta dal principio di nazionalità, anticamera del nazionalismo, dalla santa “sovranità popolare” e dall’idea dello Stato centralizzato, giacobino e, appunto, nazionalista, tutte idee cavalcate dal Risorgimento, che avrebbero generato le dittature (proprio nei due paesi di più tardo “risorgimento”) e ben due guerre mondiali. Quanto superiore, il Congresso di Vienna, ai trattati iniqui, cent’anni più tardi, di Versailles, che, sancendo la morte dell’Impero multinazionale asburgico, segnarono la vittoria definitiva del Risorgimento e del nazionalismo e favorirono, solo vent’anni dopo, lo scoppio del secondo conflitto mondiale! Il Foglio, 20/1/2011  continua

Cuba divora i suoi figli

Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista

Nel febbraio dello scorso anno Orlando Zapata, dissidente cubano, ostile al regime dittatoriale di Castro, è morto in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame. Zapata era un ex muratore di Santiago di Cuba, e aveva solo 42 anni.

La sua morte, così spettacolare, ha destato per qualche tempo l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica per una delle dittature comuniste ancora vive nel XXI secolo. La protesta tramite scioperi della fame, sino alla morte, è una consuetudine degli oppositori cubani, sin dal principio del regime, come dimostra, tra le altre, la vicenda di Pedro Luis Boitel.

Costui, già nemico di Batista, era anche un oppositore di Fidel Castro, e fece l’errore di candidarsi alla presidenza della Federazione studentesca universitaria. Arrestato di lì a poco, venne condannato a dieci anni di prigione, durante i quali in più occasioni fece degli scioperi della fame per protestare contro il feroce trattamento subito.

Il 3 aprile 1972 Boitel iniziò l’ennesimo sciopero: al quarantanovesimo giorno cadde in uno “stato di semicoma”: morì dopo altri quattro giorni, senza cure e senza che alla madre fosse neppure permesso di vedere il corpo del figlio. Il fatto è che a Cuba non solo è estremamente facile finire nella galere-gulag di Castro, ma è altresì terribile rimanervi. In più occasioni infatti sono stati denunciati l’uso dell’elettrochoc, di cani da guardia lanciati contro i prigionieri, la privazione del sonno e la rottura del ritmo del sonno come modalità per sfiancare i detenuti e portarli, non di rado, alla pazzia…

Le celle cubane godono di soprannomi inquietanti. Tostadoras (tostapane), per il caldo insopportabile che vi regna; ratoneras (buchi per topi), quelle piccolissime e sotterranee; gavetas (gabbie), quelle piccole e strette come delle gabbie…

A marcirvi dentro, per anni e anni, magari in mezzo agli escrementi, senza acqua né assistenza medica, gli oppositori, religiosi e politici, a cui è negato persino il titolo di uomini: vengono infatti definiti, dal regime, gusanos cioè vermi.

Dal 1959 a oggi, secondo Pascal Fontaine, collaboratore del “Libro nero del comunismo”, circa centomila cubani “hanno sperimentato i campi di lavoro” e “sono state fucilate dalle quindicimila alle diciassettemila persone”. In verità queste cifre sembrano prudenziali, visto che i cubani che sono riusciti a scappare all’estero, evitando la morte, frequente, nelle acque dello stretto della Florida, parlano di cifre anche quattro volte superiori.

La morte di Zapata, cui si accennava, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza di altri dissidenti che coraggiosamente affrontano il regime con incredibile coraggio e speranza. Tra questi il celebre Guillermo Farinas, psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva cominciato un lunghissimo sciopero della fame che lo ha ridotto alla condizione di uno spettro, ormai solo pelle e ossa. Farinas ha interrotto proprio in questi giorni la sua protesta grazie alle trattative tra chiesa cattolica e regime, che hanno portato alla liberazione di 52 prigionieri politici.

Ma se queste notizie sono più o meno note, molto meno conosciuto è il fatto che uno dei motivi che hanno spinto diversi cubani a dare la propria vita per combattere il regime – oltre alla mancanza di libertà, politica ed economica -, è la dissoluzione morale del paese promossa dal regime di Castro.

Già in un messaggio ai presidenti statunitense e centroamericani in occasione del vertice di Costa Rica, del 7 maggio 1997, i dirigenti degli esuli cubani descrivevano il dramma della loro isola anche sottolineando l'”enorme tragedia di un’isola carcere comunista con i più elevati indici di suicidi e di aborti dell’emisfero e con una prostituzione, anche infantile, che ha trasformato Cuba in un vergognoso ‘paradiso sessuale’ per turisti senza scrupoli” (Cristianità, n.265-266, 1997).

Quando Castro andò al potere, infatti, dichiarò in più occasioni un concetto che anche i bolscevichi russi avevano espresso chiaramente sin dalle origini: il comunismo realizzerà il bene dei lavoratori e dei proletari, e la nuova condizione sociale ed economica eliminerà anche la piaga della prostituzione. Quanto all’aborto, si proclamò che la sua legalizzazione avrebbe sconfitto prima l’aborto clandestino e poi l’aborto stesso.

Le cose, a Cuba come nell’Unione Sovietica, non sono andate propriamente così. Per tanti anni Cuba è stato uno dei paradisi per pedofili del mondo, in cui giungevano persone da vari paesi, sapendo di trovare giovani donne ed anche bambine, disposte a tutto, per qualche soldo.

Con il regime che non solo chiudeva gli occhi, ma in molti casi favoriva lo squallido commercio del turismo sessuale, pur sempre portatore di ricchezza. Chiaramente, insieme alla prostituzione e alla pedofilia, nell’isola si è diffusa terribilmente la piaga dell’aborto: secondo alcune fonti tra il 1968 e il 1996 si sono registrati 5,6 milioni di nati vivi e si sono effettuati 2,3 milioni di aborti.

Un dato sicuro, di cui semmai si può dubitare che sia per difetto, sono i centomila aborti annui che si compiono in questo paese, con solo undici milioni di abitanti! Una cifra che colloca Cuba ai primissimi posti al mondo per ricorso all’interruzione violenta di gravidanza, nonostante nel paese vi sia un altissimo ricorso alla contraccezione (ne fanno uso circa il 72 per cento delle donne) e persino alla sterilizzazione, secondo gli insegnamenti del Cenesex (Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba), oggi diretto da Mariela Castro Espìn, figlia di Raul.

Ai centomila aborti legali di Cuba, vanno poi aggiunti quelli forzati, a scopo di “ricerca” e di “cura”. La radicale Mirella Parachini ricorda infatti che a Cuba, secondo la testimonianza di molti medici locali, tessuti fetali e neuronali vengono procurati a scopo di ricerca o di cura, a scapito di piccole e innocenti vite umane.

Dopo aver richiamato la testimonianza della dottoressa cubana Hilda Molina, secondo la quale a Cuba la medicina rigenerativa vive di “sostanza nera fetale” procurata anche nei modi più delittuosi, per fornire a malati stranieri cure presunte, che fruttano però soldi verissimi allo stato, la Parachini scrive: “Altri due dottori che avevano lavorato al Ciren (Centro Internacional de Restauraci?n Neurol?gica de Cuba) sono scappati da Cuba e dall’esilio hanno denunciato come a quei malati di Parkinson, per lo più stranieri, che pagavano in dollari, venivano praticati questi innesti di materiale fetale (con esiti tutti da dimostrare, ndr). Il dottor Antonio Guedes racconta che quando il centro ne aveva necessità urgente, in qualche centro ginecologico venivano ingannate delle donne in gravidanza, veniva loro detto che il figlio che aspettavano aveva gravi malformazioni, e veniva offerta la strada dell’aborto. Il tessuto era così procurato facilmente. Il dottor Julian Alvarez ha scritto un libro, “Artigiani della vita”. Spiega come a Cuba “attualmente si realizzano centomila aborti ogni anno. Il Ciren si trova di conseguenza a ottenere, con relativa facilità, il tessuto embrionale per il suo impiego in questi trattamenti”. Alvarez specifica che le donne danno il loro consenso sia per l’aborto che per la cessione del materiale biologico alla medicina, ma poi aggiunge un dettaglio non rassicurante: “tutti quelli che conoscono da dentro la vita di Cuba, sanno che le ‘pazienti’ non possono decidere nulla in merito. Molti degli aborti o ‘interruzioni’ si fanno in accordo con le necessità del Ciren” (http://salute.aduc.it/staminali/articolo/cuba+ricerca+democrazia+binomio+inscindibile_8359.php; per la Molina vedi Repubblica 13/8/1995: “Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall’America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a ventimila dollari ciascuno“).

Ancora oggi tra gli oppositori in carcere dei fratelli Castro, spiccano le figure di Eduardo Dìaz Fleitas, vicepresidente del movimento clandestino “5 agosto”, colpevole di aver protestato contro l’aborto forzato nel paese, e soprattutto quella del medico cattolico Oscar Elìas Biscet.

Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla vita. Nello stesso anno 1997 il dottor Biscet ha effettuato uno studio per documentare le tecniche di aborto utilizzate nell’ospedale Hijas de Galicia. Lo studio, che espone rivelazioni raccapriccianti su infanticidi, aborti forzati e sull’uso del Rivanol come abortivo utilizzato sino alla XXV-XXVI settimana, è intitolato: “Rivanol. Un metodo per distruggere la vita”.

In questo lavoro sono enumerati i metodi abortivi comuni utilizzati nel sistema sanitario cubano e si denuncia che nel caso di fallimento del Rivanol, cioè in un’alta percentuale di casi, il bambino viene ucciso per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza. Inoltre Biscet elenca statistiche preoccupanti su quanto siano numerosi gli aborti su bambine molto piccole, probabilmente vittime del turismo sessuale e della promiscuità ormai diffusa.

Le conseguenze della battaglia pro life di Biscet non tardano ad arrivare: nel febbraio 1998 viene ufficialmente espulso del Sistema sanitario nazionale. Ma Biscet continua a portare avanti la sua battaglia in difesa della vita tramite manifestazioni davanti agli ospedali e scioperi della fame, alternando libertà e carcere. Amnesty International e Freedom Now ricordano che Biscet è stato arrestato il 3 novembre 1999 e rilasciato il 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.

Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi è in condizioni terrificanti. Secondo Human rights first, Biscet, “difensore dei diritti umani”, soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua.

Quello che però non si capisce bene, leggendo buona parte dei comunicati di Human rights first, come del resto quelli di Amnesty International, sono due cose: che il diritto umano primario per cui Biscet si batte è quello alla vita (“No a la pena de muerte, no al aborto”); e che nella sua lotta questo eroe sconosciuto è sostenuto dalla fede e dalla preghiera. Paradossalmente sono verità, almeno la prima, che neppure il regime vuole far conoscere, visto che Biscet è in galera, ufficialmente, per motivi politici.

Molto più espliciti i siti cubani, di esuli o di suoi amici ed estimatori, che dicono apertamente che Biscet e la sua fondazione combattono per la libertà dei prigionieri e di tutti, e “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, “derechos fundamentales para la sociedad y el individuo”. Inizia infatti così un appello del dottore cubano ai suoi colleghi medici, il cui unico fine dovrebbe essere “promuovere la salute e preservare la vita”: noi siamo in difesa della famiglia, “la cellula fondamentale della società. La famiglia che è oggi in crisi per un sistema che promuove e stimola la mentalità antinatalista con metodi che offendono la dignità umana. Ci riferiamo all’aborto, crimine abominevole“, violenza contro la persona umana.

E finisce: “Diciamo no alla pena di morte per aborto, eutanasia o fucilazione… Abbasso l’aborto, abbasso la pena di morte, viva il diritto alla vita“. © – FOGLIO QUOTIDIANO di Francesco Agnoli

La Carità e il mal francese

Deus caritas est, Dio è amore. Da questo dogma fondamentale prende il largo un bellissimo testo di Giorgio Carbone: “Ma la più grande di tutte è la Carità” (ESD).

 

]Bene o male, credenti e non, lo abbiamo sentito più volte. Forse tutti ricordiamo quelle parole di san Paolo: “se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita” (1 Cor 13,1)

Ma cos’è l’amore? La risposta cristiana è molto chiara: “La carità, essendo una partecipazione dell’uomo all’amore stesso di Dio, trascende l’ordine naturale e tutte le capacità umane. Perciò l’uomo non può dare a sé la carità. Essa è unicamente dono di Dio…la carità è nell’uomo in forza della giustificazione e del dono della grazia santificante, mediante il quale Dio rende l’uomo partecipe della sua vita”. Che la carità sia, come la fede, dono, non significa però che l’uomo non abbia un ruolo: egli è chiamato a meritarla e a disporsi ad essa, tramite le opere buone, i sacramenti, la preghiera…

 Ecco che nella concezione cristiana l’uomo, da solo, non può fare nulla, ma con la grazia di Dio, invece, può trascendere la sua limitatezza, il suo egoismo, la sua miseria. Arrivando a compiere opere straordinarie, assolutamente più che umane, soprannaturali. Mi sembra che questa affermazione trovi conferma nella storia, in particolare in quella, affascinante, della carità visibile in lotta con le grandi malattie che nei secoli hanno funestato l’umanità del nostro continente.

Penso alla lebbra, nell’alto medioevo e sino al XII secolo; alla peste, micidiale portatrice di morte, nel basso medioevo; alla sifilide, causa di circa 20 milioni di morti nel primo trentennio del Cinquecento. Tutte e tre queste malattie hanno una caratteristica: sono contagiose, a parte la prima, e deturpano completamente il corpo, che diviene mostruoso, deforme, ripugnante. Tutto ciò rende l’amore verso i lebbrosi, gli appestati, i sifilitici, assolutamente poco umano. I monatti di Manzoni ce lo ricordano…

Ancora oggi, in India o in Africa, il lebbroso viene per lo più allontanato, scacciato, anche dai suoi stessi familiari. E’ un maledetto, e perde ogni diritto. Non è “umano”, infatti, abbracciare un lebbroso. Non è “naturale” andargli incontro e baciarlo. Eppure, oggi, anche in Africa e in Asia esistono centinaia di lebbrosari: fondati, pressoché sempre, da missionari. Da uomini in cui la carità di Cristo ha operato sino al punto di renderli capaci di imprese inimmaginabili.

 L’Europa del XII secolo può vantare circa 19000 lebbrosari. C’è senza dubbio chi teme ed emargina queste figure ripugnanti, ma c’è anche chi, come San Francesco, pur provando inizialmente umano ribrezzo, li abbraccia, li bacia, li lava e li raccomanda ai suoi frati. A curarli non sono personaggi stipendiati dallo Stato, ma per lo più volontari, persone che danno la propria vita per il prossimo, vivificati dalla fede. Quale eroismo!

Ma è tutto l’ospedale moderno che nasce così: dall’opera volontaria di santa Elena e di santa Fabiola, di san Giovanni di Dio e di san Camillo de Lellis, persone in cui la carità di Dio opera veri e propri prodigi. Mi limiterò qui a ricordare brevemente la storia di un altro eroe della carità, piuttosto sconosciuto, esempio a mio modo di vedere straordinario di ciò che la carità di Dio può operare nell’uomo: Ettore Vernazza, fondatore della compagnia del Divino Amore.

E’, costui, un ricco e potente notaio genovese del XV secolo, discepolo di santa Caterina da Genova. Rimasto vedovo, dedica la sua vita a Dio e al suo prossimo, insieme a personaggi che diverranno dogi, senatori, papi. In particolare, la sua azione di instancabile organizzatore, è quella di creare i cosiddetti ospedali degli incurabili, prima a Genova (1497), poi a Roma, Napoli ecc…

Chi sono, a quest’epoca, gli “incurabili”? Sono i sifilitici. La sifilide entra in Italia, probabilmente, al seguito degli eserciti di Carlo VIII e delle migliaia di meretrici che lo accompagnano. E’ una malattia trasmessa per contagio sessuale, che colpisce prima le parti intime, poi tutto il corpo, sino ad intaccare la psiche e il sistema neurologico. “Propiziata da Venere, scrive il Cosmacini, e micidiale come Marte”.

E’ la lebbra, meglio, la peste dell’età rinascimentale. E’ un male dilagante. “Le persone, dichiara un testimone dell’epoca, si coprivano di grandi vesciche, pustole e ascessi su tutto il corpo ed erano talmente trasformate che guardarle era cosa orribile e spaventosa”.

Gli ospedali dell’epoca rifiutano questi “incurabili”, maleodoranti, contagiosi, fetidi. Vernazza, invece, si dedica a loro e invita a guardarli “come se fossero non uomini, ma quasi portatori in sé della persona stessa di nostro Signore”.

 Instancabile nella preghiera e nell’azione, questo notaio che avrebbe potuto fare ben altra vita, si occupa anche degli orfani, dei poveri vergognosi, degli schiavi, e di costruire il Lazzaretto di Genova, colpita dalla peste. Proprio qui morirà, il 24 giugno 1524, chino come fra Cristoforo sui bubboni dei malati, assistendo i quali anche lui ha contratto la peste. Testimone, come tanti, del carattere soprannaturale della carità di Cristo. Il Foglio, 12 gennaio 2011

il Card. Suenens e mons. Camara: innovatori o demolitori?

All’epoca del Vaticano II, racconta Roberto de Mattei nel suo “Concilio Vaticano II, una storia mai scritta” (Lindau), si segnalarono due personaggi, tra gli altri, per la loro influenza sull’ala progressista dei padri conciliari: il cardinale Primate belga Leo Suenens e il vescovo brasiliano Helder Camara.

I due, molto legati tra loro, tanto che il secondo considerava il primo “il mio leader”, mi appaiono molto rappresentativi della crisi del mondo cattolico che viene avanti ormai da decenni, e che per certi aspetti sembra conoscere, a mio avviso, una lenta ma inesorabile inversione di tendenza. L’attività del primo, spesso in collaborazione con i cardinali Alfrink, Liénart, Frings ecc., potrebbe essere riassunta con queste parole: aggiornamento del dogma, adeguamento della Chiesa alla modernità. A lui si deve infatti la definizione del Vaticano II come “il 1789 della Chiesa”. Il secondo, grande sostenitore del cosiddetto “spirito del Concilio”, espressione con cui si fecero dire al Vaticano II anche cose mai dette, fu invece l’alfiere della “Chiesa dei poveri”, convinto che la Carità fosse da anteporre, o meglio da contrapporre, alla Verità e al dogma (già “ridimensionati”, appunto, dal cardinale belga).

Partiamo da Leo Suenens: sin dal principio del Concilio egli fu un sostenitore del “concilio pastorale”, più “aperto”, meno dogmatico, meno “categorico” di quelli passati. Dopo aver chiesto al papa di “annullare la celebrazione della Messa all’inizio delle sedute, per ampliare il tempo della discussione”, Suenens divenne uno dei quattro moderatori dell’assemblea. Il ruolo suo e di altri teologi belgi a lui vicini fu così fondamentale che il padre Congar, il 13 marzo 1964 poteva scrivere: “Di questo concilio è stato detto Primum Concilium Lovaniense Romae habitum. E’ abbastanza vero, ameno per la teologia”, perché i belgi, soprattutto provenienti dall’università di Lovanio, “sono dappertutto”.

Suenens fu insomma, durante il Concilio, il campione del progressismo cattolico.

Nel dibattito sugli ordini religiosi femminili auspicò una revisione del concetto di obbedienza e l’abbandono della forme di pietà e di abito tradizionali; quanto ai sacerdoti chiese una riforma dei seminari, “affermando di averla personalmente intrapresa nella sua diocesi”; riguardo alla famiglia, mentre Camara organizzava la claque, si schierò per una revisione della dottrina tradizionale del matrimonio, lasciando intendere la sua apertura all’uso degli anticoncezionali e al “controllo delle nascite” e accennando ad una presunta “esplosione demografica attuale” e alla “sovrappopolazione in molte regioni della terra” . Alla fine del Concilio Suenens fu il leader di un gruppo di influenti cardinali che si schierarono contro l’enciclica Humanae vitae, insieme a quelli che Cornelio Fabro chiamava i “pornoteologi”.

Nel 1969 arrivò a farsi alfiere di un appello di Hans Kung contro il celibato ecclesiastico, proprio negli anni in cui la “liberazione sessuale”, intesa anche come sdoganamento della pedofilia, teneva banco, fuori e dentro il mondo cattolico.

Oggi i frutti dell’opera di Suenens sono evidenti: i seminari belgi si sono svuotati, proprio a partire dagli anni del suo magistero; l’ università di Lovanio, di cui Suenens fu anche rettore, rifiuta di definirsi ancora “cattolica”; il Belgio è un paese secolarizzato ed anticristiano come pochi al mondo, con un altissimo tasso di disgregazione familiare; la grande parte dei crimini di pedofilia nella chiesa belga, come dimostrato recentemente, sono da ascriversi, non senza motivo, “soprattutto agli anni Sessanta”, cioè all’epoca delle sue riforme (Repubblica, 10/9/2010).

 L’altro personaggio emblematico, dicevo, è il vescovo brasiliano Camara, vero precursore della teologia della liberazione. Cosa ha portato il concetto di “Chiesa dei poveri”, di cui Camara, insieme a Lercaro ed altri, fu uno degli araldi? In America latina, appunto, alla teologia della liberazione, cioè alla trasformazione del cristianesimo in un messianismo politico, di stampo marxista. Con un duplice effetto: prima la trasformazione di teologi e sacerdoti in guerriglieri e idolatri del dittatore cubano Fidel Castro, poi la scristianizzazione galoppante della stessa America Latina.

In Italia, invece, l’ “opzione per i poveri”, scollegata dalla Tradizione e dal dogma, ha contribuito all’apertura a sinistra, favorendo l’introduzione nel nostro paese del divorzio e dell’aborto, e, con Moro, all’oblio, da parte della stessa Dc, dei valori cristiani “non negoziabili”. Ma soprattutto, e qui sta l’apparente paradosso, proprio il cattolicesimo progressista-pauperista, così vincolato alla visione materialista di stampo comunista, ha finito per non accorgersi dei veri “poveri” del nostro tempo e persino per ostacolare coloro che vi si dedicano: penso ad esempio all’ostilità di quel mondo per le comunità di recupero per tossicodipendenti di un Muccioli, o di un don Picchi, o di un don Gelmini, o al disprezzo nei confronti dei Centri di Aiuto alla Vita (dediti al soccorso delle ragazze madri), e in generale verso tutti coloro che indicano come nuove povertà dell’Occidente post-cristiano l’aborto, la disgregazione familiare, il vuoto esistenziale e la crisi dei valori. Il Foglio, 6 gennaio 2010