Su invito della redazione, che già in passato aveva concesso spazio ad una mia recensione letteraria (qui), ripropongo, in una versione rivista e corretta, un altro mio articolo, pubblicato tempo fa sul blog di Sabino Paciolla.
Si tratta del commento critico di un libro piuttosto datato ma, a mio avviso, acuto e predittivo: ‘Stato di paura’ (State of fear, edito 2004) di Michael Chrichton.
Peraltro, gli argomenti che vorrei approfondire si collegano ad altri recenti brevi saggi di carattere epistemologico
che ho pubblicato su questo blog.
Il volume è stato presentato come una narrazione thriller, un romanzo di carattere avventuroso, sulla scia di altri intriganti best seller di un autore di punta dell’editoria americana. Tuttavia, per mettere le cose in chiaro sin da subito, vi dirò che la trama della vicenda a me è sembrata particolarmente noiosa e alquanto insignificante. Per cui, a costo di mortificare una comprensibile curiosità, non ve ne parlerò.
In compenso, cercherò di accennare ad alcune delle teorie e spiegazioni che ruotano attorno al tema centrale, che è lo ‘stato di paura’, artificiosamente creato, sostenuto e amplificato da molti sistemi di potere.
LA PIÙ GRANDE EMERGENZA DI OGGI: IL PROLIFERARE DI STATI DI EMERGENZA
E, allora, entriamo subito nel vivo del discorso. Dicono in questo libro i personaggi di Crichton che in tutti i tempi l’allarmismo è stato funzionale a creare una situazione di emergenza. Nel secolo scorso la minaccia era, a seconda dei punti di vista, l’ebreo, il nazismo, il fascismo, comunismo, il terrorismo, etc. Laddove questa aumenta di intensità il potere impone di pari passo l’allarmismo, il quale crea burocrazia e proliferazione di tecnocrati.
La psicosi del surriscaldamento globale, ad esempio, crea un’emergenza. La quale va studiata, dimostrata e ciò ha bisogno di strutture burocratiche e politiche in tutto il mondo. E quindi un’enorme quantità di meteorologi, geologi, oceanografi e scienziati del clima impegnati nella gestione dell’emergenza.
Secondo Chrichton (sempre per bocca dei protagonisti del libro) l’aumento dell’emergenzialismo, del ‘non c’è più tempo’, può essere collocato dal 19891 , in coincidenza con la caduta del muro di Berlino. Venendo meno lo spauracchio del comunismo, gli Stati occidentali per esercitare meglio il controllo sui comportamenti dei cittadini, tenerli tranquilli e renderli più docili dovevano creare nuove paure. La caduta del Muro di Berlino ha lasciato un vuoto di paura. La politica, come la natura, aborre i vuoti. Qualcosa doveva riempirlo.
La nostra civiltà occidentale, dopo aver sconfitto la fame e aumentato enormemente l’aspettativa di vita (fame e salute erano le principali paure dei nostri avi sino alla Seconda guerra mondiale) ha prodotto nuove psicosi. La gente moderna vive nel terrore degli stranieri, delle malattie, del crimine, dell’ambiente. È perennemente preda di fisime e ossessioni orchestrate dal Potere per rendere i cittadini fragili, vulnerabili e, quindi, ricattabili.
La diffusione della paura è uno strumento, utilizzando il pretesto di promuovere la sicurezza, per raggiungere un fine: il controllo capillare dei nostri comportamenti per indirizzarlo verso obiettivi fissati da un dirigismo sempre più invasivo.
La distorsione, manipolazione e contaminazione dei dati diventa necessaria alla narrazione politica degli eventi. L’esperto, lo scienziato, il professionista della gestione dell’emergenza assume volentieri il ruolo di collaboratore e divulgatore dell’agenda politica.
Succede così che le ricerche, stimolate per dare conferma ad un esito già scritto, sono inevitabilmente orientate ad un certo tipo di risultato. Interessante l’analisi dell’effetto BIAS (distorsione della valutazione causata dal pregiudizio), sviluppata nel libro2. I ricercatori in genere non trovano quello che c’è ma quello che vogliono trovare o che devono trovare.
IL CASO YELLOWSTONE PARK
Paradigmatico di questo atteggiamento scientificamente sleale, dove l’ottusa imposizione dello stereotipo scientifico produce effetti del tutto contrari rispetto a quelli attesi, è il ‘caso Yellowstone’3, magistralmente spiegato in un fitto colloquio tra i personaggi di Bradley e Kenner. Il dialogo prende spunto dal saggio ‘Playing God in Yellowstone: the Destruction of America’s First National Park’4 – di Alston Chase, edito Atlantic, New York 1986.
Lo Yellowstone Park fu la prima zona selvaggia al mondo ad essere trasformata in riserva naturale. I manager del parco, mossi dall’intento di conservare la natura nel suo stato ottimale, promossero variazioni nell’eco-sistema che si rivelarono disastrose. In realtà, come spiega Chrichton in vari passaggi del libro, la natura non è un museo né un quadro che cristallizza una scena nella sua fissità. Il paesaggio naturale che tanto ci piace è l’ultimo cambiamento al quale è arrivata la natura. Il mondo è vivo, le specie vincono, perdono, aumentano, diminuiscono, vengono spazzate via. Per preservare la natura la si deve lasciare in pace e permettere che l’equilibrio naturale faccia il suo corso. Lasciar stare la natura non significa però conservarla nel suo stato presente. E’ un po’ come chiudere a chiave i bambini in una stanza per evitare che crescano. Il mondo è in perenne mutamento e bisogna lasciarlo crescere. E lo stesso discorso vale per il clima, che non può essere imbrigliato e impacchettato.
LOTTA AL DDT: MEGLIO DANNEGGIARE L’UOMO CHE L’AMBIENTE
Altro spunto formidabile, che sintetizza l’irrazionalità di tanti dogmi e retoriche verdi, è la tragedia del DDT5 (vedasi al riguardo anche il datato ma interessante articolo del prof. Ernesto Carafoli qui)
Nel ventesimo secolo, il DDT è stato il miglior antidoto contro le zanzare e, a dispetto di quello che si pensa oggi, non c’era nessun strumento più sano ed efficace. Debellò la malaria in gran parte del mondo. La sua scoperta valse il Premio Nobel a Paul Mueller nel 1948.
Il DDT fu bandito nel 1974 sull’onda dell’allarmismo e della paura fomentata da gruppi ambientalisti. Tra i vari pretesti che furono addotti, ci fu l’accusa di aver decimato la popolazione delle aquile poiché si diceva che il DDT penetrasse nei loro tessuti molli (vedasi best seller del 1962 Silent Spring, in cui l’autrice Rachel Carson accusava apertamente il DDT di far strage di aquile). In realtà, le aquile erano in grave declino da decenni, prima ancora della scoperta del DDT. Il libro della biologa innescò proteste a non finire – anche in merito a capziose affermazioni sullo scatenamento di forme tumorali, teoria che ingenerò nuove paure – e gli effetti dannosi del DDT vennero ingigantiti.
Fatto sta che gli stati africani furono obbligati ad abbandonare il DDT perché se l’avessero usato avrebbero perso gli aiuti internazionali di cui avevano vitale bisogno.
Dopo l’abolizione del DDT la malaria è arrivata a colpire ogni anno dai 300 ai 500 milioni di persone causando alcuni milioni di morti, soprattutto bambini (prima le vittime erano 50.000 l’anno).
È triste riscontrare che la piaga del neocolonialismo culturale dell’Occidente non si è certo fermata lì: oggi si scatena in molteplici altre imposizioni ideologiche, che ben conosciamo, alle quali i popoli devono inchinarsi tra ricatti e sotterfugi.
UN CLIMA DI SOSPETTO
Tra gli innumerevoli spunti di riflessione che offre questo libro, che è riduttivo considerare come romanzo, segnalo poi una vera chicca contenuta in un altro dialogo dei personaggi Kenner ed Evans6: la gustosa ricostruzione delle manipolazioni mediatiche che nel 1995 hanno portato a ribaltare la precedente posizione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’IPCC, la potente agenzia che guida le campagne di monitoraggio del clima. In sostanza, fino a tale data, gli scienziati di quell’agenzia negavano o minimizzavano l’influenza umana sul clima. Ma una teoria diversa (quella del riscaldamento globale di origine antropica) trovò improvvisamente spazio nel rapporto del 1995 dell’IPCC grazie all’intervento di una provvidenziale ‘manina’, successivamente attribuita a Ben Santer (vedasi a conferma, il volume di Paul Edwards e Stephen Schneider The 1995 IPCC Report: Broad Consensus or Scientific Cleansing che peraltro difende appassionatamente quei cambiamenti truffaldini).
Originariamente, il documento non conteneva quelle affermazioni. Ma, citiamo il libro di Chrichton7, ‘questa teoria venne inserita nel rapporto del 1995 dopo che gli scienziati (nota mia: che l’avevano redatto) se n’erano andati a casa. (Alcune loro scomode) affermazioni erano state cassate e sostituite con la dichiarazione secondo la quale l’influenza umana sul clima è riscontrabile a tutti gli effetti… I cambiamenti apportati in quel documento suscitarono un vero putiferio. Ci fu chi sostenne quei cambiamenti e chi li denunciò… Si possono trovare i documenti originali e l’elenco dei cambiamenti apportati online… Un esame delle modifiche apportate al testo lascia pensare che l’IPCC sia un’organizzazione politica, non scientifica’.
A partire da quell’anno, cominciò la veloce epurazione degli scienziati che dissentivano sulla nuova teoria, che pure fino all’anno prima erano maggioranza.
LA RICERCA NON DEVE RICERCARE IL GUADAGNO
Da ultimo, tra i notevolissimi temi di dibattito offerti da ‘Stato di paura’, proporrei questa considerazione dell’autore, relativa alla necessità di emancipare la ricerca dall’assillo del controllo politico.
Chrichton, in un breve trattato in coda al libro, auspica che venga avviato un meccanismo per la raccolta di fondi che metta al riparo i ricercatori da condizionamenti. Gli scienziati oggi si trovano nelle stesse condizioni dei pittori rinascimentali: come loro, lavorano su commissione. E, se sono furbi, si assicurano che il proprio lavoro soddisfi il mecenate. Questo non è un buon sistema per fare ricerche imparziali. Chrichton suggerisce invece di separare la ricerca dai finanziatori. Occorre un meccanismo di raccolta fondi neutrale e anonimo. Chi finanzia la ricerca persegue un risultato preciso o ha aspettative in tal senso. Se la continuità dei finanziamenti dipende dal raggiungimento di certi risultati, gli scienziati sono condizionati a fornire quei risultati stessi. Nessuna fazione dovrebbe avere campo libero secondo lo scrittore.
Insomma, e qui finisco, un libro con innumerevoli tracce di riflessione, ben documentate da una ricca bibliografia alla fine del volume. Un thriller profetico e anomalo: si potrebbe partire a leggerlo anche da metà o dalla fine andando a ritroso. Tanto, come ho detto, la trama non mi pare interessante: i migliori colpi di scena, a mio parere, non sono nell’azione, ma nella meditazione dei personaggi e nei numerosi grafici che illustrano le loro teorie.
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1 Michael Chrichton, Stato di Paura, ed. Garzanti 2012, pp. 523 ss.
2 Michael Chrichton, op. cit., p. 443 ss.
3Michael Chrichton, op. cit., pp. 557 ss.
4Alston Chase, Playing God in Yellowstone: the Destruction of America’s First National Park, Atlantic, New York 1986.
5 Michael Chrichton, op. cit., pp. 561-2.
6 Michael Chrichton, op. cit., pp. 285 ss.
7 Michael Chrichton, op. cit., p. 286.