Per il trentesimo anniversario del referendum sull’aborto del 1981 ho scritto questo:
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-17-maggio-1981disfatta-dei-pro-life-1888.htm
Per il trentesimo anniversario del referendum sull’aborto del 1981 ho scritto questo:
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Riporto un articolo di Andrea Tornielli sul prete pedofilo don Seppia. Con una breve nota: dove sono i vescovi?
Perchè ce ne sono tanti così insignificanti, tiepidi, poco attenti al loro seminario e ai loro preti, sui cui, invece, come dice il nome stesso, dovrebbero vegliare?
Chi li ha scelti per decenni questi vescovi che vengono magari dalla diplomazia, che non sanno fare i pastori ma i pavoni, che vivono ancora, spesso, un clima sessantottardo?
La crisi della Chiesa è una crisi di fede, di disciplina, di governo. Da troppo tempo non c’è qualcuno che governa. Da troppo tempo i Sepe, i Sodano, i Re, hanno fatto e fanno ciò che vogliono, e i vescovi sono divenuti piccoli papi che non rispondono più a nessuno (non c’è più il Sant’Ufficio) .
Non è cambiato ancora quasi nulla. La diocesi di Genova, la diocesi di Bertone e di Bagnasco, è quella di don Gallo, di don Farinella, di don Seppia… Nessuno che li richiami o li sospenda, come si è fatto tante volte con i bravi preti che magari volevano dire la messa tridentina…
Se i vescovi ci sono battano un colpo, temano almeno, se non il giudizio di Dio, quello degli uomini.
di Andrea Tornielli
La triste vicenda di don Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito Sestri Ponente arrestato nei giorni scorsi perché accusato di aver fatto avances sessuali a un sedicenne e per cessione di cocaina, lascia aperte domande drammatiche.
Va dato atto all’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, di essersi subito recato nella parrocchia, di aver pubblicamente dichiarato la propria vergogna, di aver immediatamente sospeso il sacerdote in attesa degli sviluppi dell’inchiesta. Inoltre, ogni cristiano sa bene che nonostante le norme antipedofilia, l’inasprimento delle pene canoniche, etc. etc., la natura umana continua a rimanere ferita dal peccato originale. Purtroppo questi episodi vergognosi e tremendi – che mostrano come la persecuzione più terribile per la Chiesa non arrivi dai nemici esterni, come ha spiegato Benedeto XVI, ma dal peccato dentro la stessa Chiesa – accadono ancora.
Quello che stupisce, nel caso di don Seppia, come nel caso dei preti gay oggetto di un’inchiesta di Panorama, poi trasformatasi in un libro, è da una parte la capacità di queste persone di costruirsi e gestire delle doppie vite, dall’altra la mancanza quasi totale di «controllo sociale» sulla vita del prete. Qui non si tratta (solo) di peccati, ma di gravissimi reati. Non siamo di fronte alla caduta, alla debolezza vissuta con senso di colpa di un sacerdote che non riesce ad essere fedele all’impegno del celibato, e cede alla tentazione. Si tratta, invece, di vite parallele, dove la persona riesce a sdoppiarsi, predicando bene e razzolando malissimo perché compie dei crimini, usa droga e se ne serve per attirare le giovani "prede". Ecco, ciò che stupisce è proprio questo: don Seppia era – ora lo si scopre – un prete chiacchierato, alcuni suoi parrocchiani sapevano delle sue assenze notturne (andava a Milano per rifornirsi di droga o per frequentare palestre e saune), sussurravano critiche per certi suoi atteggiamenti disinvolti. C’è da chiedersi come don Riccardo fosse inserito nel contesto della diocesi, in quali rapporti fosse con i confratelli preti, quali fossero le sue amicizie. Insomma, c’è da chiedersi come sia possibile che quanto leggiamo sia potuto accadere senza che nessun campanello d’allarme scattasse nelle persone più vicine al sacerdote ora accusato dell’abuso di un minore con una leggera disabilità mentale.
La Lettera circolare della Congregazione per la dottrina delle fede alle conferenze episcopali che detta le linee guida per codificare norme antipedofilia, insiste in un punto sulla formazione dei seminaristi e sulla formazione permanente del clero. La soluzione, però, non sta in una formula, o in nuovi schemi bacchettoni da introdurre nei seminari per riportare indietro di cinquant’anni l’orologio della storia: una volta usciti, i seminaristi diventati preti si troveranno comunque a fare i conti con la società in cui tutti viviamo. La questione vera, ancora una volta, è quella che riguarda il tessuto di relazioni e di amicizie che sostiene il sacerdote, quella che riguarda la sua maturità affettiva, oltre che lo spessore della sua vita spirituale.
E’ un pregiudizio diffuso che la cantica più bella di Dante sia l’Inferno.
Quest’idea nasce, sicuramente, dalla sua maggior facilità, dal fatto che siamo più abituati a frequentare il male, piuttosto che il Bene, ma anche da un’idea di fondo: che i buoni siano, in fondo, delle figure poco affascinanti, deboli, scolorite. L’idea è quella del “santarello”, cioè dell’uomo buono come un uomo debole, insignificante, quasi molle.
Non è così: il Paradiso di Dante è certamente abitato da persone buone, la cui bontà però coincide anche con la forza, con una umanità solida, grandiosa. No, il Paradiso non è la cantica più scolorita e meno riuscita di Dante, al contrario essa è zeppa di visioni e di pensieri folgoranti.
Basterebbe l’incipit del canto I: “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove”. Quale condensazione più bella di concetti filosofici e teologici essenziali! Dio, dice Dante, è il Motore Immobile di Aristotele; l’archè cercata dai presocratici, la Causa prima che giustifica l’esistenza stessa delle cose che, sì, sono, ma non eternamente. La sua gloria, la sua presenza, risplende in ogni parte dell’universo.
Come avrebbero detto Paolo, Francesco, Bonaventura, le creature sono la via per arrivare a Dio. Che le tiene in vita, rendendole partecipi dell’Essere. Dio risplende nelle montagne, nel sole, nell’acqua, “pretiosa et casta”; risplende in un sasso e in un fiore, ma più nel fiore che nel sasso; e nell’uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, più che in tutti i gigli del campo. Dio risplende nel sorriso innocente di un bimbo, in un atto volontario di abnegazione, nelle parole di perdono di un uomo. Gloria Dei homo vivens: l’uomo che Vive, con la lettera maiuscola, che partecipa del Bene, della Verità, della Giustizia, è la gloria di Dio.
Poi Dante prosegue: “nel ciel che più della sua luce prende/ fu’io, e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là su discende;/ perché appressando sé al suo disire,/ nostro intelletto si profonda tanto,/ che dietro la memoria non può ire”.
Dante vuole dirci che il cielo Empireo è una distesa di azzurro e di luce, che abbraccia ogni cosa. La luce, corpo quasi immateriale, e l’azzurro, immagine dell’infinito, sono quanto di più simile a ciò che è soprannaturale l’uomo possa immaginare. In quella luce, che è simbolo della Verità che tutto illumina, Dante dice di essersi appressato al suo “disire”. Ciò significa che l’uomo ha un solo desiderio: Dio stesso. Tutti gli altri desideri non sono che corollari. Poiché desidera Dio, allora desidera tutto ciò che riluce della sua bellezza e bontà. Anche se tante volte sostituisce il desiderio con le voglie; le grandi aspirazioni, con i capricci; la fame di Dio con la fame di mondo, e cerca di saziare una sete inestinguibile con sorsi di acqua avvelenata (quando le creature sono messe al posto del Creatore).
Dio, continua Dante, io non posso descriverlo. L’uomo coglie Dio, per un istante, in qualche momento della sua vita: quando prova una qualche consolazione spirituale, una grande gioia, immagine e pegno della Gioia eterna. Ma le parole umane non sono capaci di catturare e definire l’inesprimibile grandezza di Dio. In Lui ci si può immergere, uscendo da se stessi in un’ esperienza mistica, estatica. Si finisce quasi ingurgitati in un oceano di dolcezza, di amore, di felicità, che supera infinitamente il desiderio umano.
Quando l’uomo incontra il desiderio, naufraga in esso, tanto questo è più grande di lui. Siccome poi Dio è Amore, cioè Unità, l’uomo in Dio si unisce, ma senza annullarsi; sperimenta la stessa fusione che l’amore permette, in vita, tra due sposi, o tra un genitore e un figlio, ma senza il limite che questa esperienza umana possiede; nello stesso tempo trascende se stesso (“trasumanar”, dice Dante), senza essere spogliato del suo essere specifico.
Dante, infine, dice di essersi sollevato da terra. E’ in cima al Paradiso terrestre. Ha attraversato l’inferno, ha percorso la camminata faticosa, in salita, del Purgatorio. Accompagnato da Virgilio, protetto dalla Vergine, ma anche mettendo in gioco la sua volontà, cercando, come si dice nel I canto del Purgatorio, la “libertà”. Il suo essere, anima e corpo insieme, è ormai leggero. Leggero come l’animo di chi è virtuoso. Pesante è l’animo e il corpo dell’avaro, sempre ripiegato su beni materiali; pesante è l’animo del superbo, sempre teso a tutelare la sua fama, il suo onore; pesante l’animo del lussurioso, che cerca sempre, in basso, ciò che sta in alto e vuole nutrire con lo stesso cibo anima e corpo.
Leggero è l’uomo che si è purificato, che non è più travolto dalla zavorra del peccato. Leggero perché libero. Quest’uomo è naturale che si innalzi verso il cielo. Non come un superuomo, che vuole salvarsi da solo; che ha fatto della terra il suo proprio regno; ma perché si è sottomesso ad una legge superiore, la ha amata e compresa, ed è stato docile alla Grazia, a Beatrice che gli è scesa incontro mentre lui saliva. In quell’incontro tra la libertà dell’uomo che sale e la Grazia che scende si realizza compiutamente l’umanità, secondo il progetto di Dio. Il Foglio,12 maggio 2011
Si parla da tempo di “emergenza educativa”. Penso che lo abbia fatto per primo, con questa espressione, don Luigi Giussani, che è stato, appunto, un grande ed acuto educatore.
Cosa significa codesta emergenza? Nella mia esperienza mi sembra di poter dire questo: che il dato più evidente per chi abbia oggi a che fare con i giovani, ma non solo, è che molti non sono educati. Manca infatti, spesso, una famiglia alle spalle. Sempre più manca un padre che faccia il padre: che sappia appioppare una sberla, quando serve; che indichi paletti chiari, pochi ma ben precisi, coniugando regole e libertà. Intendo padre in senso lato.
Qualche mese fa un professore viene in una mia classe per spiegare la donazione del sangue e incomincia: “per donare il sangue non bisogna fare uso abituale di droghe…”. E subito dopo: “non che io stia giudicando un modello di vita, ognuno fa ciò che vuole”.
Questo è il messaggio della società, dei media, persino di non pochi che dovrebbero insegnare, con una funzione, diciamo così, paterna: “fai ciò che vuoi”.
Cioè: non crescere, rimani lì, dove il tuo ombelico, dove il tuo istinto, dove il tuo capriccio, dove la circostanza, ti porta. Inchiodato lì.
Cosa nasce da questo modo di intendere il rapporto tra generazioni, tra genitori e figli, tra società e giovani? Una società sbrindellata, un uomo che cresce solo, e che non viene mai contenuto, aiutato, guidato, per cui finisce per essere instabile, incapace di equilibrio, di autocontrollo, di tenacia. Senza forma. La fragilità estrema è la prima caratteristica di chi non è stato educato. Perché l’educazione permette di stare, con una propria forma, nella realtà: di non subirla soltanto, né di ribellarsi ad essa, come un toro che vede sempre rosso, ma di viverla.
Anzi, è la realtà stessa, se rispettata, che ci educa. Un figlio viene educato quando riconosce intorno a sé ruoli distinti e chiari; un figlio cresce quando impara che vi è un tempo per obbedire e che ogni luogo e ogni circostanza ha le sue regole, non assurde, arbitrarie, farisaiche, ma profondamente corrispondenti, appunto, ad una realtà.
Educare alla realtà significa anche educare alla ragione. E’ necessaria una corrispondenza tra un ordine oggettivo e la nostra esistenza soggettiva. Chi si droga, per capirci, non “fa ciò che vuole”, ma va contro la realtà e contro la ragione. Chi approva che una anziana cantante possa avere un figlio senza marito, grazie alla tecnica, violenta la realtà e la ragione, perché pretende di affermare la propria volontà su tutto e tutti. La ragione ci aiuta a non cadere nelle grinfie di Circe o di Armida.
Una vera educazione, dunque, deve essere, anzitutto, educazione alla realtà, alla ragione e all’ideale. La letteratura antica e medievale insegna proprio questo, che c’è un dover essere. Ulisse è chiamato a superare le circostanze contingenti, le difficoltà sul suo cammino, per tornare in patria, da moglie, sudditi e figlio. Ulisse è proposto come ideale, esattamente come Ettore nell’Iliade; come Enea nell’Eneide, come Rinaldo e Goffredo nella Gerusalemme Liberata…
Il giovane deve crescere sapendo che può e deve tendere verso l’alto, che ogni talento che gli è stato dato, va messo a frutto e moltiplicato. C’è un compito, nella vita. L’esistenza dell’ideale contempla anche la consapevolezza di una distinzione tra Bene e male.
Quando questa non vi è più, non si dà educazione, perchè non si dà né crescita né vera scelta. Il bambino deve sapere che vi sono azioni e pensieri giusti e ingiusti, e con gradualità deve essere educato a capirne e ad amarne il perché. Oggi invece si tende spesso ad una educazione di tipo roussoiano: come se non esistesse una nostra intrinseca miseria. La quale, se ignorata, diventa più radicata che mai. Persino nelle parrocchie, ai ragazzi che fanno il catechismo, non si insegnano più, da decenni, i comandamenti: roba vecchia, si dice, sono meglio gli “insegnamenti in positivo”. In verità è l’uomo di oggi che non tollera più una autorità con cui confrontarsi e da cui essere aiutato a crescere.
Anche Dio è diventato buonista: non più giusto, né misericordioso, né “geloso”, ma solo indifferente. Un Dio che non ci turba mai, che non ci chiede, che non esige nulla. Un dio inutile. Così facendo si dimentica che è la pedagogia stessa di Dio ad indicare, come primo passo verso la crescita, la chiara condanna di ciò che è male: initium sapientiae timor Dei. I dieci comandamenti, per lo più in negativo, sono il preludio necessario al comandamento dell’amore. Non sa amare chi non è stato educato a dire di no al proprio egoismo, alla propria superbia, alla propria propensione anche al male. Averlo dimenticato ha prodotto generazioni di cattolici che si fanno la morale da soli e che alla fine modificano la stessa Fede alla luce della loro morale. La caratteristica dell’uomo non educato è proprio questa: il rifiuto a riconoscere un Bene e un male che lo trascendono. Si chiama relativismo.
Ma laddove il limite del comandamento, persino il concetto, è respinto, rimane la immensa superbia dell’uomo, che crede di essere libero, ma è in verità vittima della propria miseria e della propria continua e irragionevole pretesa sulla realtà. Il Foglio, 5 maggio 2011
Ci sono esperienze nella vita che svaniscono, e di cui sembra non rimanere nulla. Altre invece si imprimono e rimangono a fondamento di tante scelte future. Personalmente ricordo con gratitudine e nostalgia un’abitudine che presi da ragazzo, per alcuni anni: un lungo pellegrinaggio, di antica tradizione medievale, che si svolgeva in Francia, per Pentecoste. Cento chilometri, in due giorni e mezzo, dalla cattedrale di Chartres, sino a Parigi.
Da una splendida chiesa medievale, sino alla metropoli che ha visto nascere la rivoluzione francese. Si camminava attraverso le grandi campagne francesi, alla pioggia e al sole, cantando, pregando, come trasportati dal clima di fervore generale, prima di giungere lì, in mezzo al cemento, alla vita frenetica, rumorosa e pagana della grande città, dove spesso vi erano ad accoglierci il saluto entusiasta di qualcuno, e le maledizioni di altri.
Il pellegrinaggio è un’esperienza che il cristiano non può non fare. Siamo noi uomini ad essere pellegrini. “Homo viator”, si diceva nel Medioevo: viator che si alimenta del panis angelicus, che parte per andare oltre, per raggiungere un luogo santo, una meta che sia immagine della meta finale della nostra vita, il Paradiso. Il pellegrinaggio è dunque una metafora della visione cristiana dell’esistenza.
Il pellegrino, infatti, attraversa città e campagne, le osserva, le ammira, ma non c’è nulla che possa catturarlo, definitivamente, perché sa di dover lasciare quei luoghi; sa di osservare e ammirare terre che non gli appartengono; sa che ogni creatura, per quanto bella, non dura. O meglio: dura soltanto se vissuta in un’ottica soprannaturale. Il pellegrino deve dunque raggiungere un luogo, che magari neppure ha mai visto, dove però, come crede e spera, lo attende un incontro. Un incontro che vale la fatica, l’attesa, il viaggio…un incontro decisivo che faccia rinascere ad una nuova vita.
Nel Medioevo il pellegrinaggio era abitudine diffusa. Famosi i pellegrinaggi sulla via Francigena, quelli verso Roma e verso Gerusalemme. Ma il pellegrinaggio per eccellenza era quello verso la tomba di San Giacomo, a Santiago di Compostela, alla fine del mondo conosciuto. Oltre solo l’oceano, e poi, il Cielo…
Compostela è stato per secoli meta di innumerevoli viandanti. Ed è tornato ad essere cammino di molti, dopo tanti anni di decadenza, da pochi decenni, grazie ad alcuni uomini appassionati, tra cui, soprattutto, Paolo Caucci von Saucken. E’ quest’uomo, insieme ad altri, ad aver rilanciato l’idea del cammino, in un’ epoca in cui la secolarizzazione ha sì offuscato, ma non ucciso, l’idea che l’uomo debba ritrovare se stesso attraverso l’incontro con Dio, attraverso un cammino di spoliazione, di rinuncia, di purificazione, di silenzio interiore. Non sembra quasi vero, eppure è così: aumentano sempre più coloro che partono, sulle vie degli antichi pellegrini, sulle strade della Tradizione, per calpestare le orme di migliaia di uomini che volevano, andando da san Giacomo, onorare l’apostolo, scontare i propri peccati, chiedere perdono delle proprie colpe.
Oggi il senso del peccato, il desiderio, la necessità di essere perdonati, non è più, di solito, il motore del mettersi in cammino. Ci è difficile riconoscerci peccatori, dopo tante filosofie atee e superbe, ma ciononostante non si può non riconoscersi fragili, assetati, bisognosi di un Altro. L’uomo è un pellegrino, ha scritto Paolo Asolan in un bellissimo dialogo con Paolo Caucci, “Cammini in Europa”, perché è “eccentrico di natura”, nel senso “che ha fuori di sé il suo baricentro”; nel senso che capisce chiaramente che non sta in lui la ragione della propria esistenza.
Nel libro citato si ripercorrono le tappe della rinascita, nell’epoca contemporanea, del pellegrinaggio, soprattutto di quello compostellano. Si ricorda che già per Dante il vero pellegrinaggio era proprio quello verso Santiago, “perché quello è il posto più lontano”. Santiago, infatti, “stava allora nel finisterrae del mondo conosciuto”: “finis terrae, initium coeli”.
Proprio per attestare il raggiungimento della meta, i pellegrini erano soliti raccogliere una conchiglia nell’Oceano, come testimonium loci. Analogamente, coloro che andavano a Gerusalmme, tornavano portando con sé una palma (di qui la definizione di “palmieri”).
San Giacomo, ricorda ancora Caucci, non è solo un santuario, un luogo di fede: come Czestochowa è stata per i polacchi, sotto il comunismo, il segno della loro identità e il luogo da cui è partita la loro lotta per la libertà; come Guadalupe è stato il santuario che ha permesso l’incontro tra spagnoli e indigeni nel Nuovo Mondo; così Santiago è il luogo che ha permesso agli spagnoli, sottomessi dagli islamici a partire dall’711, di abbarbicarsi alla loro storia cristiana, alle loro radici, a Roma, lontana ma non irraggiungibile.
Di più: Santiago è stata, nella storia, un germe dell’Occidente cristiano. Non solo “per la confluenza di popoli diversi che vi andavano in pellegrinaggio”, ma anche perché “dopo la scoperta della tomba (dell’apostolo, ndr) confluiscono su Santiago gli interessi asturiani, quelli francesi e quelli di Roma” e si amplia così, verso ovest, l’estensione della Christianitas. Il Foglio, 28/4/2011
Ci sono stati, ad oggi, due Tettamanzi. Il primo è don Dionigi Tettamanzi, il cui nome compare tra i primi presenti alla nascita del Movimento per la Vita. Don Dionigi è un bioeticista, un pioniere nel campo. Il suo vescovo, il cardinal Martini, non ha per lui particolare considerazione. Al contrario il Vaticano si accorge di lui, tanto che nel 1987 Tettamanzi finisce a Roma, come rettore del Pontificio seminario lombardo. “In realtà”, scriveva Sandro Magister, “per lavorare al servizio del papa, del sant’Uffizio e della Cei”.
Di lui si apprezzano le posizioni chiare, coraggiose, anti-conformiste, molto distanti da quelle dei “teologi ribelli” e dell’arcivescovo di Milano. Ad un certo punto quel Tettamanzi scompare, sostituito prima dall’arcivescovo di Genova, poi da quello di Milano. Le posizioni si avvicinano sempre di più a quelle di Martini, mentre le vecchie passioni da bioeticista si affievoliscono, sino a scomparire. Ci sono temi che tirano di più: la politica politicante, le questioni sociali…
Insomma Tettamanzi abbandona il ghetto di coloro che si contrappongono ai deliri anti-vita della contemporaneità, per assumere le cadenze, i modi, il linguaggio degli intellettuali mondani. La sua predica di domenica scorsa, per la festa delle Palme, è l’ennesimo intervento, “a gamba tesa” direbbero a sinistra, nel dibattito politico.
Tettamanzi inanella una sfilza di accuse nei confronti del governo e di Berlusconi in particolare: “Ad esempio, per stare all’attualità: perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come “guerra” le loro decisioni, le scelte e le azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?…Siamo allora chiamati a interrogarci sull’unica vera potenza che può realmente arricchire e fare grande la nostra vita, intessuta da tanti piccoli gesti: la vera potenza sta nell’umiltà, nel dono di sé, nello spirito di servizio, nella disponibilità piena a venerare la dignità di ogni nostro fratello e sorella in ogni età e condizione di vita”.
Cosa c’è, che non torna? Banalità a parte, il fatto che le prediche divengano ormai troppo spesso la modalità con cui si preferisce parlare di società, di politica, di attualità, piuttosto che di Cristo. Non voglio dire che la cronaca non possa talora servire anche come punto di partenza per un sermone domenicale: credo, però, che un vescovo dovrebbe volare molto, molto più alto. Ripetere quello che dicono Repubblica, il Fatto, Bersani o Casini, quand’anche fosse giusto, è, per un pastore, molto poco. Dirlo nello stesso modo, senza mai ricorrere alle categorie della teologia e della antropologia cattolica, è diserzione.
La realtà è che un cattolico, oggi, sente la voce dei suoi pastori forse un po’ a sproposito. I presidenti della Cei, per esempio, offrono al paese, periodicamente, una lunga e circostanziata analisi dei fatti, politici, economici, sociali, senza tralasciare di prendere posizione sulle vicende mediatiche più attuali. Nonostante queste analisi siano, talora, illuminanti, non so se è proprio questo che è richiesto ad un successore degli apostoli.
Qualcuno ricorderà il vescovo Agostino Marchetto. Sino a poco fa interveniva di continuo, per esprimere la sua posizione sull’ultimo provvedimento del governo o sull’ultima dichiarazione, più o meno intelligente, di questo o di quel ministro. Puntualmente doveva uscire una nota della sala stampa vaticana, per mettere in chiaro che la posizione di Marchetto non era quella ufficiale della Santa Sede. Ne nasceva, ogni volta, un ridicolo balletto di dichiarazioni e smentite, con un solo effetto: ridurre la voce della Chiesa al rango del vocio, continuo, insignificante, noioso, dei politici di turno, che se non emettono dieci comunicati stampa al giorno, si sentono male.
Sembra, insomma, che l’agenda di alcuni uomini di Chiesa, si veda l’onni-giudicante e cicaleggiante don Sciortino, sia dettata dall’effimero dei quotidiani. Quanto ai temi che un pastore dovrebbe affrontare, si sente davvero poco. Recentemente Roberto de Mattei ha espresso la dottrina cattolica sul male, morale e naturale: rombo di tamburi laicisti, maledizioni “razionaliste” a go go, ma i Marchetto, i Tettamanzi, che avrebbero potuto cogliere l’occasione per illustrare la dottrina della Chiesa su argomenti così importanti, nulla! I temi essenziali- Dio, la morte, il male, l’Inferno e il Paradiso, il peccato e la Carità-, è meglio lasciarli a “Focus”, e se qualche laico coraggioso li affronta, i baldanzosi politologi in tonaca, fanno tre passi indietro.
Sembra non gli competa. C’è una società in decomposizione, ma troppi, anche tra coloro che dovrebbero seguire Cristo nell’orto degli ulivi, preferiscono parlare d’altro. Il fatto è che se i pastori tralasciano lo zelo della Casa del Signore, confondendo le prediche con gli editoriali, Cristo con un sociologo, la Messa con un comizio, è la Fede del popolo che ne risente. Abbiamo bisogno di uomini di Dio che parlino con Lui e di Lui. Quando fanno i politologi, gli filantropi, i giuristi, gli economisti ecc. ricordino che c’è spesso un laico che lo sa fare meglio e con più competenza. Il Foglio, 21 aprile 2011
Cosa deve pensare, un cattolico, del partito di Gianfranco Fini, il Fli? Una prima impressione è chiara: i vari Bocchino, Granata, Urso, Della Vedova, cioè le personalità più autorevoli del partito, sono schierati su posizioni radicali, incompatibili con quelle cattoliche, in ogni campo dell’etica. Sbaglia però chi parla di “tradimento” dei valori della destra: tutti, infatti, a parte Della Vedova, provengono dal vecchio MSI, e rivendicano, giustamente, una coerenza.
Esiste da sempre, infatti, nella destra missina, una avversione violenta a tutto ciò che sa di cristianesimo. E’ stato Francesco Cossiga a ricordare che Fini “è un uomo impegnato a riscoprire il pensiero antiborghese e anticattolico del suo maestro Giorgio Almirante”, colui che emarginò la destra cattolica di Michelini. Attribuire un pensiero a Fini, più mobile che piuma al vento, è un po’ azzardato, ma sicuramente il concetto di Cossiga vale per gli altri leader del Fli.
Recentemente uno di questi, Filippo Rossi, commentando la frase di Cossiga, ne sosteneva l’esattezza, stilando “un possibile pantheon della destra culturale italiana”, costituito da Marinetti, D’Annunzio, Prezzolini, Gentile, Evola ed altri, non esattamente “provetti clericali o baciapile”.
A questi personaggi si può aggiungere Alain de Benoist, il cui nome compare spesso sulle pagine del “Secolo d’Italia”, in quanto molto amato, tra gli altri, da Fabio Granata, sostenitore, a detta di quel quotidiano, della conciliabilità tra chiese e mosche, Eraclito e Cristo, modernità ed antica Roma. Alain de Benoist, fondatore della “Nuova destra” francese, è un pensatore che unisce suggestioni nietzscheane, socialiste, ecologiste, antimoderne e pagane (vedi il suo “Come si può essere pagani?”). In perfetta coerenza con una visione che trova spesso spazio su “Il Secolo” di Lanna.
Recentemente, per esempio, l’8 aprile 2011, sul quotidiano finiano comparivano due pagine elogiative del “fascismo immenso e rosso” di Drieu la Rochelle, e, di seguito, una lunga recensione ad un nuovo libro di Renato Del Ponte, “uno dei più seri interpreti e studiosi di Julius Evola”.
In esso si elogiava il “messaggio di grande tolleranza e di libertà che ci giunge da un passato apparentemente lontano”, quello della Roma pagana, messa in contrapposizione col pensiero cristiano e quello scientifico.
Una visione, quella di Del Ponte, che richiama appunto a quell’ideologo neopagano, così apprezzato da Rossi e dal gruppo finiano, che fu Julius Evola. Chi era costui? Giulio Cesare Andrea (Julius) Evola nasce a Roma nel 1898 e dimostra presto le sue simpatie per dadaismo e futurismo, droghe e dottrine buddiste, per poi collaborare, tra alti e bassi, con importanti gerarchi fascisti come Farinacci e con l’ideologo nazista Himmler. Evola si fa portavoce, in questi anni, di un razzismo non biologico, che prevede però di dire “no ai negri, a tutto ciò che è negro e alle contaminazioni negre”.
Soprattutto si rivela un feroce avversario di Cristo, considerato il diffusore di una dottrina che ha causato la disgregazione della “razza dello spirito” a favore della “razza del corpo”. I popoli germanici, scrive Evola, sono gli ultimi custodi dell’antica idealità romana, dimostrandosi fieramente e giustamente impermeabili all’universalismo cristiano e fedeli agli dei guerrieri della loro tradizione pagana.
Nel suo “Imperialismo pagano” (1928), Evola invita il fascismo a tagliare ogni rapporto col mondo cattolico, e, sulla scia di Nietzsche, descrive il cristianesimo come “sporca nebbia esalata dalla terra”, “l’allucinazione di un altro mondo…il bisogno di evasione dei falliti, dei reietti, dei maledetti, di coloro che sono impotenti ad assumere e volere la realtà loro”. Cristo invece viene presentato come un liberatore di schiavi, “un demagogo semi-iniziato e rivoluzionario, finito sulla croce”, la cui dottrina sarebbe apprezzabile solo da un “tipo umano inferiore”.
Alla fede in Cristo Evola contrappone “la fredda, positiva, dura scienza e potenza dell’iniziazione, della magia, della realizzazione pagana”.
Accanto ad Evola, la destra finiana indica altri maestri. In primis i fiumani, giustamente visti come antesignani del 1968, precursori del fascismo, ma anche apertissimi alle posizioni bolsceviche. Soprattutto, “libertini”: Fiume, scrive sempre il Rossi, è “una festa”, un “baccanale redivivo”, in cui “tutti fanno l’amore con tutti”. “Libertà sessuale, omosessualità, uso di droga, nudismo, beffe..”: questa la cifra della ribellione anarchica degli uomini guidati da D’Annunzio, ricorda Claudia Salaris, in un libro, “Alla festa della rivoluzione”, a cui i finiani rimandano volentieri. Anche perché illustra i rapporti tra fiumani e futuristi. Marinetti, scrive la Salaris, “auspica sin dagli esordi la sostituzione dell’ “ossessione della donna unica” con “rapporti molteplici, rapidi e disinvolti”; predica lo “svaticanamento d’Italia”, la violenza, il divorzio, l’abolizione della famiglia e dell’eredità, e vuole “liberare l’Italia dalle chiese, dai preti…dai ceri e dalle campane”.
Insomma, come ha ben capito Della Vedova, capogruppo Fli alla Camera, da qui a Marco Pannella il passo è molto breve. Il Foglio, 14/4/2011
Si è già parlato a lungo, su questo sito, del caso De Mattei. Un insigne professore di storia, e come tale scelto come vicepresidente del CNR (per meriti scientifici nella sua materia, che è, appunto, la storia).
De Mattei è una persona che ha titoli accademici, pubblicazioni in quantità, conosce varie lingue, è chiamato in giro per il mondo…
Oggi è continuamente sotto attacco. Le sue idee potrebbero anche essere le più stupide del mondo (cosa che non è), ma meriterebbero quantomeno di essere discusse con garbo ed argomentazioni razionali, filosofiche e teologiche.
Invece ogni giornalistucolo che abbia ricevuto in mano una penna, e che abbia un pulpito sinistro da cui parlare, può ormai sbeffegiarlo senza la benchè minima educazione e garbo.
L’ultimo in ordine di tempo si chiama Antonio Gnoli, e scrive per Repubblica. Gnoli è un banalissimo cronista, ha l’arte e la parte che gli affida il buon Mauro, degno erede del massone Scalfari. Eppure parlando di de Mattei si sente in dovere di trattarlo come uno zulu, come un "tipo umano inferiore", una sottorazza di qualche genere.
Sentite come inizia il suo articolo il giornalista d’assalto inviato a picchiare duro sull’avversario, colpevole di essere cristiano (Repubblica, 11 aprile): "Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all’appuntamento col professor Roberto De Mattei, l’uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l’Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l’immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa’? Se insieme al taccuino avessi con me un bel "tapirone d’oro", la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa? Il problema è che De Mattei non è un signore qualunque: egli è vice-presidente del Cnr, un incarico che lo pone ai vertici della struttura che in teoria dovrebbe guidare la ricerca scientifica in Italia. Ma al tempo stesso egli ha una rubrica su Radio Maria, dirige il periodico Le radici cristiane, insegna alla Nuova Università Europea che appartiene ai Legionari di Dio (sarebbe di Cristo, ma pazianza, ndr). Il suo ultimo libro (pubblicato da Lindau) è una rilettura molto polemica del Concilio Vaticano Il. Sguazziamo in un bel pasticcio ideologico"
Il Gnoloso continua poi con domande impertinenti simili: "Non ci sono echi significativi dei suoi lavori nella comunità scientifica".
Ancora:"Ho di fronte un missionario e un martire"; "Come è stata la sua infanzia?", "Ha mai immaginato di farsi prete?", ed altre affermazioni grossolane e pseudo ironiche che iscrivono il Gnoli, di autorità, tra i trinariciuti odierni.
E’ stato da poco liberato, a Cuba, Oscar Elias Biscet, un medico nero che si batte contro la dittatura di Castro e contro l’aborto di massa nell’ isola, e a cui è dedicata, in Italia, una marcia per la vita ( www.marciaperlavita.it ). Questa liberazione segna probabilmente un punto di non ritorno per la longeva dittatura comunista, messa ormai in ginocchio da una opposizione di pochi, ma eroici personaggi. Che hanno trovato spesso nella fede la forza per lottare per la libertà e la dignità umana. Una volta al potere, nel 1959, Castro ha cercato in ogni modo di sradicare il cristianesimo dal suo popolo.
Eppure era cresciuto studiando presso istituti religiosi, a cui i suoi genitori lo avevano iscritto anche grazie al costo modesto e accessibile. Dichiarò lui stesso: “Questo era possibile perché i preti non erano stipendiati. Ricevevano soltanto il vitto e vivevano con grande austerità…Austeri, serissimi, pronti al sacrificio e lavoratori indefessi, i gesuiti prestavano servizio gratuitamente, e in questo modo tagliavano le spese”. Ancora: “lo spirito di sacrificio e l’austerità dei gesuiti, la vita che conducevano, il loro lavoro e il loro impegno facevano sì che la scuola fosse accessibile a quel prezzo…Tutti quei gesuiti erano di destra. Alcuni di loro erano ovviamente persone di buon cuore che esprimevano la loro solidarietà verso altre persone; sotto certi aspetti erano irreprensibili”. Inoltre “apprezzavano il carattere, la rettitudine, l’onestà, il coraggio e la capacità di sacrificio….”.
Ma io, aggiungeva Castro, “non ho mai avuto davvero una convinzione religiosa o una fede religiosa. A scuola nessuno mai è riuscito ad instillarmele….”; ho invece, aggiungeva, una fede politica che mi rende un “uomo pieno di fiducia e ottimismo”. (F. Castro, Prima della rivoluzione, memorie di un giovane Lìder”, Minimum fax, 2005).
Una volta al potere, Castro ha tentato di distruggere in tutti i modi la fede cattolica, flirtando con i teologi della liberazione e appoggiando il culto afro-americano della Santeria. Senza però l’esito sperato. Scrive infatti la blogger cubana Yoani Sanchez: “Nell’isola che un tempo proibì le pratiche religiose per decreto molti cubani hanno rinforzato la loro fede”. Hanno dovuto nascondersi, sono stati esclusi dalla politica, hanno temuto di celebrare il Natale, sono stati educati all’ateismo scientifico, ma con successo solo parziale: “A scuola ci ripetevano che “la religione è l’oppio dei popoli”, ma anche i discorsi politici avevano una liturgia, prevedevano una prova di fede e una dedizione disinteressata a un “messia” che pure lui portava la barba e che pretendeva da noi sacrificio e devozione totale”.
Ancora: “Nessuno osa dire chi è responsabile di aver creato un soggetto (il cubano di oggi, ndr) indolente e senza personalità, senza vocazione e obiettivi, dissoluto e amorale, disinteressato al lavoro e senza alcuna aspirazione al benessere, irrispettoso delle leggi, privo di sogni e ideali. Questo tipo d’uomo è il prodotto del prolungato ateismo forzato… È un essere che non crede in niente, neppure in se stesso. Dalle sue ceneri risorge oggi la religione e persino noi che abbiamo perduto la fede lungo il cammino, vorremmo ritrovare la speranza per poter chiedere senza paura che durante questo Natale accada un miracolo” (El comercio, Perù, 19/12/2010).
Oggi, dunque, Cuba ha personaggi come Biscet, Sanchez, Farinas, che fanno sperare in una lenta ma sicura rinascita, ben raccontata in un libro fresco di stampa: “Adiòs Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro” (Lindau).
Ma per tanti anni una delle poche voci conosciute del dissenso cubano è stata quella di Armando Valladares. Il suo formidabile “Contro ogni speranza. 22 anni nei gulag di Castro” (Spirali), uscito negli anni Ottanta, costituisce un capolavoro, di storia e di fede, che ha lasciato il segno.
Arrestato nel 1960, all’età di 23 anni, per aver espresso alcune critiche al regime, Valladares riscopre in prigione- ascoltando il grido di tanti giovani che muoiono fucilati urlando “Viva Cristo re, viva Cuba libera, abbasso il comunismo”- una fede che lo accompagnerà attraverso le più indicibili vicissitudini. Le sue memorie sono appunto il racconto di questo inferno: persecuzioni, escrementi e urine gettati in faccia ai prigionieri, celle di rigore, mani mozzate con il machete, botte e sangue, prigionieri usati come cavie dai Mengele cubani intenti a costruire il mito della sanità castrista…insomma, tutto quello che il comunismo ha fatto, sempre e dovunque.
Ma tutto raccontato con la stessa forza che troviamo nelle opere di Solgenitsyn o di Harry Wu; con la stessa fede granitica che tiene viva la speranza, e che impedisce al condannato di soccombere spiritualmente vittima del suo odio. Così nelle memorie di Valladares torna spesso, anche nell’ultima pagina, il ritratto di un prigioniero, chiamato da tutti Fratello nella Fede: “un uomo scheletrico, gli occhi azzurri sfolgoranti e il cuore ricolmo d’amore” che invitava sempre i suoi compagni a perdonare. Che morì “alzando le braccia al cielo invisibile”, chiedendo a Dio “clemenza per i suoi aguzzini”. Il sangue dei martiri è seme, anche, di libertà. Il Foglio, 7 aprile 2011