Ancora denaro pubblico per i radicali?

Dalla legge di stabilità 2013, è stata stralciata la norma che prevede uno stanziamento di 10 milioni di euro al Centro di Produzione S.p.A.‒ “Radio Radicale”, non per questioni di merito – ha affermato il Presidente della Commissione Bilancio del Senato – ma per questioni di opportunità, legate al profilo della legge finanziaria. La questione si riproporrà in Parlamento nei prossimi giorni e, come accade ogni anno, è fortemente probabile l’ennesima elargizione di denaro pubblico a favore dell’organo d’informazione di quel soggetto politico che rappresenta la quintessenza dell’ideologia anti-umana.
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Sergio Lari, un magistrato vero

Segnalare i fannulloni e i politicizzati è doveroso, ma prendersela a prescindere coi magistrati è da dementi. Anche perché molti di loro lavorano veramente con metodo, coraggio e abnegazione; magari non finiscono tutti i giorni in televisione, magari non sono stati ospitati ripetute volte ad “Annozero” e non sostengono pubblicamente Antonio Di Pietro, ma questo non significa nulla. Anzi, semmai dimostra una volta di più la loro serietà professionale e la loro volontà di lasciare teoremi e velenose insinuazioni ai professionisti dell’antimafia.

Prendete Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta. Allievo di Antonino Caponnetto, appassionato di pallacanestro e caratterizzato da un aspetto giovanile e discreto, Lari è tutto l’opposto dei suoi colleghi politicizzati. Lavora con scrupolo, denuncia la carenza di mezzi ma non si lascia tentare da troppe lamentele. E pensare che ha tra le mani la più scottante indagine italiana, il dossier sulle stragi del ’92, e, nell’autunno scorso, ha appreso di essere nel mirino della criminalità organizzata. Avrebbe cioè ottime ragioni per mettersi in mostra. Invece preferisce la professionalità, come dimostra la scarsità di filmati, interviste, fotografie o libri che parlano di lui sul web. Guarda caso il nostro è del tutto contrario a quelle quotidiane fughe di notizie che più di qualcuno annovera tra i diritti del cittadino “ad essere informato”.

Ecco cos’ha dichiarato in proposito poco tempo fa:” Siamo demoralizzati dal fatto che testate importanti come il Corriere della Sera e L’Espresso diano anticipazioni delle nostre delicatissime indagini, pubblicando un mix di informazioni in parte infondate in parte vere, danneggiando le stesse indagini e offrendo un’immagine distorta della realtà […] Se servitori dello Stato, che siano magistrati o rappresentanti delle forze dell’ordine, violano il segreto istruttorio, devono essere individuati e puniti, perché la fuga di notizie è un reato” (Il Riformista 23/5/2010, p. 2).

Parole forti, che sorprendono. Così come sorprendono le sue lamentele quando qualcuno del suo ufficio spiffera notizie alla stampa. Pare infatti abbia tirato – e parecchio – le orecchie ai suoi l’altra sera, dopo che Domenico Gozzo, che ha lavorato con lui tanti anni a Palermo, avrebbe dichiarato che il mondo della politica non potrebbe “reggere” le verità ormai vicine sulle stragi del ’92. Gozzo, in realtà, intendeva affermare che “il problema è se la politica sarà in grado di raccogliere questa verità”, ma Lari è stato categorico: mai più chiacchiere coi giornalisti.

E, prima di far calare il silenzio, s’è sbilanciato pure in una irrituale difesa del Premier che, com’è noto, viene segnalato dai lettori di Travaglio come il nuovo “referente” politico di Cosa Nostra, ossia l’unica ragione per cui la mafia avrebbe interrotto le stragi. Un teorema che Lari non condivide. E quando qualcuno gli ha chiesto se il Premier risultasse indagato, ha quasi perso le staffe:”Chi l’ha mai detto? Berlusconi non è coinvolto. Non figura nelle indagini […] Sono stanco di vedere strumentalizzare le nostre indagini contro Berlusconi, perché lui non c’entra niente” (Corriere della Sera, 22/7/2010, p19). Dopo questa, dubitiamo che il procuratore capo di Caltanissetta sarà simpatico ai professionisti dell’antimafia. Ma siamo certi che se ne farà molto presto una ragione.

I giudici non credono a Ciancimino. E non sono i soli

I giustizialisti saranno ancora più viola di rabbia ora che il loro idolo, Massimo Ciancimino – detto “Rolex” per la sua scarsa inclinazione ad una vita normale e lontana da lussi sfrenati – è stato respinto per la seconda volta dai giudici del processo d’Appello a Dell’Utri in quanto testimone poco credibile nfatti, anche se ha deposto al processo Mori dopo ventitrè interrogatori e due ospitate da Santoro, per i magistrati che giudicheranno il senatore già condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, le dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo risultano prive di fondamento. E pensare che Massimo Ciancimino, com’è noto, sostiene che Marcello Dell’Utri abbia addirittura “sostituito” suo padre “nei rapporti tra mafia e politica”(Il Fatto Quotidiano, 11/2/2010, p 9.); insomma, per lui il senatore del Pdl c’è dentro fino al collo.

La credibilità delle sue parole, come dicevamo poc’anzi, ha tuttavia convinto assai poco i giudici della seconda sezione penale della Corte d’appello di Palermo, che, nell’ordinanza con la quale, per la seconda volta in pochi mesi, lo hanno respinto come testimone, hanno scritto:” Le uniche informazioni che egli ha fornito non provengono mai da conoscenza e contatti diretti, bensì da quanto egli afferma di aver appreso dal genitore Ciancimino Vito […] non sono correlate neppure ad una diretta conoscenza da parte di quest’ultimo dell’odierno imputato (Marcello Dell’Utri), risultando dunque notizie di secondo grado pervenute a Ciancimino Vito da terzi e poi da queste riferite al figlio spesso a distanza di molti anni”. Per farla breve le dichiarazioni di Massimo Ciancimino risultano “connotate da incontestabile progressione e talora da una irrisolta contraddittorietà” in quanto mere “supposizioni”.

In realtà, c’è poco da stupirsi per queste parole, perché sono stati davvero in pochi, in questi mesi, a credere alle dichiarazioni di “Rolex”, specie quando ha parlato del famoso accordo Stato-Mafia. Non ci ha creduto nemmeno la stampa straniera. In Germania, dove il tema mafioso è assai sentito, la “Faz”, testata di destra, ha scritto: “Il discorso mafia in Italia si complica quando i pentiti non appaiono più appetibili e affidabili, come nel caso di Massimo Ciancimino”. Pure la stampa teutonica di sinistra c’è andata giù pesante:”Molti i dubbi sulle rivelazioni del figlio di don Vito” ha affermato la “Rundschau”. Ciancimino non ha convinto nemmeno la stampa iberica: per “El pais”è “un pentito eccellente, brillante, furbo, simpatico, milionario e venditore nato”.

Per la verità nemmeno da noi, amici di Santoro e Travaglio a parte, sono molti quelli che credono alle parole del figlio di don Vito. Dopo aver appreso delle sue dichiarazioni sull’arresto di Riina, Sergio De Caprio, alias Ultimo – quello che Riina l’ha arrestato sul serio – ha trovato in quelle parole “l‘ennesima aggressione di stampo mafioso” ed ha aggiunto che “la cosa più grave è che ci sia qualcuno all’interno delle istituzioni che legittima questo servo di Riina. Significa che i servi di Riina sono anche all’interno delle istituzioni” (Panorama, 19/11/09, p.29). Decisamente scettico su Ciancimino è anche Francesco Cossiga. Il presidente emerito della Repubblica ha scritto:”C’è da chiedersi il motivo per il quale il giovane Ciancimino si sia ricordato di dire queste cose e di esibire questa lettera (il presunto papello) solo adesso. Sorge il dubbio che lo faccia per ingraziarsi i magistrati e perché spera che mollino l’osso del ricco patrimonio che il padre gli ha lasciato all’estero” (Il Tempo, 16/10/2009, p.1).

La vicenda del papello ha convinto poco anche Luciano Violante, magistrato nonché ex presidente della Camera:”In questa vicenda del papello, di cui si parla oggi,alcune cose colpiscono. Primo. Che ce l’abbia prima l’Espresso e poi la Procura di Palermo. Qual è il senso di questa consegna a un media prima che ai magistrati? Che gioco sta facendo Massimo Ciancimino? Perché rendere pubblico quel documento? […] credo comunque che Berlusconi non abbia niente da temere dalla scoperta della verità” (Il Secolo XIX, 16/10/2009, p.1).

Ora, al di là delle dichiarazioni di Tizio e di Caio, ci sono dei “fatti”, come direbbe Travaglio, che effettivamente sconcertano a proposito della serietà con la quale, da mesi a questa parte, viene gestito il caso Ciancimino. Il compianto Giovanni Falcone, quando interrogò Buscetta per tre lunghi mesi, lo face senza che mezza parola, né una domanda o una risposta uscissero dalla stanza degli interrogatori, mentre le dichiarazioni di Ciancimino, come annota giustamente Violante, sono arrivate prima sulla stampa e solo dopo alla Procura.
E’ normale tutto questo?
Ancora: in molti ipotizzano che Ciancimino parli per un solo interesse: il suo. E nessuno, effettivamente, può negare che, dopo aver cominciato a parlare con i pm delle strati di mezza Italia, il figlio di don Vito, guarda caso, abbia visto dimezzarsi in appello la pena incassata al primo grado al processo che lo vede imputato per aver riciclato il presunto tesoro di Cosa nostra. Questo mentre Ciancimino raccontava storie incredibili. Come quella secondo la quale suo padre “faceva parte di Gladio”.
Peccato che il presidente di Stay Behind smentisca che il nome di Vito Ciancimino sia nell’elenco di Gladio assegnato alla relazione presentata al Senato nel ’91 e che non appaia nemmeno fra gli appartenenti nati in Sicilia.

Altra perla da antologia è quella su Ustica. Massimo Ciancimino ha dichiarato: “non mi posso scordare: il 19 giugno 1089, mi ricordo che proprio quella sera ci fu la strage di Ustica. Mio padre incontrò il ministro Ruffini”. Purtroppo per Ciancimino la strage di Ustica avvennte il 27 e non il 19 giugno, e all’epoca del disastro Ruffini non era più ministro della Difesa e nemmeno degli Esteri. Dettagli, potrà obbiettare qualcuno. Certamente; ma se uno esibisce un papello con 12 presunte richieste mafiose allo Stato (di fatto mai concretizzatesi) – e che il grafologo giudiziario Roberto Travaglini ha valutato scritto da un insicuro “come a voler dare un’immagine di sé forte e potente” (Corriere della Sera, 17/10/2009, p.19) – se parla sbagliando date – pure quelle arcinote -, nomi, cariche e contraddicendosi ogni due p
er tre, forse è poco attendibile.
Infatti, i magistrati a uno così non credono. E non sono i soli.

Verso un governo dei giudici?

Le reazioni venute da molte parti alle forti critiche di Berlusconi all’operato dei giudici e, in particolare, della Corte costituzionale sono giustificate dall’eccesso di vigore polemico col quale sono state espresse. Ciò non toglie che, per quanto riguarda il merito (diversa la questione della forma) a cogliere nel segno sia stato il presidente del Consiglio e non chi lo critica.

Difatti il problema è reale e non riguarda soltanto l’Italia.Tutte, o quasi, le democrazie occidentali stanno degenerando o evolvendo (dipende dai punti di vista) da democrazie parlamentari verso forme di governo dei giudici. Non è questione di “partito dei giudici rossi” o di nomine fatte da presidenti di sinistra (in questo Berlusconi ha assolutamente torto – diversa può essere, in ipotesi, la questione della persecuzione giudiziaria di cui si sente vittima -), ma puramente e semplicemente di giudici in quanto tali, bianchi, verdi, rossi o sbiaditi che siano, e, in particolare, di giudici costituzionali quale che sia la fonte della loro nomina.

Di questa degenerazione-evoluzione ha dato atto anche un autorevole politico di sinistra (ed ex-magistrato) come Luciano Violante riconoscendo, in un ‘intervista pubblicata un anno fa dal Corriere della Sera, la necessità della riforma della giustizia italiana sulla constatazione che “negli ultimi decenni il potere delle diverse magistrature è cresciuto a dismisura, in modo spesso autoreferenziale e quindi non sempre accompagnato da quella autodisciplina che dovrebbe sempre ispirare l’esercizio delle funzioni pubbliche, specie di quelle che più hanno bisogno della fiducia dei cittadini”.

Nell’occasione L’on. Violante precisò che il fenomeno è comune a tutto il mondo, citando ad esempio il caso della Corte Suprema thailandese, che pochi giorni prima aveva risolto la crisi politica di quel paese, dichiarando l’illegittimità del partito che aveva vinto le elezioni, e il ruolo giocato dalla Corte Suprema della Florida nella prima elezione del presidente Bush.

In effetti in tutto il mondo occidentale è in gigantesca espansione il fenomeno tradizionalmente definito della “supplenza legislativa”, divenuto ormai una vera e propria forma di programmato interventismo giudiziario anche in campo politico e, quindi, suscettibile di alterare il corretto rapporto fra le istituzioni e, al limite, di incidere sulle stesse fondamenta dello Stato democratico. Negli Stati Uniti il problema si è presentato già nella seconda metà del secolo scorso, quando alcuni giudici di quella Corte Suprema si sono spinti, oltre che a promuovere, a giustificare l’interventismo giudiziario con argomentazioni politico-sociologiche che ben poco hanno a che fare con la cosiddetta funzione di garanzia.

 Autorevolissimi giudici di quella Corte hanno sostenuto, con opinioni spesso tradotte in sentenze, che la Costituzione non deve tutelare la società esistente, ma realizzarne una nuova, illuminata da principi non sufficientemente riconosciuti dalla società politica precedente, sicché l’interpretazione delle norme deve essere effettuata in maniera conforme all’obiettivo di trasformazione sociale che si intende perseguire anche a costo (lo si è affermato espressamente) di porre le pronunce giudiziarie in contrasto con le leggi approvate secondo il metodo democratico dai rappresentanti del popolo sovrano.

Questa tendenze giudiziarie hanno determinato la reazione di un gruppo di giuristi e al sorgere negli anni ’80 di una corrente di pensiero denominata “originalismo” in quanto intende riportare in primo piano l’originario spirito della Costituzione e le regole della sovranità popolare. I giuristi e i politici “originalisti”, che non hanno esitato a prospettare una “deriva antidemocratica” della Corte Suprema (non si tratta, quindi, solo di polemiche berlusconiane), sostengono che in democrazia il primo posto spetta alla legge e che il giudice, rispettandone il ruolo. deve pronunciarsi su ciò che questa è e non su ciò che vorrebbe fosse. In America il recupero dei valori originari ha posto un freno, ma non sconfitto l’interventismo giudiziario (costituzionale e non), che nel frattempo ha però contagiato l’Europa, colpendo sia la magistratura ordinaria sia quella costituzionale, grazie anche al supporto dei vari organismi giudiziari sovranazionali, come, per quanto direttamente ci riguarda, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Se il fenomeno è (come tutti gli studiosi e i politici più seri riconoscono) reale e se il governo dei giudici è ormai qualcosa di più di una remota possibilità, ci si può anche consolare (o addirittura rallegrare) del mutamento, riflettendo che i giudici non potranno risultare, alla prova, peggiori dei politici. In realtà potrebbe non essere vero e, in ogni caso, dal momento che i giudici non sono né scelti né controllati dal popolo, che ne è della democrazia? (Francesco Mario Agnoli, magistrato, già componente del CSM)

Possiamo credere a quest’uomo?

Gli avvocati del Presidente del Consiglio sono esperti e competenti, il loro lavoro lo fanno a meraviglia e non hanno certo bisogno d’aiuto. Siamo noi, piuttosto, ad aver bisogno d’aiuto, noi che viviamo frastornati da televisione e giornali, senza più capire dove finisce il reale e dove inizia il possibile, che è pur sempre fantasia. Possiamo credere a Gaspare Spatuzza? Ci riguarda tutti, il racconto di costui. Perché se Berlusconi è mafioso, se davvero collaborava coi fratelli Graviano, allora anche gli elettori italiani sono tutti imputabili del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, perchè col loro consenso hanno permesso alla Cupola di instaurarsi niente meno che a Palazzo Chigi: più concorso di così!  Possiamo dunque credere alle parole di Gaspare Spatuzza? E’ un uomo cambiato, dicono. Ma è pur sempre uno che ha ammazzato preti, sciolto nell’acido bambini, fatto abortire donne dissenzienti e festeggiato Capaci e Via D’Amelio. E oggi, a ben dieci anni dal suo arresto, ci racconta la storia dell’alleanza tra Berlusconi e i fratelli Graviano, i suoi superiori.

Piccolo particolare: i Graviano, che pure non hanno nulla da perdere, smentiscono Spatuzza. Ma pure Spatuzza smentisce Spatuzza, come dimostrano i verbali di pochi mesi addietro nei quali, sempre lui, non faceva il benché minimo accenno agli scenari che oggi, per un miracoloso ritorno della memoria, descrive nitidi, come se fossero accaduti ieri. Senza contare – altro dettaglio non indifferente – che Spatuzza parla fuori tempo massimo, ovvero oltre i sei mesi entro i quali, per Legge, un collaboratore di giustizia deve dire tutto ciò che sa. Quale credibilità hanno e possono avere, quindi, le dichiarazioni di un uomo che, se fosse vissuto in altri Paesi, sarebbe già stato condannato a morte e giustiziato da anni? Nessuno dubita a priori del suo, benché tardivo, pentimento. Solo, non si capisce la ragione per cui la deposizione di Mario Rossi, per avere una benché minima rilevanza processuale, debba essere accompagnata da riscontri certi, mentre le deposizioni di Gaspare Spatuzza, una belva con decine di omicidi sulle spalle, possono essere ritenute attendibili anche se arrivano dopo anni, anche se sconfessano le parole di altri pentiti e dipingono scenari contraddetti, oltretutto, dall’operato di un Governo che ha scatenato una lotta senza quartiere alla criminalità organizzata, smantellata al ritmo di 8 arresti al giorno. Giovanni Falcone, quando un pentito ebbe a raccontargli della mafiosità di un politico pure avvolto da ombre com’era Salvo Lima, querelò il pentito perché gli diede informazioni demolite poi da riscontri concreti. Se si scoprirà che le affermazioni di Spatuzza non reggono al riscontro coi fatti, pensate sul serio che chi oggi lo coccola saprà denunciarlo?

Il processo Contrada: una vergogna italiana


La sfiducia nei confronti della giustizia non è un requisito richiesto, e non lo sono nemmeno dietrologia o predilezione all’indagine. Per comprendere le infinite contraddizioni e l’infondatezza del processo Contrada, è sufficiente una panoramica cronologica della vicenda. Cominciamo col ricordare a chi per caso lo ignorasse che quello a Bruno Contrada, che qualcuno ha malvagiamente ribattezzato “dottor morte”, è un processo concluso da tempo.
L’ex poliziotto più famoso di Palermo è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa: per la giustizia italiana è colpevole di aver tradito lo Stato.
Eppure, ad anni di distanza dal pronunciamento definitivo della Cassazione, sono ancora tanti, troppi gli aspetti che, di quella vicenda, non convincono.
Lo ripetiamo: il processo ormai è chiuso, la giustizia ha già fatto il suo corso.
Ciononostante, il caso Contrada non deve essere dimenticato.
Al contrario, merita di essere ancora oggetto di dibattito e approfondimento, perché un servitore dello Stato è stato processato e condannato, come ciascuno può constatare, senza che sia stato appurato il movente che lo avrebbe spinto a fiancheggiare il sistema criminale da lui sempre avversato, e solo in conseguenza alle accuse di 14 cosiddetti “pentiti”, molti dei quali – combinazione – arrestati dallo stesso Contrada.
Dopo anni di verifiche, sui conti correnti dell’ex poliziotto non è stata trovata una lira, dicasi una, non riconducibile al suo stipendio, e tutte le accuse dei “pentiti” contro di lui, altro non sono state che vaghe e fumose ricostruzioni che il più delle volte solo altri mafiosi, guarda caso defunti, avrebbero potuto confermare; altri “pentiti”, più volenterosi di collaborare, hanno invece offerto sì dei riscontri, ma falsi, e sono esclusi dal programma di protezione, processati e condannati.
Assai più limpidi e concreti sono stati i racconti dei 160 testimoni chiamati in aula dalla Difesa, testimoni tra i quali troviamo due ministri della Repubblica, cinque capi della polizia, due capi del controspionaggio, tre alti commissari per la lotta alla mafia, venti tra questori ed alti funzionari, dieci ufficiali dei carabinieri e svariate decine di agenti.
Tutta gente, con rispetto parlando, che in un Paese normale dovrebbe essere presa in più seria considerazione rispetto dei componenti di Cosa Nostra.
Nel processo Contrada, questa elementare premessa si è rovesciata nell’assurda convinzione, citiamo la sentenza di primo grado, per cui l’”indice di affidabilità delle notizie riferite […] deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli “uomini d’onore” (p.1079).
Come a dire: più sei mafioso, e più noi magistrati crediamo alle tue dichiarazioni, anche se – come nel caso Contrada – queste vanno ad accusare colui che più d’ogni altro ti ha dato la caccia, magari riuscendo a sbatterti in galera. Pazzesco.
Ma vediamo più nel dettaglio il clima farsesco in cui si è svolto questo assurdo processo.
Un esempio illuminante è quello delle dichiarazioni di P.S., nel giro di Cosa Nostra dall’82, che asserisce di aver partecipato, presso un appartamento di Palermo, ad un incontro tra Contrada, i mafiosi M.C. e M.P. e un archeologo svizzero a proposito di un’anfora che sarebbe servita al poliziotto per comunicare con criminali e non solo.
Orbene, per cominciare l’appartamento dove detto incontro sarebbe avvenuto non si trova: risulta inesistente.
Inoltre, il mafioso M.C. sbugiarda in toto le dichiarazioni di P.S., cosa che invece non può fare il mafioso M.P., già defunto.
Dulcis in fundo, anche l’archeologo svizzero, dopo ricerche serrate, viene dichiarato inesistente: non si trova da nessuna parte.
Lasciamo al lettore il giudizio su quanto dichiarato da P.S., che pure viene giudicato di primaria importanza da chi orchestra il processo, sempre che quello fosse ancora, ma vi sono ottime ragioni per dubitarne, un vero processo.
Infatti, nella sentenza di primo grado leggiamo che, tra le altre cose, “la mancata individuazione dell’appartamento non è idonea a smentire la veridicità delle dichiarazione del collaborante, attesa l’esistenza di altri elementi di riscontro esterni alla sua narrazione, infatti l’episodio riportato colloca il momento dell’incontro in un periodo in cui era possibile la presenza di Contrada a Palermo” (p.1093).
Incredibile: la sola “possibile presenza” di Contrada a Palermo – ripetiamo: a Palermo, mica a Toronto – è sufficiente a conferire attendibilità alle dichiarazioni di quel pataccaro di P.S., nonostante non si trovi un riscontro che sia uno (!) di quanto afferma.
Una vicenda assai singolare è stata quella di F.M.M, anch’egli “pentito” che nel gennaio del 1994 divenne uno degli accusatori di Contrada.
Peccato che poco tempo prima, il 2 e 3 aprile 1993, per ben due volte, aveva detto al PM di Palermo e Caltanissetta:”Di Bruno Contrada non so nulla. So solo che era un funzionario di Polizia in servizio a Palermo”. Per completezza, dobbiamo ricordare che non ci sono stati solo mafiosi a gettare ombre su Contrada. A gettare ombre su di lui ci ha pensato anche Tom Tripodi, ex agente americano della D.E.A (Drug Enforvement Administration), che ha raccontato che Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Palermo ucciso dalla mafia, gli aveva confidato di non fidarsi di Contrada.
A parte che, come volevasi dimostrare, anche in questo ad essere tirato in ballo è un soggetto terzo che, per ovvie ragioni, non può smentire, se Tripodi credeva Contrada in odore di mafia come mai nel suo corposo libro su mafia e servizi segreti non l’ha citato neppure una volta? Mistero, uno dei tanti di questo incredibile processo.
Processo nel quale avvennero pure degli autentici miracoli: alcuni “pentiti” infatti, tra cui spiccano nomi eccellenti, affermarono di ricordarsi di Contrada a distanza di svariati dal loro arresto, il che, se non basta a provare un avvenuto lavaggio del cervello, quanto meno fa sospettare che quelle dichiarazioni siano state dettate dal desiderio, da parte del “pentito“, d’ottenere privilegi.
Ricordiamo, tanto per rendere l’idea di questi privilegi, quanto scritto da Bruno Vespa in un suo libro, e cioè che il solo “pentito” F.M.M., uno degli accusatori di Contrada, intascava, a fine ‘99, qualcosa come venticinque milioni al mese dallo Stato italiano.
Altri “pentiti”, se possibile, hanno fatto di meglio: mantenuti coi soldi dello Stato, mentre si dilettavano in processi eccellenti (es. processo Andreotti) con accuse incredibili, sono pure tornati, come B.D.M., al loro vecchio mestiere, ad uccidere.
E’ così difficile accettare l’idea che un criminale con decine di omicidi alle spalle, pur di rastrellare privilegi si dichiari “pentito” ed inizi a raccontare frottole spacciandole come “rivelazioni eccellenti”?
E’ così inverosimile che un assassino, arrestato, possa mentire?
Un giudice coraggioso e controcorrente come Sofia Fioretta, in una sentenza, ha scritto che molti “pentiti” hanno esercitato sui magistrati che li interrogavano un “enorme e subdolo potere”, distogliendoli “dall’impiego di tempi, forze ed energie preziosi” nella lotta alla mafia.
Per un Buscetta che ha fatto luce su 121 omicidi, in un totale di quasi 2000 “pentiti”, quanti hanno raccontato, creduti, montagne di bugie?
Il “pentitismo”, senza che molti ci dessero importanza, ha di fatto scavalcato, in ordine di importanza, le indagini sul campo. Ed è un vero peccato.
Tornando al processo Contrada, urge sottolineare che, in fondo, colui che era lo sbirro più famoso di Palermo, era creduto colpevole, e trattato come tale, ben prima che il processo fosse celebrato.
Lo dimostra, su tutto, la carcerazione preventiva, in totale isolamento, durata 949 giorni, presso un carcere militare riaperto solo per lui.
Un trattamento, ci permettiamo d’annotare, non troppo lusinghiero per chi, come Contrada, nella sua carriera ha raccolto decine di riconoscimenti tra cui  si segnalano un attestato di merito speciale, 14 encomi, 7 elogi della magistratura, 50 riconoscimenti da parte del SISDE.
Oltre a questo trattamento barbaro e ad un processo farsesco, negli anni, Contrada è toccato pure accusato d’essere stato visto poco dopo l’esplosione della bomba, sul luogo della strage che dilaniò Borsellino e la sua scorta.
Ebbene, quel giorno in quelle ore Contrada era in barca, come hanno testimoniato dieci persone che erano con lui, eppure ovunque – senza alcun fondamento! – da Wikipedia alle fiction televisive, l’immagine di Contrada in Via D’Amelio continua a spopolare.
Ma perché questo accanimento questo contro di lui?
Tra l’altro, non molti sanno che il reato che contrada avrebbe commesso nemmeno esiste. Il concorso esterno in associazione mafiosa, infatti, non è una norma creata dal Legislatore così come prevede la tanto sbandierata Costituzione italiana, bensì dalla giurisprudenza.
Trattasi, come insigni giuristi hanno avuto modo di constatare in ripetute occasioni, di un reato inventato dalla magistratura dopo gli omicidi Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, ovvero sulla base di una tensione che se all’epoca aveva la sua giustificazione emotiva, nei fatti, è persino di dubbia costituzionalità.
La riprova della fumosità e dell’infondatezza di questo reato (lo stesso contestato a Dell’Utri e non solo) che si presta a infinite sfumature e consente di arrestare chiunque in totale assenza di prove e movente, la possiamo rinvenire proprio nel caso Contrada, dove il superpoliziotto, dicono le sentenze di condanna, avrebbe fatto scappare criminali pericolosi, eppure nessuno gli ha mai contestato il reato d’omissione di un atto d’ufficio. Tanto meno è stato inquisito per corruzione o favoreggiamento, tutti reati veri, che richiedono, a differenza dell’informe concorso esterno, prove certe, riscontri oggettivi e non storielle come quelle raccontate su Bruno Contrada, uno che collaborò con Falcone (che in una missiva gli riconobbe stima e gratitudine) e che dopo decenni di stimato ed eccellente servizio allo Stato, non si sa come mai (nessuna sentenza lo dice) sarebbe diventato la gola profonda della mafia, al punto di ritardare di anni (questo la sentenza lo dice, ma ovviamente non lo dimostra) l’arresto di boss come Totò Riina.
Tutto questo, chiaramente, senza nessun tornaconto.
Insomma, Contrada si sarebbe bevuto il cervello mettendosi a fare il gioco di quanti, fino al giorno prima, dava la caccia.
Un gioco pericoloso che, secondo i giudici, avrebbe tenuto in piedi per anni, senza che in Polizia nessuno, a parte lui, ne fosse a conoscenza e nessuno, a parte lui, ne fosse implicato.
Chi lo dice? Dei mafiosi “pentiti”, che domande.
Chiudiamo con un aneddoto che la dice lunga sullo spirito di questo incredibile processo. G.G., uno dei “pentiti” accusatori del superpoliziotto, poi condannato per calunnia, disse che il “pentito” G.P. glì consigliò di accusare gente importante, se voleva diventare un pentito di serie A.
G.G. chiese allora a G.P. un consiglio in proposito, e quest’ultimo, guarda caso, gli fece il nome di Bruno Contrada.