Il monito della Fallaci: i giornalisti devono rischiare, denunciare i crimini e proteggere la vita

Ci sono giornalisti che «uccidono la vita invece di proteggerla. Sono come certi funghi che sembrano buoni da mangiare (infatti hanno tutta l’apparenza fisica di buoni funghi, e spesso sono persino belli), però quando li mangi finisci all’ospedale o sottoterra. E che cibo è un cibo che mi avvelena e mi fa morire? Il cibo è per tenermi in vita, non per farmi morire!». Sono parole appassionate di Oriana Fallaci, pronunciate durante alcune conferenze tenute negli anni ’70 e ’80 in diverse università del mondo e raccolte nel libro di recente pubblicazione, Il mio cuore è più stanco della mia voce. E dal suo cuore lancia consigli anche a molti dei suoi colleghi e allo stesso pubblico di lettori: «Non devo divertirvi. Non devo suscitare le vostre risate di approvazione. Non devo intrattenervi cercando di essere sagace o di compiacervi».
La Fallaci non teme di urtare la suscettibilità di chi la ascolta, anzi, in molti passaggi risulta provocatoria, come quando, all’Università di Harvard afferma: «non sprecherò tempo a illustrare l’ipocrisia americana», accusando gli Stati Uniti di favorire le «dittature criminali del Sud America». Prosegue: «voi giovani americani sapete davvero poco di pena e dolore, della vita com’è oltre le mura della società in cui vivete, e oltre l’abitudine all’indifferenza […] non siete mai stati arrestati perché eravate alla ricerca di un poco di libertà». Nei suoi discorsi spiega anche come affronta la sua professione: «Io non sono uno di quegli scrittori, o uno di quei giornalisti, che si esprimono con giri di frase, con allusioni prudenti, e che tacciono la verità per paura […] Dico quello che penso, sempre, per non tradire completamente me stessa». Affronta così il tema del ruolo del giornalista, la Fallaci: «Un buon giornalista non dovrebbe mai essere una persona accomodante. Ancora meno, una persona innocua. Se tutto fila liscio per lui o per lei, significa che compiace il piacere. Il nostro compito non è compiacere il piacere. Il nostro compito è informare e risvegliare la consapevolezza politica delle persone. Quella consapevolezza che il potere ha sempre cercato di mettere a dormire». Sul potere Oriana ha le idee chiare: «Odio il potere perché amo la libertà»; «la leadership politica sta allo scrittore come una giacca stretta, un paio di pantaloni troppo piccoli. Al primo movimento mentale, quella giacca e quei pantaloni si scuciono, si rompono. In altre parole, il potere non si adatta al tipo d’intelligenza dello scrittore, alla sua indipendenza mentale, alla sua ricerca della verità». Infatti, a parere di questa donna fiera e coraggiosa, l’obiettivo dello scrittore è «la ricerca della verità che serve la vita»: «senza la ricerca della verità noi scrittori non possiamo funzionare perché ci viene a mancare l’ingrediente principale della nostra cucina: il buon cibo che preserva la vita. Senza il sogno di un mondo migliore non possiamo operare perché perdiamo l’obiettivo morale, la spinta creativa. Senza la libertà rinunciamo alla nostra indipendenza di giudizio e tagliamo le ali della nostra fantasia, castriamo i genitali della nostra produttività, chiudiamo le porte delle nostre scoperte. E non abbiamo più idee. Noi lavoriamo sulle idee, con le idee, come il cuoco lavora col sale e con l’olio: scrivere significa anzitutto pensare». E quando uno scrittore non si pone questo primario obiettivo? «Se non significa questo, non mi importa niente d’essere uno scrittore. E vendo la qualifica di scrittore ai mercanti di parole, ai cortigiani che scrivono in malafede per tenere il mondo com’è, non dignitoso, indecente, insopportabile». Punta il dito, ora: «il giornalista deve esistere non per soddisfare banali curiosità, non per alimentare il pettegolezzo o per divertire: deve esistere per aiutare le persone a trovare o mantenere la propria dignità, per combattere la propria ignoranza, per difendere se stessi», «ma con l’avvento della rivoluzione industriale e del capitalismo moderno, con lo sviluppo delle comunicazione», il giornalismo «divenne un prodotto industriale. Un business. Nemmeno il più idealista dei giornalisti può negare che, nella sua organizzazione economica e giuridica, il giornalismo sia principalmente diventato un oggetto di consumo». La tecnica è quella di «assalire il lettore con un bombardamento di notizie pseudo-obiettive, messe insieme per dargli l’impressione d’essere superinformato». Oriana concepiva il suo scrivere come un’attività politica, ma slegata da logiche di dominio: il giornalista «deve denunciare i torti, gli abusi, i crimini; deve dire come possono essere corretti o impediti. Deve prendere una posizione, deve rischiare. È il suo dovere. Io faccio politica attraverso il mio mestiere di scrittore. Vale a dire, attraverso i miei libri, le mie interviste». In quegli anni la politica sta già prendendo la piega dei giorni nostri e… «malgrado gli impostori, gli opportunisti, i bugiardi che usano la politica per i loro interessi personali, le loro ambizioni, le loro false promesse; malgrado i tiranni che usano la politica per la loro sete di potere, i loro abusi, i loro crimini; malgrado gli assassini che usano la politica per i loro massacri, io non riesco a guardar la politica nel modo di chi pronuncia la parola politica come se fosse una parolaccia. Al contrario sono convinta che la politica sia (o possa essere) una delle attività più nobili che un essere umano possa intraprendere». Oriana incarna nella sua vita ciò in cui crede: «ho un alto concetto della politica. L’uomo che amavo, quell’uomo su cui ho scritto un libro, Un uomo, Alekos Panagulis, diceva che la politica è un dovere di un cittadino. Se uno non avverte quel dovere non è un cittadino, è un idiota senza coscienza, un masochista che non si cura neanche della sua sopravvivenza». Pensiamo ad esempio alle leggi infauste come quelle sull’aborto e sull’eutanasia: «le cattive leggi devono essere disubbidite». Se una questione diventa legale non significa che è anche lecita moralmente. Con grande coinvolgimento, Oriana spiega infine cosa significa per lei scrivere: «la vera scuola dello scrittore è la vita stessa, a incominciare dalla propria. E, dato che il suo lavoro principale è osservare la vita, a incominciare dalla propria, non separa mai la vita personale dal suo lavoro. Non stacca mai: il mio lavoro è meraviglioso, ammesso che venga affrontato non come un mestiere, ma come una missione». Dichiara infatti: «sono nata per scrivere». Ma idealismo e realtà non sono mai disgiunti in lei: «Io non sono Giovanna d’Arco o l’Achille che alcuni vedono in me. Sono soltanto una persona che ha il coraggio di dire quello che pensa, di fare quello che crede debba essere fatto, di vivere come vuole vivere […] E non credo ai miti, meno che tutti, al mio». Bisogna dunque «raccontare la vita e quindi la verità senza paura, senza cedere mai […] essere scomodi, avere il coraggio d’essere scomodi, senza curarsi d’essere ricattati, intimiditi, puniti […] Stare dalla parte dell’umanità. E pazienza se perdiamo»: «il vero scrittore accetta con orgoglio le offese degli uni e degli altri, le punizioni degli uni e degli altri, perché essi sono il riconoscimento della sua indipendenza».

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Autore: Irene Bertoglio

Grafologa iscritta all’Associazione Grafologi Professionisti (A.G.P), specializzata in consulenza aziendale, Irene Bertoglio è perito grafico giudiziario, educatrice e rieducatrice della scrittura, socia A.N.G.R.I.S. Ha pubblicato "Intervista ai maestri Vol. 1" (LeoLibri 2012) e ha partecipato al volume "Contro-canti". Collabora con diverse testate cattoliche.

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