IL DIRITTO DI VIVERE VIENE PRIMA DI TUTTI GLI ALTRI

Prendo spunto per questa riflessione da un contestato convegno alla Camera dei Deputati, promosso nei giorni scorsi per presentare un libro dal titolo ‘Biopoetica. Breve critica filosofica all’aborto e all’eutanasia’, che ha sollevato un vespaio di polemiche virulente.

Come spiegato in questo articolo (QUI)  il punctum dolens, che ha destato maggior putiferio nei mass-media, tutti ormai allineati

nel sostegno all’aborto, è stata la considerazione che l’aborto è eticamente ingiusto e non è un diritto. Da qui apriti cielo e anatemi laicisti a profusione.

Mi permetto dunque alcune considerazioni che in Francia, tipico modello di tolleranza e di libertà di pensiero, sarebbero sanzionate penalmente come ‘intralcio al diritto all’aborto’. 

L’aborto è un diritto o una tragedia da evitare?

L’aborto è prima di tutto una tragedia da evitare. E questo, teoricamente, dovrebbe mettere d’accordo tutti. È la maternità che va promossa, non certo l’aborto. Il diritto di non abortire (soprattutto quando intervengono motivazioni di carattere economico) piuttosto che quello di abortire. Eppure, nei consultori e negli ambienti ospedalieri dove si praticano aborti, la presenza di volontari pro-life, che possano ‘promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna’, ‘offrire possibili soluzioni dei problemi’ e ‘aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza’ (cito testualmente passaggi dell’articolo 5 della L. 194), viene perlopiù preclusa od ostacolata.

Infatti la legge 194, oltre a prevedere molte disposizioni a supporto della madre per contrastare l’opzione dell’aborto, sin dal titolo fa precedere la tutela della maternità all’aborto (‘Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza’). La possibilità di abortire concessa dal legislatore è un po’ come la possibilità di detenere droghe per uso personale: è una facoltà concessa dall’ordinamento giuridico ma non certo un comportamento da incentivare. Una facoltà con molti limiti, che si vorrebbero ignorare.

Ad esempio, all’articolo 18 della legge 194 è prevista la reclusione da 4 a 8 anni per chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna. Per chi banalizza l’aborto e sbandiera questo atto come una conquista sociale è bene ricordare questa norma che in certi casi arriva a prevedere l’aborto come un crimine.

Consenso informato

Certo, ciò che viene punito da quella norma è la forzatura del consenso, che dovrebbe essere riconducibile solo alla madre. Ma allora qui si apre il capitolo del consenso informato, cioè dei requisiti che lo configurano. E si potrebbe discutere su quegli aborti indotti senza rispettare il diritto ad avere una informazione piena, consapevole e veramente informata sull’entità che si vuole abortire e sulle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto.

Ascoltare un cuore che batte o vedere un’ecografia della creatura in grembo (e qui richiamo la promozione della recente iniziativa di legge popolare ‘Cuore che batte’) restituisce un segnale scientifico e oggettivo che può aiutare a qualificare la natura del concepito. Se per una madre guardare la creatura che porta in grembo o ascoltare il suo cuoricino mettono in crisi le proprie convinzioni sulla scelta di abortire, vuol dire che queste persuasioni non erano poi così salde o che la madre non aveva considerato l’altra faccia della medaglia. Dunque, ci si può domandare: il suo consenso a questa tragica decisione era davvero pienamente informato?

Condanna per chi spinge all’aborto

Ai tenaci difensori della Legge 194/78 proporrei un assist per rilanciare una sua norma: se l’articolo 18 prevede una pesante condanna dell’aborto forzato, perché non estendere la stessa disposizione a quei casi in cui le forzature sono compiute sulle donne per convincerle ad assumere pillole abortive sino al secondo mese di gravidanza? Se una donna viene spinta a quel tipo di aborto fai da te, ancora più grave di quello ospedaliero perché compiuto nella solitudine e con rischi e conseguenze che non vengono pienamente spiegati, non si può configurare una responsabilità in capo a chi la circuisce?

Oscurantista chi?

Le scomposte reazioni al convegno sull’aborto alla Camera hanno portato a denunciare contro chi definisce ingiusto l’aborto un presunto atteggiamento persecutorio e di oscurantismo. Sappiamo bene che, per qualcuno, spessissimo le accuse che si lanciano su avversari rivelano quelli che sono i propri atteggiamenti o propositi. Così, per esempio, quando si accusa la controparte di fascismo è per coprire proprie intimidazioni o imposizioni dittatoriali; quando si denunciano la violenza e le discriminazioni altrui è per mascherare i propri atteggiamenti violenti e discriminatori; quando ci si batte contro le censure o si invoca il controllo delle fake news è per poter meglio censurare o lasciare spazio incontrastato alle proprie informazioni ‘addomesticate’.

Dunque, detto questo, come commentare le accuse di oscurantismo se non considerandole come rivelatrici su di sé di quell’atteggiamento che si vorrebbe stigmatizzare?

Se oscurantismo significa nascondere una verità scomoda, si pensi in questo caso alla questione cruciale della natura del concepito. In fondo tutta la disputa si gioca lì: se l’embrione è un grumo di cellule allora l’aborto è l’eliminazione di spazzatura che può anche finire nel bidone dell’immondizia. Ma se quello è un essere umano allora cambia tutto.

Scienza, morale e legge

Questo discrimine non può essere lasciato alla discrezionalità o alla soggettività: se consideriamo le varie normative in materia si riscontrerà che i vari Stati consentono l’aborto con limiti diversi del periodo di gravidanza (poche settimane, tre mesi, sei mesi e, addirittura, fino alla nascita). Ciò distingue un prima, in cui la creatura abortita ha uno status sub umano, da un dopo in cui acquisisce una più piena dignità umana. Ma questo limite è sempre del tutto arbitrario, soggettivo o convenzionale. Eppure, ci sarebbe un criterio sicuro e oggettivo per dirimere la questione, che chiama in causa la scienza, quella vera. 

Il criterio che identifica un essere umano è il suo DNA e il momento in cui si forma il DNA è quello determinante. La vita umana incomincia con il concepimento: negare questo è oscurantismo.

Una volta iniziata l’avventura della vita, dovrebbe essere chiaro che l’aborto è sempre la soppressione di un essere umano (tale è chi ha un corredo cromosomico umano), non di una pianta o di chissà cos’altro. Negarlo è oscurantismo.

Dignità a chili?

E l’embrione non può avere una diversa protezione o riconoscimento a seconda di quanto è grosso o di quanto è bello. La dignità non si misura a chili ne è commisurata all’aspetto estetico. Se chi è più grosso vale di più allora smettiamo di condannare il bullismo. Se invece vale di più tanto più assomiglia ad un bambolotto, allora smettiamo di condannare il body shaming o le discriminazioni estetiche che privilegiano i belli. Negarlo è oscurantismo. 

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Autore: Roberto Allieri

Nato a Pavia nel 1962, sposato e padre di quattro figli, risiede in provincia di Bergamo. Una formazione di stampo razionalista: liceo scientifico, laurea in giurisprudenza all’Università di Pavia e impiego per oltre trent’anni in primario istituto bancario. L’assidua frequentazione di templi del pensiero pragmatico e utilitarista ha favorito l’esigenza di porre la ragione al servizio della ragionevolezza e della verità. Da qui sono seguite esperienze nel volontariato pro-life, promozione di opere di culto, studi di materie in ambito bioetico, etc. Collabora al Blog Oltre il giardino QUI  Vedi tutti gli articoli di Roberto Allieri