“Per crescere un figlio ci vuole un villaggio”. La verità scomoda del disagio autistico

Il quarto romanzo di Daniele Mencarelli

Un padre e un figlio, Pietro e Jacopo, in viaggio verso Marina di Ginosa, in Puglia, per celebrare l’anniversario di matrimonio nel luogo dove Pietro ha conosciuto e si è innamorato di sua moglie. 
Un guasto alla frizione della vecchia Golf e improvvisamente Pietro si ritrova nella desolata terra del Sannio, senza poter proseguire. L’incontro provvidenziale con Oliviero, meccanico alla guida del suo carro attrezzi,

permetterà ai due viaggiatori  di arrivare al paesino di Sant’Anna, dove Oliviero si offre di riparare l’auto in panne e indica loro come alloggio temporaneo  un piccolo e vecchio bar-  albergo gestito dalla sua compaesana Agata. Pietro, che ha malvolentieri accettato la richiesta, da parte di Oliviero, di attendere tre giorni prima di riavere l’auto in condizioni accettabili per poter riprendere il viaggio, si adatta altrettanto a denti stretti ad alloggiare presso il malandato albergo di Agata. Non ama infatti gli sguardi interrogativi che, già dall’incontro con l’anziano meccanico, si sono posati con insistenza su suo figlio Jacopo e che inevitabilmente si concludono sempre sul   “come e  il cosa e il perché”: Jacopo infatti è un diciottenne gravemente autistico, “a basso funzionamento, bassissimo”, come ormai ripete meccanicamente il padre davanti a chi insiste a domandare delle sue condizioni.  “Non parla, non sa fare nulla, si piscia e si caca addosso”, aggiunge poi,  lapidario, Pietro  con chi si ostina a chiedere ulteriori spiegazioni. Come Agata, per esempio, che guarda con inevitabile stupore quei due strani ospiti arrivati inaspettatamente ad alloggiare da lei, dopo che l’albergo, in seguito alla morte di suo marito, ha smesso ormai da parecchi anni di accogliere turisti. O come Gaia, giovane aiutante di Agata, altrettanto incuriosita da quel padre che, a fatica, cerca di nascondere la delusione e la frustrazione per un figlio così difficile da gestire, così totalmente bisognoso di accudimento a partire dai più banali aspetti della quotidianità, come il mangiare, il lavarsi o il vestirsi. Pietro non ama Jacopo e il suo disamore si traduce in uno sprezzante appellativo con il quale chiama il ragazzo quando si trova a tu per tu con lui.  Pietro è divorato dalla rabbia e dalla delusione, per gli anni passati inutilmente a cercare cure, per i soldi sottratti al già magro bilancio familiare nello sforzo di pagare sedicenti e onerosi  “esperti”,   per il senso di abbandono che ha percepito negli anni da parte delle istituzioni, per una fatica che ha investito anche il rapporto con la moglie-  lei comunque continua a guardare Jacopo con occhi di speranza- Pietro, soprattutto, avverte davanti a sé e sopra di sé la “cappa” di un deserto soffocante, senza via d’uscita: quella del futuro buio suo e di Jacopo. Ma nel momento in cui tutto sembra definitivamente perduto, braccia e sguardi imprevisti, fatti di tenerezza e di compassione, apriranno una breccia nel muro del suo accanito e rabbioso orgoglio e della sua cupa disperazione, prospettandogli, come un tenue, ma tenace barlume di luce, un’altra possibilità di vivere la sua vita e la disabilità di Jacopo. 

Un percorso letterario in controtendenza

Daniele Mencarelli – dopo la fortunata trilogia autobiografica iniziata con “La casa degli sguardi”, proseguita con “Tutto chiede salvezza”  e conclusasi con  “Sempre tornare”, si ripropone al pubblico dei lettori con questo quarto romanzo, affrontando il tema della genitorialità  alle prese con la sfida, altamente drammatica, della disabilità grave di un figlio. E lo fa  con un racconto “scandalosamente” in controtendenza rispetto a una certa narrativa, edulcorata e spesso tesa a censurare i limiti reali di questi figli millantando loro presunte capacità eccezionali- che sarebbero nascoste, secondo certi autori,  dietro l’apparenza della malattia mentale e fisica, in particolare dietro l’apparenza dei disturbi legati allo spettro autistico-  Mencarelli, realisticamente, anche molto duramente, narra di una disabilità che non ha nulla di esteticamente e intellettualmente attraente:  Jacopo, infatti, non parla; il suo “linguaggio” è fatto di versi disarticolati e incomprensibili, si sporca a tavola, non controlla i suoi bisogni fisiologici, è pesantemente disturbato e spaventato dai rumori forti e dalle grida. Solo Agata e Gaia riescono a vederne la bellezza, nei suoi lineamenti  delicati e non sfigurati del tutto  dalla patologia che lo affligge: il padre questa bellezza non la riconosce, pur essendo accanto al figlio fin dalla nascita.  Perché un genitore -testimonia acutamente Mencarelli- può non sopportare la disabilità di un figlio e la fatica logorante, fisica e mentale, a cui costringe; può, addirittura, odiare il figlio che ne è portatore, anche dentro una modalità di cura praticata in modo irreprensibile.

Uomini portatori di fragilità

La strada che Mencarelli suggerisce, senza alterigia alcuna, ma con la discrezione e il rispetto profondo di chi, come lui, è familiare fin da giovanissimo con la sofferenza, è una presa in carico umile e appassionata degli uomini e delle donne portatori di fragilità, in particolare, di quei genitori e  di quei figli provati in modi  diversi, ma identicamente pesanti, dalla malattia.  

Come ha detto qualche anno fa papa Francesco, citando un proverbio africano, “per crescere un figlio ci vuole un villaggio”. Tanto più un villaggio, anche di dimensioni ridotte, è necessario per crescere i figli feriti e con loro accompagnare nel cammino padri e madri, sfiniti dalla fatica e spesso dalla solitudine utopicamente, autosufficiente in cui sono tentati di rinchiudersi. Il pianto liberatorio di Pietro, alla fine del romanzo, segna forse la possibilità che questa solitudine distruttiva possa davvero non essere l’ultima parola sulla condizione del suo tribolato -e dolorosamente amato- Jacopo, come su quella di tanti bambini e ragazzi segnati in modo permanente dalla disabilità.  La sfida di “essere”, dovunque ci si trovi, parti di questo, oggi  più che mai necessario,  villaggio  è  – per ciascuno – , dunque, più che mai aperta. Come altrettanto aperta è la sfida di riconoscerlo, questo villaggio, e di umilmente accoglierlo tra le proprie “mura” di fatica e di disperazione, quando lo si incontri sulle strade del vivere.  Daniele Mencarelli ha presentato “Fame d’aria” lunedì 1 maggio alle h. 18.30 presso la Fiera dei Librai di Bergamo, la tradizionale rassegna libraria di nuovo presente sul Sentierone.

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