IL GETSEMANI PROVA LA VERITÀ DELLA MISERICORDIA nella verità della sofferenza (San Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 18)

 

San Giovanni Paolo II, l’ 11 Febbraio 1984, Memoria della Madonna di Lourdes, per il Giubileo della Redenzione,

pubblicava la Lettera Apostolica Salvifici Doloris

 

Come comprendere l’espressione Salvifici doloris

La traduzione adottata in italiano per la prima frase della Lettera Apostolica, non rende immediatamente al lettore contemporaneo la profondità dell’espressione salvifici doloris. Traducendola  con le parole il valore salvifico della sofferenza, si valorizzano meno i casi e le concordanze del testo latino.

Il testo latino recita:  «SALVIFICI DOLORIS virtutem declarans, ait Sanctus Paulus Apostolus: “Adimpleo ea, quae desunt passionum Christi, in carne mea pro corpore eius, quod est Ecclesia”. Cioè, in una traduzione più letterale, «Dice il Santo Apostolo Paolo, spiegando la forza del dolore salvifico (la parola esatta utilizzata nella Lettera  è forza-virtù e non valore) “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo, che è la Chiesa”». Infatti, virtutem non significa solo, o, principalmente valore, ma, forza, virtù, a meno di riconoscere al termine valore non il significato attuale, di sapore economico, ma quello originario di valeo, valēre, esser forte, il che ci riconduce ai significati sopra indicati. Il termine valore, secondo l’odierna accezione, rischia di essere recepito dall’odierno lettore in modo da snaturare il tema teologico sulla virtù, sulla forza, necessarie per affrontare la sofferenza.

Le due parole latine –salvifici doloris–  in latino sono entrambe in caso genitivo e salvifici è attributo di doloris, anch’esso al caso genitivo, quindi, secondo il testo, San Giovanni Paolo II afferma che il dolore, in Cristo, è salvifico ed è una forza. E così abbiamo visto vivere il dolore in San Giovanni Paolo II.

San Giovanni Paolo II, Karol Jozef Wojtya,

Anni di Pontificato 1978-2005

In Lui il dolore ha un significato nuovo, fino a perdonare.

In Lui il dolore ha un significato nuovo. Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino, che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo e illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’Apostolo scrive: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1,24). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, e una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso, che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare – così come aiutò lui – a penetrare il senso salvifico della sofferenza (SD I, 1).

In ospedale dopo l’attentato e prima di perdonare il suo killer

Ciò detto, diversi sono i passi che illuminano il nostro percorso. La Lettera Apostolica, dopo un’ampia disamina delle difficoltà dell’uomo nell’affrontare il significato del dolore, vi risponde offrendo l’annuncio cristiano nella propria integrità.

Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo

«Venerati fratelli e diletti figli.

  1. “Completo nella mia carne – dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza – quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa”.
La vera Icona, Maestro del Garofano di Baden (sec. XV).
Digione – Museo delle Belle Arti

Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo e illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’Apostolo scrive: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1, 24). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, e una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare – così come aiutò lui – a penetrare il senso salvifico della sofferenza».

Il libro di Giobbe annuncia la passione di Cristo

11 … Il libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata senza riserve con l’ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità, al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire e impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella Rivelazione.

Perché la sofferenza?

12. Il libro di Giobbe pone in modo acuto il “perché” della sofferenza, mostra pure che essa colpisce l’innocente, ma non dà ancora la soluzione al problema. Già nell’Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il valore educativo della pena-sofferenza[1].

Deposizione. Colyn de Coter (sec. XV-XVI) Stoccarda – Staatsgalerie Mozart, Stabat Mater

Eia, mater, fons amóris,

me sentíre vim dolóris

fac, ut tecum lúgeam.

(Pergolesi, Stabat Mater. Seleziona “Play” e attendi 10 secondi. Ascolta e contempla)

 

La sofferenza invito della misericordia di Dio al perché

Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: “Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo”. … Ma per poter percepire la vera risposta al “perché” della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la Rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L’amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il “perché” della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino.

L’uomo “muore”, quando perde “la vita eterna”

  1. … L’uomo “muore”, quando perde “la vita eterna”. Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l’essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all’umanità per proteggere l’uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell’uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione. …
Il bacio di Dio. “L’umanità redenta dal Crocifisso”
– Parigi – Biblioteca Nazionale – ms. Lat. 9471 – Fol. 17 r.

Isaia e il Getsemani

  1. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il carme del Servo sofferente, contenuto nel libro d’Isaia. Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del carme, che danno un’anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota.
Isaia in preghiera, Manoscritto sec. XV.
Corale Cartusiano, Fol. 2 v. Ferrara – Museo Schifanoia
Il Servo sofferente – e questo a sua volta è essenziale per un’analisi della passione di Cristo – si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario (Is 53,7-9):

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell’interrogativo, che – posto molte volte dagli uomini – è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l’unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè, con la buona novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza[2], che con un tale insegnamento della buona novella è integrata in modo organico e indissolubile. E questa è l’ultima, sintetica parola di questo insegnamento: “la parola della croce”, come dirà un giorno san Paolo.

La Croce libera dagli inferi.

Cambridge – St. John’s – ms. K. 26 – Fol. 20 v.

Questa “parola della croce” riempie di una realtà definitiva l’immagine dell’antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l’insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall’inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39), e in seguito: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà” (Mt 26,42), hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell’amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell’amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l’uomo rabbrividisce. Egli dice: “passi da me”, proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.

Le sue parole attestano insieme quest’unica e incomparabile profondità e intensità della sofferenza che poté sperimentare solamente l’Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità e intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell’uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità, espressa dal profeta, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell’anima di Cristo.

Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità – unica nella storia del mondo – del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” le sue parole non sono solo espressione di quell’abbandono, che più volte si faceva sentire nell’Antico Testamento, specialmente nei salmi e, in particolare, in quel salmo 21(22), dal quale provengono le parole citate. Si può dire che queste parole sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre “fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà san Paolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21). Insieme con questo orribile peso, misurando “l’intero” male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza, che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la redenzione, e può dire spirando: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30).

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori (Is 53, 10)

Pietà. Simon Marmion (sec. XV)

– Strasburgo – Museo delle Belle Arti.

Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto carme del Servo sofferente: “Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori” (Is 53,10). L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo.

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[1] Il testo latino dice: … ex qua dolor solum ut poena peccati possit explicari, exsuperatur, quatenus simul efficacia doloris ad educandum in lumine ponitur, ovvero si sottolinea che viene posta in luce l’efficacia del dolore al fine di educare. Se si tiene conto che il termine efficacia, in latino, come in italiano, indica la capacità di ottenere l’effetto voluto, risulta evidente l’intenzione del Santo, ovvero, che il dolore salvifico sia ritenuto la via che ottiene l’effetto voluto. Le sofferenze, aggiunge subito il Santo, racchiudono un invito della sua misericordia.

[2] «SD, 18 …Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè, con la buona novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza … (e) 14. … L’uomo “muore”, quando perde “la vita eterna”. Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l’essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all’umanità per proteggere l’uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva».

Il modo di Gesù di vivere la sofferenza dice anche il senso, indicando la Via; è via scoprire che la sofferenza vera non è solo quella temporale, qualunque essa sia, ma la perdita della vita eterna, la dannazione. questo dice, a un tempo, la Verità, il perché … nel come (mia considerazione).

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Autore: Marcello Giuliano

Nato a Brescia nel 1957, vive a Romano di Lombardia (BG). Dopo aver conseguito il Baccelierato in Teologia nel 1984 presso il Pontificio Ateneo Antonianum di Roma e il Diploma di Educatore Professionale nel 2001, ha lavorato numerosi anni nel sociale. Insegnante di Religione Cattolica nella Scuola Primaria in Provincia e Diocesi di Bergamo, collabora ai cammini di discernimento per persone separate, divorziate, risposate ed è formatore per gli Insegnanti di religione Cattolica per conto della stessa Diocesi. Scrive sulle riviste online Libertà & Persona e Agorà Irc prevalentemente con articoli inerenti la lettura simbolica dell’arte ed il campo educativo. Per Mimep-Docete ha pubblicato Dalla vita alla fede, dalla fede alla vita. Camminando con le famiglie ferite (2017); In collaborazione con Padre Gianmarco Arrigoni, O.F.M.Conv., ha curato il libro Mio Signore e mio Dio! (Gv 20, 28). La forza del dolore salvifico. Percorsi nella Santità e nell’arte, (2020). Di prossima uscita Gesù è veramente risorto?

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